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Autore: Cucuzza2    30/01/2012    2 recensioni
[Versione moderna della Gloria Scott + Sherlock/BBC!Victor]
"Attese che Victor lo raggiungesse con il pc, poi lo prese senza ringraziare - e guadagnandosi uno sbuffo - e lanciò Internet e un motore di ricerca. Lo stesso sorriso malizioso di qualche ora prima gli si affacciò sul volto mentre aspettava il caricamento. La situazione era grave, e proprio per questo lo eccitava. Fu allora che scoprì di amare il pensiero febbrile, le corse contro il tempo, l’adrenalina unita al pericolo reale, la sensazione dell’ovvio alla fine, il rimboccarsi le maniche. Ancora preda di queste sensazioni, digitò:
“crittografia simmetrica”"

Non solo chi ben comincia è già a metà dell'opera.
Genere: Mistero, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Altro personaggio, Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Questa storia è stata betata, letta ed approvata da LivingTheDream.
-Diffidate delle imitazioni, solo le originali possiedono il bollino!-

Partecipa alla maritombola di maridichallenge.

 

 

I want to hear many different voices speaking in tongues. This is Radio Nowhere, is there anybody alive out of there?

 

{Bruce Springsteen – Radio Nowhere}

 

 

 

 

 

 

 

«Voglio sentire una moltitudine di voci parlare nelle proprie lingue» diceva. «Questa è Radio Nowhere, qualcuno è vivo là fuori?»

 

 

 

La radio cominciava già di prima mattina a sparare cazzate. Era una tranquilla domenica di un giugno più caldo del solito. Seduti in un bar come un altro, al centro di Londra, stavano due giovani che avevano ben di meglio da fare che godersi la bella stagione.

 

«Ti stai agitando per nulla, devi solo parlare a tuo padre dei fatti così come sono e tutto sarà semplice, direi anche banale».

 

Victor scosse la testa. «Dai troppe cose per scontate».

 

«Niente affatto» Parlava con quel suo tono pacato, a tratti quasi derisorio, per il quale Victor l’avrebbe volentieri ucciso. «Non mi sembra di aver mai dato per scontato che una conoscenza nata da una caviglia azzannata sarebbe finita male, o sbaglio?»

 

«Finirà male se mio padre non...»

 

«So cosa fare. Un mese di vacanza è più che sufficiente per un coming out, dunque perché non far fruttare l’occasione?»

 

Victor scosse ancora la testa, portando i gomiti sul tavolo. «Sherlock, non riesci a renderti conto della situazione. Mio padre era convinto che grazie a Nate e alla sua passione per le caviglie bianche mi fossi finalmente deciso a fare amicizia con qualcuno, e poi salta fuori che- Insomma, dimmi tu se non è un problema!»

 

«Ovviamente, è un problema» Sorrise, a dispetto della situazione. «Altrimenti non sarebbe noioso?»

 

«No.»

 

Sherlock liquidò il monosillabo con un’alzata di spalle. «Tuo padre abita nel Norfolk. È un posto molto tranquillo, e per quanto la cosa sia fastidiosa questo potrebbe essere utile per...»

 

«Norfolk!»

 

«Già, Norfolk» tagliò corto Sherlock. «Pensa al tuo accento! Fondi le sillabe nelle parole, strascichi la pronuncia, talvolta usi qualche termine dialettale, come puoi pensare che non sia evidente?» Così dicendo era scattato in piedi, sovrastandolo con l’altezza della propria figura.

 

Victor alzò gli occhi al cielo, convincendolo così a lasciarsi letteralmente cadere sul proprio sgabello. «Non so davvero come farò a sopportarti per un intero mese di vacanza, lo sai?»

 

«Non sarà un mese. Vedremo di mettere tuo padre al corrente di tutto molto prima, e a seconda di come prende la cosa potrebbe cambiare lunghezza in modo drastico, e non sono sicuro se si tratterà di una proroga o di un’anticipazione del ritorno.» L’espressione si fece appena più scura, ma fu un attimo. Scattò nuovamente in piedi. «Ora in ogni caso devo andare, credo di aver finalmente trovato un appartamento, a dopo.»

 

Un secondo dopo era fuori dal bar, mentre un Victor a metà fra il seccato e il divertito diceva a se stesso di tenere a mente che la volta dopo Sherlock avrebbe dovuto pagare il conto per entrambi. E anche per le quindici volte successive, considerando gli arretrati.

 

Era cominciato tutto in modo bizzarro - «e prosaico», avrebbe aggiunto Sherlock, «e decisamente imbarazzante», concludeva Victor ogni volta - e a causa di un bull terrier particolarmente mordace. Il proprietario, «un certo Victor Trevor», si era sentito in dovere di andare a trovare l’infortunato, che, avrebbe in breve scoperto, detestava le premure di quel genere. In ogni caso, dopo i dieci giorni di riposo le visite di Victor anziché finire si erano moltiplicate, e Sherlock aveva cominciato ad abituarsi a quella nuova presenza e a quel viso dai lineamenti appena arrotondati, non del tutto scevri dai segni dell’infanzia.

 

Si era dovuto abituare alla possibilità che potesse esistere qualcun altro che avesse delle caratteristiche in comune con lui - alla possibilità che potesse esistere qualcun altro, in effetti. E, in seguito, anche all’idea di essersene innamorato.

 

Ma le situazioni complesse tendono sempre a regredire; e lo stesso fece anche quella, tanto che una volta Sherlock la riassunse con un «due giovani, uno geniale e l’altro un po’ meno idiota della media, con relativamente pochi problemi, e questo è noioso.»

 

E invece, un problema si era presentato. Il signor Trevor.

 

 

 

«Ti vedo rilassato.»

 

Dal sedile dei passeggeri, Sherlock sbadigliò, distendendo ulteriormente le gambe davanti a sé. «Annoiato. È diverso.»

 

«Semplice, per te.» Tenne lo sguardo sulla strada. «Il problema è mio padre, mentre tu a tuo fratello hai già detto tutto.»

 

«Assolutamente no. Non ho detto nulla a Mycroft, sarebbe stato un insulto alla sua intelligenza.»

 

Victor intuì che, oltre all’intelligenza, anche quell’inutile boria doveva essere una caratteristica di famiglia. Affrontò la curva successiva in modo particolarmente brusco, guadagnandosi uno svogliato «Attento» da parte di Sherlock.

 

«Che hai intenzione di fare nel Norfolk, quindi?»

 

«Aspetterò che tu ti dia una mossa a parlare, per poi occuparmene io se la situazione ristagna troppo a lungo. Ma non succederà, non resisti tanto facilmente alla vessazione dei letti separati.»

 

«Sherlock.»

 

«Donnithorpe non è poi così vicina a Londra - faremmo meglio a trovare qualche argomento di conversazione, no?» cambiò discorso, con fare evasivo.

 

Victor gli lanciò un’occhiata perplessa. «Mi spieghi come fai a sapere che si tratta di Donnithorpe?»

 

«Stamattina trafficavi con Earth. Non ricordavi bene la strada e volevi evitare la mia ironia. Precauzione inutile, dato che mi sono permesso di dare un’occhiata alla cronologia.» Altra virata. «Attento.»

 

Victor tenne lo sguardo fisso sulla strada, ignorandolo.

 

«Odio i viaggi» riprese a parlare Sherlock. «Sono all’ottanta per cento tempi morti, e qualunque cosa io decida di fare non credo sarà poi una professione così tranquilla da permettermi sprechi di tempo. A proposito, dovrei proprio decidermi, ormai.»

 

«Puoi provare a diventare investigatore.»

 

Sherlock sbuffò. «È in cima alla lista, ma oggi come oggi per fare cosa, correre dietro ai mariti fedifraghi?»

 

«Qualcosa troverai. Ti conosco, hai troppo cervello per rivestire un ruolo predefinito.»

 

Sherlock non si preoccupò nemmeno di mostrarsi lusingato. Abbassò il vetro del finestrino, inspirando aria a pieni polmoni. «Intanto, qualcosa ho trovato. Un appartamento.»

 

«Finalmente, direi.»

 

«Mi serviva un posto adatto, non c’è utilità in una casa qualunque. Certo, la padrona mi ha anticipato che non mi porterà il cellulare o del cibo quando ne ho bisogno, ma per quello per fortuna ci sei tu.»

 

Victor ignorò le sue ultime parole. «Per il cibo, riguardo a questo mese, spero ti piaccia...»

 

«Il pesce, è ovvio. Uomo vecchio stile, tuo padre.»

 

Victor virò ancora, ma in modo meno brusco, poi si voltò verso di lui, sospettoso. «Sherlock, puzzo d’acciuga?»

 

«No, ma la tua mentalità è ristretta quanto quella di una sardina» fu la risposta. «Tu ordini sempre del pesce, ragiona, Victor. Gamberi e crostacei, non un pasto quotidiano per la media. Non è un fatto di gusti - tu adori la carne - quanto di abitudini. E chi mangia pesce quotidianamente per tutta la propria infanzia, se non il figlio di un pescatore?»

 

Victor in tutta risposta virò bruscamente ancora una volta.

 

«Adoro quando guidi tu, è stimolante» commentò Sherlock. «Sai quanti calcoli delle probabilità si possono imbastire sulle nostre opportunità di arrivare tutti interi a destinazione?»

