Cap 1
Magari
accettare e
vivere ciò che la vita ci dona, non è semplice
accontentarsi.
Forse
è ciò che
necessitiamo davvero, ma siamo troppo orgogliosi per ammetterlo perfino
a noi
stessi.
Let the rain come down and wash away my
tears
“Eccomi
a casa, Lionel!”
Chiudendomi
la porta alle spalle, percorsi
la stanza buia alla ricerca del mio coinquilino. Brancolai nel buio
cercando di
annullare, con un po’ di fatica, la breve distanza dalla
porta alla finestra
senza l’ausilio della luce. Odiavo i led, soprattutto
perché mi causavano
frequenti emicranie e proprio in quel momento, dopo una lunga ed
estenuante
giornata di lavoro, mi ritrovavo a massaggiarmi una tempia lentamente,
pregando
che l’assunzione di una semplice aspirina fosse la soluzione
giusta.
Poi,
procedendo sempre nel buio, mi
avvicinai ad una piccola casa in legno, posta su un mobiletto accanto
all’ampia
finestra.
Un
battito di ali e due piccole
zampe afferrarono prontamente il mio dito che si era teso
automaticamente a
quel dolce suono.
“Buona
sera, buona sera, buona
sera Babe!” Il
pappagallino mi salutò
con un lieve bacio sulla guancia, strappandomi un sorriso stanco.
Era
quanto di più accogliente
potessi trovarmi in quel momento.
Niente
compagno che mi abbracciava
o chiedeva della giornata appena trascorsa. Niente profumino invitante
di una
cena ancora da consumare con piatti semplici, ma ricchi di sentimento.
Niente vasca
calda da condividere e niente letto matrimoniale da colmare con la
felicità di
una coppia. Negli ultimi sei mesi era cambiato tutto così
velocemente, che non
mi ero nemmeno accorta di aver festeggiato solo un mese prima i miei 25
anni.
25
anni dei quali 10 trascorsi
accanto a Peter come sua fidanzata.
Ero
una bambina, una dolce bambina
che credeva nelle favole, nel principe azzurro, e Peter mi era sembrato
perfetto per quel ruolo, perché semplicemente non avevo mai
pensato a
nessun’altro. Non c’era mai stato
nessun’altro, ad essere sinceri. Ma io ero
sicura, cavolo se lo ero! Lui non era solo terribilmente bello,
intelligente e
simpatico; era stato anche uno dei miei più cari amici.
Il
mio intero mondo per talmente
troppi anni ,che ormai era così difficile non sentirlo
più parte di me e della
mia ordinaria vita. Mi sentivo svuotata; una semplice ameba destinata a
restare
negli abissi senza meta prefissata e senza obbiettivi da seguire.
Ed
è così brutto ed avvilente
sentirsi inutili, che non ti accorgi nemmeno del tempo che scorre,
degli anni
che passano e del mutamento del tuo corpo, nonostante tu ne sia
pienamente
contraria.
Mi
sentivo come uno straccio
vecchio e non c’era stato verso di cambiare quel rovinoso
stato emotivo e mentale.
“Pappa!
Pappa! Lionel vuole
mangiare!” Il piccolo pennuto cominciò ad
agitarsi, chiaro segno che la sua sopportazione
era arrivata al limite.
“Ho
capito. E non fare la prima
donna, ora ti do da mangiare.”
Lo
accarezzai con un dito sopra la
piccola testolina arruffata, facendolo calmare all’istante.
Mi
diressi così verso la cucina
con Lionel arpionato al mio dito.
“Pappa,
amico. Guarda!” Gli
sventolai vicino la scatola del mangime che fece accendere
all’istante il suo
sguardo.
“
Pappa, pappa!”
Sorrisi
mentre appoggiavo sul
davanzale il mostriciattolo colorato. Presi poi uno dei suoi piattini e
ci
versai dentro il mangime. Quando posai il piatto davanti alle sue esile
zampine, cominciò a mangiare con voracità.
Povero
piccolo,
pensai. Lasciarti
da solo in questa casa per delle ore è troppo egoistico
anche per me.
Abbandonai
la cucina accorgendomi
che i miei piedi necessitavano un paio comodo di pantofole e il mio
intero
corpo voleva gustarsi una lunghissima doccia calda.
Mi
sciolsi i capelli e tolsi i
tacchi per dirigermi a piedi nudi verso la mia camera da letto.
In
fondo, cosa mi mancava davvero?
