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Autore: Doralice    31/01/2012    13 recensioni
Dal secondo capitolo:
– Spiegami com'è possibile che il tuo migliore amico eterosessuale provi il costante bisogno di baciarti. –
– Lo scambio di effusioni tra amici è del tutto normale. Nella maggior parte dei casi. –
[...]
– Nella maggior parte dei casi, gli amici non fingono di essere morti per tre anni per poi ricomparire come se niente fosse nella tua vita e pretendere che sia tutto come prima. –
Evidentemente Sherlock aveva mancato il punto. E anche in maniera lampante.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson , Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Così tante rencesioni solo per il primo capitolo... oh God, yes! XD

Scherzi a parte... non me l'aspettavo davvero! Vi ringrazio tanto per il vostro apprezzamento! Sono molto coinvolta da questa fanfic e sento una pesantissima ansia da prestazione, per cui sono felicissima che stia riscontrando il favore generale.

Idril... ti lovvo, mia cara! <3

Secondo e penultimo capitolo, signore e signori. Buona lettura ed enjoy the song: So Contagious degli Acceptance.







Hold You


Dove sei stato in questi anni? –

Mycroft te l'ha detto. –

John aggrottò la fronte nel tentativo di ricordare quella giornata, ma gli tornarono in mente solo dei flash sulla scazzottata. Il viso gli si deformò in un sogghigno, che per una volta Sherlock non seppe come interpretare.

Non l'ho ascoltato. – ammise semplicemente.

Sherlock lo fissò di traverso per un momento.

Per la maggior parte del tempo entro i confini. – disse infine.

John rallentò la masticazione e inarcò le sopracciglia.

Per la maggior parte del tempo? – ripeté vagamente confuso.

Sherlock scrollò le spalle: – Diciamo che non mi sono annoiato. –

Non avresti dovuto tenere un basso profilo? – lo rimproverò, squadrandolo serio.

Lui ruotò appena la testa e ricambiò l'occhiata, il sopracciglio alzato e un angolo della bocca arricciato.

Più basso dei servizi segreti? – ribatté.

Le mani di John abbandonarono le posate e si posarono sul tavolo. Si spinse contro lo schienale, battendo le palpebre attonito.

Non ci credo... – soffiò.

L'avrebbe ucciso con le sue mani. Li avrebbe uccisi tutti e due, ponendo finalmente termine a quella sciaguarata stirpe di Holmes.

Avrebbe dovuto nasconderti, non lanciarti in missioni suicide! – protestò, con la tremenda sensazione di apparire come una madre iperprotettiva e pure isterica.

Non mi ha lanciato in missioni suicide. – Sherlock sbuffò una risata, poi gli rivolse uno sguardo accigliato – Hai visto troppo film di James Bond. –

Cosa ti facevano fare? –

Se te lo dicessi, poi dovrei ucciderti. –

Risero. Insieme. Per la prima volta.

Dio mio...

John deglutì il boccone a fatica. Bevve un sorso dal bicchiere per cammuffare l'emozione, evitando nervosamente il suo sguardo.

Ero un consulente detective e tale sono rimasto. – stava spiegando Sherlock, apparentemente ignaro della sua agitazione.

Il suo piatto era intonso. Si guardava attorno accomodato sulla sedia nella sua solita posa, i gomiti sulla tavola e le punte delle dita giunte. Era il solito Sherlock e questo, più di ogni altra cosa, provocava in John tutta quella frustrazione. Gli faceva dubitare di essere sveglio: magari stava solo vivendo un sogno particolarmente realistico. Magari era impazzito e si stava crogiolando in folli fantasie. O forse – e Cristo, era questo che lo uccideva ogni volta – per Sherlock quei tre anni non erano stati orribili come lo erano stati per lui.

Devo farti l'elenco di tutte le volte che hai rischiato la pelle facendo il consulente? – obiettò, tornando in modalità “madre isterica”, reprimendo quei pensieri lancinanti.

John, la tua ansia non ha ragione di essere. – sospirò – Non sono mai stato in pericolo. –

Su questo aveva i suoi dubbi. A meno che Mycroft non l'avesse rinchiuso in un bunker, con una scorta triennale di tè, latte e cerotti alla nicotina, e il collegamento a banda larga per risolvere i casi via rete.

