Storie originali > Romantico
Segui la storia  |      
Autore: IoNarrante    27/01/2012    2 recensioni
Raccolta di One Shot dai PoV dei personaggi che non hanno ''voce'' nella storia principale di Come in un Sogno.
Genere: Commedia, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Se il Sogno chiama...'
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Uptown girl
 Betato da nes_sie
Uptown girl,
she’s been living in her uptown world,
I bet she never had a backstreet guy,
I bet her mama never told her why.


Colonna sonora: Uptown Girl_Billy Joel
 
Avevo messo piede in quel quartiere soltanto per cinque minuti, la sera dell’appuntamento cui mi ero autoinvitata nella ferma convinzione di poter strappare Leonardo dalle grinfie di quella pezzente, e quando fui costretta a ritornarci di malavoglia mi curai di indossare i miei Gucci ben calcati sugli occhi, in modo da non farmi riconoscere. Mi ero fatta accompagnare da Abelardo, l’autista di papà, così non avrei dovuto lasciare la mia Porsche incustodita in quella specie di quartiere malfamato di periferia, poi avevo tirato dritto in direzione del portone di quella specie di tugurio che chiamavano casa.
Meo mi aveva incastrata questa volta, nonostante il nostro patto fosse ancora valido. Sì, in effetti, era più un ricatto che un vero e proprio accordo, ma chi ero io per giudicarmi? Sarei stata disposta a calpestare la bionda con il mio tacco dodici, ripassandoci sopra più volte se necessario, pur di avere una chance con Leonardo, quindi non mi facevo scrupoli. Mi ero alzata quella stessa mattina col chiaro intento di assediare il nuovo negozio di Hollister nel centro commerciale di Euroma2, soprattutto perché giravano voci sul fatto che le magliette fossero superflue per i commessi, e il mio dito si era mosso quasi automaticamente sulla tastiera del Galaxy cercando il numero di Romeo.
Ovviamente l’imbecille non aveva risposto.
Possibile che quando avessi più bisogno di lui, quella maledetta segreteria telefonica che gli avevo chiesto di modificare da decenni ormai, scattava senza alcun preavviso, intonando «Yo! Er mejo fico del bigonzo non è raggiungibile. Alle numerose pischelle che me desiderano, sessualmente intendo, lasciate un messaggio dopo il bip. Agli altri, attaccateve! Se ho spento er cellulare, ce sarà un motivo, no?», non era mai raggiungibile? Oltretutto era imbarazzante, in particolar modo quando tentavo di chiamarlo di fronte a mio padre che udiva gli schiamazzi di quello scemo che partivano dal cellulare, nemmeno avessi messo in vivavoce. Vista la sua mancata risposta e il mio impellente bisogno di fare shopping compulsivo, oltre che a bearmi di bei maschioni sudati, avevo chiesto ad Abelardo di accompagnarmi nei bassifondi ed ora mi ritrovavo di fronte al citofono dove spiccavano due nomi alquanto insoliti in mezzo agli altri condomini.
Fiore-Ciuccio
Inorridii al pensiero della povera anima che un giorno avrebbe preso come marito quel poveretto, figurandomi nella mente il mio nome di battesimo accostato a quell’orrido cognome. Scacciai immediatamente l’immagine dalla testa, chiedendomi poi il perché di quel pensiero. In fondo, non c’era alcun pericolo che un domani avrei sposato quella sorta di sfigato. Solo l’idea mi faceva ridere a crepapelle. Pensai con diletto a mio padre e alla sua faccia se gli avessero detto che la sua piccola Anna usciva con un pezzente che si rammendava ancora i calzini, si faceva lavare i panni dalla madre e guidava un mezzo che avrebbero dovuto bandire dalla città solo per quanto inquinava. Per non parlare poi dell’onore della mia famiglia, del cognome Cavalli, famoso in tutto il mondo, così perfettamente armonico nel suono, al confronto di quella specie di parolaccia con cui si firmava Romeo ogni giorno.
Porta il nome dell’eroe di Shakespeare, lo realizzai soltanto in quell’attimo. Forse si trattava di un pensiero sfuggito dalla mia mente troppo presa da mille preoccupazioni, oppure di un ricordo del liceo, ormai lontano, eppure non ci avevo mai fatto caso. Evidentemente i genitori, accorgendosi che il loro figlio avrebbe avuto un cognome tanto denigratorio, avevano pensato bene di dargli un nome di degno rispetto.
Non mi ero accorta di quanto tempo fosse passato mentre ero ancora intenta a fissare intensamente il citofono, quando il portone si aprì e una nanerottola apparve sulla soglia. La squadrai da capo a piedi, sapendo perfettamente che si trattava dell’altra faina, l’amica acida e scontrosa della bionda, nonché la tizia petulante che Romeo odiava dal più profondo del cuore.
O almeno era quello che avevo creduto sino al pomeriggio passato tra i negozi di Via Condotti.
Forse non è l’unica ragazza che mi piace.
Me lo aveva urlato contro dopo le mi accuse del suo coinvolgimento emotivo con Celeste. Ero rimasta spiazzata da quella rivelazione, non che ne importasse tanto in verità, ma mi aveva sorpresa quella sua alzata di testa. Avevo sempre pensato che Romeo fosse uno smidollato, uno di quelle persone che non avevano spina dorsale, invece mi ero sempre più resa conto che somigliava a un tappeto per il bagno. Sì, lui assorbiva goccia dopo goccia tutte le offese che gli venivano rivolte, senza mai proferire parola, si faceva chiamare babbeo persino dalla ragazza di cui era innamorato e non le era mai andato contro. Faceva finta che gli scivolasse tutto addosso, come accadeva per la sottoscritta, ma invece lasciava che quelle offese, arrugginite come chiodi lasciati sul marciapiede in un giorno di pioggia, gli si conficcassero lentamente uno dopo l’altro nel cuore, avvolgendolo in un manto di ruggine, rossa come i suoi capelli.
«E tu che ci fai qui?» mi chiese la piccoletta, di cui non ricordavo il nome.
Forse iniziava per S, oppure per V. Scrollai le spalle e me ne dimenticai presto, in fondo rappresentava solamente un ostacolo per la sottoscritta, nulla più di un nome di troppo sul mio cammino per raggiungere Leonardo.
«Sono libera di andare dove voglio,» risposi, squadrandola e inarcando le sopracciglia.
La moretta mise il broncio e fermò il portone con una mano, in modo che non si chiudesse. «Devi salire?» mi domandò poi, senza smetterla di giudicarmi.
L’avevo capito, mi stava osservando con quei suoi freddi occhi azzurri e calcolatori. Non staccava lo sguardo dal maglioncino di lana che avevo in dosso, con tanto di leggings iper-attillati e immancabile tacco 12. Era normale che trovasse il mio modo di vestire esagerato, visto che lei se ne andava in giro con una tuta consunta e delle scarpe da ginnastica dall’aspetto discutibile. Sembrava una barbona, proprio lo stesso stile di quell’altra.
«Il tuo amico non risponde al citofono,» mi giustificai, senza darle la soddisfazione di una vera risposta.