 

«Sherlock, tu la prendi alla leggera, ma io...» Un’ombra calò sul volto di Victor. «Ho paura della reazione di mio padre. Se non capisse che per il momento quanto voglio è stare con te...»

 

«Romantico.»

 

Victor accese la radio dell’auto, un chiarissimo invito per Sherlock a tacere. Invito che, naturalmente, non fu accolto.

 

 

 

Donnithorpe era la provincialità fatta paese. Era chiarissimo quanto Sherlock disapprovasse la tranquillità del luogodall’evidente noia con cui osservava attraverso il finestrino dell’auto di Victor le case che gli scorrevano sotto gli occhi o le barche ormeggiate al molo. Aveva tutta l’aria di essere un ambiente paesano, privo di stimoli e noioso oltre ogni dire - a meno di non darsi all’ozio puro, ma ovviamente di questo lui non era capace.

 

Posteggiando davanti casa, Victor lo guardò con un sorrisetto. «Temo di essermi trascinato in casa uno squilibrato. Vediamo se riesci a convincermi del contrario.»

 

«Provarci non è fra le mie priorità.» Sherlock scese dall’auto, richiudendosi la portiera alle spalle, ed attese che il signor Trevor aprisse la porta.

 

«Bentornato, Victor!» esclamò questi. «Tu devi essere Sherlock, giusto?»

 

«Non mi sembra che Victor abbia molti altri amici.»

 

«Giusto, giusto.» Ridacchiò. «Benvenuto a Donnithorpe, allora» disse, accompagnandolo in casa.

 

In quella tarda mattinata di fine luglio ebbe inizio la prima, devastante vacanza di Sherlock nel Norfolk.

 

Una settimana dopo, Sherlock avrebbe di gran lunga preferito trovare un impiego come Yarder piuttosto che continuare a vivere in un posto del genere. Pesca, gamberi, noia, scampi, spiaggia, mare, astici, noia, sole, noia, il cassetto dell’armadio cinese nel bagno del piano di sopra che non voleva aprirsi, noia - noia, noia, noia - tentativi falliti di coming out. Quello era l’unico problema di Sherlock e Victor, o più probabilmente dell’intero paese o magari dell’intera contea di Norfolk, ad essere degno di nota.

 

Parlavano di questo, quella mattina, sulla spiaggia deserta, dopo essersi accertati che il signor Trevor fosse a distanza di sicurezza.

 

«Victor, ancora?» chiese semplicemente Sherlock, certo che l’altro avrebbe capito.

 

«Diglielo tu, allora!» sbottò questi. «Non capisco proprio perché tu la prenda così alla leggera, a meno di valutare l’ipotesi che tu sia un idiota.»

 

Sherlock ignorò le ultime parole, e socchiuse gli occhi, fissando l’orizzonte. «Dirglielo io, e perché mai? Vederti fare tutti quei tentativi a vuoto è talmente divertente, quasi quanto vederti trafficare con il cassetto bloccato del bagno. A proposito, perché volevamo aprirlo? Giusto, per spirito di osservazione. O qualcosa del genere.»

 

Victor si morse un labbro, sapendo che l’ennesimo battibecco probabilmente gli avrebbe fatto perfino piacere. Non capiva assolutamente come si potesse trovare odiosa quella quiete, ma in fondo c’erano tante cose che non era riusciva a capire della mente di Sherlock. Tutto quello era da un lato irritante, dall'altro quasi spaventoso.

 

«Almeno, dimmi come fare.»

 

«Hai una bocca, usala.»

 

«Baciarti davanti a lui non conta, giusto?»

 

«No.» Sorrise, alzando gli zigomi. «Un vero peccato, che ne dici?» Gli passò un braccio sulle spalle nude, mentre una mano dell’altro affondava fra i suoi ricci e la sua lingua prendeva sveltamente possesso della bocca, sfiorandone ogni ormai familiare angolo, separandosene con la stessa lapidaria rapidità.

 

Scattò in piedi. «Ho bisogno di uno stimolo.» Sbuffò. «Odio questo posto. Ma tu ti salvi.»

 

Victor scosse la testa, a metà fra il contrariato e il divertito, ripromettendosi di scegliere un posto più caotico per la vacanza successiva. O magari di evitare direttamente le vacanze, in futuro.

 

 

 

Il signor Trevor l’aveva preso in simpatia, nonostante tutto. Prendere in simpatia voleva dire però, nel suo concetto, cercare di riportarlo sulla retta via e sviarlo dagli errori di gioventù nei quali rischiava di incappare. E Sherlock non fece eccezione, anzi, il problema fu aggravato dal non concordare con il signor Trevor con tre quarti buoni delle sue idee, con tutte le drastiche conseguenze del caso.

 

«Capisco benissimo come alla tua età si possa odiare la calma, Sherlock, sono stato anch’io un ragazzo, ma vedrai che un giorno ti ricrederai.»

 

«Le assicuro che nel mio caso l’età non è rilevante.»

 

«Spesso le mie prediche sono comuni a uomini che non hanno fatto nulla di speciale, ma non è il mio caso. La mia è stata una vita molto movimentata, e-»

 

Sherlock sogghignò nell’interromperlo. «Ha viaggiato in Corea. Del Sud, scommetto. Ha anche rischiato di annegare, in passato; è un pescatore, ma teme l’acqua, vuol dire che è stata una scelta dettata dalle necessità.»

 

Il signor Trevor aggrottò le sopracciglia. «Come fai a sapere tutte queste cose?»

 

«Souvenir. Quando sono esposti possono anche essere regali, ma lasciarne tre o quattro in un sacchetto vuol dire averli comprati da sé. Ha dimenticato di distribuirli fra amici e conoscenti, e ha fatto benissimo, i pensierini sono talmente inutili.» Ingoiò un altro boccone, bevve un sorso. «Quanto alla paura dell’acqua, il suo atteggiamento quando le onde erano particolarmente alte dava l’idea di qualcuno che ne era terrorizzato. E si trattava più di un post-trauma che di una fobia.»

 

Un sorrisetto si allargò sul volto dell’uomo. «Dovrei credere a tutta questa storia? Te ne ha parlato Victor, tutto qui.»

 

«È stato strettamente legato a qualcuno di nome J. A., ma poi ha cercato di lasciarselo alle spalle» continuò, imperterrito. «Tatuaggio rimosso per metà dal braccio, cancellarlo dev’essere diventato troppo doloroso per proseguire.»

 

Il signor Trevor sobbalzò. Il colore del suo volto si avvicinava ad un pallore cadaverico. «Io non...» abbassò lo sguardo sul piatto, sospirò. «È così.»

 

«Fantastico» rispose con aria ingenua Sherlock, senza dar segno di accorgersi del cambio di atteggiamento del padre di Victor.

 

Il signor Trevor deglutì. Recuperò la forchetta, prendendo poi a sminuzzare il cibo che aveva nel piatto. Si morse un labbro, poi lo sfiorò con un boccone che aveva infilzato con la posata, senza mostrare la benché minima intenzione di riprendere a mangiare. Mandò giù un bicchiere di vino, poi sospirò ancora, poggiando il gomito destro sul tavolo e grattandosi il capo.

 

«Papà...» mormorò Victor.

 

«Non è nulla, non è nulla.» Anche un idiota avrebbe capito che era una bugia.

 

Da quel giorno, il signor Trevor cominciò a vedere Sherlock con sospetto. Cominciò tutto con un lieve disagio ogni volta che parlavano, per poi sfociare in occhiatacce ed aperta ostilità.

 

«Sherlock, ormai è impossibile fare coming out» disse Victor una sera, seduto al bordo del suo letto, sconfortato. Dal proprio, sul quale sedeva a gambe incrociate, Sherlock non trattenne uno sbuffo. «Grazie per avermelo fatto notare, senza non ci sarei mai arrivato.»

 

«Avresti potuto parlargliene a tempo debito, anziché ridere di me, sai?»

 

«Sì, avrei potuto.» Si sfiorò il braccio, tastando la consistenza dei cerotti. «Credo che tornerò a Londra, in ogni caso.»

 

Victor corrugò la fronte, sorpreso. «E perché mai?»

 

«Donnithorpe non fa per me» rispose semplicemente Sherlock. «Ed io non faccio per tuo padre.»

 

«Ma fai per me!»

 

«Non è un dramma, tornerai a Londra per la fine dell’estate.»

 

Victor sbuffò. «Lascia stare.»

 

«Come ti pare. Buonanotte.»

 

Così dicendo Sherlock si stese, gettando un’occhiata a Victor che dimostrava suo malgrado quanto gli dispiacesse che in casa ci fosse anche il signor Trevor. Giunse le mani sotto il mento e, per quanto ritenesse dormire uno spreco di tempo, cedette in pochi minuti al sonno.

 

 

 

La mattina prevista per la partenza Sherlock scese le scale a due a due, pronto per il ritorno a Londra. Un Victor ansimante lo raggiunse, con l’espressione tipica dei discorsi da lui ritenuti importanti - di sicuro un addio patetico. A fra un paio di settimane appena, poi. «Sherlock, io...»

 

«Il cellulare» tagliò corto lui.

 

«Come?»

 

«Il cellulare - dov’è il mio, non lo vedo da ore!»

