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Autore: _hurricane    27/01/2012    31 recensioni
Quando Blaine viene assunto da un ricco signore per dare ripetizioni a suo figlio, non sa ancora che la sua vita cambierà.
Non sa ancora che conoscerà un ragazzo misterioso e bellissimo, la pelle bianca come la neve e troppo fragile per sopportare i raggi del sole. Non sa ancora che si innamorerà di tutti i segreti nascosti nell'abisso dei suoi occhi azzurri.
Questa è la storia di Kurt e Blaine, e di come si sono amati.
"Preoccuparsi della vita di Kurt, del dolore che si nascondeva dentro i suoi occhi, lo aveva fatto sentire per la prima volta come se avesse una missione, un motivo per cui svegliarsi ogni mattina. Ma allo stesso tempo, gli aveva fatto capire chiaramente che prima questo motivo non c’era, e non era un bene.
Non era forse un rischio, un rischio inutile, quando poteva benissimo vivere sereno tra le mura accoglienti della Dalton e lasciare quel ragazzo allergico al calore del sole ai suoi problemi, alla sua vita? Lasciare che passasse il resto dei suoi giorni nel buio, ma quello del cuore e dell’anima?"
Genere: Angst, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Altri | Coppie: Blaine/Kurt
Note: AU, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Sono di nuovo qui! Sono stata via poco ma mi mancava troppo pubblicare, finalmente ho finito questa storia e la posso condividere con voi! Vi anticipo già da ora che avrà 18 capitoli più l'epilogo, quindi in pratica 19 (numero odioso!).

Non ci sono particolari avvertimenti da fare; il rating arancione è dovuto principalmente al fatto che questa storia, come mi piace definirla, è praticamente angst distillato. Seriamente, inizio a chiedermi come diamine faccio a scrivere cose del genere e poi condurre una vita mediamente normale.

Però c'è tanto, tanto amore, lo giuro. Credo più che in qualsiasi altra mia storia, o almeno io la vedo così. Chi ha letto Hold Me Tight potrà pensare "Più angst di quella? SERIAMENTE?" Beh, diciamo che è un angst... diverso. A poco a poco capirete che intendo.

Essendo AU i personaggi potrebbero risultare leggermente OOC a causa di circostanze molto diverse, ma non particolarmente, o almeno credo!

Ci rivediamo a fine capitolo per alcune note utili :) spero tanto che vi piaccia!

 


 

 

 

Non piangere quando tramonta il sole, le lacrime ti impedirebbero di vedere le stelle.

- Davide Calzolari

 


Sto per raccontarvi una storia, una storia a cui tengo molto. Parla di due persone che si sono amate.

Semplice, direte voi. Banale.

Ma l’amore non è banale, non lo è mai. Beh, il loro non lo fu di certo.

Vi parlerò di due persone che si sono innamorate, presto e in fretta, nonostante avessero tanto da perdere nel farlo, nonostante fosse difficile e rischioso come soltanto l’amore può esserlo, ma dopo averlo fatto non lo rimpiansero mai.

Vi parlerò di due persone che si sono amate con tutto ciò che avevano, vivendo l’una per l’altra come se il mondo intorno non esistesse.

Vi parlerò di due persone che si sono innamorate da capo ogni giorno per il resto delle loro vite. Di due persone destinate a trovarsi.

 


 

“Tu sei come una stella, Kurt. Di giorno nessuno può vederti, è come se non esistessi, ma di notte… di notte appari nel cielo e risplendi più di tutte le altre. Sei una stella, è per questo che sei così. Sei nato per brillare, amore mio.”

Kurt sorrise tra sé e sé, sbattendo le ciglia chiare per scacciare via una piccola lacrima. Alzò di nuovo gli occhi verso il cielo, sdraiato a pancia in su sul prato del giardino, per guardare le stelle, quelle che un tempo aveva davvero considerato sue sorelle proprio come gli raccontava sua madre. Continuava a dirgli che era speciale, diverso da tutti gli altri ma in un modo bello, e giusto, un modo che non faceva altro che renderlo perfetto. Come le stelle.

Le stelle, immobili e splendenti nel buio ma visibili soltanto quando il sole calava al di là dell’orizzonte. Piccoli diamanti incastonati in un infinito manto scuro che avvolgeva il mondo, distanti milioni e milioni di anni luce da lui, eppure così vicini quando passava ore a guardarli, per sentirsi meno solo, per sentirsi capito.

