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Autore: miss dark    29/01/2012    7 recensioni
Udite silenti il sottile mio detto
sia gaio o infelice, meschino o perfetto:
storia sincera e senza belletto
di donna Mattana e mastro Ferretto.
[Prima classificata con punteggio massimo al concorso "Il Medioevo e l'Albero" indetto dagli Original Concorsi]
Genere: Avventura, Poesia, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Mastro Ferretto e donna Mattana

Quando ho letto il titolo del concorso mi sono subito venuti in mente i poemi epico-cavallereschi, ma ho pensato di “modernizzarli” parlando delle povere genti e non dei cavalieri. E’ così sono venute fuori queste quartine in endecasillabi che non poche volte mi hanno fatta impazzire.

Scrivere questa storia voleva essere un esperimento, poi mi sono resa conto di quanto fosse una pazzia, ma mi divertivo così tanto nello scriverla che non ho potuto smettere e tutte le volte che mi sono trovata a corto di rime mi maledicevo perché era troppo tardi per tornare indietro.

E per fortuna, perché quando ho scritto l’ultima strofa mi sono sentita davvero fiera di me. Il risultato ottenuto, inoltre, mi ha resa veramente veramente felice. E' un po' il coronamento della propria fartica e della propria passione.

Ho deciso di pubblicare la storia in un unico capitolo anziché come long perchè mi sembrava che i capitoli fossero troppo legati tra loro e, comunque, abbastanza brevi.

Spero davvero appreziate.

 

 

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PROEMIO

 

 

Di cavalieri e dame graziose

si son ormai dette fin troppe cose,

ma mai ne ho udite dir di seriose

su genti semplici, al par dignitose.

 

Giacché il sovran appen ricordava

il nome dei figli che a corte ospitava,

la vita dei sudditi a dir poco ignorava

e di lor certo non s’occupava.

 

Ciò che però gli era ben chiaro

era il piacer d’accumulare denaro.

Tributi e dazi così aumentaro

e il viver divenne ogni dì più caro.

 

I picciol paesi, a se stessi lasciati,

pativano inverni crudeli e spietati

fatti di gelo e di pasti stentati

di carestie e animali malati.

 

Ma il mio racconto non vuol rattristare

anzi, pie genti, vi vuol far sperare

e sovra ogni cosa far ricordare

che ogni inverno si può superare.

 

Udite silenti il sottile mio detto,

sia gaio o infelice, meschino o perfetto:

storia sincera e senza belletto

di donna Mattana e mastro Ferretto.

 

 

 

 

I

 

 

Era infra i colli un villaggio situato

di povere genti e scemi abitato.

Monte Cirroso era appellato,

perché di nubi ogni dì coronato.

 

Benché piccino e anche sperduto,

in ogni dove era assai conosciuto

per l’arte antica del ferro battuto

che in tutto il regno veniva venduto.

 

Mastri ferrai, fabbri e incisori

plasmavan con cura i cupi lor ori;

le donne curavano i campi di fuori

del piccolo borgo di gran battitori.

 

Di tutti gl’omini il più incapace

Galdin si chiamava, ragazzo vivace.

Tenuto empio pei capelli di brace,

ma sopra tutto pel motto verace:

 

la sua parola avea suono schietto

non per furbizia o per fino intelletto,

ma poiché il nostro misero inetto

era idiota, crudele difetto.

 

Poich’ei preferia il flauto suonare

al ferro tacito da malleare

non certo mastro el si volea nomare

bensì Ferretto, per el oltraggiare.

 

M’avea il cuor dolce, il fare garbato,

l’aspetto gentile, il corpo allenato.

Le donne, ahimé, l’avean sempre ignorato

a causa di quel suo capello dannato.

 

Tutte men una, detta donna Mattana,

femmina bella, ritenuta strana:

non contadina, ma brava artigiana,

molto invidiata da ogni paesana.

 

Come il lupo, che ferito in l’onore

non accetta di tacere il dolore

d’essere vinto e non vincitore,

ulula al vento il proprio furore,

 

 così ogni donna di quel paesino,

dal cuore arido, mesto e meschino,

si mise a dire al proprio vicino

che Brunilde, figlia del ciabattino,

 

usciva di notte e non rincasava

fino a che il ciel non s’illuminava.

Presto nel borgo ciascuno pensava

ciò che nessuno a dire s’osava.

 

Di fuor dal paese, in un luogo ascoso,

sorgeva difatti un bosco misterioso

in mezzo al quale s’ergeva maestoso

un albero antico, dal tronco nodoso.

 

Grandi poteri dicevan donasse;

“Stregoneria!”, criavan mai lasse

le contadine che credean ospitasse

i sabba notturni delle satanasse.

 

Fragile è il limite tra detto e realtà,

sottile quello tra innocenza e reità

e presto Brunilde e la sua beltà

furon tacciate di nera empietà.

 

La sola parola può intimidire

e il cuore pavido può anche ferire,

ma non è sufficiente per scalfire

la mente forte, che non ne può perire.

