Quando
ho letto il titolo del concorso mi sono subito venuti in mente i poemi
epico-cavallereschi, ma ho pensato di “modernizzarli” parlando delle povere
genti e non dei cavalieri. E’ così sono venute fuori queste quartine in
endecasillabi che non poche volte mi hanno fatta impazzire.
Scrivere questa storia voleva essere un esperimento, poi mi sono resa conto di quanto fosse una pazzia, ma mi divertivo così tanto nello scriverla che non ho potuto smettere e tutte le volte che mi sono trovata a corto di rime mi maledicevo perché era troppo tardi per tornare indietro.
E per fortuna, perché quando ho scritto l’ultima strofa mi sono sentita davvero fiera di me. Il risultato ottenuto, inoltre, mi ha resa veramente veramente felice. E' un po' il coronamento della propria fartica e della propria passione.
Ho deciso di pubblicare la storia in un unico capitolo anziché come long perchè mi sembrava che i capitoli fossero troppo legati tra loro e, comunque, abbastanza brevi.
Spero davvero appreziate.
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PROEMIO
Di cavalieri e dame graziose
si son ormai dette fin troppe cose,
ma mai ne ho udite dir di seriose
su genti semplici, al par dignitose.
Giacché il sovran appen ricordava
il nome dei figli che a corte ospitava,
la vita dei sudditi a dir poco ignorava
e di lor certo non s’occupava.
Ciò che però gli era ben chiaro
era il piacer d’accumulare denaro.
Tributi e dazi così aumentaro
e il viver divenne ogni dì più caro.
I picciol paesi, a se stessi lasciati,
pativano inverni crudeli e spietati
fatti di gelo e di pasti stentati
di carestie e animali malati.
Ma il mio racconto non vuol rattristare
anzi, pie genti, vi vuol far sperare
e sovra ogni cosa far ricordare
che ogni inverno si può superare.
Udite silenti il sottile mio detto,
sia gaio o infelice, meschino o perfetto:
storia sincera e senza belletto
di donna Mattana e mastro Ferretto.
I
Era infra i colli un villaggio situato
di povere genti e scemi abitato.
Monte Cirroso era appellato,
perché di nubi ogni dì coronato.
Benché piccino e anche sperduto,
in ogni dove era assai conosciuto
per l’arte antica del ferro battuto
che in tutto il regno veniva venduto.
Mastri ferrai, fabbri e incisori
plasmavan con cura i cupi lor ori;
le donne curavano i campi di fuori
del piccolo borgo di gran battitori.
Di tutti gl’omini il più incapace
Galdin si chiamava, ragazzo vivace.
Tenuto empio pei capelli di brace,
ma sopra tutto pel motto verace:
la sua parola avea suono schietto
non per furbizia o per fino intelletto,
ma poiché il nostro misero inetto
era idiota, crudele difetto.
Poich’ei preferia il flauto suonare
al ferro tacito da malleare
non certo mastro el si volea nomare
bensì Ferretto, per el oltraggiare.
M’avea il cuor dolce, il fare garbato,
l’aspetto gentile, il corpo allenato.
Le donne, ahimé, l’avean sempre ignorato
a causa di quel suo capello dannato.
Tutte men una, detta donna Mattana,
femmina bella, ritenuta strana:
non contadina, ma brava artigiana,
molto invidiata da ogni paesana.
Come il lupo, che ferito in l’onore
non accetta di tacere il dolore
d’essere vinto e non vincitore,
ulula al vento il proprio furore,
dal cuore arido, mesto e meschino,
si mise a dire al proprio vicino
che Brunilde, figlia del ciabattino,
usciva di notte e non rincasava
fino a che il ciel non s’illuminava.
Presto nel borgo ciascuno pensava
ciò che nessuno a dire s’osava.
Di fuor dal paese, in un luogo ascoso,
sorgeva difatti un bosco misterioso
in mezzo al quale s’ergeva maestoso
un albero antico, dal tronco nodoso.
Grandi poteri dicevan donasse;
“Stregoneria!”, criavan mai lasse
le contadine che credean ospitasse
i sabba notturni delle satanasse.
Fragile è il limite tra detto e realtà,
sottile quello tra innocenza e reità
e presto Brunilde e la sua beltà
furon tacciate di nera empietà.
La sola parola può intimidire
e il cuore pavido può anche ferire,
ma non è sufficiente per scalfire
la mente forte, che non ne può perire.
E Brunilde, forse troppo sfrontata,
viveva come non fosse toccata
dalle dicerie e sembrava appagata
dalla nomea che le era assegnata;
così per creare nuovo scalpore
e per soddisfare il proprio ardore
si decise a dichiarare l’amore
pel sacrilego, rosso battitore.