Perché hai aspettato tre anni? –

Ecco l'aveva detto. Cristo, l'aveva detto. E non sapeva nemmeno da dove lo pescava il coraggio di guardarlo.

Questo dovresti chiederlo a Mycroft. È lui che ha organizzato le tempistiche. –

Le tempistiche di cosa? –

Volevo solo cenare con te, non mi aspettavo l'inquisizione spagnola. –

I rumori attorno a loro parvero attutirsi, come soffocati, fino a dargli la sensazione di trovarsi rinchiuso in una bolla. Lui e Sherlock. In un'enorme bolla fatta di tensione allo stato puro ed emozioni represse.

Lui e quel fottuto imbecille traditore di Sherlock Holmes, consulente del cazzo, che osava sparare battute riciclate da film dagli anni '90, a loro volta riciclate da sketch comici degli anni '70. Sherlock non-sono-un-eroe-ma-mi-rovino-per-salvarti-il-culo Holmes, che riappariva come un malefico pop-up dopo tre anni e osava anche pretendere che John Hamish come-cazzo-ti-sei-permesso-di-fingerti-morto Watson non gli facesse il terzo grado.

Lo sguardo di John dovette risultare abbastanza palese, e dopotutto Sherlock si vantava di saper leggere le persone. Non attese una risposta.

Ha fatto trapelare le giuste notizie nei giusti momenti, riabilitando la mia immagine. Non li leggevi i giornali? –

No. –

No, John non li leggeva i giornali. Non ne aveva motivo. Non c'era mai stato alcun motivo, negli ultimi tre anni della sua vita, per fare qualsiasi cosa.

La mangi quella? –

Sherlock scosse la testa e spinse il piatto verso di lui. Discorso chiuso.


Gli stava parlando del suo ultimo caso. L'aveva presa larga, molto alla larga, ma alla fine c'era arrivato. E adesso aveva raggiunto l'apoteosi: la richiesta di consigli. Quel luccichio d'esaltazione nello sguardo e il gesticolare senza ritegno che indicavano, come un'insegna luminosa, "mente geniale al lavoro". Quante volte l'aveva visto così? Quante volte l'aveva ammirato? Nemmeno adesso poteva farne a meno. Era terribile doverlo stroncare. Se l'era immaginato dal primo momento, stava solo aspettando che si decidesse. Ma chi se l'aspettava che sarebbe stato così doloroso?

Non farlo. –

Cosa? –

Sherlock continuava a camminare di fianco a lui, appena un passo avanti per via delle falcate che era in grado di fare con quelle gambe lunghe. Un tempo lo facevano arrancare dietro di lui. Tutto in Sherlock l'aveva sempre fatto arrancare dietro di lui. Non poteva permettersi di farlo ancora.

Gli scoccò un'occhiata: – Lo sai. –

Scusa, è la forza dell'abitudine. –

La forza... –

John mozzò la frase con un soffio ironico e si bloccò in mezzo al marciapiede scotendo la testa.

No. –

Pochi metri più avanti, Sherlock fermò i propri passi e si voltò, i lembi del cappotto che ondeggiavano intorno alla figura e gli occhi chiari velati di curiosità.

Sherlock, no. Basta. Smettila. –

Lui non disse niente, non fece niente. Si limitò a guardalo e basta, mentre un'espressione consapevole si faceva strada sul suo volto. Mentre un gelo lento e inevitabile inziava farsi trada in John, scorrendogli infido lungo la spina dorsale e attanagliandogli il cuore, facendolo stringere nel cappotto nell'istintiva riceca di un calore fisico che mai avrebbe potuto vincere quel gelo interiore.

Non è più come prima. Non sarà mai più come prima. I vecchi tempi, scordateli. Quindi smettila... solo... smettila di fare così. –

Il fiato caldo creava nuvole di vapore e andava a disperdersi nelle luci fredde dei lampioni che illuminavano la figura nerovestita di Sherlock. Tutto in lui si stava tingendo di delusione e tristezza. Davanti ai suoi occhi.