 

«Oh, giusto, dev’essere di sopra.» Ridacchiò nervosamente. «Lo prendo io?»

 

Sherlock annuì, senza badarci, poi si avviò verso la cucina. Lì sedeva già il signor Trevor, spilluzzicando appena del cibo. Pallido, sì, ma non del pallore di qualche giorno prima - sembrava in preda al panico. Una lettera era poggiata all’angolo del tavolo.

 

«Ah, Sherlock, sei tu. Scusami, non so cosa pensavo.» Si morse un labbro, come se avesse avuto qualcosa da aggiungere. Il tono di voce era d’improvviso più pacato, quasi che gli avvenimenti legati questo tale J. A. non fossero mai avvenuti. «Dovresti farne una professione» disse semplicemente. «Delle tue deduzioni, intendo. Hai mai pensato di diventare un detective?»

 

«Più o meno.»

 

«In che senso?»

 

«Non è il momento» sedette, finalmente, e cominciò ad assaggiare la colazione. «Comunque è un ricatto, no? Quella» indicò la lettera.

 

Trevor sobbalzò.

 

«Pallore, lettera abbandonata sul tavolo, dimenticanza di ogni ostilità, passato losco, cosa vuole di più?» elencò, tranquillo.

 

Lo sguardo del signor Trevor avrebbe potuto facilmente uccidere qualcuno. Quella tensione, che comunque Sherlock sembrava non avvertire, fu interrotta da un’esclamazione esageratamente enfatica.

 

«Sherlock, l’ho ritrovato!» la voce di Victor lo precedette nella stanza. «Il tuo cellulare. Inizialmente in giro non c’era, ma poi-» si bloccò alla vista del padre sconvolto e di uno Sherlock perfettamente tranquillo. «Oh.»

 

Dopo colazione, era in programma che accompagnasse lui stesso Sherlock a Londra. Spalancando la portiera destra dell’auto e salendo, Victor ruppe il silenzio con falsamente allegro «E dunque, cosa hai intenzione di fare adesso?»

 

«Sottopormi alla tua guida folle.»

 

«Mi avevi capito» sottilizzò Victor. «Allora? Niente mariti fedifraghi?»

 

«Consulting detective» ovviò. «Sembra fatto apposta per me - e lo è, considerando che l’ho inventato io.»

 

«Vuoi consigliare ai detective come correre dietro ai traditori dei loro clienti?» chiese Victor, a metà fra il perplesso e il divertito.

 

«No» rispose calmo ma serio Sherlock, prendendo il viso dell’altro fra le mani. «Voglio risolvere i casi che la polizia è troppo idiota per cogliere.»

 

 

 

“Quella lettera è un ricatto. SH”

 

Sarebbe stato più sensato dirlo a Victor di persona, ma aveva umanamente dimenticato di farlo. Era quello il problema: umanamente. Per diventare un consulting detective come si deve ne avrebbe dovuta fare, di strada; intanto, meglio ragionare in modo un po’ più pratico e mandargli un sms.

 

Frugò in rubrica per il numero, sotto la lettera V, ma si rese conto che era vuota. Nessun V era memorizzato nella rubrica del suo cellulare. Pensò di essersi sbagliato per un motivo o per l’altro. Cercò anche sotto la T, di Trevor, ma non trovò nulla.

 

Rilesse l’intera rubrica, voce per voce. Nessun Victor Trevor. Nemmeno qualche dicitura sdolcinata che Victor avesse potuto inserire per fargli uno scherzo; nulla.

 

Era tutto talmente ovvio. La sparizione, la calma apparente del signor Trevor, tutto quadrava in maniera talmente perfetta da farlo quasi ridere.

 

Stupendo. Risolto. Il sorriso trionfante, però, fu dopo un attimo sostituito da una sorta di seccatura mista al capriccio infantile. Il signor Trevor stava facendo di tutto per tenerlo a distanza da sé, senza neppure badare all’amicizia fra lui e Victor, e non avevano nemmeno potuto informarlo di ciò che andava oltre la semplice amicizia. Diamine.

 

In realtà, non disapprovava del tutto il padre di Victor. Aveva agito in maniera scaltra e pulita, e Sherlock sapeva, inconsciamente, di essere lui stesso un egocentrico. Non importava, comunque - lo stava ostacolando. E se davvero voleva diventare un consulting detective, era dalle vicende limitate all’interesse personale che doveva partire, coinvolgimento emotivo o meno.

 

«Non ho la sua e-mail» ragionò ad alta voce. «Meglio evitare il telefono di casa o le visite fisiche, sarebbe barare. E dunque...» scattò in piedi, alzando di colpo la voce. «Come si può rimanere del tutto isolati da qualcuno in questo modo? Siamo nel 2004, non nel paleolitico!»

 

Mrs. Hudson si avvicinò, con aria a tratti compassionevole, a tratti puntigliosa. «Guarda che internet non è un’invenzione vecchia di mille anni, giovanotto...»

 

«Mrs. Hudson!» la donna sobbalzò. «Devo ragionare.»

 

Sherlock riprese a percorrere la stanza a grandi passi. «Potrei provare a ricrearlo da me, conoscendo il suffisso sono giusto... Sette cifre da dedurre, fanno dieci milioni esatti di possibilità, più quella che il numero cominci con uno zero. Al calcolo effettivo, sono 11.111.111 di numeri da provare. Forse è meglio trovare una strada più rapida. Come ad esempio aspettare che mi chiami lui.» Sapeva di star gettando la spugna, ma convinse se stesso di star solo aspettando il prossimo round.

 

Proprio in quel momento, il tema sms risuonò nella stanza. Sherlock sobbalzò impercettibilmente, poi afferrò il telefono.

 

“Smettila di giocare al detective. M”

 

«Non al detective» rispose ad alta voce, causando una fuga nell’altra stanza da parte di Mrs Hudson. «Ma giocando, sì. E la sai una cosa, fratellino? Non ho mai giocato più seriamente di così.»

 

D’un tratto, la soluzione degli undici milioni - e centoundicimila e centoundici - di numeri di telefono non gli pareva più tanto improbabile. Era razionale. Certo, lunga, ma in ogni caso razionale.

 

Gli venne ancora una volta in mente che sarebbe stato Victor a chiamarlo o a mandargli un messaggio, l’indomani. Attendere segnali di vita non era una tattica particolarmente astuta, ma sarebbe servita allo scopo. In barba al ragionamento, quella notte prese sonno.

 

Ma Victor non lo contattò la mattina dopo; né l’indomani, né il giorno seguente. Il gioco del signor Trevor, a quanto pareva, non era stato poi sciocco quanto aveva creduto Sherlock. Quell’uomo sembrava un idiota, ma sotto la scorza si nascondeva un cervello di una razionalità ormai indubbia.

 

«A noi due, Trevor» sbottò, innervosito dalla mancanza di risultati. «Ne uscirò, in un modo o nell’altro.»

 

Si rese conto solo in quel momento che l’obbiettivo di quel gioco non era più sentire Victor o parlargli del ricatto. Certo, Victor era ormai una costante nella sua vita, non vederlo per il successivo paio di settimane avrebbe alterato l’equilibrio delle cose, magari gli sarebbe perfino mancato - anche se non lo avrebbe mai ammesso, né con lui né con nessun altro - ma non si trattava certo di anni o secoli.

 

L’obbiettivo non era più Victor; Mycroft non era in errore, Sherlock stava giocando. E tutto ciò che voleva, in quel momento, era vincere.

 

757 0000001

 

757 0000002

 

757 0000003

 

757 0000004

 

757 0000005                                               

 

757 0000006

 

Noioso. Ripetere un procedimento del genere per undici milioni centoundicimila centoundici volte lo avrebbe indubbiamente addormentato, o probabilmente portato sino al coma; e questo anche se avesse triplicato la dose di nicotina.

 

«È un gioco, Trevor. È un gioco e, se lei è stato leale, deve esistere una soluzione più astuta.»

 

Si morse un labbro. L’idea di non essere capace di battere il suo primo nemico - no, il secondo, il primo era quello che gli aveva gentilmente consigliato di cambiare aspirazioni giusto qualche giorno prima, per sms - era insopportabile. Un insuccesso sarebbe potuto capitargli, certo, ma odiava l’idea di crollare al primo ostacolo. Si rannicchiò in un angolo, odiandosi per quell’inizio fallimentare.

 

«Mi sto comportando da idiota.»

 

Poi tacque; e, senza le proprie parole, gli interventi Mrs Hudson, gli sms di suo fratello e le proteste, i commenti, le gaffe e quel compendio di melensaggine e sdolcinatezza diabetica che erano i “ti amo” di Victor, si sentì stranamente solo.

 

 

 

Passarono un paio di settimane, al termine delle quali Sherlock non era più così sicuro di voler ancora essere un consulting detective. Era frustante - non ai livelli di fargli rimpiangere Donnithorpe, ma comunque abbastanza per innervosirlo oltre ogni limite.

 

«Non può cominciare così male, non può.»

 

«Sempre lì a far niente, giovanotto» Mrs. Hudson lo guardò con aria di rimprovero. «Come hai intenzione di pagare l’affitto?»

 

«Mrs. Hudson...» Il tema sms segnalò l’arrivo di un nuovo messaggio. «Va bene, va bene! Vediamo cosa ha intenzione di invitarmi a fare Mycroft, stavolta!»