 

E Brunilde, forse troppo sfrontata,

viveva come non fosse toccata

dalle dicerie e sembrava appagata

dalla nomea che le era assegnata;

 

così per creare nuovo scalpore

e per soddisfare il proprio ardore

si decise a dichiarare l’amore

pel sacrilego, rosso battitore.

 

Fu così che Galdino innocente,

ch’era rimasto spettatore assente,

divenne di colpo attore incosciente

della vicenda che animava la gente.

 

 

 

 

 

II

 

 

Le giornate si allungavano omai,

sol di primavera scaldava i granai

e facea scordare tutti quei guai

portati in inverno, di cui vi parlai.

 

S’attardavan le donne lungo la via

ciarlando piano d’ogni diavoleria

e specialmente tra lor si preferia

dir di Brunilde, la fatale arpia;

 

la schiera di vecchie, sagge di vita,

la fronda giovin voleva istruita

sui pericoli in città colpita

da stregoneria, arte proibita.

 

Tra quelle chiacchiere, sempre uguali,

come il lamento di quegli animali

che non accettano i propri mali,

s’udirono un dì notizie speciali:

 

diceva infatti una giovane odiosa,

parlando con aria molto orgogliosa,

d’aver visto la donna maliosa

parlar con Galdino, senza mai posa.

 

Gridaron le altre: - Pover Ferretto!

era assai buono, non certo perfetto,

ma non meritava d’esser l’eletto

per un suo sabba, rito maledetto. –

 

Credevano tutte d’aver inteso

che Brunilde a Galdin avea teso

trappola infame e lui, indifeso,

v’era cascato ed ora era preso.

 

Miei uditori, potete ammirare

la stranezza di un tale parlare

ma non dovetevi voi stupefare

poiché simil parole non sono rare

 

nella bocca di chi infino a ieri

avea urlato senza misteri

tanti e spiacevoli improperi

ver chi ora è tra gl’amici più veri;

 

e non vi deve nemmeno stupire

che le comari osassero dire

d’aver compreso di Brunilde l’agire,

perché dal basso del loro intuire

 

credevan comunque d’essere astute,

come bestie che, una volta ammansute,

non temono più d’essere abbattute

e dall’altri astuzia sono battute.

 

C’era di vero, però, il parlare

che distoglieva i due dal lavorare

e li spingeva a tramare

contro il cheto viver popolare.

 

Avevano infatti i due ordito

piano semplice ma ben costruito

ch’avrebbe il borgo tutto colpito

e vendicato il core ferito

 

del Ferretto, ch’anche se poco sveglio

avea affinato di molto l’oreglio

e avea riportato in l’orgoglio

per le mal parole grande cordoglio

 

Donna Mattana, del suo canto,

avrebbe portato il grande vanto

d’aver beffato, ed anche tanto,

la gente ch’avea il suo onore infranto.

 

Ma, ahimé, chi si sente già vincituro

e si dimentica il colpo duro

che vita serba in ogni futuro

è come veliero che viaggia sicuro

 

su mare calmo, a vele spiegate,

senza aver tema delle mareggiate,

che non s’accorge per le luci adombrate

d’andare incontro a rocce frastagliate.

 

Roccia fatal per Brunilde e Galdino

fu il santo parroco di quel paesino,

tale Tommaso, vecchietto meschino,

che quasi per sbaglio passò vicino

 

e attirato dal parlar ridanciano

s’approssimò e sentì in parte il piano.

Non avendoci poi molto la mano

con la facil furbizia del villano,

 

ma stimandola alquanto importante,

corse goffo dalla massa rientrante,

che vedendo ‘l suo volto trepidante

capì egli recar nuova interessante.

 

Dopo un momento di esitazione

s’abbandonò alla rivelazione

e tutti credettero all’informazione

che s’aspettava con trepidazione.

 

Benché non ne avessero la certezza

e non sapessero con esattezza

che progetti avesse quella ragazza,

al tramontar si riunirono in piazza

 

per sistemare quel caso angoscioso,

non tollerando che Monte Cirroso,

piccolo borgo, ma alquanto famoso,

divenisse per lei peccaminoso.

 

Dopo schiamazzi e arringhe isipienti

si accordarono, che brave genti!,

su soluzion che li rese contenti:

bruciarla e subito ai quattro venti!

 

 

 

 

 

III

 

 

Cari auditori, spero apprezziate

le mie parole, con cui ho narrate

storie meschine di genti angustiate,

menti crudeli con idee spietate.

 

Giugne la storia a gran svolta e dura,

ov’anche la vita si fa cosa insicura

e tocca al coraggio vincer paura

dell’ultimo viaggio per strada oscura.

 

Brunilde dormiva, ancora insipiente

che la mattina, al di là del battente,

la attendesse, con ansia indecente,

la massa maligna e tutta ridente.

 

Tutto il paese si era adoprato

affinché il rogo fosse parato

quel giorno stesso, nato dannato,

perché morisse poi purificato.