Avevo
una casa nuova, anche se
troppo grande per una donna sola. Possedevo un lavoro mio, con una
clinica in
centro donata gentilmente dal mio vecchio capo che era andato in
pensione da
quasi un anno. Avevo una macchina ottima e costosa, degli amici un
po’ fuori
dagli schemi ma presenti, ed una famiglia amorevole e sempre
disponibile ad
aiutarmi.
Allora,
Diana, cosa ti manca
davvero?
Un
uomo. Questa era la verità e
non per semplice piacere fisico o per mera paura di rimanere sola. No.
Volevo
un uomo che possibilmente non si chiamasse Peter, che non avesse gli
occhi
azzurri e i capelli corvini e senza un fisico da nuotatore agonista.
No,
non lo volevo.
Non
dopo tutto il dolore che mi
aveva causato.
Anche
solo con l’infido aiuto dei
ricordi, mi si formava nel petto un enorme buco nero che risucchiava
tutto e
tutti e che pian piano aveva inglobato tutta la mia vita ed energia.
Scossi
la testa mentre prendevo il
pigiama da sotto il cuscino e accendevo l’enorme stereo che
diffondeva per
tutte le stanze, le lente e melodiose note di Mozart che mi
accompagnavano da
mesi. Rose, la mia maestra di yoga, me l’aveva consigliata per far rilassare non solo i
nervi, ma
soprattutto la mente.
Era
convinta -non so ancora con sicurezza
il perché- che
la mia mente fosse
rimasta contratta dopo l’accaduto e che lo yoga, del buon
cibo e sana musica
fossero gli unici strumenti che potevano garantire un’ottima
guarigione a
chiunque.
Peccato
che molte volte avevo
solamente voglia di spaccare tutto, di distruggermi le mani a suon di
pugni
sulla parete e di abusare, con forza ed esigenza, delle mie corde
vocali per
urli interminabili e taglienti.
Dopo
essere entrata nella doccia,
lasciai che l’acqua mi penetrasse nella pelle e nonostante
cercassi giorno dopo
giorno di non pensarci, ogni sera l’incubo mi veniva a
trovare.
E
fu così che le mattonelle della
doccia diventavano il mio unico e vero sostegno mentre il nero tornava
immancabilmente a travolgermi.
Sei
mesi prima…
“Amore,
sono Peter. Senti, ti va di venire da me stasera? Volevo
parlarti della nuova casa e magari concederci qualche momento nostro,
prima che
quelle vipere delle mie sorelle ti rubino per iniziare la loro
settimana
“depurativa”.. Non so come tu faccia a sopportarle
senza battere ciglio. Ti
adoro sai? In realtà ti ho chiamato per dirti che ieri, eri
bellissima con il
camice nuovo. Sono così felice per te!
Portalo stasera che tra una portata e l’altra
potrei fingermi un
cagnolino ferito mortalmente che necessita di pronte cure! A dopo, piccola.”
Ascoltai
il messaggio della segreteria sorridendo. Peter era
sempre il solito ragazzo dolce e scherzoso, sempre pronto ad ironizzare
su tutto,
ma che in realtà era più serio di quel che
volesse far trapelare.
Mi
preparai di corsa per la serata, non scordando nulla;
soprattutto il camice.
Lui
era così semplice, diretto e non mi era mai dispiaciuto
nemmeno la sua strana mania per il fisico. Io lo amavo con tutta me
stessa,
ogni singola parte di me si sentiva su, e
anche per lui era lo stesso.
Però,
si sa quanto il destino giochi sempre a nostro sfavore
quando la felicità assoluta è nostra amica, e
quella sera decisi di fargli una
sorpresa delle mie.
Mi
appostai sotto casa sua con ben due ore di anticipo, ero riuscita
a chiudere prima la clinica e pregustavo già il suo sguardo
sorpreso, il suo
bacio sul naso e una cena a lume di candela lunga e romantica.
Sapevo
che era la nostra ultima notte da fidanzati e certamente
volevamo renderla memorabile.
Non
potevo immaginare ciò che i miei occhi mi stavano mostrando
chiaramente.
Non
riuscivo a credere che Peter si stesse baciando o meglio, che
stesse praticamente limonando nella sua auto, con una rossa molto
felice di
stare con lui.
Ma
io ero sempre stata una donna forte, sempre. Mi era stato
insegnato di portare rispetto, prima di tutto e così feci.
Me
ne andai senza dire niente ed annullai la serata con un misero
sms, inventando un improvviso mal di testa.
Quanto
avevo sofferto in quella settimana?
Non
era nemmeno paragonabile, avevo pianto lacrime amare, dato
sfogo a vomiti colossali per il nervoso, ma non avevo ceduto. Non gli
avevo più
parlato, ma ero disposta a lasciare perdere a fargli un discorso una
volta
sposati, perché.. Io lo amavo. Lo amavo davvero, il mio
cuore non voleva
accettare la verità ed ero disposta anche a passarci sopra,
pur di non perdere
la sua indispensabile presenza nella mia vita.