Ma più passava il tempo, più Kurt si rendeva conto di non essere una stella, di non essere neanche lontanamente come una di loro. Perché lui non era un puntino nel cielo, bellissimo e noncurante, incapace di provare emozioni: era un essere umano, e non era fatto per quello. Gli uomini erano fatti per camminare alla luce del sole, sorridere davanti ad una macchina fotografica stringendo le palpebre per evitare di esserne abbagliati, starsene sdraiati su una spiaggia di sabbia bianca sentendone il piacevole calore sulla pelle che si faceva a poco a poco più scura.

Mentre Kurt… Kurt non avrebbe mai potuto fare nulla di tutto ciò. E per quanto sua madre, fino al giorno della sua morte, avesse fatto di tutto per convincerlo che non c’era niente di sbagliato in lui, Kurt non era mai riuscito a crederci davvero. Non era mai riuscito a non pensare di essere contro natura.

Ma questo non gli impedì di continuare a sdraiarsi sul prato per guardare il cielo a notte fonda, come faceva insieme a lei quando era piccolo; non gli impedì di piangere lacrime silenziose ricordando il modo in cui lei gli sussurrava all’orecchio quanto quegli astri sopra le loro teste fossero insignificanti, tutti uguali e monotoni e costretti a rimanere fermi lassù, mentre lui, che era quello più speciale, era caduto sulla Terra per poterla riempire con la sua piccola luce.

Non gli impedì di sorridere mentre piangeva, ricordando l’ingenuità che aveva avuto nel credere davvero a quelle parole, senza però trovare la forza di biasimare se stesso per averlo fatto.

Perché era stato bello pensare di essere una stella, almeno per un po’.

 


 

“Cercasi studente dell’ultimo anno disposto a tenere lezioni private su una o più materie, tutte quelle del corso se è possibile. I dettagli verranno discussi personalmente. Paga molto conveniente, in virtù della quale si richiede la massima discrezione.”

Blaine lesse attentamente il foglio attaccato all’ampia bacheca di sughero che si trovava nella sala di ingresso della Dalton, dalla quale si diramavano varie scalinate che conducevano ai dormitori. Era una richiesta molto strana, visto che dava grande libertà sulle materie e si manteneva su un tono piuttosto vago, e soprattutto quell’ultima frase sulla discrezione aveva un’aria a dir poco misteriosa e sinistra. Era anche vero però che si parlava di paga molto conveniente, e nonostante i soldi in famiglia di certo non mancassero, era da un po’ che voleva trovare un modo per mettere dei soldi esclusivamente suoi da parte ed essere un po’ più indipendente. Così, alzando le spalle e scacciando via la leggera aura di disagio che il foglio sembrava emanare, allungò la mano che teneva stretta alla sua tracolla di pelle e staccò una delle strisce nelle quali era stato tagliato, ognuna con su scritto lo stesso numero di telefono.

Una volta tornato nella sua stanza del dormitorio, visto che le lezioni si erano concluse, si fece la doccia e indossò una comoda felpa per mettersi totalmente a suo agio, dopo di che decise di comporre il numero. Prese il cellulare che aveva lasciato sulla scrivania, recuperò il piccolo foglio di carta dalla borsa, e lo digitò.

Dopo pochi secondi di attesa, la voce di un uomo adulto, forse anche di una certa età, rispose in tono molto formale: “Pronto, questa è casa Hummel, in cosa posso esserle utile?”

“Salve, io sono Blaine. Blaine Anderson” si affrettò a precisare, cercando di conformarsi a quell’atteggiamento elegante. “Ho letto l’annuncio che avete lasciato qui alla Dalton, sulle lezioni private e… beh, sono molto interessato alla cosa.”

“Oh” rispose l’uomo, rimanendo in silenzio per qualche secondo. “La prego di attendere in linea un momento.”

“Va bene” disse Blaine, spostandosi per sedersi sul bordo del letto mentre aspettava. Sentì del movimento dall’altra parte del telefono, e poi la voce ritornò.

“Il signor Hummel vorrebbe incontrarla di persona per discutere i dettagli… questa sera a cena, se per lei va bene.”