La ragazza alzò un sopracciglio e mi fissò con ovvietà. «Sta facendo la doccia, è normale che non ti abbia sentito,» rispose perentoria. «Anche lui, raramente, si lava,» sghignazzò, cogliendo l’occasione di schernirlo.
«Al contrario di altre persone,» commentai acida, incrociando le braccia al petto.
Mi era uscita così, di getto. Nemmeno sapevo il motivo per cui avevo preso le difese di Romeo, in effetti, non me ne fregava nulla, visto che ero la prima ad offenderlo e denigrarlo, ma in quel momento il mio cervello aveva reagito da solo.
«Stai alludendo, per caso?» ringhiò quella, cogliendo il mio riferimento.
Non avevo alcuna intenzione di scatenare alcuna lite, dal momento che il mio unico scopo – per ora – era quello di recarmi al centro commerciale il più in fretta possibile, quindi mi limitai a sbuffare e ad evitare la domanda.
«Ho fretta,» sottolineai, riferendomi al mio impegno. «Non dovevi uscire anche tu?».
Almeno me la sarei tolta dalle scatole, finalmente.
La nanerottola continuò a fissarmi, come se stesse decidendo se darmela vinta o meno, poi mi porse il mazzo di chiavi che aveva in mano. «Tieni, altrimenti non riuscirai ad entrare nemmeno dalla porta. Quando Robbeo si lava, occupa il bagno per quattro ore!».
Fissai quell’ammasso di metallo ciondolante da un discutibile portachiavi di dubbia provenienza e lo afferrai con la punta delle dita, schifata. La quantità di germi poveri ammassata sull’acciaio avrebbe potuto contaminarmi, ma dovevo guardare oltre, se avessi voluto svaligiare Hollister in tempo.
«Non mordono mica,» sghignazzò la tappetta, burlandosi della sottoscritta.
«Lo so!» affermai con sicurezza, vincendo il fastidio e afferrando il mazzo di chiavi con mano ferma.
«Io vado, ciao,» disse poi, lasciandomi il portone semiaperto e allontanandosi lungo la via che conduceva a un grande incrocio. Non aspettò nemmeno la mia risposta, non che Annalisa Cavalli si sarebbe sprecata a salutarla, così mi decisi finalmente a entrare nell’androne di quella sporca palazzina e mi avvicinai ad una specie di macchinario di legno che assomigliava, molto vagamente, ad un ascensore.
Oh mio Dio, cos’è quell’affare Annuccia?
M’immobilizzai di fronte a quelle porte di legno consunto, esaminando da vicino la datazione di quella specie di reperto fossile. I tasti di chiamata un tempo erano stati bianchi, ora assomigliavano a un grigio topo di fogna. Estrassi dalla pochette un fazzoletto e lo avvolsi attorno al dito, pigiando il pulsante – duro come il marmo – e indietreggiando non appena si udì uno stridio che mi costrinse a proteggermi le orecchie con le mani.
«Ma che…?» esclamai, avvertendo poi gli ingranaggi che si mettevano in moto e i cigolii che annunciavano l’arrivo della cabina.
Quell’affare era stato brevettato da Stephen King in persona per uno dei suoi libri horror, oppure da Romeo. Ero sicura che, non appena avesse raggiunto il piano terra, dall’ascensore sarebbero usciti degli zombie pronti a mangiarmi il cervello e rovinarmi i capelli, ovviamente.
Suggerirei di prendere le scale.
Il mio sguardo si spostò sui gradini alla sinistra della gabbia dell’ascensore, ma soltanto in quell’attimo ricordai di non avere la minima idea del piano cui si trovasse l’appartamento. E se fosse stato all’ultimo?
Nel frattempo l’ascensore era giunto a destinazione, toccando il terreno con un tonfo che fece traballare tutto il piano terra. Aprii le porte con mano tremante e sbirciai all’interno, ma non appena posai la punta della mia Alviero Martini sul pavimento, la cabina sussultò e mi fece allontanare in fretta e furia da quella trappola mortale.
«Okay, sono troppo giovane e bella per morire,» mi ripetei ad alta voce, imboccando di corsa le scale della palazzina.
Non lo avessi mai fatto.
Già dopo il primo piano avevo il cuore in gola e i polpacci mi bruciavano per il troppo acido lattico. Arrivata in cima alla gradinata, mi trascinai porta a porta per sbirciare dal campanello se il cognome Ciuccio fosse scritto sulle targhette. Ovviamente non fu affatto semplice. Passai al secondo piano, aiutandomi con il corrimano, mentre avvertivo un leggero fastidio dietro al piede, come se mi bruciasse la pelle. Non c’era nemmeno l’ombra del cognome Ciuccio sui quattro campanelli degli appartamenti presenti in quella zona del palazzo. Sconsolata passai al piano successivo, pregando in tutte le lingue del mondo che quello zuccone non avesse avuto l’idea autolesionista di prendere l’appartamento all’ultimo piano.
Mai dire l’ultima parola.
Dopo aver minuziosamente esaminato tutti i campanelli di tutte le porte di tutte le case presenti in quel palazzo e dopo essermi beccata più di un’occhiataccia da parte di vicine pettegole e anziane, riuscii finalmente ad arrancare fino al portone.
Ero esausta. Avevo le gambe che mi bruciavano dal dolore perché, anche se la mia linea era invidiabile, era tutto merito di una dieta e del mio adorato metabolismo distruttore dei grassi. Non avevo mai fatto sport in tutta la mia vita, lo odiavo. Inoltre, avevo i piedi distrutti e sentivo chiaramente la pelle che s’increspava dando vita a una bellissima vescica che mi avrebbe fatto camminare come un’anatra per i tre giorni successivi a quello. Tutto quello che mi stava capitando era solamente colpa di quel cretino di Meo.
Con rabbia e immenso fastidio, mi tolsi le Alviero Martini e cominciai a frugare tra le ottocento chiavi che conteneva quel mazzo, provandone una dopo l’altra con scarso successo. Se svegliandomi quella stessa mattina, con in testa il pensiero fisso di fare razzie da Hollister, avessi saputo che sarebbe andata a finire in quella maniera, me ne sarei rimasta al calduccio nel mio lettino.
È una questione di principio Annuccia. Adesso gliene dirai quattro, a quel cretino!
La mia Superbia era ormai al pari di una migliore amica per me, ma premesso che in vita mia non avevo mai avuto una chiave, visto che Villa Cavalli era straripante di domestici a tutte le ore del giorno, impiegai più del dovuto per aprire quella maledetta porta.
«Ci rinuncio!» sbottai, lanciando il mazzo che s’infranse contro il legno della porta e cadde sullo zerbino con un tintinnio assordante.
Sentivo ogni fibra del mio corpo impossessata dalla rabbia e dalla frustrazione. Non mi ero mai ridotta in quella maniera così sciatta, andando in giro a piedi scalzi, con le vesciche e i capelli appiccicati alla fronte per il sudore. Mi sentivo umiliata e presa in giro. Volevo assolutamente prendermela a morte con qualcuno, ma l’unico presente si trovava oltre quella stramaledettissima porta che non ne voleva saperne di aprirsi.