Quanto
soffrii quel giorno?
Avevo
passato una settimana orribile, mi ero fatta odiare da Stephanie,
sua sorella maggiore, perché non riusciva a coprirmi i
profondi solchi neri che
attanagliavano i miei occhi da troppe ore.
Ma
avevo resistito, volevo salvarmi; volevo salvarci.
Arrivai
all’altare sotto il braccio possente e forte di mio padre
che non riusciva a trattenere le lacrime che orgogliosamente gli
solcavano il
viso olivastro.
Ed
io stringevo i denti e stringevo con forza il braccio di mio
padre che mi aveva sostenuta da una vita.
Però
non me lo meritavo.
Quel
no davanti a Dio, alla mia famiglia, ai miei amici, al mio
cuore.
Quel
no detto come un sussurro, ma che suonava come una campana
assordante dentro la mia testa.
Quel
no che disse osservando le sue bellissime scarpe di pelle, che
io avevo amato fin dal primo momento.
Quel
no, mi fece cadere in un abisso che mi distrusse
completamente.
Il
suono del campanello mi fece
ritornare al presente.
Ero
seduta nella doccia con
l’acqua che scorreva freneticamente sotto il mio sguardo
completamente vuoto.
Cercai
di ricompormi e mi toccai con
forza le guance, per dare un po’ di colorito.
Presi
l’asciugamano velocemente e
mi diressi verso la porta.
“Chi
è?”
“James.”
Strabuzzai
gli occhi e mi guardai
le mani tremanti sull’asciugamano.
“Chi
scusa?”
“Dottor.
Hall, Diana. Ti
disturbo?”
Presi
un attimo di pausa per
riuscire a ragionare meglio, ma la mia mente sembrava assopita.
“Si
scusa. Sono appena uscita
dalla doccia.” Aprii la porta, correndo poi verso la camera
da letto per
rivestirmi.
Lo
sentii entrare, ma non si
chiuse la porta alle spalle.
“Diana,
tutto bene? Non è
ritornato, vero?”
La
mia mano si bloccò sul bottone
della camicetta improvvisamente congelata.
No,
lui non poteva saperlo.
Purtroppo nonostante mi tenesse ore ed ore a parlare di me, ero
riuscita a
nascondergli i dettagli più raccapriccianti della mia
profonda depressione.
“Intendi
Peter?”
“Chi
se no?”
Sbucai
di nuovo in salotto,
constatando che James era rimasto davvero sul ciglio della porta, con
un piede
dentro e l’altro ancora appoggiato saldamente sul tappeto
d’ingresso.
Ero
così rispettoso e così simile
a Peter da farmi paura.
“No,
no. Cosa aspetti? Entra pure.
Vuoi un caffè?”
“E’
troppo tardi, ti ringrazio.
Scusami se sono piombato qui a casa tua all’improvviso, ma ho
appena finito di
lavorare e ci sono delle cose urgenti che devo dirti.”
Chiusi
la porta e lo
aiutai a togliersi il lungo cappotto,
appoggiandolo sul divano.
“C’è
qualche problema James?
Credevo di aver già versato a Lucille la quota di questo
mese.”
Lui
mi guardò stranamente,
scuotendo velocemente il capo. Mi sorrise appena e prese a grattarsi il
mento
leggermente velato di barba.
“Secondo
te potrei mai ridurmi a
fare lo strozzino porta a porta? A te, per giunta? No, Diana. È che sono un
po’ preoccupato. Avrei voluto
parlartene durante le nostre sedute, ma sento che sei sempre rigida
quando ci
avviciniamo a certi argomenti e non ti sei ancora completamente aperta
con me,
nonostante questi due mesi di terapia. Mi vedi come uno sconosciuto, in
un
posto che per te non rappresenta nulla e vieni a sorbirti
un’ora per due volte
alla settimana, senza sentire davvero l’esigenza di sfogarti
e di uscire fuori
da quel lungo tunnel.”
Si
sedette su un braccio del
divano continuando a guardarmi enigmaticamente.
Un
lieve brivido mi percorse la
schiena, ma non c’era nessun accenno di sensualità
o passione in me. La paura,
lenta e logorante, cominciava ad invadermi sotto pelle prendendo
possesso delle
mie facoltà mentali e fisiche.