 

“Sherlock, per piacere, vieni. Ti passo a prendere questo pomeriggio. Siamo rovinati. Victor”

 

Leggendo, Sherlock si irrigidì. Mrs. Hudson gli lanciò un’occhiata preoccupata.

 

Lui, senza dire nulla ma con un sorriso malizioso che gli percorreva il volto, afferrò il portatile - non avrebbe commesso lo stesso errore per due volte consecutive, assolutamente no - recuperò la valigia mai disfatta e prese a scendere le scale senza neppure salutare.

 

«I giovani d’oggi» commentò Mrs. Hudson, scuotendo la testa.

 

Erano le dieci di mattina. Sedette sul diciassettesimo gradino del 221b, in attesa del ragazzo. L’orario non aveva nessuna importanza.

 

Non lo faceva per il caso, tantomeno per amore, figurarsi se per stupidità. Trovava semplicemente indifferente lo stare seduto in casa rispetto allo stare altrettanto seduto su un gradino, in una mattinata bollente d’agosto, con una valigia e un portatile, e senza pranzo.

 

Era in ogni caso apatia, noia, nulla da fare. Una stasi forzata che andava avanti da quando era partito per la prima volta per Donnithorpe. Almeno, lottare contro l’arsura avrebbe spinto il suo organismo a fare qualcosa.

 

Passò un’ora, un’altra, e in quel tempo il suo cervello aveva ripreso a lavorare come al solito. Aveva brillantemente elaborato un piano d’azione. Aveva ritrovato la fiducia in quella che sperava di rendere una professione, ed in se stesso. La situazione era sotto controllo.

 

Verso le quattro - splendido, sei ore di immobilità forzata dei muscoli volontari - l’auto di Victor si fermò davanti a lui, che si limitò ad alzarsi, aprire la propria portiera e trascinare dentro la valigia.

 

«Non avevi risposto al mio messaggio.»

 

«Sono contento anch’io di rivederti, Victor.»

 

«Scusami.» Mise in moto. «Eri lì da tanto?» borbottò, nervosamente.

 

«Sei ore e quattro minuti.»

 

«Ah.» Deglutì. «Ho capito.»

 

Sherlock rimase impassibile. «Allora?»

 

«Allora che?»

 

«Siete rovinati. Mi stai trascinando a Donnithorpe in un giorno di fine agosto e naturalmente senza preavviso. Che succede, i ricatti sono degenerati?»

 

«Come sai dei ricatti?»

 

«Era ovvio» tagliò corto ancora una volta. «Com’è messa la salute di tuo padre?»

 

«Si regge in piedi.»

 

«Lo sospettavo. E ti ha chiesto lui di venirmi a prendere, sì?»

 

«Già.»

 

Calò il silenzio, mentre ognuno di loro era immerso nei propri pensieri. Fu Sherlock a parlare per primo.

 

«Credevo stessimo insieme, sai?»

 

«Eh? Oh, sì, certo.» Tamburellò con la destra sul volante. «Be’, non hai sempre odiato i convenevoli?»

 

«E tu non li hai sempre adorati?»

 

«Già.»

 

«Oh, allora va bene.» Puntò lo sguardo negli occhi di Victor, perplesso, quasi sospettoso, poi lo afferrò per il bavero e lo invitò col labbro a farsi baciare, più per rabbia che per vero desiderio, e Victor non poté che rassegnarsi ad aprire la bocca e lasciare che la lingua dell’altro colpisse la sua.

 

 

 

L’accoglienza del signor Trevor fu più calorosa di quanto avrebbe mai potuto immaginare; un’amichevole stretta di mano e un allegro «Sherlock!» erano davvero le ultime cose che si sarebbe aspettato.

 

«Buongiorno» si limitò a salutare, formale, ricambiando la stretta e mascherando la propria perplessità. Probabilmente si era perso qualche passaggio. Pazienza, in un modo o nell’altro avrebbe recuperato.

 

«Gli hai già spiegato la situazione, Victor, non è vero?» mormorò il padre, facendosi scuro.

 

«Se solo tu volessi dirmi tutto, papà, magari potrei fargli capire meglio...»

 

«Dopo cena, dopo cena» tagliò corto il signor Trevor.

 

Sherlock aggrottò la fronte, salendo di sopra. Victor, venendo su a propria volta dopo qualche minuto, sentì un risolino ironico provenire dalla propria camera.

 

«Sherlock, ma che-»

 

«Sei proprio sicuro di non aver detto nulla a tuo padre? Dov’è finito il mio letto

 

«Lo sai che è stata un’improvvisata.»

 

Sherlock alzò le spalle. «Dormo sul tappeto per necessità di copione o ne avete un altro da qualche parte? Non credo che sia il caso di dirgli di noi in maniera troppo brusca - il suo organismo dovrebbe essere a posto, ma sarebbe meglio non correre rischi inutili.»

 

Victor scosse la testa, ridacchiando nervosamente. «In un modo o nell’altro faremo, non c’è problema.» Lo trasse a sé e premette le labbra contro le sue. Sherlock ricambiò, mordendogli il labbro e stringendolo come aveva fatto poche altre volte. Sedette sul bordo del letto, lasciando che l’altro si lasciasse cadere di fianco a lui.

 

«Mi sei mancato, Sherlock.»

 

Lui lasciò che la propria schiena si poggiasse sul copriletto, e che i ricci ricadessero lì mentre venivano raggiunti dalle mani di Victor.

 

«Lo sapevo già.»

 

«Come, scusa?»

 

«Lo sapevo già.» Lo baciò un’altra volta, mordendogli un labbro e lasciando che le lingue si attorcigliassero. «Mi stupisco di come tu sia sopravvissuto, francamente, considerato la tua evidente dipendenza emotiva dalla mia presenza. O almeno, questo è quello che si evince dai tuoi discorsi.»

 

«Oh, sta’ zitto.» Lo invitò ancora a tacere, baciandolo di nuovo. «E contieniti, che mio padre è di sotto.»

 

«Come ti pare.» Lo cinse con un braccio, sorridendo con malizia.

 

 

 

«Ebbene. Ebbene.»

 

Dopo cena, come deciso in precedenza, il signor Trevor avrebbe spiegato ad entrambi con la massima sincerità la situazione. L’uomo era visibilmente preoccupato, avendo evidentemente qualcosa di gravoso da svelare. Si asciugò il sudore dalla fronte con la manica della camicia, prendendo fiato.

 

«Victor, Sherlock, io non avrei voluto...»

 

«Vada avanti» lo esortò Sherlock.

 

«Ebbene. Negli anni ’70...»

 

Bip. Il tema sms predefinito del catorcio del signor Trevor emise il proprio suono al momento meno opportuno. L’uomo cominciò a tremare mentre allungava la mano verso il mobile accanto, borbottava qualcosa di indefinito su «queste nuove tecnologie» e controllava fra i messaggi in arrivo.

 

Se aveva avuto un cattivo presentimento, dal suo volto si evinceva che quel presagio si era avverato. Non era sorpreso, ma evidentemente nel panico. «Scusatemi un attimo, ragazzi. Il... bagno...» Si alzò, zoppicando verso il corridoio.

 

Victor rimase sbigottito per qualche secondo, poi fece per correre a raggiungerlo.

 

Sentì una mano premergli sulla spalla per trattenerlo. «Non è il momento» si giustificò semplicemente Sherlock, per poi portare tutta la propria attenzione al cellulare. «Questo, Victor, è il mio primo caso.»

 

L’interpellato sorpassò il considerare tutto un gioco di Sherlock con un’evidente fatica, ma si limitò a borbottare un «Che dice l’sms?»

 

“8 21 4 19 15 14”

 

«Sono dieci numeri» osservò.

 

«Grazie, Victor, senza il tuo aiuto non me ne sarei mai accorto - è ovvio che siano dieci numeri. Dobbiamo capire che senso hanno, ci deve essere un senso.»

 

«Un codice concordato?»

 

«Può darsi. Passami il portatile.»

 

«È di sopra.»

 

«Non ho fretta. Ci sarà un motivo se ho bisogno di un assistente.»

 

«Non sapevo di essere-»

 

«Ora lo sai.»

 

Attese che Victor lo raggiungesse con il pc, poi lo prese senza ringraziare - e guadagnandosi uno sbuffo - e lanciò Internet e un motore di ricerca. Lo stesso sorriso malizioso di qualche ora prima gli si affacciò sul volto mentre aspettava il caricamento. La situazione era grave, e proprio per questo lo eccitava. Fu allora che scoprì di amare il pensiero febbrile, le corse contro il tempo, l’adrenalina unita al pericolo reale, la sensazione dell’ovvio alla fine, il rimboccarsi le maniche. Ancora preda di queste sensazioni, digitò:

 

“crittografia simmetrica”

 

Alzò lo sguardo. «Dì un po’, Victor» cominciò. «Sai nulla sulle crittografie?»

 

Quella tranquillità, quei modi posati erano ormai troppo. «No, Sherlock, non so nulla, è per questo che ho chiesto il tuo aiuto!» sbottò. «Non è un gioco.»