“Stasera?” rispose Blaine, un po’ sorpreso. Non credeva che le cose si sarebbero svolte così in fretta, non in quello stesso giorno almeno. Iniziava a sembrare una cosa piuttosto importante, che non era certo di aver capito fino in fondo.

“Se non le è possibile, organizzeremo un incontro un altro giorno” disse l’uomo, anche se dal tono sembrava quasi deluso dalla sua esitazione.

“N-no, no, stasera va benissimo” si affrettò ad aggiungere Blaine, passandosi una mano tra i ricci ancora un po’ umidi. Aveva pianificato di restare a letto a guardare un film dal suo portatile, totalmente rilassato e senza alcuna preoccupazione riguardo al suo look, ma avrebbe dovuto rinunciare. Ormai era più curiosità che altro: voleva capire di cosa si trattava e perché c’era tutto quel mistero.

“Perfetto allora. Alle otto? I signori Hummel gradiscono molto la puntualità, quindi se preferisce un orario diverso sarebbe consigliabile comunicarlo adesso” gli disse l’uomo in tono un po’ piatto. Blaine si rese improvvisamente conto che continuava a parlare di questi fantomatici ‘signori Hummel’ come se la questione non avesse niente a che fare con lui, e la voce cadenzata e professionale gli fece subito pensare ad un maggiordomo. Terribilmente clichè, ma non c’era altra spiegazione.

“Io alloggio qui alla Dalton, quindi credo dipenda da quanto casa Hummel dista da Westerville” rispose in tono pratico, visto che non c’era scritto un indirizzo sull’annuncio e non era stato ancora menzionato un luogo nella conversazione.

“L’indirizzo è Lima, Bellefontaine Avenue, 137. Credo sia un’ora in macchina, a velocità spedita.”

Blaine si preoccupò mentalmente di dover utilizzare per la prima volta il navigatore satellitare della sua auto, visto che non aveva idea di dove fosse quella strada nonostante conoscesse vagamente Lima. Ma preferì non fare ulteriori domande, quell’uomo non sembrava in vena di dargli indicazioni aspettando che prendesse carta e penna per annotarle.

“Perfetto, alle otto allora” disse in tono cordiale, alzandosi dal letto per camminare verso il suo armadio.

“E’ preferibile un abbigliamento formale. A più tardi, signore” rispose l’uomo, prima di chiudere la chiamata. Blaine si tolse il cellulare dall’orecchio e lo fissò alzando un sopracciglio. Certo che si sarebbe vestito in modo formale. Tutto di quella telefonata sembrava gridare Stai per andare a casa di persone così ricche da non dover nemmeno rispondere al telefono di persona. Insomma, doveva pur voler dire qualcosa.

Si mise il cellulare in tasca e aprì l’armadio, cercando la sua giacca nera delle grandi occasioni e una camicia che ci stesse bene.

Non sapeva che quella serata avrebbe cambiato la sua vita, per sempre.

 


 

Bellefontaine Avenue faceva chiaramente parte della zona più ricca di Lima: un lungo viale perfettamente illuminato, con siepi dal taglio regolare ai lati e case enormi di qualsiasi forma e colore, ma tutte con una variabile comune, la bellezza.

Anche Blaine aveva una bella casa, grande, lussuosa e ben arredata, ma quelle… erano manieri. Vaste tenute, così vaste che le case erano ad una distanza considerevole dalla strada principale, unite ad essa da vialetti di ghiaia bianca o addirittura strade secondarie asfaltate al di là di cancelli in ferro battuto dai meravigliosi ricami floreali. La maggior parte erano protette da mura imponenti, ma erano così alte da essere ugualmente visibili.

Ad un certo punto, le case iniziarono a farsi più sporadiche fino a scomparire del tutto: Blaine si ritrovò nel buio, con i fari della sua auto ad illuminare l’ampia strada che aveva davanti e nient’altro che aperta campagna ai lati. Il suo navigatore gli segnalava di continuare dritto, quindi non poteva aver superato la sua meta, anche perché aveva controllato i numeri civici accanto ai cancelli di tanto in tanto, per essere più tranquillo. Non si fidava molto del suo navigatore, dopotutto.

Un po’ preoccupato, accese gli abbaglianti e continuò a viaggiare per quelli che gli sembrarono almeno dieci minuti, finchè i suoi fari non illuminarono qualcosa di solido davanti a lui. Aguzzando la vista, Blaine si rese conto che era un cancello nero, alto, più alto di tutti quelli che aveva visto, con ai lati un enorme muro grigio che sembrava estendersi per una distanza infinita; ma forse era solo un’illusione dettata dal buio della sera. Il suo navigatore gli comunicò che aveva raggiunto la sua destinazione.