Fu così che Galdino innocente,
ch’era rimasto spettatore assente,
divenne di colpo attore incosciente
della vicenda che animava la gente.
II
Le giornate si allungavano omai,
sol di primavera scaldava i granai
e facea scordare tutti quei guai
portati in inverno, di cui vi parlai.
S’attardavan le donne lungo la via
ciarlando piano d’ogni diavoleria
e specialmente tra lor si preferia
dir di Brunilde, la fatale arpia;
la schiera di vecchie, sagge di vita,
la fronda giovin voleva istruita
sui pericoli in città colpita
da stregoneria, arte proibita.
Tra quelle chiacchiere, sempre uguali,
come il lamento di quegli animali
che non accettano i propri mali,
s’udirono un dì notizie speciali:
diceva infatti una giovane odiosa,
parlando con aria molto orgogliosa,
d’aver visto la donna maliosa
parlar con Galdino, senza mai posa.
Gridaron le altre: - Pover Ferretto!
era assai buono, non certo perfetto,
ma non meritava d’esser l’eletto
per un suo sabba, rito maledetto. –
Credevano tutte d’aver inteso
che Brunilde a Galdin avea teso
trappola infame e lui, indifeso,
v’era cascato ed ora era preso.
Miei uditori, potete ammirare
la stranezza di un tale parlare
ma non dovetevi voi stupefare
poiché simil parole non sono rare
nella bocca di chi infino a ieri
avea urlato senza misteri
tanti e spiacevoli improperi
ver chi ora è tra gl’amici più veri;
e non vi deve nemmeno stupire
che le comari osassero dire
d’aver compreso di Brunilde l’agire,
perché dal basso del loro intuire
credevan comunque d’essere astute,
come bestie che, una volta ammansute,
non temono più d’essere abbattute
e dall’altri astuzia sono battute.
C’era di vero, però, il parlare
che distoglieva i due dal lavorare
e li spingeva a tramare
contro il cheto viver popolare.
Avevano infatti i due ordito
piano semplice ma ben costruito
ch’avrebbe il borgo tutto colpito
e vendicato il core ferito
del Ferretto, ch’anche se poco sveglio
avea affinato di molto l’oreglio
e avea riportato in l’orgoglio
per le mal parole grande cordoglio
Donna Mattana, del suo canto,
avrebbe portato il grande vanto
d’aver beffato, ed anche tanto,
la gente ch’avea il suo onore infranto.
Ma, ahimé, chi si sente già vincituro
e si dimentica il colpo duro
che vita serba in ogni futuro
è come veliero che viaggia sicuro
su mare calmo, a vele spiegate,
senza aver tema delle mareggiate,
che non s’accorge per le luci adombrate
d’andare incontro a rocce frastagliate.
Roccia fatal per Brunilde e Galdino
fu il santo parroco di quel paesino,
tale Tommaso, vecchietto meschino,
che quasi per sbaglio passò vicino
e attirato dal parlar ridanciano
s’approssimò e sentì in parte il piano.
Non avendoci poi molto la mano
con la facil furbizia del villano,
ma stimandola alquanto importante,
corse goffo dalla massa rientrante,
che vedendo ‘l suo volto trepidante
capì egli recar nuova interessante.
Dopo un momento di esitazione
s’abbandonò alla rivelazione
e tutti credettero all’informazione
che s’aspettava con trepidazione.
Benché non ne avessero la certezza
e non sapessero con esattezza
che progetti avesse quella ragazza,
al tramontar si riunirono in piazza
per sistemare quel caso angoscioso,
non tollerando che Monte Cirroso,
piccolo borgo, ma alquanto famoso,
divenisse per lei peccaminoso.
Dopo schiamazzi e arringhe isipienti
si accordarono, che brave genti!,
su soluzion che li rese contenti:
bruciarla e subito ai quattro venti!
III
Cari auditori, spero apprezziate
le mie parole, con cui ho narrate
storie meschine di genti angustiate,
menti crudeli con idee spietate.
Giugne la storia a gran svolta e dura,
ov’anche la vita si fa cosa insicura
e tocca al coraggio vincer paura
dell’ultimo viaggio per strada oscura.
Brunilde dormiva, ancora insipiente
che la mattina, al di là del battente,
la attendesse, con ansia indecente,
la massa maligna e tutta ridente.
Tutto il paese si era adoprato
affinché il rogo fosse parato
quel giorno stesso, nato dannato,
perché morisse poi purificato.