 

«Cambia qualcosa?» chiese Sherlock, tranquillo. «Ora io cerco di risolvere questa crittografia, intanto girati pure i pollici, ma assicurati che abbia quanto necessario.»

 

«Per non alzare il culo?»

 

«Per risolvere il mio primo caso.»

 

Victor non ribatté, per quanto ancora più irritato. Suo padre non si decideva a tornare. «Potremmo andare a cerc-»

 

«Lavoro da solo.» Scattò in piedi, lasciando la sedia a distanza dal tavolo, e cominciò a percorrere la cucina a grandi passi. «Mi ero sbagliato. Tuo padre non ha usato una crittografia. Sarei per un codice più semplice...» Victor intanto aveva preso a prendere qualche appunto su un foglio. «Probabilmente un cifrario, o una formula particolare, magari esotica... No. Allora...»

 

«Mai pensato che potrebbe essere più semplice di quello che credi?»

 

Sherlock si bloccò. «È una confessione?»

 

«Solo una constatazione. Vedi, se sostituisci lettere e numeri, il risultato è “Hudson”. E l’ho sentito borbottare a mio padre mentre leggeva le lettere. Bene, ora sappiamo che l’sms è collegato al ricatto, e ti assicuro che c’ero arrivato perfino io che sono così idiota!» Pronunciò le ultime parole con una stizza isterica che rivelava tutta la sua prostrazione mentale.

 

«Non solo questo, sappiamo anche che l’sms l’ha inviato qualcun altro e che questo altro è un idiota. Utilizza un codice che di solito ho visto in mano ai bambini delle elementari.» Notò solo in quel momento l’espressione spossata di Victor. «Vedo che il sonno è più forte della tua volontà, comunque. Lascia che me la sbrighi da solo» commentò, senza mostrare empatia, e sembrava più che altro un invito a fare il contrario.

 

«Tu...»

 

«Io ho altro da fare. Per prima cosa, vedere che fine ha fatto tuo padre.»

 

«Ti sei fatto un’idea sbagliata di me, quindi. Credere che io vada a dormire in una circostanza del genere.»

 

Si avviarono di sopra; a passo spedito, come prendendo coscienza solo il quel momento della situazione. Il bagno era vuoto. Victor sgusciò per primo verso la camera, aprendo la porta cigolante. Il signor Trevor era immobile, il respiro affannoso. Lo sguardo era fisso nel vuoto.

 

«No» borbottò Sherlock. «No, no, no. Signor Trevor! Signor Trevor!» Lo afferrò per le spalle, scuotendolo.

 

«Prendi dell’acqua» intimò a Victor. «Veloce, dell’acqua. Ho il dubbio che sia in catalessi.»

 

Schiaffeggiò il volto dell’uomo mentre i passi di Victor risuonavano lungo le scale. Non si svegliava. Non appena l’altro fu accanto a lui tenendo in mano una bottiglia d’acqua naturale, Sherlock gliela strappò di mano, svitò il tappo e bagnò il signor Trevor senza troppe cerimonie. Non appariva nervoso quanto avrebbero comportato le circostanze, ed anzi agiva sveltamente ma con razionalità, a differenza di Victor, che era rimasto succube degli eventi.

 

«Sherlock, perché non sei corso qui subito?»

 

«Dovevo assicurarmi di un paio di cose. Il 999, chiama tu - io ho da fare.»

 

Victor aggrottò la fronte, perplesso.

 

«Chiama.»

 

Il ragazzo si dileguò. Sherlock si morse un labbro. Sapeva perfettamente cosa fare.

 

 

 

 «Quasi quanto vederti trafficare con il cassetto bloccato del bagno.»

 

«Scusatemi un attimo, ragazzi. Il... bagno...»

 

 

 

Corse nella stanza. Due ante, sormontate da un cassetto di un marroncino chiaro. I piedi, eleganti e neri, che si slanciavano verso il pavimento. Tovaglie accatastate sopra e dentro, e il cassetto che era sempre stato impossibile da aprire. L’armadietto cinese.

 

Sul davanzale della finestra del bagno giacevano una penna e un blocco appunti. La disposizione della polvere indicava come qualcuno di estremamente teso vi avesse poggiato il gomito tremante. Per scrivere qualcosa, era ovvio.

 

 

 

«Se solo tu volessi dirmi tutto, papà, magari potrei fargli capire meglio...» «Dopo cena, dopo cena»

 

«Questo, Victor, è il mio primo caso»

 

 

 

E, accanto, c’era anche una chiave. Il signor Trevor l’aveva sempre avuta.

 

Un segnale chiarissimo.

 

La strinse, con la lapidaria certezza di essere arrivato alla prima tappa della corsa; la inserì poi nella serratura del cassetto - arrugginita, troppo arrugginita, stava perdendo tempo prezioso - e con un po’ di sforzo spalancò l’anta. Dentro c’era un foglio chiaramente strappato dallo stesso block notes che aveva visto prima.

 

Un sorriso esausto ma esultante gli si dipinse il volto mentre la estraeva.

 

 

 

Caro Victor,

 

se stai leggendo questa lettera, probabilmente io non sono più

 

 

 

«Sherlock!»

 

Gli occhi cerchiati di Victor fissavano la lettera, l’armadietto aperto e le chiavi appese.

 

 

 

in vita.

 

 

 

«Mmh.» Infilò la lettera in tasca. «Ho risolto il caso.»

 

«Dovrebbe importare?» sbottò Victor. «Mio padre sta male, è appena arrivata l’ambulanza e a te fotte solo del tuo stupido caso?»

 

«Devi solo decidere se sono qui in veste di tuo ragazzo o di consulting detective.» Appoggiò la schiena al davanzale della finestra, tranquillo. «O di entrambe le co-»

 

«Cazzo, Sherlock, sbrigati!»

 

«Sai che ti dico?» lo guardò negli occhi. «Hai ragione. Veloce, vieni.»

 

E prima che Victor potesse ribattere era già corso di sotto.

 

 

 

«Si tratta di un coma psichico. Il malore è generato da un evento traumatico e oppure o da uno stato di prostrazione prolungata. Vi viene in mente nulla che possa aiutarci a...?»

 

Victor aprì la bocca per rispondere, ma fu bloccato da una gomitata di Sherlock.

 

«Trauma psichico? Mi suona strano, è sempre stato un uomo così tranquillo» recitò quest’ultimo. «Pensi... pensi che solo ieri parlava della pesca dei crostacei nella contea del Norfolk con una tale allegria che... Mi dispiace da morire che gli sia successo qualcosa del genere.» E mise su un’aria tanto mesta, che avrebbe ingannato perfino il se stesso di qualche anno dopo.

 

Per quanto fosse buona la sua recita, però, la gomitata aveva insospettiva quello che dal cartellino appeso al camice si poteva riconoscere come il dottor Cooper. «Rendetevi conto che se state nascondendoci qualcosa non lo aiutate affatto» li riprese, con il tono di chi si rivolge a un bambino capriccioso che non sa quanto stia rischiando. Victor ricevette un’altra gomitata.

 

Sherlock eseguì la perfetta imitazione di un sospiro. «Le assicuro che noi non sappiamo nulla... magari è successo qualcosa di grave e non ci siamo resi conto, non so... Vi prego davvero di fare il possibile...»

 

Il dottor Cooper scosse la testa. «Faremo anche l’impossibile, ma non è detto che basti. Vi daremo notizie non appena potremo» e si allontanò, reggendo la cartella clinica. Era evidentemente abituato a scenari di quel genere, ma aveva tutta l’aria di chi si dispiaceva ogni volta. Sherlock lo archiviò fra gli esempi da non imitare.

 

Victor tremò, stringendo la sedia della sala d’attesa, poi prese a piangere in silenzio. «Avresti potuto dirglielo» mormorò fra le lacrime. «Sarebbe stata una speranza in più.»

 

«Tuo padre avrebbe preferito la morte a vedere il proprio passato reso pubblico. E non tiro a indovinare, è un punto di vista che non condivido, ma ho prove ragionevoli per dire che sia così.»

 

«Non m’importa nulla delle tue prove ragionevoli!» sbottò ancora una volta. «Tu non sai nemmeno qual è, questo passato.»

 

«L’ho in tasca.» Estrasse la lettera, guadagnandosi un’occhiata perplessa da parte di Victor. «Non l’ho letta, ma nelle prime righe dice di attendere la sua morte prima di andare avanti. Ora è scelta tua. Io, se fossi in te...»

 

«Mettila via. Non mi va di sapere.»

 

Sherlock alzò le spalle, ma gliela porse comunque. «Io non saprei cosa farmene. Decidi tu quando; fossi in te, anche subito.»

 

Victor scosse la testa, infilandola in tasca. Ora le lacrime avevano ripreso a scendere. Senza nessuna ragione apparente, lo abbracciò. «Ehi» disse Sherlock, che non si era mai trovato nella situazione di confortare qualcuno e non sapeva neppure da cominciare. Respirò profondamente, cercando di mantenere la calma. «Potrebbe vivere come morire» disse, senza mezzi termini e senza cercare di addolcire la pillola. «Non ho elementi per comunicarti la probabilità esatta.» Lo baciò su una tempia, ignorando le occhiate della gente intorno. Mai più coinvolgimento emotivo durante un’indagine, mai più.