Rallentò e continuò a camminare, ma prima ancora che potesse anche solo pensare di scendere e cercare un campanello a cui suonare, sentì un rumore metallico e in un batter d’occhio il cancello si aprì davanti alla sua auto, invitandolo a percorrere una strada interna che sembrava salire verso l’alto. Solo in quel momento Blaine alzò lo sguardo e si accorse che c’era appunto una collina, alla fine della strada, con sopra la casa più grande che avesse mai visto. Anche il solo chiamarla “casa” gli sembrò un’offesa; sembrava più un castello.

Un corpo principale, con due parti sporgenti simili a larghe torri ai due lati e illuminata qua e là da torce esterne. Aveva tanti alberi intorno, e un terreno ai suoi piedi sul quale ci sarebbero potuti tranquillamente entrare dieci campi da tennis.

Blaine deglutì, sentendosi improvvisamente piccolo e mal vestito nonostante fosse impeccabile – papillon, giacca nera e più gel che mai – e si affrettò a premere l’acceleratore prima che il cancello rischiasse di chiudersi. Percorse la strada verso l’alto, scrutando con le palpebre strette il giardino avvolto nel buio che si lasciò a poco a poco alle spalle; ma non riuscì a vedere molto, se non un laghetto in lontananza, illuminato dalla luce della Luna, e figure scure che erano sicuramente alberi curatissimi e forse secolari.

Dopo qualche minuto, si ritrovò in un ampio cortile ricoperto di ghiaia che faceva da ingresso alla casa – o al maniero, o al castello, insomma, all’edificio – con al centro una grande fontana, non in funzione, e che si concludeva con una specie di balconata che permetteva di vedere tutta la tenuta sottostante. Parcheggiò in un angolo, spense il motore e scese, richiudendosi lo sportello alle spalle.

Ebbe giusto il tempo di voltarsi e accorgersi che il colore della casa era marrone, quando un uomo piuttosto anziano apparve dal portone principale e gli fece un cenno. Blaine si lisciò la giacca e si passò le mani ai lati della testa, inconsciamente, prima di affrettarsi a raggiungerlo. Come aveva previsto, era un maggiordomo.

“Benvenuto a casa Hummel, signor Anderson” gli disse con formalità, facendosi da parte per farlo entrare. “Può lasciare a me le chiavi della sua auto, se preferisce.”

“Grazie” rispose Blaine abbozzando un sorriso, prima di consegnargliele.

“Prego, da questa parte. Il signor Hummel la sta aspettando” disse il maggiordomo, iniziando a camminare davanti a lui senza preavviso. Blaine lo seguì a passo svelto, lasciandosi guidare attraverso un enorme ingresso in stile rustico, il pavimento di pietra, il camino a legna, addirittura teste di animali attaccate ad uno dei muri. Non pensava che esistessero ancora case del genere, ma evidentemente si sbagliava. Gli sembrò di essere stato improvvisamente catapultato nella magione estiva di una nobile famiglia dell’ottocento.

Attraverso un ampio corridoio, l’anziano signore lo condusse finalmente nella sala da pranzo, spalancando una grande porta. Era tutta in lunghezza, con uno di quegli immensi tavoli tipici dei castelli medievali, in legno massiccio e circondato da sedie simili a piccoli troni, rivestite di pelle. Candelabri sparsi qua e là illuminavano la stanza, insieme ad un grande lampadario centrale.

E a capotavola, in direzione opposta rispetto a dove si trovava Blaine, c’era un uomo. Era pelato, e indossava un completo impeccabile grigio scuro insieme ad un foulard color prugna avvolto perfettamente al collo. Stava fumando un sigaro mentre lo aspettava.

Avvicinandosi a lui, Blaine si accorse che aveva occhi piccoli ma espressivi, di un bellissimo colore azzurro.

“Buonasera” gli disse l’uomo, poggiando il sigaro su un posacenere e tendendo la mano verso di lui. “Io sono Burt Hummel.”