John non aveva immaginato che potesse essere così penoso. E una parte di sé godeva nel vederlo soffrire a causa sua. E un'altra parte di sé era furiosa per averlo fatto soffrire e perché oltretutto ne godeva. E l'intera l'anima John avrebbe voluto essere lontana anni luce da lì e dimenticare ogni cosa. E allo stesso tempo rifiutava di concepire una vita senza Sherlock. Era un fottuto casino.

Ti chiedo scusa. –

Lo conosceva, John. Oh, se lo conosceva. Come il palmo della sua mano. Ed era fin troppo consapevole dell'enorme sforzo che stava facendo nell'elargirgli quelle scuse.

Scuse attese per mesi e mai ricevute. Scuse ritardatarie ma non per questo meno efficaci. Scuse che erano come un balsamo dolceamaro per il suo cuore. Cicatrizzavano le ferite ancora sanguinanti, mettendole paradossalmente in risalto, ricordandogli fin troppo chiaramente chi e come e quando le aveva causate. E come un “ti chiedo scusa” non avrebbe mai potuto essere sufficiente.

Dentro di sé urlava, John. Urlava e avrebbe voluto prenderlo a pugni. Stava per prenderlo a pugni. Ecco, stava già caricando.

Si mosse veloce, prima che le mani decidessero di andare per conto proprio. Sherlock lo seguì con lo sguardo, ammutolito, mentre scappava via, lontano. Lontano da lui e da sé stesso. Come se si potesse scappare da sé stessi.


John Watson si era preso una pallottola nella spalla durante la guerra in Afghanistan, ed era sopravvissuto. Era finito nelle poco gentili mani della mafia cinese, ed era sopravvissuto. Era stato rapito da James Moriarty, imbottito di tanto esplosivo da radere al suolo un intero isolato e messo sotto tiro dai suoi cecchini. Ed era sopravvissuto. Sarebbe riuscito a sopravvivere a Sherlock Holmes?

Aveva avuto tre anni per metabolizzare la sua morte e sei mesi per accettare di dover buttare nel cesso quei tre anni. Ma non tutto di quello che John aveva faticosamente elaborato era andato perduto.

È facile accettare un sentimento prima ritenuto inappropriato quando il soggetto di tale sentimento non c'è più. La presa di coscienza era giunta lenta ma micidiale e d'un tratto John aveva dovuto arrendersi. Si era rassegnato all'evidenza di essere stato un colossale idiota, di aver commesso il più grande errore della sua vita. Di aver ceduto a quel suo falsissimo orgoglio eterosessuale, impedendosi così, con le sue stesse mani, di avere l'unica persona per la quale avesse mai provato un amore totale.

E adesso, provate ad immaginare questo. Provate solo ad immaginarlo. Che la vostra peggiore frustrazione, il vostro più grande rimpianto, il vostro amore mai confessato, torni dall'oltretomba, nella vostra vita, nel vostro cuore. Come se niente fosse.

Sherlock avrebbe dovuto essere grato – molto grato – del fatto che John possedesse la tempra del soldato, o l'avrebbe già preso a calci fino a fargli sputare ogni singolo osso. Poi, da medico bravo e diligente, l'avrebbe rimesso in sesto, così avrebbe potuto passare alla fase due. Perché sarebbe stato deontologicamente scorretto fottere un paziente malato.

La rabbia repressa per ciò che Sherlock aveva fatto – ciò che gli aveva fatto – aveva avuto la capacità di annullare qualsiasi remora in John. Adesso il nodo del problema non stava più nel fatto che ne fosse attratto nonostante fosse un uomo. Adesso stava nel fatto – accidenti a lui, accidenti a loro – che lo amasse ancora, nonostante tutto, nonostante gli avesse fatto credere che era morto gettandolo nella disperazione più totale. Per tre anni, cazzo.

John Watson amava quel dannato stronzo di Sherlock Holmes e non riusciva a credere di essere un così grande imbecille.

~

Non gli scrisse. Già, nemmeno questa volta. Non sapeva dire se per orgoglio o per vergogna, ma sentiva che era meglio non farlo.

