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Autore: ciel1    27/01/2012    2 recensioni
non ci sono spoiler. Nella storia è presente anche John Watson
"ha reagito" è una delle frasi più emblematiche della storia.
qui si cerca di raccontare che vita fanno i personaggi dopo gli eventi del 2x03
(leggere solo dopo aver visto la season 2 di sherlock bbc)
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Molly Hooper
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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HA REAGITO.

Erano passati solo tre mesi da quegli eventi. Tre mesi possono essere così veloci per un bambino che li spende nel gioco. Tre mesi possono essere intensi per gli studenti, quando gli esami si avvicinano e la mente si affina. Tre mesi possono essere fugaci per chi ama, perché le ore per gli innamorati passano spensierate. Ma tre mesi possono essere lunghi e lugubri più di tre anni per chi affronta la scomparsa di una persona cara. “Per quanto Londra possa essere stata grigia in tutti questi anni, ora risulta ancora più grigia, perché il mito dei nostri giorni si è spento”. Così scrivevano i giornali inglesi, da quando quel pomeriggio di tre mesi prima, il detective Sherlock Holmes aveva deciso di lanciarsi nel vuoto dall’alto del Saint Bartholomew Hospital, conosciuto da tutto come Barts. Molti dicevano di sapere i motivi; le interviste di testimoni che affermavano di essere consapevoli dei motivi di quel tragico suicidio erano molte. Tutti concordavano sul fatto che il detective dal buffo cappello si fosse tolto la vita perché stanco del peso della bugia che stava sorreggendo ormai a fatica, ovvero di aver creato lui stesso la figura di James Moriarty per i suoi fini, per dimostrare il suo genio e intelletto in realtà falsi e ingannatori. Tutti sembravano credere a quell’assurda faccenda, tranne la padrona della palazzina 221 di Baker Street, Mrs Hudson, che ben conosceva il detective e che si rifiutava di riaffittare l’appartamento B, l’ispettore Lestrade che aveva preso un periodo di pausa dal lavoro, e poi John Hamish Watson che dopo aver lasciato Baker Street si era trasferito dalla sorella Harry, non aggiornava più il suo blog ed era ritornato alle sedute senza senso con la sua psicoterapeuta, dove tutto era iniziato. Altre due persone mancano all’appello e non credevano a quell'assurda storia, ma nel reale genio deduttivo quale era Sherlock Holmes, la prima sono io, che continuo a lavorare al Saint Bartholomew come patologa a contatto con i cadaveri e l’altra persona è il fratello del detective, Mycroft Holmes, che però non ha mai rivelato particolari dettagli sulla questione. Infatti dalla morte del fratello viveva al Diogene’s Club ventiquattro ore su ventiquattro senza parlare con anima viva. Una domenica ogni due settimane andavo a trovare John Watson per vedere come stava. E ogni volta che andavo speravo di trovarlo col morale un po’ meno a terra, ma purtroppo anche questa volta il dottore era nelle condizioni della volta prima se non peggiori.

«come stai John?» chiesi con un filo di voce.

Lui aspettò a rispondermi, aveva la teiera tra le mani e versava il tè con così tanta cura che poteva sembrare la professione della sua vita, se mai possa esistere una professione tale. Poi mi porse la tazzina e sospirò.

«Bene, va bene Molly. Qui mi piace. Ho uno studiolo privato e i pazienti sono tutti anziani, ma non mi lamento. Oltretutto non litigo nemmeno con Harry …»

Il dottore parlava a fatica. Quel suo “bene, va bene Molly” lo ripeteva ogni volta che glielo avevo chiesto, e non era un buon segno, il significato di quelle parole erano tutto l’opposto, io l’avevo capito, perché ormai avevo imparato a conoscerlo.

«come vanno le sedute con la psicoterapeuta?»

«faccio progressi ...»

«perché non scrivi più sul tuo blog?» ora ero incalzante.

Lui esitò, portò la tazzina di tè col latte alla bocca, ma non bevve. La mano sembrava tremargli.

«non mi capita più nulla, quindi non ho nulla da scrivere».