Presa dall’ennesimo impeto di rabbia, afferrai le chiavi e ne provai una a caso, pensando che se non fosse stata quella giusta, avrei forzato la serratura a costo di sfondare la porta a spallate.
Miracolosamente si aprì.
«Oh…» mormorai sorpresa, avvertendo che la frustrazione si attenuava man mano che mettevo un piede al di là della soglia.
In rare occasioni ero stata in appartamenti più piccoli rispetto alla mia villa di famiglia e dovevo ammettere che non mi sarebbe affatto dispiaciuta l’intimità che si poteva ottenere in una piccola casa di centoquaranta metri quadri, ma quel tugurio in cui vivevano Romeo e l’oca bionda era a mala pena abitabile.
Già quando feci il primo passo verso l’ingresso, il portone sbatté contro il muro sul lato opposto, dove spiccava una lunga riga nera, residuo di tutte le strusciate. Ma chi aveva mai potuto progettare una casa in cui non si apriva completamente nemmeno la porta?
Chiusi l’infisso alle mie spalle, altrimenti sarebbe stato impossibile proseguire oltre il corridoio, e mi ritrovai a riflettere la mia immagine in uno specchio sbilenco tappezzato di vecchie fotografie che ritraevano Celeste e Romeo. La prima cosa che notai fu la mia orrenda acconciatura, per non parlare poi di tutto il mascara che mi era colato sotto gli occhi facendomi assomigliare ad un panda. Per fortuna portavo sempre con me tutto l’occorrente per un veloce restauro, per cui posai a terra le Chanel e mi adoperai per ritoccarmi.
Conclusa finalmente l’opera, sbirciai le foto appese allo specchio e notai un Romeo di appena dieci anni che sorrideva all’obiettivo della macchina fotografica con il viso stracolmo di lentiggini e la pelle lievemente abbronzata.
Doveva essere estate.
Sedutagli accanto c’era lei, la sua migliore amica, con i capelli biondi e quegli occhi grandi e sinceri come quelli di un cerbiatto. Mi sovvenne alla mente che qualsiasi situazione affrontassi, Celeste mi superava in ogni caso. Si trovava sempre un passo avanti a me, che si trattasse di Leonardo o di Romeo.
Non che quello sfigato mi interessasse.
Passai oltre e udii distintamente il rumore dell’acqua che s’infrangeva sul piatto della doccia. La colpa di tutto quello che mi era capitato era solo del Rosso e della sua smania improvvisa di pulizia. Come punizione, mi avrebbe accompagnata alla Settimana della Moda a Milano e avrebbe svolto il ruolo del mio lacchè.
Inspirai ed espirai, trovando le parole esatte da sbraitargli contro non appena avessi fatto irruzione nel bagno, quando mi avvicinai e trovai la porta socchiusa. Lo spiraglio dell’infisso si apriva su un grande specchio semi-appannato che rifletteva il box doccia al cui interno si muoveva una figura dagli scuri capelli rossi.
Tutto il bagno era invaso da vapori bianchi che galleggiavano sul lavandino, mentre il vapore acqueo si posava su tutte le superfici disponibili e rendeva l’atmosfera simile a quella di un sogno. Era come se io non fossi più io, se quello non fosse più lui ed entrambi non fossimo più Annalisa e Romeo, come se non appartenessimo più a due mondi completamente opposti. In quel momento esatto l’acqua smise di far rumore ed io trasalii sentendo il box che si apriva, lasciando apparire vagamente la figura del Rosso davanti allo specchio.
Che fai, spii?
No! Ma sei matta?!
E allora perché non sei ancora entrata e non gli hai urlato contro di muovere quel suo culo flaccido e accompagnarti al centro commerciale?
Strinsi la pochette tra le mani con rabbia, quando tutti i miei pensieri scomparvero dalla mente nel momento esatto in cui un braccio niveo si sporse al di là del lavandino e passò la mano sul vapore che si era addensato sullo specchio, riflettendo quasi perfettamente un Romeo dall’aria tormentata.
Era imbronciato, si vedeva dal modo in cui metteva il muso, quasi come un bambino. Lo aveva fatto anche la sera in cui eravamo andati all’appuntamento a sei, quando ero stata raggirata da quella scema della nanerottola. Ancora mi bruciava quella storia, ma me l’avrebbe pagata con gli interessi.
Lo sentii sospirare e mi irrigidii, nascondendomi ancora di più contro lo stipite per non farmi scorgere dal riflesso della porta semiaperta. Il perché rimanevo immobile senza annunciarmi era ancora un mistero, soprattutto per la mia Superbia che sembrava aver gettato la spugna.
Non mi stupisce che tutti ti abbiano sempre preso in giro. Dio, guardati! Hai i capelli rossi!
Più andavo avanti e più mi rendevo conto di essere un’emerita stronza. Offendevo gli altri per difendermi, per schermarmi dall’avere qualsiasi relazione con loro, ma con Romeo non avrei dovuto avere problemi di questo tipo.
In fondo era come me, un libro giudicato unicamente dalla sua copertina.
Si mordicchiò il labbro nella classica espressione pensosa, dopodiché strinse i pugni e si guardò allo specchio con convinzione.
«Puoi farcela, amico!» sbotto, aggrottando la fronte e assumendo una posa davvero buffissima. «Non fare il coniglio, stasera devi riuscire a dirle tutto!».
Dirle? Si trattava forse della ragazza che gli piaceva?
Come mai tutto questo interesse improvviso per la vita amorosa dello sfigato?
Taci!
«Ma chi diavolo prendo in giro,» bofonchiò poi, sconsolato.
Lasciò che la testa fulva gli ciondolasse sul petto, mentre soltanto in quel momento notai il mare di lentiggini che aveva sparse su quelle immense, gigantesche spalle da rugbista.
Da quanto tempo aveva quelle spalle?
«Mi riderà addosso,» uggiolò, afferrando un asciugamano e cominciando a sfregarsi i capelli.
Soltanto in quel momento mi resi conto che molto probabilmente era nudo e soltanto il lavandino di quel misero bagno mi salvava dall’orrenda visione della carota di Romeo.
Ma smettila, che hai inzuppato il maglione di bava!
Istintivamente mi riscossi dal mio momentaneo assenteismo mentale e mi portai una mano alle labbra, sentendo che effettivamente erano umide.
Ossignoresantissimo! Che cosa mi stava succedendo?
Ossignoresantissimo? Andiamo bene, ci manca solo che cominci ad usare i neologismi di quel babbeo.
Non è un babbeo!
Mi allontanai di colpo dalla soglia del bagno ma non feci attenzione alla presenza di uno scatolone proprio dietro ai miei poveri piedi già martoriati dalle vesciche, così franai al suolo cacciando un urlo davvero poco signorile.
«Porco Armani!» ringhiai, sperando non mi fossi rotta qualche vertebra lombare.