Sbollita la rabbia, John s'era presentato a casa sua dopo una settimana. Sherlock aveva contemplato in silenzioso rispetto il miracolo di vederselo comparire ancora una volta alla porta di casa, con i suoi occhi franchi e le mani ficcate nelle tasche del giubbotto e il naso rosso per il freddo. John aveva appeso il suo cappotto al gancio dell'ingresso e salutato sorridente la signora Hudson, avevano preso il tè insieme, s'era fermato lì fino a sera. Nessun accenno alla discussione e Sherlock s'era ben guardato dall'aprire il discorso.

Anche oggi John era lì. Sedeva in quella che un tempo era stata la “sua” poltrona, con quella che un tempo era stata la “sua” posa, ovvero il portatile sulle ginocchia e una tazza di tè in una mano. Ticchettava sulla tastiera, tutto assorto, con la lingua tra i denti.

Quella era la sua quinta visita: era venuto lì appena staccato dall'ambulatorio. Veniva sempre lì dopo il lavoro. Ormai passava più tempo al 221B di Baker Street che a casa sua. Se ne andava solo per dormire.

Sherlock non aveva mai più fatto cenno all'idea di collaborare a qualche caso. Aveva il pesantissimo, orribile presentimento che un'altro suo passo falso avrebbe portato ad una definitiva rottura. E adesso che John era tornato nella sua vita, adesso che sedeva di nuovo nella sua poltrona, con il portatile sulle ginocchia, aggiornando il blog e bevendo il tè e faccendo commenti salaci su di lui, non avrebbe sopportato l'idea di non averlo più intorno.

Quando il ticchettio s'interruppe, Sherlock capì all'istante che non si trattava della solita pausa per far riposare le dita. S'immobilzzò, interrompendo a metà la nota lamentosa. Ripose il violino sul tavolo e roteò l'archetto con un movimento del polso. Wup fece nell'aria, spezzando l'attesa per ciò che gli avrebbe detto John.

Spiegami com'è possibile che il tuo migliore amico eterosessuale provi il costante impulso di baciarti. –

La sua indifferente compostezza – quella della quale Sherlock era ammantanto da una vita, che si era lettarlamente ritagliato e cucito addosso come una camicia su misura – era abbastanza navigata da resistere a quella domanda senza incrinarsi. Ma dentro di sé era in tumulto.

Lo scambio di effusioni tra amici è del tutto normale. – prese un panno dalla custodia del violino e pulì lentamente il filo dell'archetto – Nella maggior parte dei casi. –

Nella maggior parte dei casi, gli amici non fingono di essere morti per tre anni per poi ricomparire come se niente fosse nella tua vita e pretendere che sia tutto come prima. –

Evidentemente Sherlock aveva mancato il punto. E anche in maniera lampante. Un sentimento di folle ammirazione, misto ad insofferenza e curiosità, lo colse in pieno.

E poi che amici conosci che ti vogliano ficcare la lingua in bocca? –

Ficcare la lingua...?

Sherlock provò a dire qualcosa, ma scoprì che era difficoltoso far funzionare il cervello senza l'adeguato apporto di sangue. Abbassò lo sguardo, constatando con sommo stupore il proprio stato.

Si schiarì la voce e accavallò le gambe: – Non credevo che ti riferissi a quel tipo di effusioni. –

Fammi un piacere, Sherlock, non insultare la mia intelligenza. – sbottò lui, riprendendo a digitare sul portatile.

Stavano parlando due lingue diverse.

Non è questione di intelligenza, John. – ribatté.

No, hai ragione. – disse secco, senza alzare gli occhi dal portatile.

Era il suo modo per chiudere la discussione. Se questo argomento lo metteva così a disagio, perché mai l'aveva aperto?

Sei appena diventato consapevole che l'amicizia è l'escamotage che la società ha creato per poter manifestare attrazione nei confronti degli individui del proprio sesso. – riassunse ostentando una tranquillita che non possedeva – E la cosa non ti fa piacere. –

John alzò lo sguardo dallo schermo. Roteò la testa e batté le palpebre. Rantolò un mezza risata e infine lo guardò.