La compostezza del soldato che il dottore sapeva ben assumere per rispondere alle mie domande era sempre una sorpresa per me, che ero tutto l’opposto. Ammiravo il suo animo nobile e il suo non voler scaricare le proprie emozioni sugli altri.
Da quando il detective era entrato nella sua vita, il dottore aveva riacquistato quella carica che ormai si era spenta dopo la guerra, ma che si spense una seconda volta col la morte di Sherlock. Leale e onesto il dottore, sapevo che fin da ragazzino si era sempre dibattuto per gli amici, perché credeva fermamente nei legami di amicizia. Ma la guerra ahimè oltre a portare via l’energia di una persona, porta via anche le persone e le amicizie che John Watson aveva coltivato nel corso degli anni. Incontrare quella mente imprevedibile e contorta quale era quella di Sherlock Holmes, stimolò in John Watson la volontà di riprovare a riallacciare i rapporti col mondo esterno. Nonostante i gossip dei giornali scrivevano fiumi di parole su una possibile vita di coppia tra lo “scapolo Watson” e l’hat-man detective, i due in realtà erano solamente amici. Non c’era sicuramente nulla di erotico in quel rapporto. L’unico erotismo, se così possiamo definirlo, era la reciprocità di non riuscire a fare a meno dell’altro, inconsapevolmente da sé stessi; quella complicità che avevano involontariamente instaurato a prima vista, era entrata nella loro quotidianità e a nessuno dei due era mai venuto in mente di chiedersi perché due persone così diverse si trovavano a dividere lo stesso tetto. Questo è il potere delle amicizie. La chimica tra due persone è importante. Molte volte mi sono chiesta in cosa consisteva questa loro quotidianità. Non mi immagino il detective lavare i piatti o cucinare della pasta. Al limite riesco a immaginarlo mentre versa il tè in una tazza, mentre il dottore va a fare la spesa. Ma aldilà di quello che io o il resto del mondo possa pensare, l’attrazione che provano quei due corpi, inconsapevolmente l’uno per l’altro, non ha nulla a che fare con l’attrazione fisica di cui molti giornali hanno descritto in maniera incessante e disturbante alle volte. Mentre i miei pensieri continuavano a scorrermi nella mente, non mi accorsi che il dottore si era accasciato sulla poltrona con un aria abbattuta, pensavo che da un momento all’altro avrebbe abbandonato l’aria da soldato e avrebbe pianto, ma non lo fece. Iniziò a parlare.

«ricordo tante cose … la psicoterapeuta mi chiede di parlare di quello che provo. Ed io l’ho fatto, ma non davanti a lei, ma davanti la sua tomba. Ma sono andato solo quella volta, non riesco a sopportarlo. Io non credo che sia realmente morto. L’ho pregato di compiere un miracolo per me» il dottore sorrise «ha sempre avuto il complesso dell’onnipotenza. Gli ho chiesto di fare una cosa per me, perché troppe volte ho perso le persone a cui tenevo. Gli ho chiesto di non essere … morto»

Cadde il silenzio nella stanza. Io rimasi senza fiato. Non sapevo che fare, cosa dire. La rivelazione del dottore mi rendeva triste e trattenevo a stento le lacrime. Il dottore aveva concentrato il quella sua richiesta tutte le emozioni e le lacrime che mai avrebbe potuto esprimere o versare. Io non riuscii a trattenermi così parlai.

«ti ricordi quella telefonata del paramedico, quel giorno alla Barts?»

Il dottore mi guardò senza capire. Continuai.

«quella che ti avvertiva che Mrs Hudson era gravemente ferita e in fin di vita»

«certo, come potrei dimenticare … Se avessi capito subito che Moriarty mi stava ingannando per allontanarmi dalla Barts io ….»

«non è stato Moriarty» presi un respiro profondo «sono stata io»

«cos …?»

Prima che lo feci finire la domanda, continuai io «Ho commissionato io quel paramedico per darti quell’informazione sbagliata».

«cos’hai fatto? Perché?»