Sbiancai quando la porta del bagno si spalancò e un Romeo – fortunatamente pudico – uscì per sincerarsi di cosa fosse successo. Aveva ancora i capelli gocciolanti e gli occhi sgranati dalla sorpresa, inoltre era a piedi nudi come la sottoscritta.
«Stai bene?» mi chiese allarmato, tendendomi una mano.
Come se fossi stata scoperta a rubare i biscotti dalla cucina, scacciai il braccio di Romeo con rabbia. «Ce la faccio da sola,» ringhiai, aggredendolo senza un vero motivo. «È solo colpa tua se sono inciampata in questo coso!»
Non seppi il motivo di quella sfuriata, ma avevo bisogno di ritrovare la vecchia me stessa che in quei cinque minuti si era andata a fare un giretto. Riuscivo a stento a riconoscermi, soprattutto quando avevo sentito un certo calore affiorarmi sulle gote mentre lo spiavo poco prima.
Allora lo ammetti, eh?
«È di Venerdì quella scatola, se l’è dimenticata,» si giustificò, portandosi il braccio offeso dietro la nuca e snocciolando un sorriso ebete. «Ma perché non mi hai chiamato?»
Mi alzai in piedi con uno scatto, ignorando il dolore ai muscoli delle gambe, e inarcai talmente tanto le sopracciglia che pensai mi si staccassero dalla faccia. «Sono DUE MALEDETTISSIME ORE che sto tentando di chiamarti!» urlai isterica, facendolo indietreggiare con gli occhi che sembravano due puntini.
«N-No-Non l’ho sentito…» biascicò lui, tenendosi stretto l’asciugamano addosso come se da un momento all’altro avessi tentato di stuprarlo.
Ci avevi fatto un pensierino, ammettilo.
Mancava solamente il sarcasmo della Superbia, adesso.
«Cosa prevede il nostro patto? Te lo sei dimenticato forse? Devi essere SEMPRE disponibile, sempre! Quando io chiamo, tu rispondi. Ho fatto cinque rampe di scale, perché avete un ascensore che è una trappola mortale a quattordici livelli, mi sono venute le vesciche, mi si sono smosciati i capelli e mi è colato il mascara!» gridai, senza più forze per arrabbiarmi. «Sono orrenda,» sbuffai infine, rilassando le spalle.
Fu in quel momento di debolezza che Meo si staccò dal muro e mi posò una grande mano sulla testa. Non ci avevo mai fatto caso, ma le sue mani erano grandi, forti, accoglienti. Mi davano uno strano senso di protezione. «Quante volte devo ripetertelo che ci vuole ben altro per renderti orrenda?» sghignazzò, con quella solita aria da buffone.
Lo faceva di proposito, l’avevo capito subito. Si nascondeva dietro la maschera da giullare per non affrontare in modo diretto i suoi problemi. Era una mossa furba, in fondo.
«Parli bene tu. A te non te ne importa nulla dell’aspetto esteriore. Altrimenti non andresti in giro con quei vestiti da straccione.»
Ecco, mi era uscita così. Mi morsi la lingua quando vidi il verde acceso dei suoi occhi scurirsi e le sopracciglia abbassarsi quel tanto da dargli un’aria da cane bastonato. Era strano come il suo umore contagiava inevitabilmente il mio. A furia di stare in contatto, sia per negozi che dall’estetista, avevo finito con l’essere influenzata da ogni suo cambiamento.
«Su, vatti a vestire che andiamo,» tagliai corto, cambiando argomento.
Mai e poi mai gli avrei chiesto scusa. Annalisa Cavalli non era il tipo.
«Andiamo dove?» chiese stupito, passandosi una mano tra i capelli umidicci e spettinandoseli come di consueto. Sembrava uno spaventapasseri.
Sfoderai uno dei miei sorrisi brevettati, quelli da copertina di Vanity Fair. «Preparati, perché le braccia ti faranno male per giorni dopo che avrò svaligiato il nuovo negozio che hanno aperto al centro commerciale di Euroma2».
Romeo sgranò gli occhi. «Shopping? Ancora?!»
Incrociai le braccia al petto e lo fissai di sbieco. «E allora? Sei il mio schiavetto, non c’è bisogno che te lo ripeta.»
«Ho capito, ma prima o poi ho in progetto di ribellarmi,» borbottò, incamminandosi lungo il corridoio.
D’istinto lo seguii, soffermandomi con lo sguardo sul panorama della sua schiena immensa e perfetta. Le spalle larghe, inondate di lentiggini, si aprivano in una perfetta Y, lasciando spazio a delle lunghe braccia e a una vita sottile. Non era muscoloso come Leonardo o come qualsiasi altro calciatore di mia conoscenza, che mi avesse fatto il filo o meno, ma aveva qualcosa di stranamente attraente.
Inoltre la sua pelle era diafana, il colore esatto della neve, e il rosso scuro dei suoi capelli, ancora umidi della doccia, sembrava sangue. Quasi inconsciamente mi allungai per toccarli, per sentire la consistenza sotto i polpastrelli delle dita, poi il raziocinio ebbe il sopravvento e mi strinsi la mano al petto.
Che diavolo mi stava succedendo?
Devo farti i disegnini?
Romeo svoltò in una delle stanze, senza chiudersi la porta alle spalle. Entrai anche io senza curarmi di nulla, visto che ero abituata a fare di testa mia ovunque andassi, ma non appena varcai la soglia mi ritrovai in un mondo fatto di caos. Vestiti sparsi ovunque, libri e cartacce risalenti quasi al periodo del liceo, anche perché su di uno giurai di aver visto i riassunti sulla seconda guerra mondiale. C’erano avanzi di panini smozzicati sulla scrivania, bottiglie di bibite ormai fossilizzate e tovaglioli sporchi sparpagliati sulla sedia.
Quella stanza era da denuncia al ministero della sanità.
«Scusa, ho dimenticato di fare ordine,» si giustificò lui, mentre trattenni a stento un conato di vomito.
«Ordine? Qui dovresti bruciare ogni cosa. Ci saranno almeno ottocento tipi diversi di batteri su quel letto!» E lo indicai disgustata, notando, soltanto alla fine, la presenza di mutande sporche attorcigliate insieme al lenzuolo.
Romeo rise, poi abbracciò un cumulo di vestiti e lo gettò sulla scrivania, indicandomi un pezzetto di letto su cui accomodarmi. «Siediti,» mi fece.
«Preferisco rimanere dove sono, anche se ormai dovrò fare l’antitetanica,» sibilai disgustata.
Meo scrollò le spalle con indifferenza e si precipitò verso un cassettone, afferrando un paio di boxer rossi e piuttosto natalizi. Come se in quella giornata non fossi stata abbastanza sovrappensiero, mi ricordai che sotto quell’asciugamano di spugna non aveva null’altro che la temibile carota, così mi chiesi se avesse davvero intenzione di spogliarsi davanti a me.
«C-Che fai?» chiesi, lievemente turbata.
«Mi vesto,» rispose lui, infilando prima un piede poi l’altro nei boxer.
D’istinto avrei voluto coprirmi gli occhi o perlomeno voltarmi e fingere di guardare un interessantissimo poster di una Pamela Anderson mezza nuda con le tette in gola. Gli piacevano le bionde, che novità?