 

Passarono le ore. Victor aveva smesso di piangere. Stava gettato sulla sedia, rassegnato, poggiando una mano sul capo.

 

Sherlock percorreva la stanza a grandi passi. Il cerotto aveva cessato il proprio effetto, così spesso Victor lo vedeva avvicinarsi alla macchinetta e sostituire la nicotina assente con la caffeina.

 

La situazione era stagnante, apatica. Poi, finalmente, una notizia.

 

Sherlock mandò giù un’altra tazzina e realizzò solo in quel momento perché avesse confortato di cuore Victor qualche ora prima, perché non avesse ancora letto la lettera nonostante la sete di risposta e probabilmente anche cosa stesse facendo lì - capì di star realmente soffrendo nel vedere Victor riprendere a piangere.

 

 

 

«Capisco benissimo come alla tua età si possa odiare la calma, Sherlock, sono stato anch’io un ragazzo, ma vedrai che un giorno ti ricrederai.»

 

«Dovrei credere a tutta questa storia? Te ne ha parlato Victor, tutto qui»

 

«Dovresti farne una professione. Delle tue deduzioni, intendo. Hai mai pensato di diventare un detective?»

 

 

 

La settimana successiva ai funerali fu immersa nell’apatia più totale, eppure Sherlock non riusciva a lamentarsene. Né riusciva a trovare la forza di allontanarsi, lasciando Victor da solo lì a Donnithorpe. Eppure odiava quella situazione, la odiava dal profondo; era bloccato dal dolore di Victor stesso - e dalla sofferenza che, anche se non lo avrebbe mai ammesso, causava anche in lui - e dalle circostanze. Era bloccato nell’apatia e nel silenzio, nel ristagno intellettuale, ma a quel punto non solo vedeva quella situazione come l’unica possibile, ma anche come l’unica accettabile. Che ne aveva fatto di se stesso?

 

«Victor, devo parlarti.»

 

Victor sospirò, senza rispondere, invitandolo tacitamente a parlare.

 

«La lettera. Che hai intenzione di fare con la lettera?»

 

«Leggila tu» rispose d’impulso. «Ad alta voce.»

 

Sherlock si sentiva inadatto a quel ruolo, ma il blocco era più forte di lui. E l’amore, probabilmente, anche.

 

 

 

“Caro Victor,

 

se stai leggendo questa lettera, probabilmente io non sono più in vita. Se così non è, ti prego di eliminare definitivamente questo appunto e di non pensarci più.

 

Se invece non sono più con te, è giusto che tu conosca cosa mi ha così mortalmente terrorizzato. Non ho fatto in tempo a parlartene, e temo sia meglio così, perché non ne avrei avuto comunque il coraggio. Temo il mio passato; temo me stesso, in fondo. Ho temuto quando fu smascherato il tatuaggio semi cancellato delle mie vecchie iniziali, J. A.

 

Non mancano le cose delle quali dovrei giustificarmi, il tempo è poco e non mi sento bene. Ho paura che sia la fine.

 

Al tempo mi chiamavo ancora James Armitage ed ero un giovane pressoché normale. La mia vita cambiò radicalmente quando fui condannato per un crimine che non avevo commesso.

 

In quel periodo era usanza che i prigionieri venissero trasportati in camion o in nave, a seconda della lunghezza del percorso; il mio e quello degli altri detenuti fu uno dei casi più precoci di applicazione dell’aereo nel campo. Non esistevano velivoli specifici, solo mezzi solitamente adibiti ai voli civili sfruttati per l’occasione, e il nostro aereo portava il nome di Gloria Scott.

 

Fra gli altri detenuti c’è n’era uno che attirò subito la mia attenzione. Di solito, a immaginare un carcerato viene in mente o il classico criminale dal volto rude e armato sino ai denti, oppure un mingherlino, innocente o pentito, dalle spalle curve e lo sguardo spento, e dopotutto io appartenevo a questa categoria. Lui, no.

 

Probabilmente si trattava della sua altezza spropositata, o dello sguardo a metà fra il sereno e lo strafottente. In ogni caso, stravolse il mio umore. Forse c’era ancora speranza, se lui riusciva ad essere ancora tanto luminoso.

 

Ci fecero sedere, ammanettandoci a due a due, e solo quando venne il mio turno mi resi conto di come lui si trovasse esattamente accanto a me.

 

Lo osservai per diversi minuti, intanto che il motore veniva avviato, ma quello non dette segno di prestarmi troppa attenzione.

 

Passarono delle ore interminabili, senza che accadesse nulla di degno di nota. Pensai che quello fosse solo l’inizio, e ricaddi nello sconforto, mentre le manette ci costringevano i polsi.

 

Dopo non saprei dire quanto tempo le guardie si diedero il cambio. Solo allora l’uomo al mio fianco si voltò verso di me, con un sorriso astuto sulle labbra.

 

“Tu” disse, in tono concitato. “Grazie alla nuova guardia possiamo fare quattro chiacchiere, amico.”

 

“Magnifico” risposi. “Buongiorno. Il mio nome è James Armitage, vuole un tè o solo dei pasticcini?”

 

“Non scherzare” rispose, continuando a darmi del tu. “Sono Jack Prendergast.”

 

“Buongiorno, signor Prendergast.”

 

“Tu non sai chi sono io, Jim.” Sorrise, guardandomi in volto.

 

“Lei è Jack Prendergast. Ed il mio nome è James.”

 

“No, tu non sai chi sono io. Hai sentito di quel furto di trentamila sterline, quello incredibile? Il ladro è stato arrestato per un’emerita botta di culo.”

 

“Ed il ladro è lei” ovviai.

 

“Naturale. Ma il bottino, che fine ha fatto?”

 

“Non è stato trovato” risposi.

 

“È tutto in mano mia. E un uomo che ha in mano un bottino del genere è un uomo che può tutto.”

 

“Ah-ha, davvero, ammirevole!” sbottai. “Ora le- no, ora tu vorrai conoscere le mie prodezze, non è vero? Fantastico, devo deluderti. Sono innocente.”

 

“Fa nulla.” Scosse la mano ammanettata, muovendo di conseguenza anche la mia e facendo tintinnare il metallo. “Senti questo rumore? Credi davvero che un uomo che può tutto se ne resterà qui a marcire con le manette alle mani?”

 

No, naturalmente. “E mi vuoi come complice.”

 

“Certo, Jim. Ne sarai ricompensato.”

 

“Jim è come mi chiamava la nonna. Il mio nome è James.”

 

“Jim, parla con i due della fila dietro alla nostra. Io farò lo stesso con quella anteriore, abbiamo tutto il tempo di organizzare la fuga.”

 

Gettai un’occhiata fuori dal finestrino. “Prego?”

 

“Oh, vedrai. Coinvolgi i due detenuti della fila posteriore, intanto.”

 

Non avevo molto da perdere. Non mi fidavo di Prendergast, certo, ma aveva un aspetto rassicurante, nonostante tutto, e l’idea della condanna era sufficiente per convincermi di tentare l’impossibile.

 

Informai Evans e Beddoes – così si chiamavano i due detenuti; e Beddoes è quel vecchio amico che ci fa visita ogni tanto, sì – che erano evidentemente di tempra diversa dalla mia, poiché accettarono la proposta con un certo entusiasmo. Ricordo che pensai che quello sarebbe stato un buon sistema per evitare arresti di innocenti, ma finii per ritrovarmi coinvolto in prima persona.

 

Dopo diverso tempo, Prendergast tese la mano libera al centro del corridoio, alzando il pollice. Voltò il capo verso di me. “È il segnale. Todd saprà come muoversi.”

 

Todd era la guardia. Cominciò a passare fra le varie file, lasciando qualcosa ad ognuno. La pistola arrivò anche alla mia mano libera; poi Todd ci liberò dalle manette e diede due armi a Prendergast.

 

“Due, Prendergast?”

 

“Chiamami Jack.”

 

Sporse il capo nel corridoio centrale. Todd segnalò l’okay, aveva concluso il giro.

 

Scattò in piedi, avviandosi a passo svelto verso la cabina del comandante. Sentii diversi colpi di pistola, evidentemente stava lottando contro delle guardie.

 

Per i minuti successivi, tutto fu caos. Credo di aver combattuto, cercando di aprirmi una strada nella massa, per poi raggiungere Prendergast stesso; lo trovai completamente cambiato. Non aveva più quell’aria di sfida ma comunque luminosa; sembrava un animale. Teneva la pistola puntata alla tempia del comandante.

 

“Deve seguire tutte le mie indicazioni, ha capito?”

 

“Jack…”

 

“Mi uccida, piuttosto!”

 

“Jack…”

 

“Jim” sembrò notarmi solo in quel momento, ma riprese ad ignorarmi un attimo dopo. “Mi ascolti, lei deve-”

 

“Non se ne parla.”

 

“Jack!”

 

“Come le pare!”

 

Premette il dito sul grilletto. Il rumore dello sparo mi perforò le orecchie – quelle dell’ucciso quasi più non si vedevano, coperte dal sangue che scendeva copioso dall’unica tempia mi fosse visibile. Quello rantolò, il volto contratto da un’espressione di dolore, poi si accasciò contro la parete della cabina.

 

“Jack!”

 

Senza dar segno di avermi notato, si avvicinò al posto di comando.

 

“Sai pilotare questo coso?”