Io rimasi zitta. Aveva vissuto abbastanza tempo col detective per essere in grado di dedurre tutto il resto. E così avvenne.

«Sherlock … lui ti ha detto di farlo. Ha architettato tutto»

«l’ha fatto in buona fede. Se fossi restato, saresti rimasto invischiato anche tu nella rete di Moriarty e il suo gioco non sarebbe finito. E il piano di Sherlock non avrebbe trovato la conclusione»

«si certo, la conclusione. La sua conclusione è in una tomba. Che razza di idiota»

Io non parlai, poi dissi:

«tu sai quanto Sherlock tenesse a te, lo sai»

«si certo come no. Si è autodistrutto! Se non fosse stato quell’essere con manie di essere Dio, mi avrebbe chiesto aiuto e avremo risolto insieme la cosa»

Forse avevo fatto un casino, pensai. «No John, non è questo a cui volevo arrivare. Lui ti ha salvato la vita»
Il dottore non mi ascoltava più. Era arrabbiato. Ed era tutta colpa mia.

«quella stupida testa bacata! Sempre a fare di testa sua. Io penso di od…»

No, non potevo permettergli di dire una cosa di cui si sarebbe pentito un secondo dopo averla detta, non potevo permettergli dire qualcosa che non pensava.

«John!» gridai «non provare a dire cose che non pensi! Non sai quanto lui ti abbia nascosto mille cose per non farti soffrire! Tu non lo sai, ma ti ha risparmiato delle sofferenze che nemmeno immagini! È questo quello che fanno gli amici! Ti ha dedicato tutto sé stesso pur non dicendotelo direttamente, perché, è vero, è orgoglioso, arrogante. Ma è leale, onesto come te. Tu sai che non si è mai legato a nessun essere umano. Uomo o donna che sia. Per quanto lui possa essere disinteressato per l’affetto verso gli altri, c’è sempre stata solo una persona compatibile col suo modo di essere, l’unica persona leale, vera che lui abbia conosciuto e che sia riuscita e lui abbia fatto entrare nel suo mondo contorto. L’unica persona che l’abbia mai accettato per quello che era, con i suoi difetti e le sue manie. L’unica persona per cui lui poteva provare affetto, seppur a suo modo. Tu lo sai chi è quella persona John! La persona per lui più importante. Non dovrei essere io a dirtelo. Ma ora dovresti rendertene conto!».

John mi guardava ancora stordito dalle mie parole. Poi abbasso il viso. Aspettai una risposta che non arrivò. Volevo sapere la sua reazione alle mie parole, ma lui tacque. Avevo paura di aver sbagliato ancora una volta. Le mie parole che volevano spronarlo e fargli capire quanto lui potesse essere importante per il suo amico, ora non sapevo se avevo fatto bene nel mio intento. Quella chimica platonica instaurata tra loro due, che entrambi avevano vissuto inconsapevolmente, era giusto che venisse svelata, ma ora non ero così certa.

Harriet Watson si affacciò all’uscio chiedendo se andava tutto bene, ma vedendo il viso turbato del fratello mi chiese se potevo tornare in un altro momento quando John si fosse calmato. Acconsentii, ma impaziente di avere una risposta dal dottore, camminai voltandomi di tanto in tanto verso John, ma a quel punto ricevetti un messaggio sul telefono, quasi come un richiamo all’ordine, il preludio di una punizione, così mi scusai con Harriet e mi fermai per leggerlo. Sapevo già chi era, non poteva essere nessun’altro se non quella persona che infatti voleva vedermi e mi ordinava di sbrigarmi. Il dottore intanto fissava ancora il vuoto dopo quello che gli avevo detto ed io ero già sulla soglia, pentita per avergli detto quello che pensavo, poiché sapevo a quali conseguenze sarei andata incontro, non da parte del dottore, ma di qualcun’altro. Aspettai quella risposta da John, ma non ottenni nulla. E poi andando via, finalmente, riuscii ad intravederla, intravidi quella risposta. Era una lacrima seguita da un sorriso che finalmente non vedevo da troppo tempo. Dopo tre mesi avevo il cuore sollevato, forse avevo fatto bene a dirgli tutto, nonostante nessuno, neppure Sherlock stesso l’avrebbe mai detto, l’avrebbe mai ammesso. Ma John sembrava meno teso, meno triste. Arrivò un altro messaggio della stessa persona che mi ridestò ancora una volta dai miei pensieri.
Sapevo che non potevo mentirgli, non a lui.