Purtroppo non riuscii a muovere un muscolo. Rimasi quasi incantata a guardare i suoi movimenti lenti e quelle spalle enormi che si alzavano e si abbassavano al ritmo del suo respiro.
Se le spalle sono così grandi, anche qualcos’altro sarà delle stesse proporzioni.
Mi maledissi per quel pensiero che mi fece diventare dello stesso colore dei miei capelli. Per fortuna Meo era impegnato a vestirsi e non fece caso ai miei deliri. Non riuscivo a comprendere cosa stesse succedendo al mio corpo, il perché di quelle strane reazioni. Nemmeno con Leonardo le avevo mai provate, anzi, spesso e volentieri vederlo nudo era stato il mio più grande desiderio. L’imbarazzo pensavo fosse superfluo per una come me, ma evidentemente mi sbagliavo di grosso.
Romeo afferrò i lembi di stoffa ma prima di capitombolare verso il punto di non ritorno, si premurò di voltarsi e di tirarsi su le proverbiali braghe con un gesto secco, senza togliersi l’asciugamano. Quei secondi mi sembrarono interminabili.
Diedi la colpa alle cinque rampe di scale che avevo fatto indossando i trampoli, oppure al sudore che aveva rovinato la mia pelle delicata o a qualsiasi altra cosa che mi stesse facendo impazzire, ma quando quel fallito di Romeo si voltò liberandosi dell’asciugamano e rimanendo in boxer di fronte a me, avvertii chiaramente un tonfo nel petto.
«Dove starebbe questo ennesimo centro commerciale?» mi chiese riscuotendomi dai miei pensieri perversi.
«È inutile che lo dici con quel tono,» esclamai, avvertendo un leggero tremore nella voce. «Ci andiamo lo stesso, ormai è deciso. Si trova vicino la Pontina, la prima uscita a destra,» spiegai, avendo visto le indicazioni stradali su Google.
«Mhpf,» sbuffò lui, dandomi le spalle e frugando qualcosa nei meandri del suo armadio.
Decisi di fare qualcosa o altrimenti il mio cervello aveva deciso di giocarmi brutti scherzi quella mattina. Evitai un cartone di pizza datato 1890, saltai cinque paia di calzini dalla dubbia forma e dal colore indescrivibile e per poco non inciampai di nuovo in un vecchio zaino lercio, ma alla fine riuscii a raggiungerlo, proprio nel momento esatto in cui lui si voltò trionfante con un paio di jeans sdruciti in mano.
Ovviamente andai a sbattere contro il suo petto.
Nudo.
«Sta un po’ più attento!» lo mortificai, spingendolo via da me non troppo gentilmente.
«Sei tu che mi sei venuta addosso,» rispose, notando solo ora la nostra vicinanza.
Vidi i suoi occhi verdi sgranarsi e un leggero rossore estendersi dalle guance inondate di lentiggini e raggiungere perfino la punta delle orecchie. Non seppi spiegarlo, ma quella reazione la trovai estremamente adorabile.
«Sì, va be’, questa camera è una trappola,» mi giustificai, accettando di sedermi sul bordo del letto che mi aveva ripulito poco prima.
In realtà avevo un assoluto bisogno di appoggiarmi da qualche parte, visto che i piedi mi dolevano ancora. Dopo le scale, la caduta e quella serie di scompensi ormonali causati dalla vista di uno sfigato mezzo nudo avevo bisogno di assoluto riposo.
Mi sarebbe venuto un esaurimento nervoso, era questione di tempo.
Romeo tossicchiò tentando di riprendersi. «Ma che te devi comprà stavolta?» domandò poi, infilandosi i jeans e afferrando una T-shirt dello stesso colore dei suoi capelli.
Piegai un ginocchio, posando un piede sul letto e mi esaminai le ferite che le mie adorate Alviero Martini mi avevano causato senza il loro volere. Era tutta colpa di Romeo e di quella casa maledetta. «Non lo so, vedremo,» risposi vaga. «Ci vado soprattutto per i commessi a torso nudo,» aggiunsi spiccia.
«Ah,» mormorò Meo, abbassando lo sguardo.
Se l’era per caso presa?
«Ahi…!» esclamai, toccando una ferita piuttosto grande sopra il tallone, vicino alla caviglia.
«Che c’è?».
«Mi si è aperta una ferita,» mi lagnai, non sopportando affatto il dolore.
In fondo non avevo mai corso pericoli nella mia grande casa. Al primo mal di gola, alla prima sbucciatura, mio padre chiamava il medico di famiglia e mi faceva visitare. Perché io ero la sua bambina, il suo diamante più prezioso.
Romeo mi raggiunse scalciando un mucchio di riviste, poi s’inginocchiò ed esaminò l’escoriazione. Sentire le sue dita ancora umide della doccia sul collo del piede mi fece rabbrividire, ma seguii tutti i suoi movimenti. Ero quasi ipnotizzata dalla premura che aveva nei miei confronti, nonostante lo ricoprissi sempre d’insulti.
Meo era come un boomerang, più tentavo di respingerlo e più lui tornava indietro, comportandosi come se non fosse successo nulla.
«Ma come te la sei fatta?» chiese stupito, alzandosi di scatto e recuperando qualcosa da un mucchio di cianfrusaglie sparse su quella che un tempo doveva essere una scrivania.
«È tutta colpa delle tue maledette scale e di quell’ascensore pericolante e di questa casa che sta all’ultimo sperdutissimo piano!» urlai, guardandolo in cagnesco.
Romeo si voltò e alzò un sopracciglio, con scetticismo. «Non sarà invece che ti ostini ad indossare quelle scarpe create solo per distruggere i piedi o per far azzoppare qualcuno?» commentò, chinandosi e tirando fuori da una scatoletta dell’acqua ossigenata del cotone idrofilo e un cerotto.
Sgranai gli occhi e lo fissai come se avesse appena bestemmiato. «Ma lo sai di chi sono quelle scarpe?»
«Topolino?» sghignazzò lui.
Sbuffai esasperata perché parlare di moda con lui era come spiegare ad un esquimese come fosse fatto un bikini, quindi lasciai perdere in partenza. Fu quando posò il cotone imbevuto sulla ferita che gli afferrai il polso stringendo forte e mordendomi le labbra per il dolore.
«Brucia!» frignai.
«Sei proprio una bambina,» mi apostrofò lui, accarezzandomi il piede per tranquillizzarmi.
Schiusi le palpebre soltanto per sbirciare, attraverso le mie ciglia grondanti di mascara, il suo sguardo rapito dalla ferita e i suoi movimenti gentili e calcolati. Tamponava l’escoriazione con delicatezza, senza che l’acqua ossigenata colasse sul pavimento o mi sporcasse il pantacollant.
È come se lo facesse da sempre…
«Ti ho detto mille volte di non metterti quei tacchi, sono tanto comode le scarpe da ginnastica,» insistette.
«Già,» grugnii. «Così assomiglio alle tue amiche barbone.»