 

“Non può essere troppo difficile” rispose lui, visibilmente nel panico.

 

“Non può essere cosa?!” Corsi fuori dalla cabina, guidato dall’istinto di sopravvivenza. Mi feci strada nella mischia, sparando praticamente colpi a caso, alla ricerca di Evans o Beddoes.

 

Trovai il primo giacente riverso su due sedili, insanguinato – non mi soffermai su quella vista più del dovuto – e l’altro intento a sparare ripetutamente contro una guardia già in fin di vita.

 

“Beddoes!”

 

“Armitage?” si voltò.

 

“Dobbiamo andare, ora. L’aereo precipiterà a breve. Veloce, paracaduti, giubbotti di salvataggio, qualunque cosa.”

 

Estrassi l’occorrente da sotto due dei sedili e lo passai a Beddoes. Ciò di cui mi accorsi in seguito, mentre stringevamo le fibbie dei giubbotti o controllavamo le corde dei paracaduti, era che una delle guardie, Hudson, ci stava imitando.

 

E questo è quanto c’è da sapere. Chiederei il tuo perdono, dopo tutto ciò, anche se probabilmente chiederei davvero troppo.”

 

 

 

«Davvero pessimo, per essere un piano criminale.»

 

Notò l’espressione di Victor, e preferì non leggergli nemmeno l’ultimo paragrafo della lettera.

 

 

 

Stava a guardare Victor superare progressivamente il dolore, in un insolitamente rispettoso silenzio. In realtà aveva un paio di cose da dirgli, ma per la prima volta provava qualcosa di simile all’empatia per un altro essere umano. Non al livello di stringerlo come quella sera in sala d’attesa, né di consolarlo, ma con quel muto rispetto che se proveniente da lui, dal quale si sarebbe aspettato solo sarcasmo fuori luogo o insofferenza, assumeva per Victor un valore nuovo.

 

Eppure Sherlock sapeva bene di non poter tacere per sempre - così decise di sfidare l’immobilità silenziosa della casa con uno spigliato «Allora?»

 

Victor rimase impassibile, senza alzare gli occhi dal tavolo di quella cucina che ne aveva viste troppe. «Allora che?» chiese di rimando, atono.

 

«Allora, torni a Londra?»

 

«Be’, sì, credo di sì.»

 

«Victor.» Sherlock si alzò, guardandolo con un’aria imperscrutabile. «Io ti devo ringraziare.»

 

Victor aggrottò la fronte. «E perché?»

 

«Per cinque ottimi motivi.»

 

L’altro alzò un sopracciglio, perplesso. «Non è il momento per un qualche giochetto, lo sai?»

 

«Ho taciuto per giorni, è il momento che ti dica le cose come stanno. Primo, senza di te non avrei mai davvero capito quale fosse la mia strada.» Sorrise, ma di un sorriso amaro, del tutto spoglio della solita vena maliziosa. «Secondo, mi hai offerto il mio primo caso.»

 

«Non sono contento che mi sia capitato, Sherlock.»

 

«Avrei solo voluto evitare che la situazione degenerasse, ma, davvero, ho fatto il possibile.» Parlava con franchezza, ma senza perdere il sottofondo amaro che dalla lettura della lettera accompagnava sempre le sue parole. «Cercavo solo di dargli tempo di scrivere la lettera ed al contempo di assicurarmi che il criminale in tutta questa storia non fosse proprio lui... Non potevo prevedere un coma psichico.»

 

«Non te ne faccio una colpa.»

 

«È lo stesso» riprese, con un tono falsamente noncurante. «Terzo, grazie a te mi sono reso conto di come agire sul piano razionale e su quello umano - farei meglio a dire, disumano. Mi ha fatto capire quanto sia fuorviante il coinvolgimento emotivo, quanto bisogni evitare ogni distrazione; soprattutto, mi hai fatto capire che si ragiona da soli, ma si lavora con un assistente.»

 

«Sono il tuo assistente?»

 

«Lo sei stato» non gli diede modo di ribattere. «Quarto, non bisogna mai, mai fidarsi di qualcuno. Posso riporre la più completa fiducia solo in me stesso, e nemmeno.»

 

«Sherlock...»

 

«Quinto, uno che sicuramente terrò a mente, tu mi hai insegnato quanto possa essere dannosa una relazione.»

 

Victor impallidì, l’aria colpevole, mordendosi un labbro. «Non avrei voluto cancellarlo.» Deglutì. «È stato un momento di debolezza. Pensavo davvero che sarebbe bastato dimenticare un numero per fare lo stesso con te. Ho solo avuto una possibilità che non avrei voluto avere e, insomma, alla fine hai capito tutto.» Lo guardò, ridacchiando quasi a dispetto della situazione. «Se dovessi trovare in giro un altro consulting detective, Sherlock, cerca di non innamorartene. Si accorgerebbe subito che saresti stato tu ad isolarlo.»

 

«Perché?» appariva sinceramente perplesso, anche se ormai Victor poteva facilmente rendersi conto di quanto fingesse. «Perché lo hai fatto, intendo. Le parole sono troppo distanti dalla tua visione del mondo per essere adeguate?»

 

Victor non rispose. E a Sherlock vennero in mente sin troppe cose, a partire dal giorno nel quale si era visto arrivare contro un bull terrier indemoniato. Una volta portato all’infermeria aveva maledetto un centinaio - o due, tre - di volte l’interezza della specie canina e quella dei padroni che non tenevano i propri cani al guinzaglio, non essendo fisicamente in grado di affrontare dieci giorni di riposo senza impazzire. Era stato un momento particolare.

 

 

 

Sentì dei passi, e vide avvicinarsi un giovane, probabilmente suo coetaneo, che riconobbe subito come il proprietario del cane.

 

«Ehi» salutò il visitatore. «Ho pensato di passare a controllare che stressi bene... Anche a scusarmi. È doloroso?»

 

«Solo noioso» rispose Sherlock, spigliato, col risultato di mettere il proprietario del cane ancora maggiormente a disagio.

 

«Non credo di averti mai visto, in giro» cominciò comunque quello, in un tono che voleva essere cordiale. «Piacere, il mio nome è Victor. Trevor Victor. E il bull terrier è Nate.»

 

«Sherlock Holmes» si presentò l’altro, tendendo la mano verso l’alto in un gesto chiaramente meno amichevole di quello che ci si sarebbe potuti aspettare.

 

Victor Trevor la strinse.

 

 

 

«Ma che stai dicendo?»

 

Sherlock alzò gli occhi al cielo. Che non si mettesse a negare, no, sarebbe stato così stupido...

 

«Non avevo subito pensato a te; anzi, ero convinto che fosse stato tuo padre. Stronzate.» Sorrise, ma ancora una volta il suo sorriso di allegro non aveva nulla. «Tuo padre detestava cordialmente ogni forma di tecnologia, ad eccezione degli sms. Non era comunque in grado di cancellare un numero da una rubrica. D'altra parte non è l'unica prova contro di te. Da questo...»

 

«Non è un gioco, Sherlock, è la nostra vita!»

 

«Può darsi.» E aveva scrollato le spalle, con una naturalezza apparente che di naturale non aveva nulla.

 

 

 

Allo scadere dei dieci giorni prescritti Sherlock tirò un sospiro di sollievo per il ritrovato movimento, ma si scoprì a dispiacersi per la certa fine delle visite di Victor. Che però non si conclusero, anzi, finirono per allungarsi ulteriormente. «Sono guarito» obbiettò.

 

«Non hai mai avuto un amico?»

 

«No.»

 

«Neppure io.» E gli aveva teso la mano. Sherlock l’aveva stretta. Era la seconda volta che sentiva il tocco di quelle dita, ma stavolta c’era meno freddezza in quel contatto.

 

«Nel caso te lo stessi chiedendo, neppure una fidanzata. Non mi interessano le ragazze.» Aveva fatto una pausa. «Neppure i ragazzi.»

 

«Amante della libertà?»

 

«No, della solitudine.» Sedette a gambe incrociate, l’aria disinvolta. «Studio da solo, ragiono da solo, lavorerò da solo quando avrò finito di documentarmi come si deve.»

 

«Per fare cosa?»

 

«Non ne ho la benché minima idea.» Socchiuse un occhio. Non era vero, naturalmente. «Passeggi molto per il parco, comunque. Studi lì?»

 

«Mi hai seguito!»

 

«Hai le scarpe sporche di fango non solo sulla suola, ma anche sulla punta. Pozzanghere così grosse le trovi o nel parco, o fuori dal College. Ti macchi ogni giorno, è improbabile che tu vada chissà dove, anche perché trascorri lì molto tempo.»

 

«Che cos’è, un numero da circo?»

 

«No, è quello che so fare. E comunque ti stavo avvertendo che da domani verrò anch’io.»

 

In quel momento aveva informato Victor di quali erano le condizioni per vivere a contatto con lui. Stranezze da sopportare, soprattutto; e, quando andava male, anche un pessimo carattere.

 

 

 

«Hai fatto coming out senza dirmi nulla. Non sai spiegarmi questo fatto, giusto? Sbaglio a dire che tuo padre ti aveva appena chiesto di chiamarmi da Londra quando ti è venuta la brillante idea di dirgli che stiamo, sarebbe meglio dire, stavamo insieme, probabilmente nella speranza che reagisse male? Ma non ti senti ancora più idiota della media alla quale ti giudicavo superiore?»

