Il capitano
Rabb è, ovviamente, il mio
preferito. Ma ho un debole anche per Gunny, il tenebroso sergente dei
Marines
Victor Galindez. Le ultime puntate della settima
stagione mi hanno ispirato questo racconto.
Solo un attimo
I
suoi occhi.
Fin
dalla prima volta che l’aveva vista, lo avevano colpito i suoi occhi.
L’aveva
incontrata al villaggio, quando era andato in perlustrazione, alla
ricerca di
qualunque elemento sarebbe potuto essergli utile per portare a termine
la
missione alla quale era stato assegnato.
Lei indossava il burqa, l’abito delle donne afgane che le
copriva tutto
il corpo e il viso, lasciando scoperti solo gli occhi.
I
suoi erano davvero belli. Nerissimi. Ma soprattutto molto intensi.
Occhi che
scrutavano nell’animo. Occhi che facevano venir la voglia di perdercisi
dentro. Lo aveva
guardato per un lungo momento in
silenzio, poi si era voltata ed era entrata in una casa. Più tardi,
quando
aveva chiesto informazioni ad un uomo, era stata fatta chiamare, per
tradurre
le sue parole, poiché conosceva la lingua americana.
Aveva
una voce molto calda. Parlava lentamente, senza mai lasciare
l’interlocutore
con lo sguardo. Gli chiedeva cosa doveva domandare; quindi si rivolgeva
all’uomo e gli parlava con calma nella sua lingua. Dopodiché tornava a
rivolgersi a lui. E di nuovo, riferendogli le informazioni ricevute, lo
scrutava attentamente.
Il
sergente dei Marines Victor Galindez non si era mai sentito tanto
scombussolato
davanti ad uno sguardo. E sì che di sguardi n’aveva ricevuti, nella sua
vita! Era un
bell’uomo e attirava
l’attenzione delle donne. Era stato guardato spesso con ammirazione o
con
desiderio. Quando
invece aveva lavorato come sceriffo, a volte aveva ricevuto occhiate
rabbiose,
che esprimevano odio. Mentre da quando si era arruolato nei Marines,
spesso i
suoi superiori gli avevano rivolto sguardi gelidi, autoritari. Oppure
d’approvazione, quando si era distinto in qualche missione particolare.
Ma
mai nessuno sguardo l’aveva turbato tanto.
Poco
dopo aver terminato di tradurre per lui, l’aveva lasciato e se n’era
tornata
dove si trovava prima che la chiamassero. Quella
notte, Victor aveva sognato quegli occhi.
L’aveva
rivista due giorni dopo in un altro villaggio.
Galindez
si trovava in Afghanistan, dopo aver dato le dimissioni dal Jag, la
Procura
Militare, dove aveva lavorato per alcuni anni. Aveva richiesto di poter
tornare
in servizio attivo, dopo l’attentato dell’11 settembre. Dopo aver
saputo di
tutti quei civili morti, orribilmente assassinati in nome di una guerra
terroristica che lui stesso, sebbene militare, non riusciva a
comprendere.
Le
guerre erano per i soldati. Uomini come lui che avevano deciso di fare
della
carriera militare la propria vita. Uomini e donne votati alla difesa
della
propria nazione. Uomini e donne che, pur addestrati al combattimento,
tuttavia
non avrebbero mai ucciso dei civili per un atto terroristico. I civili
non avevano
nulla a che fare con la guerra. Uomini, donne e bambini innocenti non
sarebbero
mai dovuti essere coinvolti. Tuttavia, purtroppo, a volte succedeva. E
ogni
volta, per lui era come ricevere una pugnalata in pieno petto.
Sapere
di tutti quei morti innocenti, uccisi per colpire l’America nel cuore
della
nazione, gli aveva fatto prendere la decisione di tornare al servizio
attivo.
Era stato mandato in Afghanistan, a combattere contro i terroristi
islamici
capeggiati da Osama Bin Laden.