Per te è questo? –

Sherlock lo osservò con aria confusa. E continuò a guardarlo confusamente mentre lui metteva al sicuro il portatile sul tavolino, si alzava dalla poltrona e gli si avvicinava. Non riuscì a fare altro, il geniale ed infallibile Sherlock Holmes, se non stare ad osservare, pietrificato, mentre John gli si piazzava davanti e si chinava su di lui. Seguì attentamente con gli occhi il movimento delle mani che andavano ad appoggiarsi sui braccioli. E infine girò lo sguardo su di lui.

Sherlock, non riesco a smettere di volerti. È questo che non mi fa piacere. –

Parlava a scatti, lentamente, quasi le singhiozzasse fuori le parole invece che pronunciarle. Quasi non gli arrivassero dalla gola, ma da un punto più profondo e improncunciabile e immateriale. Sherlock non aveva bisogno di sentirgli il polso, né di notare la fronte imperlata o il respiro veloce, per capire l'emozione che stava provando. Non aveva bisogno di niente per dedurre il suo stato: lo sentiva. Come sentiva il proprio.

E non lo so. – ammise sinceramente, con la voce rotta, chiudendo appena gli occhi – Non so se ti voglio perché ti ho sempre voluto o perché spero che se ti avrò allora potrò dimostrarti... – si accigliò e distolse lo sguardo per un attimo – dimostrarmi... che anche tu hai bisogno di me quanto io ne ho di te. –

C'erano un sacco di pronomi e poche virgole in quella frase, ma Sherlock aveva capito fin troppo bene. Troppo, troppo bene. L'erezione nei suoi pantaloni assunse d'improvviso un valore materiale quale fino ad allora non s'era mai azzardato ad ipotizzare. Il colpo fu tale che la sua fenomenale mente non riuscì a partorire alcun pensiero coerente. Il cervello di Sherlock era clamorosamente in bianco.

Vide John chinare la testa e sospirare. Lo vide rialzarla. Lo vide trafiggerlo con quello sguardo. Lo conosceva, gliel'aveva visto tante volte. Era lo sguardo che riservava agli sfortunati che si trovavano davanti alla canna della sua pistola.

Il resto fu nebbia. Una nebbia di ormoni che offuscarono la sua razionalità per un lunghissimo, infinito momento. Permettendo a John di invadere il suo pazio – fisico e mentale ed emotivo – fino farsi strada lentamente fino a lui, in lui. Permettendogli di chinare il capo, andando a posare la fronte contro la sua, i loro capelli che si mescolavano facendogli rabbirividire la cute. Permettendogli di muovere appena la testa, avvicinando il naso a sfiorare il suo, respirando sulla sua pelle. Permettendogli di saggiare piano, con una cautela disumana, le labbra schiuse.

Sherlock strinse la presa sull'archetto fino a far sbiancare le nocche. Fu col dolore del filo conficcato nel palmo che visse quel primo contatto. Quello, e l'odore e il sapore del tè che si portava appresso John, sulle labbra e sulla lingua. Il dolore, il tè e il calore dei loro respiri e della sua bocca.

Il pugno si allentò, l'archetto gli cadde di mano con un tonfo ligneo sul pavimento.


A posteriori, Sherlock avrebbe potuto affermare che era tutto perfettamente deducibile. Ma si sarà già capito che in quel momento non era esattamente in grado di dedurre qualcosa. Per la precisione, non era in grado di fare un bel niente, ecco.

Ditemi voi, cosa avrebbe mai potuto fare, messo alle strette quel modo? Avrebbe dovuto evitarlo? Scappare? Colpirlo? Stroncare quel momento con una delle sue frasi ad effetto?

Sherlock non fece niente di tutto questo. Per il semplice fatto che non ne era in grado. Così come non fu in grado di fermare la sua fuga – un'altra volta.

Un attimo prima John gli stava addosso, con tutto quel suo calore umido, una sensazione prettamente fisica, quasi animalesca, che Sherlock subiva con delizia inconfessabile e che – già lo sapeva – gli aveva appena creato una sacrosanta dipendenza. E un attimo dopo non c'era più.

L'aria si mosse e poco dopo si sentì il rumore della porta dell'ingresso che si richiudeva. Sherlock batté le ciglia, come risvagliatosi da una trance. Esalò un sospiro che morì in un gemito sordo e reclinò la testa contro la spalliera.