“In
che senso? Io…” La mia voce si
abbassò di qualche ottava, prima che riuscissi a proseguire
il discorso. “… non
credo di aver sbagliato nulla durante le nostre sedute. Parlo e
rispondo alle
tue domande. Cosa c’è che non va in tutto questo,
James?”
Lui
si alzò improvvisamente
facendomi sussultare. Era molto più alto di me, con due
spalle grandi e forti,
ma completamente diverse da quelle di Peter. Non c’era niente
che fisicamente
li accumunava, eppure per un attimo, mi era sembrato di poterli
perfettamente
sovrapporre.
Che
stupida, non facevo altro che
prendere Peter come punto di riferimento, rendendolo così
sempre e comunque
presente nella mia vita.
Dovevo
smetterla di vederlo
ovunque e soprattutto dovevo evitare di confonderlo con James.
Lui
poteva sembrare simile a volte,
ma in realtà era completamente diverso. Talmente diverso,
che quando mi prese
le mani tra le sue, quasi non credetti ai miei occhi.
“Maledizione,
Diana! Non posso
credere che tu continui ad essere così cieca! Sei diventata
un automa! Fai
quello che tutti ti dicono, ciò che la società
vuole da una donna matura, ma
dentro di te vorresti urlare e imprecare come solo una donna ferita
può fare.
Non voglio continuare a vederti percorrere lo studio con fare assorto e
sederti
sul lettino solamente per discutere del tuo lavoro ogni santa volta!
Voglio
aiutarti e non solo perché sei la sorella del mio migliore
amico. Io amo il mio
lavoro, voglio poter davvero essere utile e non solo una sanguisuga che
guadagna dal dolore altrui. Vuoi darmi la possibilità di
conoscerti ed
aiutarti? Vuoi finalmente liberarti dal peso pressante dei
ricordi?”
Le
sue mani, così grandi e ben
curate, si muovevano frenetiche sopra le mie, piccole e leggere.
Sapevo
che non era giusto non
prestare molta attenzione al suo discorso, però quello
sguardo così vicino al
mio, quelle mani così calde e confortanti, quel leggero
arrossamento delle
gote: mi avevano ipnotizzato.
Avevo
sempre dato per scontato,
che l’amore vero bussasse solo una volta alla propria porta,
solo un’unica e
miracolosa volta.
Quindi
dopo Peter, sentivo ormai
che l’amore non era più un mio diritto, ma
solamente un bel sentimento da
osservare lontanamente nei visi delle coppiette sconosciute che si
aggirano
sempre nei parchi primaverili o nei centri commerciali urbani.
Diamine,
non potevo essere già
innamorata di un uomo, anche perché James rappresentava
assolutamente il premio
più proibito al quale potessi ambire.
Era
un uomo affascinante e
sicuramente fidanzato, più grande di me di 5 anni e con una
carriera talmente
brillante che non comprendeva assolutamente sentimenti con alta
capacità di
distrazione.
“E
cosa vorresti fare per farmi
stare meglio?”
Il
silenzio ci cullò per parecchi
minuti e in quel lungo lasso di tempo, James continuava a torturarsi il
viso
con la mano sinistra. Era in bilico su un filo quasi invisibile e
talmente
sottile da spezzarsi alla prima brezza fugace. Leggevo nel suo sguardo
un
turbamento silenzioso, ma presto un luccichio lo sostituì di
prepotenza,
donandogli così di nuovo l’uso della parola.
“Permettimi
di conoscerti davvero,
ma non nel mio studio. Ci vedremo qui; due volte a settimana, dopo
cena.
Purtroppo non posso garantirti puntualità e molto tempo per
parlare, però qui,
tra queste mura amiche, forse riuscirai davvero a fidarti di me. Io non
sono
Peter, Diana, e non ti abbandonerò.”
I
miei occhi si velarono di
leggere lacrime, ma continuai a guardarlo con postura rigida e studiata
per non
fargli notare quanto quelle parole mi facessero stare bene.
“Oddio,
non lo so! Non sarebbe
troppo…”
“Intimo?”
Mi suggerì lui,
facendomi così acconsentire timidamente.
“E’
proprio questo che sto
cercando. Non sarò più il Dottor Hall e tu la
paziente Roberts, ma saremo solo
James e Diana vecchi conoscenti che vogliono diventare amici. Saremo
una strana
coppia d’amici, te lo concedo, ma prometto di comportarmi
bene. Sono un po’
arrugginito con i rapporti umani, però cercherò
d’impegnarmi perché a te tengo
particolarmente. Nick ti vuole un bene smisurato e vuole vederti
sorridere come
facevi prima. Ricordi? Avevi un sorriso luminoso che brillava
più dei tuoi
capelli color del grano e lui era talmente geloso di te,
d’aver costretto il
tuo dentista a farti indossare, per 4 mesi in, più
l’apparecchio ai denti. Ops,
questo forse non dovevo dirtelo..”