Romeo si accigliò a quel commento, ma non me lo rimangiai. Avevo ragione e mai e poi mai gli avrei dato la soddisfazione di potermi cambiare. «Ah, ma a te piacciono le tipe così e a quanto pare piacciono pure a Leonardo, quindi dovrei gettare dalla finestra tutti i miei abiti firmati e andare in giro con gli scarti della Caritas.»
«Aridaje co’ sta storia,» borbottò. «Ti ho detto che la cotta per Celeste mi è passata. Cos’altro vuoi?»
Già, cos’altro volevo?
Muori dalla curiosità di sapere a chi si riferiva l’altra volta. Chi avrà ghermito il cuore do Meo?
Nel frattempo mi aveva asciugato la ferita e ci aveva applicato sopra un cerotto colorato, con i Puffi disegnati sopra.
«Ecco fatto,» sentenziò, raccogliendo tutto e gettando le cartacce nel cestino.
«Grazie,» soffiai, esaminandomi la medicazione.
Romeo continuò a vestirsi, racimolando un paio di calzini e setacciando la stanza in lungo e in largo alla ricerca delle sue immancabili All Star rosse. Mi ritrovai a riflettere sulla nostra amicizia, se così si poteva definire. La prima volta che ci eravamo conosciuti, ci aveva provato con me, come del resto facevano tutti, poi, per una serie di circostanze, avevamo finito con l’incontrarci ancora, volta dopo volta, di occasione in occasione, fino a quando non avevamo stretto quell’accordo.
Terrò la bocca chiusa a patto che tu mi farai da schiavetto.
Dovevo ammetterlo, non era stata una delle mie idee più brillanti, ma in quel momento non mi era venuto in mente altro. Ed ora mi ritrovavo lì, seduta sul suo letto sciatto, io che ero abituata ad avere lenzuola pulite ogni giorno.
«Riflettevo sul nostro rapporto,» cominciai, rimuginando ad alta voce.
Romeo si immobilizzò, rimanendo con una gamba sospesa per aria e saltellando con quell’altra per tenersi in equilibrio mentre si infilava una scarpa. «Quale rapporto?»
«Su come ci siamo conosciuti, su quanto siamo diversi io e te,» continuai. «Cioè, su quanto tu sia strano, volevo dire.»
«E cosa hai concluso?» mi domandò, optando per raggiungermi e sedersi accanto a me, finendo di vestirsi.
Non appena si posò sul materasso, avvertii una nuvola di profumo passarmi sotto le narici, ma ben presto mi accorsi che era proprio la sua pelle. Era dolce, quasi come l’odore dello zucchero a velo e stranamente me lo figurai come un qualcosa di bianco.
Borotalco.
Sì, Meo odorava di borotalco.
«Sei morta?» mi chiese, fissandomi negli occhi.
Era vicino, troppo vicino per i miei gusti. «Non mi alitare in faccia!» lo ammonii perentoria, nascondendo il mio imbarazzo dietro un insulto. «Comunque ho pensato al fatto che io e te non abbiamo nulla in comune. Sarà perché tu vivi in questa topaia ai confini della città con la tua amichetta e quell’altra, mentre io ho talmente tante camere che mi serve la mappa per trovare la mia, oppure semplicemente perché io ho gusto e tu non ne hai nessuno.»
«Sei sempre gentilissima,» osservò, allacciandosi la scarpa.
Finì di prepararsi, aggiustandosi il rivolto dei jeans con gli strappi e le toppe, i peggiori mai visti in tutta la mia intera esistenza, poi si voltò a guardarmi. «In effetti lo sai chi sembriamo noi due?» sorrise.
«Chi?» chiesi allarmata, pensando già potesse riferirsi a due strambi personaggi dei suoi fumetti da collezione.
«Quelli della canzone,» mormorò alzandosi, poi si diresse verso la scrivania e afferrò qualcosa. Troppo tardi compresi che si trattava di una chitarra. Tornò a sedersi accanto a me ed io avvertii di nuovo quel profumo. Era un qualcosa di indescrivibile anche perché avevo utilizzato il borotalco più di una volta, perciò ero a conoscenza di quale odore avesse, invece quello sembrava speciale, vellutato, irresistibile. Nel frattempo i capelli di Romeo sembravano essersi asciugati quasi da soli, anche se le punte erano ancora umide. Rischiava di prendersi un raffreddore con quel freddo.
Ecco Anna in versione fidanzatina preoccupata.
Ancora tu?
«Quale canzone?» domandai, scacciando via la voce della mia Superbia.
«Uptown Girl» rispose lui semplicemente.
«Up-che?»
«Billy Joel, mai sentita? È famosissima,» ridacchiò.
«Senti, se non è un pezzo di David Guetta, io non ho idea di cosa sia,» tagliai corto.
Andavo in discoteca da quando avevo sedici anni e per quanto mi piacessero i concerti, preferivo mille volte uscire, fare shopping e ballare piuttosto che sentirmi e risentirmi una canzone di ottant’anni fa. Se l’avevano scritta quando ancora la marijuana era legale, un motivo c’era.
Romeo rimase con la bocca semi-aperta. «Vabbè, diciamo che questa canzone fa un po’ così,» e si mise a strimpellare qualche accordo. «Praticamente, parla di un ragazzo di periferia che s’innamora di una ragazza dei quartieri alti, ma lui non ha i mezzi né le facoltà per poter competere con i pretendenti di lei che hanno macchine più lussuose, possono offrirle gioielli e tutto ciò cui lei è abituata.»
Lo ascoltai assorta, come se da quel racconto a poco a poco si districasse una matassa che fino ad allora era rimasta ingarbugliata nella mia mente. Non seppi se fu merito della canzone, oppure delle parole usate da Meo per spiegarne il significato, mi resi solamente conto del perché soltanto in quel momento avevo avvertito quel profumo di borotalco.
«E come finisce?» gli chiesi, avida di sapere.
Romeo alzò lo sguardo dalla sua chitarra e puntò le iridi verdi nelle mie. Era come guardarsi in uno specchio, perché quegli occhi riflettevano i miei con la stessa intensità di un fuggevole sguardo. «Non lo so,» sospirò. «Dice solamente che lui non può permettersi di  farle dei bei regali, ma se un giorno farà fortuna potrà competere per il suo cuore.» E fu in quel preciso istante che abbassò lo sguardo. C’erano troppi silenzi tra di noi, troppe cose in sospeso e poi c’era quel dannato profumo, quel suo sguardo espressivo, quelle sue gentilezze.
Cosa mi sta succedendo?
«Beh, è ora di andare,» dissi, sperando di riuscire a far tacere tutte le voci che mi vorticavano in testa. Ero venuta a casa di Meo con la chiara intenzione di buttarlo giù dal letto e costringerlo a passare una giornata d’inferno, invece lui, senza aver premeditato nulla, mi stava facendo cuocere nel mio stesso brodo.
Quanto lo odiavo.
«Non vedo l’ora di comprarmi un vestito nuovo, un paio di scarpe, almeno tre borse e un completino intimo che è un bijoux,» trillai, alzandomi in piedi con uno scatto energico.