Sapeva di non poter pretendere niente. Sapeva che con quelle reiterate fughe John non stava rifiutando lui, ma sé stesso. Sapeva che prima poi si sarebbe arreso a quello che sentiva e sarebbe tornato da lui, definitivamente. Ma questo non gli faceva sentire meno la sua mancanza.

Non avresti dovuto lasciarlo fare.

Farsi baciare. Che errore madornale. Adesso avrebbe abbassato la guardia. Avrebbe commesso un errore, poco ma sicuro.

Sherlock passò la lingua sulle labbra e deglutì quel sapore agrodolce. Il sapore di John. E sorrise tra sé. Sorrise e basta.

Signora Hudson! – chiamò a gran voce balzando dalla poltrona.

La donna fece capolino dalle scale mentre lui s'infilava il cappotto.

Non mi aspetti per cena. – le disse aprendo la porta.

Lei si limitò a sorridergli e a raccomandargli di non fare tardi.

Sherlock strinse la sciarpa attorno al collo e alzò il bavero del cappotto per proteggersi dalle raffiche di vento. Le strade erano colme a quell'ora. Schivò i passanti con passo fluido, mescolandosi alla folla, e procededette spedito.

Tremava – e non per il gelo di quella Londra in cui era nato. Era una creatura invernale, Sherlock. Fatto per le temperature fredde, per i cieli plumbei che si riflettevano nei suoi occhi chiari, per la luce tersa e vivida delle mattine invernali. Era un gatto a cui piaceva giocare nella neve, accompagnato dal suono ovattato delle zampe intirizzite che affondavano delicate nel manto e si lasciavano dietro una sinuosa scia di orme.

Eppure era attratto dal calore, Sherlock. Ingenuo felino che si cacciava nella tana del lupo, attirato dalla sua folta pelliccia color miele, pronto a farsi sbranare. Del tutto consapevolmente.


Sherlock Holmes aveva trentacinque anni e qualcuno, qualche anno prima, non era andato molto lontano dalla realtà quando l'aveva soprannominato “Verginello”. Diciamo che Moriarty ci aveva preso in pieno.

L'approccio più intimo che avesse mai vissuto risaliva a più di vent'anni prima e consisteva in un bacio a stampo, un po' appiccicoso di bava e caramelle, che una sua compagna di scuola gli aveva somministrato del tutto contro la sua volontà. Il piccolo Sherlock era diventato tutto rosso e si era pulito la bocca strofinandola su una manica della divisa. Chissà – pensò ironicamente – forse era stata quella sua esperienza semi-traumatica che aveva mutato sue inclinazioni, spostandole verso il sesso maschile. Inclinazioni del tutto platoniche, sia ben inteso.

L'interesse di Sherlock per la sessualità era già limitato in sé. Si aggiunga il fatto che, in quanto creatura altamente cerebrale e concentrata su sé stessa, solo gli individui dotati di un'intelligenza che potesse competere con la sua gli suscitavano un interesse tale da sfociare addirittura in stimoli fisici. Le rarissime volte in cui Sherlock aveva avuto la fortuna d'incontrare delle persone simili, inesperto com'era, si era sempre trovato schiacciato dalla timidezza, e tutto era finito ancor prima di cominciare.

Poi nella sua vita piomba John Hamish Watson. Un uomo ordinario, con idee orinarie. Prevedibile, quasi noioso, uguale a tanti altri. Eppure unico. Unico, nel suo stargli affianco e sopportarlo e aiutarlo, sempre, a discapito di sé stesso e degli altri. Unico nell'accettarlo, nonostante tutto. Unico, nel credere in lui. Perfetto. John era perfetto, nella sua umana imperfezione. Lo era per lui, per Sherlock.

Così lontano, così alieno. John era la sua parte mancante, quel tassello del quale da sempre sentiva il bisogno per sentirsi completo. Quella mancanza che gli faceva chiedere cosa ci fosse che non andava in lui. Ma non c'era niente che non andasse in Sherlock. Non da quando John gli aveva dimostrato che qualcuno, in quel mondo, in quel tempo, era in grado di amarlo per ciò che era.

   
 
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