“Blaine Anderson, molto piacere” rispose Blaine, stringendogli la mano con cordialità. “Ha una casa bellissima” aggiunse, sentendosi istantaneamente un provincialotto ingenuo. Ma Burt non sembrò dello stesso avviso.

“Sei molto gentile” rispose infatti, facendogli poi cenno di sedersi. “Prego, cena insieme a me. Flint, vai a vedere se è pronto in cucina.”

Il maggiordomo fece un piccolo cenno di riverenza, e in un attimo si dileguò come se non ci fosse mai stato. Blaine prese posto sulla sedia più vicina a Burt, vedendo le posate, il piatto e i bicchieri già pronti per lui. Si sistemò sulla sedia, improvvisamente a disagio, e alzò lo sguardo. L’uomo lo stava osservando con attenzione, quasi come se lo volesse studiare.

“Allora, Blaine… posso chiamarti Blaine, non è vero?” disse, portandosi le mani sotto il mento.

“Certamente.”

“Dimmi, cosa ti ha spinto a chiamare? Sono certo che la nostra richiesta sia sembrata un po’ strana e misteriosa” riprese Burt con un piccolo sorriso.

“Beh, ecco…” esitò Blaine, non volendo sembrare troppo attaccato alla paga che ne sarebbe derivata. “Era da un po’ che cercavo un lavoretto, per essere più indipendente dai miei genitori. Sono abituato a impartire lezioni, lo facevo al mio vecchio liceo per aiutare i compagni che erano indietro in matematica.”

“Oh, capisco…” disse Burt, sembrando un po’ pensieroso. Riflettè per qualche secondo, poi riprese a parlare.

“Vedi Blaine, la questione della discrezione è davvero importante per me. Fondamentale. Tu mi sembri un bravo ragazzo, e io mi vanto spesso di saper riconoscere il valore di una persona a prima vista, ma ho bisogno di sapere se saresti davvero disposto a prenderti questo impegno. E’… è molto importante.”

Blaine lo scrutò attentamente, riflettendo sulle sue parole. Ma c’erano ancora troppe domande che gli frullavano in testa.

“Sono una persona molto discreta, se è questo che intende. Non sono quel tipo di ragazzo che condivide ciò che fa con tutti, e alloggiando alla Dalton non dovrei darne conto ai miei genitori. Ma, se mi permette…” disse in tono esitante. Burt gli fece cenno di continuare, ma prima che potesse farlo il maggiordomo, Flint, fece il suo ritorno portando con sé due piatti con sopra coperchi d’argento. Li posizionò sul tavolo e tolse i coperchi, rivelando carne di selvaggina, probabilmente cinghiale.

“Grazie, Flint” disse Burt, e senza dire altro tornò a posare gli occhi su Blaine. “Prego, continua.”

“Beh, diciamo che non ho ancora capito bene di cosa stiamo parlando, signore. Lezioni private su tutte le materie del mio corso, ma… a chi? E perché la discrezione è importante? Le chiedo scusa se le sembro inopportuno, ma-“

“Non lo sei affatto” rispose Burt, interrompendolo. “E’ naturale che tu voglia capire.”

L’uomo rimase a fissarlo, evidentemente ancora indeciso su cosa fare. Se fidarsi di Blaine o meno. Ma alla fine, annuì tra sé e sé e rizzò la schiena, pronto a parlare.

“D’accordo Blaine, mi fiderò di te. Sei il primo ragazzo che sembra davvero interessato alla cosa e che soprattutto sembra veramente gentile, non in soggezione dalla casa o dalla mia presenza. Spero che meriterai la mia fiducia” disse, prima di fare una pausa. Il fumo emanato dalla carne sul tavolo annebbiava leggermente il suo viso, ma Blaine potè vedere quanto fosse titubante, in contrasto con la sicurezza di qualche attimo prima. Così si sentì in dovere di precisare: “Lo spero anch’io, signore.”

“Bene. La persona di cui stiamo parlando è il mio unico figlio, Kurt” rispose, intrecciando distrattamente le dita delle mani sopra il tavolo. “Lui… lui non può frequentare una scuola normale. Ha sempre avuto un insegnante privato, fino all’anno scorso, ma… sono un po’ preoccupato per la sua vita sociale, capisci, quindi ho pensato che sarebbe stato meglio permettergli di imparare e allo stesso tempo rapportarsi con qualcuno della sua stessa età. Si sta… chiudendo in se stesso, ecco.”