Sentii Romeo sbuffare alle mie spalle e sorrisi. In fondo era tornato tutto come prima finalmente, bastava ignorare il problema e tutto sarebbe tornato alla normalità.
«Ripeto che per me staresti benissimo con qualsiasi cosa,» borbottò. «Anche con una delle mie magliette, perché in fondo sei bellissima comunque, nonostante sembra tu faccia di tutto per farti odiare.»
Rimasi immobile, pietrificata, dandogli le spalle. Non avevo il coraggio di guardarlo, anche perché se l’avessi fatto tutte le mie certezze sarebbero crollate. Perché insisteva? Per quale motivo continuava a ripetermi quelle cose? Io avevo bisogno di sentirmi bella, di mostrarmi in forma perfetta, perché dentro al mio cuore sapevo di essere solamente una ragazzina viziata ed odiosa.
Strinsi i pugni e mi conficcai le unghie nel palmo. «Non è vero,» asserii.
«Sì che lo è,» insistette, mandandomi ai nervi.
Mi voltai di scatto, pronta ad aggredirlo, ma mi ritrovai di nuovo con il corpo contro il suo petto ampio, che profumava di borotalco. Il mio muro non poteva crollare, non dopo tutti gli anni che avevo impiegato per costruirlo.
«Tu non sai un accidente di me! È facile la vita per uno sfigato come te, sei già caduto in basso, non puoi fare altro che sprofondare, mentre io ho tutto in gioco. La mia reputazione è l’unica cosa che ho!» gli urlai contro, sbattendogli i pugni sul petto. «Sin da piccola mi hanno sempre visto come la figlia di mio padre, del grande imprenditore, dell’uomo che possedeva una delle più grandi squadre di calcio…».
«…e tu non hai fatto altro che accontentarli,» concluse al mio posto.
Sgranai gli occhi e li fissai nei suoi, grandi e verdi, forse capaci di inghiottire i miei insulti e di farmi precipitare in silenzi imbarazzanti. Non gli risposi o almeno non gli diedi la soddisfazione di avere la ragione dalla sua parte. Ero fatta così, non potevo farci nulla.
«Credo soltanto che…» tentò di dire.
«Fai silenzio, ti prego,» lo fermai. «Il nostro non è un accordo di amicizia, io e te non siamo confidenti, né amici e né tantomeno amanti. Perciò smettila di psicanalizzarmi.»
Mi sarei aspettata di tutto da Romeo, che si incavolasse, che mi urlasse contro, che sprofondasse nel letto o al massimo che mi tenesse il broncio. Non fece nulla di tutto quello.
Si allontanò da me e afferrò i lembi della T-shirt rossa che tanto faticosamente aveva racimolato dal fondo dell’armadio per vestirsi. Rimase a petto nudo e quella pelle diafana, spruzzata di lentiggini comparve nuovamente davanti agli occhi. Rimasi paralizzata, non avevo idea di come comportarmi. Romeo si limitò a rivoltare le maniche e in un gesto secco me la infilò dalla testa, aiutandomi poi a indossarla per bene.
«Vedi?» poi mi fece, voltandomi verso uno specchio appeso alla parete, parzialmente coperto da alcuni vestiti. «Stai bene persino con una delle mie magliette,» disse, mettendosi dietro di me e sussurrandomelo quasi all’orecchio.
Sentivo il suo fiato caldo aleggiarmi sul collo, mentre quella stupida stoffa rossa odorava troppo di borotalco, profumava di lui e mi stava lentamente rimbambendo. Ero andata lì col chiaro intento di prendermela a morte con Meo, di sgridarlo, di urlargli contro e non mi sarei di certo aspettata quella reazione da parte del mio corpo.
Mi osservai allo specchio e vidi riflessa l’immagine della solita Anna con i capelli rossi, gli occhi esageratamente truccati e quell’enorme maglietta rossa. Mi accorsi però che c’era qualcosa di diverso, oltre al faccione di Romeo che spuntava dalla mia spalla.
Forse mi stavo intenerendo troppo.
O forse quel bisogno morboso che hai di fare shopping è una scusa bella e buona per poter rivedere lo sfigato.
No, non era possibile.
«Perché i tuoi genitori hanno scelto il nome Romeo?» gli domandai di botto, fissandomi ancora allo specchio come se mi stessi provando un Valentino. Ci stavo prendendo gusto e dovevo ammettere che la sua maglietta mi stava davvero bene.
Come anche il suo profumo sulla tua pelle.
Romeo rimase sorpreso da quella mia domanda, però mi regalò un mezzo sorriso. «Mia madre era fissata con Shakespeare in quel periodo,» si portò una mano dietro la nuca e ridacchiò imbarazzato. «Forse è anche per questo motivo inconscio che ho scelto Lettere.»
«Beh, dovresti esserne lusingato,» commentai ad alta voce. «Chiunque avrebbe fatto carte false per essere al posto di Giulietta.»
Meo sbatté le palpebre. «Scusami, tu vorresti morire a sedici anni?»
«Sei sempre il solito,» aggiunsi. «Mi riferisco al loro grande amore, alla storia più travagliata e romantica di tutti i tempi.»
«Sembra di sentire parlare mia madre,» sbuffò, spaparanzandosi sul letto.
Mi ritrovai a pensare come sarebbe stato Romeo come ragazzo. Stavo camminando in un campo minato e me ne rendevo sempre più conto, ma il mio inconscio fu masochista e finii con l’associare quel piacevole pomeriggio a qualcosa di più di un semplice ricatto. In fondo Romeo avrebbe potuto smettere di assecondarmi, sapeva che non avrei mai spifferato nulla – almeno fino ad ora –, ma lui mi aveva assecondata.
Tanto gli piace un’altra, te l’ha anche detto!
Già, l’avevo completamente rimosso.
Le parole dette in quel pomeriggio di folle shopping tornarono indietro come un boomerang e mi colpirono in pieno petto. Il mio corpo reagì chiudendosi a riccio, tentando automaticamente di ricacciare fuori la parte odiosa del mio carattere.
«Che hai?» mi chiese lui, tornando a sedere.
«Niente.»
«È tutto il giorno che mi sembri strana e altro che ragazza dei quartieri alti, assomigli più a una Emo tormentata!»
Quella fu la goccia che fece traboccare il vaso.
«Che ho io, eh? Mi chiedi perché sembro così strana?» inveii contro di lui, avvicinandomi e facendolo indietreggiare metaforicamente. «Ciò che mi affligge tanto, signor Ciuccio, è il tuo inutile tentativo di farmi apparire simile a quella stupida canzone, quando sappiamo bene entrambi che nessun Downtown man mi sta aspettando, o sta risparmiando per comprarmi chissà quale gioiello! Se è per questo, non ho nemmeno un Uptown man, anzi… non c’è proprio il man.»
Ecco, mi ero sfogata.
Finalmente avevo buttato fuori quella parte amara della mia vita che mi costringeva giorno dopo giorno ad indossare una maschera che ormai mi andava stretta. Era dura ammetterlo, ma ero stanca di recitare una parte, anche se lo stile di vita cui ero abituata mi imponeva di farlo.