Arrivai a casa.

«Prima che tu possa arrabbiarti. Londra è grande e qui siamo nella periferia di Londra ci vuole un bel può prima di raggiungerla»

«io non ho detto ancora nulla Molly», disse la voce profonda che così bene conoscevo.

«mi hai scritto dei messaggi. Qual è l’emergenza?» dissi

«sei stata al Diogene’s Club?»

«si ci sono stata stamattina prima di andare da John. Ho consegnato, come volevi te, il pacchetto a Mycroft direttamente, senza farmi notare»

«Bene …»

«non mi chiedi nient’altro?» sapevo che voleva avere notizie del suo migliore amico, ma non sapevo perché mai non mi faceva quella domanda, aspettava che fossi io a proporgli l’argomento, forse faceva parte della sua logica di pensiero. Sì, evidentemente.

«cosa dovrei chiederti Molly? Se hai dato tutto a Mycroft, al resto ci penserà lui. Te devi solo stare attenta a quello che dici in giro, nessuno deve sapere che sono qui. E ricordati la lista della spesa, devi comprare quello che c’è scritto, nelle dosi prescritte. Nessuno deve pensare che qui vivono due persone, le dosi le ho pensate per il fabbisogno di una persona, single, donna, ossia tu.»

Rimasi quasi senza parole dal suo ragionamento, ma da lui non potevo aspettarmi altro, così ritornai all’argomento che mi premeva.

«non parlavo di questo, mi riferivo a John Watson»

«Come sta?»

«Appena sono arrivata da lui, non molto bene»

Lui sembrò esitare

«Mi sono chiesta, come possiamo aiutarlo? Come posso aiutarlo?» dissi io

«Io non posso aiutarlo Molly. Ricordi? Londra e il resto del mondo non devono sapere che in realtà vivo qui a casa tua, devono continuare a pensare quello che pensano ora. E poi…» mi guardò. Aveva già capito, sapevo cosa stava per chiedermi: «perché hai detto - Appena sono arrivata da lui, non molto bene – cosa vuol dire? Quando ti vi siete congedati John stava meglio? Cosa gli hai detto?»

Stava centrando l’argomento, ma io lo sviai.

«John Watson non è Londra e neanche il resto del mondo»

«dirgli qualcosa su di me lo metterebbe a rischio. Ora dimmi il perché della tua affermazione»

Sviai ancora l’argomento

«come puoi non fidarti del tuo migliore amico?»

Lui mi lanciò un’occhiata gelida. Rimasi pietrificata. Avevo sbagliato.

«scusa. Allora se non è questione di fiducia perché non dirglielo?» dissi.

«credevo di avertelo già detto. Se qualcuno lo venisse a sapere sarebbe la fine per me e per tutti, mentre invece te sei la meno sospettabile. Nessuno può arrivare a te e quindi a me. Devo pensare ad un piano per il futuro»

Il discorso, come tutti i suoi discorsi non facevano una grinza. I giornalisti e i fotografi erano sempre nei pressi del dottore e di tutti quelli che conoscevano Sherlock Holmes, tranne me, l’amica nell’ombra.

«però oggi era triste e non trovando altre parole per incoraggiarlo. Ho detto delle cose …»

Un altro sguardo agghiacciante mi arrivò, ma questa volta meritato anche se lui non sapeva ancora il perché.

«Finalmente arrivi al punto della questione. Parla! Che cos’hai detto?». Se avesse potuto, avrebbe urlato, ma non poteva. Era troppo prudente.

«non è quello che pensi. Non ho detto a John che sei vivo. Non potrei mai tradire la tua fiducia. Ho aspettato tanto per conquistarla». I miei sentimenti, al contrario dei suoi occhi, erano ancora ardenti per lui.