I
sentimenti che mi attraversavano
la pelle, finivano dritti al cuore, facendolo improvvisamente
accendere. Era
come se il precedente cortocircuito fosse stato solamente un brutto
ricordo;
ora tutto brillava.
Era
merito di James?
Non
ero sicuramente giunta a quel
piacevole sentimento, solamente per delle belle parole. C’era
qualcosa di più,
qualcosa di tremendamente rincuorante
in quella semplice situazione, da destabilizzarmi.
“Mio
fratello, cosa?! A ma bene,
quando lo vedo mi sente! Ho passato degli anni orribili con quella
ferraglia
tra i denti e lui ha contribuito ad allungare quel triste
supplizio?”
Incrociai
le braccia iniziando a
parlottare da sola, mentre James scoppiò a ridere
spontaneamente.
“Era
questo che dicevo. Vedi? Non ti
sei completamente persa, Diana. Ce la faremo, ce la farai. Rinascerai,
perché
dobbiamo arrivare insieme al nuovo giorno che verrà, al
domani, al futuro. Ci
stai?”
Con
fare sicuro lui porse la sua
grande mano verso di me. La guardai per infiniti secondi e poi,
trasportata da
un’energia invisibile, allungai la mia per stringerla con
rinnovata forza.
“Hai
ragione, James. Devo farcela
e non ha senso continuare a soffrire per il completo e solitario nulla. Però non voglio che tu
lavori
gratis e che perdi tempo con me mentre dovresti lavorare nel tuo
studio.”
Lui
mi strinse la mano e poi la
lasciò andare guardandomi contrariato.
“Stai
scherzando? Da quando gli
amici si comprano? Diana non voglio nulla in cambio, ma solamente
aiutare a
salvarti.”
Gli
occhi si inumidirono di nuovo,
ma era più difficile fingere forza.
“Io..
Grazie, James, sei veramente
un angelo. Non so cosa dire, non so come sdebitarmi davvero, posso fare
qualcosa?”
Lui
prese il suo cappotto lungo e
lo infilò con nonchalance, continuando a guardami con forza.
“Per
il momento nulla. Magari una
cena cucinata da te, qualche volta. So che sei una cuoca
provetta.”
Mi
fece l’occhiolino abbandonando
per un attimo quell’aria professionale che ben si addiceva al
suo completo e
alla sua cravatta nera.
Che
il vero James fosse diverso?
Mi
ritrovai a sorridere
stranamente mentre l’uomo si dirigeva velocemente verso la
porta.
“Ora
posso tornarmene a casa. Ho
una tesi di laurea da leggere; mia sorella non mi da pace.”
Con
aria abbattuta aspettò che gli
aprissi la porta e mi guardò di nuovo in quel modo strano
che mi inquietava ed
allo stesso tempo mi faceva sentire diversa, mi faceva sentire bella.
“Buona
notte, Diana. Sogni d’oro e
a lunedì sera.”
Gli
sorrisi, stringendo con forza
la maniglia per non afferrare la sua mano ancora pericolosamente vicina
alla
mia.
“’Notte
James, dormi bene.”
Prima
di vederlo andare via ed
abbandonare il mio appartamento, mi baciò lievemente una
guancia sorridendo e
voltandosi definitivamente.
Quel
contatto mi aveva lasciato
letteralmente a bocca aperta, ma per fortuna lui non si
voltò più per
guardarmi.
Mentre
percorreva la scalinata,
non riuscii a staccare i miei occhi da quelle grandi spalle e dalla
lunga
schiena che con andatura elegante, usciva dalla mia vista.
Rimasi
parecchi minuti aggrappata
alla porta e a toccarmi la guancia ricordando la leggerezza e la
morbidezza di
quelle labbra.
Ero
sicura, non le avrei più
dimenticate.
E
non sapevo se quello fosse un
bene o un male.
---
Ciao!
Stranamente
aggiorno così presto…
Credevo che sarebbero passati dei mesi!
Questa
storia si scrive da sola e
non riesco a fermarmi quando inizio a scriverla.
Spero
vi piaccia, perché a me fa
emozionare molto.
Diana
è una donna forte, una donna
che sta risalendo da capo la scala della vita. Ce la farà,
vedrete, e James l’aiuterà
molto. Molto più di quello che entrambi pensano.
Vi
ringrazio davvero per essere
arrivate fino a qui.
A
presto <3
Ps:
Vi lascio il link della mio
nuovo
gruppo.