 

E per assicurarne la pulizia

completa e perenne dalla magia

scelsero il loco da cui tutto partia

come forca per la stregata arpia:

 

l’albero antico, nel bosco temuto,

da cui lontan ognun s’era tenuto,

che mai nessuno s’era permettuto

di profanar, neanch’il più risoluto.

 

Ma, ahimé, la forza usa esser mostrata

quando paura vien disseminata:

allora la gente, tutta adunata,

rischia però di venire aizzata

 

contro quei mostri fallaci ed astratti,

spesso trovati tra i men fortunatti

- stranieri, poveri, donne e matti –

dai veri infami, che si fan compatti.

 

Ma ciò che la gente non s’aspettava

era che Galdino, mentre russava

fu svegliato perché folla gridava

e, avendo sentito di che parlava,

 

ora correva da Donna Mattana

per raccontarle in che tipo di grana

s’era cacciata per la sua profana

idea di cambiare sua attuale fama.

 

Di soppiatto entrò in sua dimora

e senza pensare qual fosse l’ora

urlò i fatti con voce ch’accora,

svegliando di colpo la sua signora

 

che per lo spavento non capì niente

e sol s’arrabbiò con quel deficiente,

che non curò il suo tono insolente

e ripeté la nuova sconvolgente.

 

Brunilde gli disse: “Non ti angustiare

la soluzione non è da trovare

perché è sufficiente riutilizzare

il piano con cui si volea frodare

 

la gente che ora fuori m’aspetta.

Corri, Galdino, e in grande fretta

a sostituire con fresca erbetta

la legna del rogo ch’essendo asciutta

 

mi brucerebbe in pochi minuti.

Gli steli che con me hai conosciuti

mostrano, invece, sogni perduti

se dai lor fumi si è posseduti:

 

approfittando del loro sognare

potrò io slegarmi e poi scappare

e tu con me potrai infine lasciare

questo borgo, che non sa che odiare”.

 

L’om la guardava con sguardo rapito,

d’amore il cuore ormai irretito,

il respiro dal sospiro impedito:

il far tradiva l’affetto nutrito.

 

La sua intelligenza lo affascinava,

il suo bell’aspetto lo conquistava:

questa grandezza lo pietrificava

e la sua mente di tutto svotava.

 

Non c’era tempo per mostrar passione,

bisognava presto far provvigione

di quell’erbe ch’eran la salvazione

di Brunilde, a rischio d’uccisione.

 

“Addio” diss’egli con voce turbata

“Arrivederci” rispose sua fata

“al tuo valore gran fede ho donata”.

Galdin s’immerse nell’alba dorata.

 

La donna, sì, forte, ma non certo scema

uscì dalla casa non senza tema.

La gente di fuori, senza problema,

la imprigionò e la portò di gran lena

 

all’albero antico, strano, stregato.

Un grande corteo s’era creato

a capo del quale sfilava sfrontato

prete Tommaso, da Dio inviato

 

in Terra, dicea, per battere il male;

dietro di lui la pia folla sleale

di donne e comari, malvagia tale

da non aver pena per la loro eguale.

 

Venivano poi gli uomini forti,

ch’ora guardavano con occhi storti

colei cui prima facevan le corti,

senza sentire su di loro i torti

 

della condanna di quella innocente,

ch’or li guardava con sguardo assente.

S’alzavano grida e risa contente

da quella schiera di cattiva gente

 

e Brunilde sentiva nel suo cuore

non odio, ira o qualche rancore

ma un estraneo e tristo umore,

che la privava di ogni ardore.

 

Fors’era la vicinanza alla morte,

forse il terrore che la malasorte

bussando ancora alle sue porte

le concedesse poche ore e corte.

 

Temeva un errore del suo Galdino

- saliva intanto sul rogo meschino –

pregava un qualche intervento divino

- accendevano un cero piccino –

 

piangeva lacrime di pentimento

- lo gettavan nell’accatastamento –

malediceva il suo insuperbimento

- la pira ardeva accesa dal vento.

 

Ma ecco che vede gli occhi amati

da piena fiducia infervorati:

son come lumi in cieli oscurati,

stelle sicure su mari agitati;

 

son fuochi che la notte rischiarano

e che al viandante pace regalano;

son tracce che la strada segnalano

a coloro che persi vagavano.

 

Si slega Brunilde e se ne va via,

essendo nascosta dalla fantasia

di cui tutti i presenti sono in balia:

è questa forse la sua sola magia.

 

Corre nel bosco dove s’era detto

di rincontrarsi con mastro Ferretto.

Lui è già lì e riporta nel petto

l’orgoglio sincero d’aver corretto

 

l’ingiusto destino ch’avea colpita

la dolce e stupenda sua favorita,

ch’ora lo ammira del tutto rapita

da quella grande impresa ardita.

 

Scappano insieme in terra lontana,

sperando trovare vita più sana

dove non sia giunta la fama

di mastro Ferretto e donna Mattana.

 

 

 

 

 

 

  
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