Blaine non seppe improvvisamente cosa dire. La situazione sembrava molto più complicata del previsto, e qualsiasi cosa dicesse sarebbe potuta sembrare inopportuna. Così, preferì aspettare.

“Kurt non può uscire alla luce del sole” continuò Burt, in un tono che gli fece improvvisamente provare pena per quell’uomo. La sua voce si era fatta incredibilmente flebile, quasi sul punto di spezzarsi, come se quella fosse la frase che lo faceva soffrire più di qualsiasi altra cosa al mondo.

“Oh” disse Blaine, cercando di metabolizzare l’informazione e darle un senso. “E’ quella specie di… si chiama agorafobia, giusto? La paura degli spazi aperti e-“

“No” lo interruppe Burt, ma con dolcezza. “Non intendevo in senso metaforico, ma letterale. Kurt non… non può stare sotto il sole. Rischierebbe di morire se lo facesse. E’… una malattia molto rara, e non ha soluzione.”

Piombò un silenzio che sarebbe stato imbarazzante, se ci fosse stato spazio per l’imbarazzo dentro quel vortice di emozioni che aveva appena travolto Blaine. Stupore, compassione, dolore e rabbia per quel ragazzo che non conosceva ancora, costretto a vivere al chiuso per tutta la vita. Blaine era fatto così: troppo facilmente si caricava del peso dei problemi degli altri, sapendo che in questo modo li avrebbe resi più leggeri per loro. Spesso, però, poteva essere un’arma a doppio taglio.

Burt abbassò lo sguardo, prese forchetta e coltello e senza dire una parola iniziò a tagliare la carne. Blaine si morse il labbro, interdetto.

“Mi dispiace” disse, non sapendo che altro dire. Ma sapendo che era inutile.

Burt alzò lo sguardo e gli rivolse un piccolo sorriso, che gli scaldò subito il cuore. Iniziò ad apprezzare profondamente quell’uomo, ad ammirarlo e rispettarlo; all’inizio gli era sembrato il classico riccone con il foulard di seta e il sigaro cubano, ma conoscendolo a poco a poco, capì che era molto di più. Era un padre.

“Kurt non vuole che altri all’infuori di chi gli fa da insegnante sappiano delle sue condizioni. E’ una persona molto schiva e riservata. Ho voluto incontrarti io da solo prima, per evitare di dargli false speranze. Ti pregherei di riflettere attentamente, Blaine. Capire se puoi farlo o meno, perché mi rendo conto che è un impegno che può diventare gravoso a lungo andare.”

Blaine abbassò lo sguardo, pensieroso. Come aveva detto, non sentiva il bisogno di condividere tutto ciò che faceva, e a fine lezioni si recava sempre nel suo dormitorio senza dar conto a nessuno: cosa sarebbe cambiato, se invece si fosse recato lì tutti i giorni? Poteva comunque dire di tenere lezioni private, senza dover specificare a chi e per quali ragioni.

La verità, però, era che se anche se ci fossero stati ostacoli, Blaine li avrebbe ignorati o si sarebbe ripromesso di scavalcarli in futuro. Perché nella sua mente, aveva già preso quell’impegno. Aveva già deciso di scindere il peso che quel ragazzo sconosciuto portava sulle spalle, e prenderne un po’ per sè. Anche solo un pizzico, pur sapendo che forse sarebbe cambiato poco.

Blaine era fatto così.

“Lo farò. Glielo prometto, sarò discreto. Ha la mia parola, signor Hummel” disse risoluto. Burt lo fissò intensamente, poi sorrise un po’ più di prima.

“Chiamami Burt” disse.


 


 

 

Ci tengo a precisare che la malattia di cui soffre Kurt esiste davvero, ma ho preso spunto soltanto in parte, evitando di inserire sintomi particolarmente gravi, neurologici e motori, e limitandomi soltanto alla sua "allergia" alla luce solare. E' trattata in un modo molto più "romanzato" rispetto a com'è in realtà, ma non con l'intenzione di sminuirne la gravità, ecco.

Se volete seguire gli aggiornamenti, ho una pagina Facebook e da poco tempo anche Twitter da cui potete farlo! Credo saranno abbastanza veloci comunque :)


Nel prossimo capitolo: Blaine conosce Kurt e Kurt conosce Blaine, e la vera storia ha inizio.


   
 
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