«V-Veramente…» tentò di dire lui, ma io lo fulminai con lo sguardo.
«Cosa? Vuoi paragonarmi ancora alla tua misera esistenza?» lo schernii, pentendomene quasi immediatamente, quando lo vidi abbassare lo sguardo in un modo esageratamente tenero.
Lo sentii pigolare un timido «No.» Dopodiché fu come se si fece coraggio da solo e andò a frugare qualcosa dentro il cassetto vicino al letto. Mi alzai in punta di piedi per riuscire a sbirciare cosa potesse attirare tanto la sua attenzione, ma quelle spalle enormi coprivano tutta la visuale.
«Sei stai cercando una pistola, ti risparmio la fatica. Me ne vado,» sentenziai, imboccando la porta.
«Aspetta!» mi urlò quasi, tirando fuori dal cassetto una scatolina che nella furia del gesto gli volò via dalle mani e rotolò per terra, fino ai miei piedi. Sorpresa, mi chinai a raccoglierla ma prima di tutto fissai lo sguardo sul viso rosso carminio di Romeo.
Seguiva ogni mio movimento con gli occhi sgranati mentre la bocca, secca e screpolata, tentava di articolarsi in qualcosa di comprensibile.
«È… è…» balbettò.
«Una scatola,» lo anticipai, poi, senza ulteriori indugi, pigiai sull’apertura e la aprii.
Di scatole come quelle ne avevo viste a bizzeffe, sicuramente molto più grandi e più pesanti, contenenti gioielli, orecchini, anelli di fidanzamento con diamanti enormi e tanto altro ancora. Quando aprii la scatola di Meo vi trovai un piccolo fermaglio, lungo quasi quanto il mio pollice, d’argento, con tre grandi perle nere incastonate sopra.
Mi tremarono le mani, soltanto per un attimo.
«Cos’è?» mormorai.
«Un fermaglio,» rispose lui, raggiungendomi.
Gli assestai una gomitata nel costato. «Lo vedo, scemo. Intendevo perché me l’hai dato?»
Il rossore tornò a tingere ogni superficie di pelle di Romeo e quella sua debolezza cominciava a diventare infinitamente adorabile. «È un regalo,» ammise imbarazzato.
«Un cosa
«Quello di cui parla la canzone, le perle che lui le voleva regalare,» sorrise indicandole. «Ho scelto quelle nere perché sono più rare.»
Realizzando poco a poco quello che stava succedendo, non potei fare a meno di sentire gli angoli degli occhi pizzicarmi e le lacrime spingere per uscire. Romeo se ne accorse immediatamente e mi cinse le spalle con un braccio, tutto allarmato. «Ehi, so che non è un regalo di valore, come quelli cui sei abituata, ma sto cercando un nuovo lavoro e vedrai che per il prossimo Natale o magari per quello dopo riesco a comprarti un gioiello decente.»
E dopo quelle parole non riuscii più a contenermi. Scoppiai in lacrime, affondando il viso nel petto di Meo, ancora senza maglietta, e lo sporcai tutto di matita, eyeliner e mascara. Non sapevo cosa m’era preso, ma il vedere quanto impegno ci aveva messo per confezionarmi quel piccolo dono, mi aveva finalmente fatto capire cos’era che contasse realmente nella vita.
I gioielli, i vestiti, le macchine costose, non erano niente a confronto dell’affetto sincero di qualcuno, dell’avere una spalla su cui piangere, un paio di braccia pronte ad accoglierti.
«La prossima volta non ti faccio nulla,» sospirò. «Adesso mi devo rifare la doccia.»
«Scusa,» singhiozzai, asciugandomi le lacrime e sporcandomi io stessa con tutto il trucco che mi si era sciolto sul viso.
Romeo si sporse sul comodino e tirò fuori una salviettina umida. Me la passai sugli occhi e sul viso, portando via una quantità esagerata di fondotinta e di make-up superfluo. Quando mi ripulii del tutto, mi sentii più leggera.
«Non ti senti meglio senza tutta quella roba addosso?» ripeté sorridendomi. «Alle volte voi ragazze sembra indossiate una specie di mascherone da clown.»
Si accorse troppo tardi di aver formulato una frase che avrebbe rischiato di offendermi e quando vide la mia espressione lievemente corrucciata, sgranò gli occhi. Allungai una mano verso di lui e Romeo alzò istintivamente le braccia per pararsi dal ceffone inevitabile che gli avrei mollato. Gliele strinsi e l’abbassai, fino a fargliele scendere lungo il busto. Teneva ancora gli occhi chiusi, come se non si fidasse delle mie buone intenzioni.
«Mi rimangio tutto!» si affrettò a dire.
«Sta un po’ zitto,» lo ammonii, poi mi alzai in punta di piedi e gli posai un bacio all’angolo della bocca.
Rimase sorpreso da quel gesto e quando mi staccai, vidi i suoi occhi verdi diventare ancora più chiari. «Suppongo ti sia piaciuto il regalo.»
«Quanto sei stupido,» ridacchiai.
«Ma…» disse lui, cercando il mio sguardo. «…non dovevamo andare da qualche parte?».
Hollistar, Euroma2, i vestiti e i modelli in topless erano passati in secondo piano in quel momento. Esistevamo soltanto noi, la spilla che giaceva sul comodino e la sua maglietta che non mi sarei mai più tolta.
Sorrisi spensierata. «Credo proprio di averne troppi di vestiti e poi, un certo uccellino, mi ha detto che sto bene anche con in dosso delle T-Shirt di dieci volte la mia taglia.»
Nella mia vita avevo ricevuto tanti doni, tra i più preziosi che potessi mai desiderare, ma quel fermaglio lo avrei custodito gelosamente, anche se non lo avrei mai confessato a Romeo. C’era qualcosa che stava cambiando, qualcosa dentro al mio petto ed era la prima volta che mi succedeva.
Poi un pensiero mi folgorò la mente: se lui era il  Romeo di Shakespeare, io sarei mai stata in grado di essere la sua Giulietta?

***
Eccoci alla fine di questa OS alia Missing Moment dal PoV di Annalisa da collocarsi poco prima del capitolo 14 appela uscito di Come in un sogno, che potrete trovare qui.
Romeo personalmente incarna il massimo della dolcezza, perché crede di essere un forte macho come il suo idolo, uno spezzacuori, ma non riesce a fare a meno di aiutare gli altri, facendosi anche schiavizzare da Anna. Grazie proprio a questo accordo, però, la bella rossa comincia a conoscere la personalità di quello che lei definirebbe ''sfigato'' e nonostante questo non riesce a resistere a quella dolcezza caratteristica del carattere di Romeo.
Ho voluto creare una raccolta di MM dai vari PoV dei personaggi che non hanno ''voce'' in CIUS così almeno diamo un po' di spazio anche alla loro storia :33

Baciuz!
Marty 
   
 
Leggi le 2 recensioni
Segui la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Romantico / Vai alla pagina dell'autore: IoNarrante