«e allora parla, che cos’hai detto?»

Si avvicinò per scrutarmi nello sguardo per dedurre lui stesso quello che avevo detto, io mi voltai dandogli le spalle e lui stupito rimase in piedi rispettando la mia scelta. Era in silenzio. Sapevo che questo non poteva dedurlo. Dedurre le questioni riguardanti i sentimenti per Sherlock Holmes non era così fattibile come dedurre il resto del mondo umano, ma avevo paura di mostrarmi, perché non era stupido e per quanto non capisse gli umani sentimenti, avrebbe in ogni caso, con la sua intuizione, potuto scoprire quello che avevo fatto. Quello che avevo confessato a John.

«Ho detto a John una cosa»

«non rischiare di essere noiosa. Questo l’hai già detto. Continua»

«ho detto a John che sono stata io a commissionare quel paramedico per far si che lo chiamasse quel giorno. E gli ho confessato che eri stato tu ad architettarlo, perché non avresti voluto…»

Non mi lasciò finire la frase.

«che cosa?» si alterò.

Mi voltai verso di lui.

«lo so che ho sbagliato. Ma dovevo dirglielo»

«è questo il tuo modo per fargli superare il lutto?»

«no…»

«e allora qual’era il tuo intendo?»

«tirargli solo su il morale»

Alzò gli occhi al cielo «ti ho detto di non essere noiosa, questa cosa l’hai già detta. Non mi arrabbierò, non è grave.»
Fece il giro della stanza per calmarsi un po’. Ora dovevo dirglielo, ora si sarebbe arrabbiato.

«ho detto a John chi è la persona più importante per te…»

«io non ho persone importanti per me…» disse girando per il salotto.

Poi si fermò in mezzo alla stanza, esitando, voltandosi verso di me. Poi si sedette sulla poltrona, raccogliendo le ginocchia al petto, lo faceva ogni volta che voleva rimanere da solo. Rispettai la sua scelta, stupita perché temevo una sua reazione negativa, ma ogni volta lui mi stupiva. Presi la borsa e la lista della spesa, intanto lui sembrò ritornare calmo. Pensavo che sarebbero passati giorni prima che mi rivolgesse di nuovo la parola, lui è fatto così. È capace di non parlare per giorni se pensa a qualcosa. Ma mentre la mia mano ruotava la manopola della porta di casa, con un filo di voce lui disse:
«Che cos’ha risposto John?»

Avrei voluto dirgli quello che avevo visto. Avrei voluto dirgli che il dottore aveva sorriso, avrei voluto dirgli di quella lacrima che aveva versato e che valeva più di cento lacrime che mai verserà. Avrei voluto dirgli che gli voleva bene e che era un suo reale amico. Avrei voluto dirgli tante cose, ma ciò che bastava di dirgli erano solo quelle poche, perché dopotutto Sherlock Holmes è il genio delle deduzioni e con lui bastavano poche parole, il resto lo deduceva da solo.
Così risposi.

«Ha reagito. Lo aiuterà a stare bene»

Lui pose la testa sulle mani giunte, guardando nel vuoto. Come ben sapevo, da quelle parole aveva dedotto tutto il resto, John Watson non era un mistero per lui. Il detective sapeva che il suo amico non esternava le sue emozioni, però non era freddo era solo composto, e sapeva che con quel “ha reagito”, John Watson aveva per la prima volta dato spazio alle sue emozioni e quindi sfogandosi avrebbe trovato pace per un po’.

«assicurati di andare a trovarlo, ogni due domeniche»

Avevo ancora la mano sulla maniglia della porta, aspettai un istante, ma ci ripensai, così lo salutai e chiusi la porta dietro di me, anche se lui era già nel suo mondo mentale. Scendendo le scale pensavo che avrei voluto raccontargli tante altre cose di quella domenica da John, avrei voluto dirgli di quel miracolo che John Watson gli aveva chiesto al cimitero, ma decisi che gliel’avrei detto in seguito, non adesso o forse non c’era bisogno di dirglielo, forse aveva già dedotto anche quello.
  
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