E per assicurarne la pulizia
completa e perenne dalla magia
scelsero il loco da cui tutto partia
come forca per la stregata arpia:
l’albero antico, nel bosco temuto,
da cui lontan ognun s’era tenuto,
che mai nessuno s’era permettuto
di profanar, neanch’il più risoluto.
Ma, ahimé, la forza usa esser mostrata
quando paura vien disseminata:
allora la gente, tutta adunata,
rischia però di venire aizzata
contro quei mostri fallaci ed astratti,
spesso trovati tra i men fortunatti
- stranieri, poveri, donne e matti –
dai veri infami, che si fan compatti.
Ma ciò che la gente non s’aspettava
era che Galdino, mentre russava
fu svegliato perché folla gridava
e, avendo sentito di che parlava,
ora correva da Donna Mattana
per raccontarle in che tipo di grana
s’era cacciata per la sua profana
idea di cambiare sua attuale fama.
Di soppiatto entrò in sua dimora
e senza pensare qual fosse l’ora
urlò i fatti con voce ch’accora,
svegliando di colpo la sua signora
che per lo spavento non capì niente
e sol s’arrabbiò con quel deficiente,
che non curò il suo tono insolente
e ripeté la nuova sconvolgente.
Brunilde gli disse: “Non ti angustiare
la soluzione non è da trovare
perché è sufficiente riutilizzare
il piano con cui si volea frodare
la gente che ora fuori m’aspetta.
Corri, Galdino, e in grande fretta
a sostituire con fresca erbetta
la legna del rogo ch’essendo asciutta
mi brucerebbe in pochi minuti.
Gli steli che con me hai conosciuti
mostrano, invece, sogni perduti
se dai lor fumi si è posseduti:
approfittando del loro sognare
potrò io slegarmi e poi scappare
e tu con me potrai infine lasciare
questo borgo, che non sa che odiare”.
L’om la guardava con sguardo rapito,
d’amore il cuore ormai irretito,
il respiro dal sospiro impedito:
il far tradiva l’affetto nutrito.
La sua intelligenza lo affascinava,
il suo bell’aspetto lo conquistava:
questa grandezza lo pietrificava
e la sua mente di tutto svotava.
Non c’era tempo per mostrar passione,
bisognava presto far provvigione
di quell’erbe ch’eran la salvazione
di Brunilde, a rischio d’uccisione.
“Addio” diss’egli con voce turbata
“Arrivederci” rispose sua fata
“al tuo valore gran fede ho donata”.
Galdin s’immerse nell’alba dorata.
La donna, sì, forte, ma non certo scema
uscì dalla casa non senza tema.
La gente di fuori, senza problema,
la imprigionò e la portò di gran lena
all’albero antico, strano, stregato.
Un grande corteo s’era creato
a capo del quale sfilava sfrontato
prete Tommaso, da Dio inviato
in Terra, dicea, per battere il male;
dietro di lui la pia folla sleale
di donne e comari, malvagia tale
da non aver pena per la loro eguale.
Venivano poi gli uomini forti,
ch’ora guardavano con occhi storti
colei cui prima facevan le corti,
senza sentire su di loro i torti
della condanna di quella innocente,
ch’or li guardava con sguardo assente.
S’alzavano grida e risa contente
da quella schiera di cattiva gente
e Brunilde sentiva nel suo cuore
non odio, ira o qualche rancore
ma un estraneo e tristo umore,
che la privava di ogni ardore.
Fors’era la vicinanza alla morte,
forse il terrore che la malasorte
bussando ancora alle sue porte
le concedesse poche ore e corte.
Temeva un errore del suo Galdino
- saliva intanto sul rogo meschino –
pregava un qualche intervento divino
- accendevano un cero piccino –
piangeva lacrime di pentimento
- lo gettavan nell’accatastamento –
malediceva il suo insuperbimento
- la pira ardeva accesa dal vento.
Ma ecco che vede gli occhi amati
da piena fiducia infervorati:
son come lumi in cieli oscurati,
stelle sicure su mari agitati;
son fuochi che la notte rischiarano
e che al viandante pace regalano;
son tracce che la strada segnalano
a coloro che persi vagavano.
Si slega Brunilde e se ne va via,
essendo nascosta dalla fantasia
di cui tutti i presenti sono in balia:
è questa forse la sua sola magia.
Corre nel bosco dove s’era detto
di rincontrarsi con mastro Ferretto.
Lui è già lì e riporta nel petto
l’orgoglio sincero d’aver corretto
l’ingiusto destino ch’avea colpita
la dolce e stupenda sua favorita,
ch’ora lo ammira del tutto rapita
da quella grande impresa ardita.
Scappano insieme in terra lontana,
sperando trovare vita più sana
dove non sia giunta la fama
di mastro Ferretto e donna Mattana.