 

«Sì, Sherlock. Da morire.»

 

 

 

«Vedi, Victor, rompere le palle è davvero una pessima cosa.» Sedette,tranquillo.«Tu mi hai rotto le palle in infermeria prima e nelle tue visite sempre più lunghe dopo, mi hai continuato a rompere le palle anche quando sono guarito venendo qui a fare non si capisce cosa, il tuo cane mi ha morso la caviglia e virtualmente rotto le palle, e il risultato è che siamo diventati amici, il che è davvero una pessima cosa.»

 

«No, non lo è.»

 

«Hai del coraggio.»

 

 

 

«Non volevi rivedermi, ma eri ancora innamorato di me. E conoscendoti lo sei tutt’ora. Spiegami semplicemente perché l’hai fatto.»

 

Victor sospirò. «La verità è che io ti ho sempre temuto, Sherlock.»

 

«E perché, scusa?» Non sembrava dispiaciuto né alterato, solo atono ed indifferente.

 

«Dovresti essere me, per capirlo.» Ridacchiò nervosamente. «Non è semplice essere innamorati di un sociopatico ad alta funzionalità. Non parlo di come riduci i miei nervi, ma dei lati inquietanti del tuo comportamento. Non è stata una decisione ragionata, posso giurarlo, solo una follia. Tu incuti paura, Sherlock. I tuoi sbalzi d’umore...»

 

Sherlock sorrise, ancora una volta senza allegria. «Li affrontano anche i ragazzi etero, quando le ragazze hanno le mestruazioni, almeno compensiamo da questo punto di vista.»

 

«La tua noia costante, le tue stranezze, la nicotina...»

 

«Lo sai, mi stimola.»

 

«Il fatto che sai ogni cosa di chi ti sta davanti. No, non dirlo, lo so che è il tu lavoro» sospirò. «Vedi, quando hai scoperto del passato di mio padre ho capito che con te sarei vissuto per sempre come un libro aperto, senza la possibilità di tenere neppure un pensiero fuori dal tuo controllo.»

 

«Certo, perché infatti se io non avessi avuto queste facoltà tu avresti cinque amanti, saresti stato un serial killer e mi avresti avvelenato il cibo con del lassativo.»

 

«Non intendo questo. Avevi dimostrato giusto un attimo prima di fregartene di me...»

 

«Evitavo di fare il melodrammatico.»

 

«Ho solo desiderato la normalità, ho fatto una cazzata, certo, ma tu non sei una persona normale.»

 

«Benissimo» rispose Sherlock, ancora una volta atono. «Allora parlane con Nate. Digli di azzannare una caviglia a qualcuno di normale, la prossima volta.»

 

 

 

«Rompere le palle ha sempre dei pessimi effetti. E adesso, con i tuoi stupidi mugugni incerti, le stai rompendo ancora una volta. Cosa vuoi?»

 

«Senti.» Victor deglutì. «Quando hai detto che non ti interessavano le ragazze...»

 

«E nemmeno i ragazzi» precisò Sherlock.

 

«... eri serio?»

 

«Non avrei dovuto esserlo?» Gli venne in mente quanto fosse divertente starlo a guardare mentre cercava di fornirgli informazioni delle quali lui era già perfettamente al corrente. E di quanto fosse bello starlo a guardare, anche se questo non l’avrebbe mai ammesso. «È una discussione sterile, questa, una perdita di tempo. Avanti, dimmi tutto quello che hai da dirmi e poi torniamo ad occupazioni più costruttive.»

 

«Sono gay» buttò lì Victor, sapendo di potersi in ogni caso fidare.

 

Sherlock alzò le spalle, affatto sorpreso. «Se era tutto qui, potevi anche risparmiarti il viaggio. Lo sapevo già.»

 

«Non è solo questo» continuò Victor, infastidito ma anche sollevato. «Volevo dirti anche che-»

 

«Lo so, lo so, sei innamorato di me.» Afferrò in mano un libro di chimica, prendendo a giocherellare con il segnalibro. «Nient’altro?»

 

Victor si morse un labbro, evidentemente innervosito dal suo modo di fare ma ancora una volta a disagio. «Che vuol dire “nient’altro”?»

 

«Vuol dire “hai finito di parlare o hai qualcos’altro da dire?”. O, parafrasando, “perché me ne hai parlato?”.»

 

«Oh, be’, sai com’è» rispose al sarcasmo col sarcasmo. «Magari avrebbe potuto interessarti.»

 

«Nessuno dice nulla “perché avrebbe potuto interessare”, nessuno dice qualcosa solo per informazione, sarebbe troppo altruistico. Non essere mai troppo altruista, è talmente inutile.»

 

Lo spinse contro il muro, tenendogli salda la mano su una spalla, mentre l’altra affondava fra i suoi capelli, quegli stessi ciuffi castani che andarono a strofinare contro la parete. Aprì la bocca nell’avvicinarsi al volto di Victor, e questi lasciò che la lingua di Sherlock si insinuasse fra le sue labbra.

 

Victor ricambiò un attimo dopo, cingendolo con un braccio e quasi giocando con la sua lingua. Aveva un tocco gentile, che Sherlock ricambiava con una certa potenza quasi aggressiva; fu poi lui stesso a separarsene, soffermandosi per un ultimo attimo per poi uscirne in modo improvviso, e sorridere alzando gli zigomi.

 

Sapeva quanto l’amore fosse stupido, quanto fosse fuori dai suoi piani, quanto aveva sempre malgiudicato Victor prima di rendersi conto di quanto fosse diventato importante nella sua vita. Ma c’era la quello che stava provando in quel momento - felicità. E quello gli bastava, e quello gli era bastato fino a quel giorno degli inizi di settembre, quando si era reso conto di essere a conti fatti un idiota.

 

Perché solo un idiota avrebbe potuto non accorgersi di tutte quelle prove schiaccianti. Si era bendato di propria mano. Ora ne avrebbe pagato le conseguenze.

 

 

 

«Torno a Londra.»

 

Victor non ebbe la forza di commentare. «Ti auguro di trovare qualcuno che ti apprezzi come sei, Sherlock» mormorò semplicemente. «Te lo auguro di cuore.»

 

«Non sarebbe una gran cosa, non mi va di avere un’altra relazione.» Si avviò di sopra per rifare la valigia. «Sarebbe inutile e dannoso.»

 

Victor lo osservò per un altro, singolo istante, poi accennò un saluto.

 

 

 

“crittografia simmetrica”

 

Medicina e chimica non bastavano, non sarebbero mai bastate. Era necessario informarsi su diverse branche specifiche che avrebbero potuto servirgli per le indagini.

 

Aveva un dubbio, però - un dubbio che lo perseguitava da quando era tornato a Londra.

 

Quanto spazio c’è in un cervello?

 

Se il cervello umano era paragonabile all’hard disk di un computer, allora doveva sicuramente possedere un limite.

 

Se il suo cervello possedeva dunque un limite alle informazioni che era possibile registrare, avrebbe avuto senso eliminare quelle inutili.

 

L’arte e la letteratura, tutte; le scienze troppo lontane dal panorama quotidiano, come l’astronomia; buona parte della storia; ogni singola nozione di politica, ad eccezione di quelle sulle collaborazione dei Parlamentari con la malavita.

 

E poi c’era qualcos’altro che avrebbe potuto rimuovere senza danni, ma anzi con grande giovamento per il suo lavoro. Solo che non osava neppure dire cosa, poiché aveva già cominciato a dimenticarla diversi giorni prima. Con ogni logica.

 

All’interno di quell’hard disk un clip veniva isolato. Non cancellato, la password era troppo complessa per farlo, ma in ogni caso disconnesso dal resto delle funzioni celebrali.

 

Quello stupido clip avrebbe voluto tutto tranne che quello.

 

 

 

E non ci sarebbe stato più nessun melenso ragazzo come assistente, solo un teschio poggiato sulla mensola del camino.

 

 

 

«Voglio sentire una moltitudine di voci parlare nelle proprie lingue» diceva. «Questa è Radio Nowhere, qualcuno è vivo là fuori?»

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

“Mi dispiace che tu abbia potuto pensare che sarebbe mutato qualcosa nei tuoi confronti solo perché stai con Sherlock e non con una qualche ragazza. Ti voglio bene, Victor – e ti sarà legittimo odiarmi, dopo quanto hai scoperto sul mio passato, anche se imploro il tuo perdono.

 

Ma che tu decida o meno di concedermelo, sappi che non ho mai pensato neppure lontanamente di lasciare che mutasse qualcosa nel mio affetto per te solo a causa della tua sessualità.

 

Ti auguro una bellissima vita. La auguro a tutti e due.

 

Addio, Victor.

 

Tuo padre.”

 

 

 

Victor rilesse quel passaggio per l’ennesima volta, in realtà più recitandolo mentalmente che altro, avendolo ormai imparato a memoria. Sedette al tavolo della cucina - sempre quella dannata cucina – lasciando che i suoi occhi lo ripercorressero, e ancora, e ancora.

 

«Grazie, papà» sussurrò. «Ormai è tutto finito, ma grazie lo stesso.»

 

 

   
 
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