La
sua missione, al momento, era quella di rintracciare un pericoloso capo
di Al
Qaeda, l’organizzazione terroristica responsabile degli attentati alle
Torri e
al Pentagono. L’operazione HIDRA doveva servire a rintracciare Kabir, e
lui ne
era il responsabile.
Kabir
era un uomo furbo e molto abile a nascondersi, soprattutto perché
idolatrato
come condottiero e quindi appoggiato da molti.
Toccava a lui rintracciarlo e, finalmente, catturarlo.
Dirigeva un
gruppo speciale che lavorava per la CIA e suo unico referente era
l’agente
speciale Clayton Webb. Ma ufficialmente si trovava li, con tutti gli
altri
militari, per dare la caccia a Bin Laden. Nessuno doveva sapere che
anche Kabir
era ricercato tanto quanto il suo capo militare e spirituale.
Quando
l’aveva rivista, non aveva potuto trattenersi dal rivolgerle la parola. Era conscio di esporla ad
eventuali critiche
tra la sua gente. Ma gli era stato impossibile resistere. L’aveva
avvicinata e
l’aveva salutata:
“Salve.
Ci rivediamo…”
Lei
dapprima non aveva risposto; aveva abbassato gli occhi, per un attimo.
Poi,
rialzandoli e guardandolo in volto aveva detto a sua volta:
“Salve.”
Victor
aveva creduto che non avrebbe aggiunto più nulla, e stava per voltarsi,
quando
la sua voce era risuonata scherzosa:
“Mi sta seguendo, per caso?”
Sorpreso,
le aveva rivolto un sorriso imbarazzato e aveva deciso di stare al
gioco:
“E
se fosse?”
E
lei, ancora una volta, lo aveva spiazzato:
“Ne sarei felice!”
Poi
erano stati interrotti: un suo uomo lo aveva chiamato per fargli vedere
qualcosa. Lui lo aveva seguito senza interesse, con la mente ancora
alla frase
della donna. Quando era tornato sui suoi passi, lei non c’era più. Avevano trascorso alcune ore
in quel
villaggio, a caccia d’indizi e informazioni. Ma Kabir sembrava
scomparso nel
nulla.
Al
ritorno alla base, l’aveva trovata ad attenderlo fuori del campo. Gli
uomini
che l’accompagnavano lo avevano guardato, incuriositi, e qualcuno aveva
mormorato anche una battuta. Victor se n’era infischiato e l’aveva
raggiunta. La sera stava
calando sul
deserto afgano e l’aria cominciava a diventare più fresca. Si erano
incamminati
in silenzio, diretti ad una piccola oasi verde. Le ombre della notte
stavano
avvolgendo tutto quanto, a poco a poco, ma dall’accampamento poco
distante
arrivavano delle luci.
Si
erano seduti, sempre in silenzio. Quindi Victor le aveva chiesto:
“Come
mai sei qui?”
“Ti
ho seguito…” aveva risposto lei.
“Come
ti chiami?”
“Farisa.
Farisa Tarik. E tu?”
“Victor
Galindez. Sergente Victor Galindez, ai suoi ordini!” le aveva risposto
con tono
pomposo.
Lei
lo aveva guardato ancora una volta negli occhi e lui si era sentito
chiederle:
“Posso
vedere il tuo viso?”
Prima
di poterla fermare, imbarazzato dalla sua stessa richiesta, lei si era
già
abbassata il velo dal volto, lasciandolo scoperto. Victor l’aveva
guardata,
affascinato dal suo viso bellissimo.
“Sei
molto bella…”
“Anche
tu.”
Poi
erano rimasti in silenzio. Lui avrebbe tanto desiderato baciarla, ma
non osava.
Temeva di offenderla, in qualche modo. Eppure aveva percepito
immediatamente,
fin dal loro primo sguardo, l’improvvisa attrazione che era nata tra
loro.
Tra
un sergente americano dei Marines e una donna afgana, che parlava la
sua
lingua. Tra un uomo che era lì per catturare degli assassini e una
donna il cui
padre, o fratello, o amante, poteva essere uno degli assassini stessi.
Eppure lui
sentiva dentro di sé che lei era diversa. Che di lei si poteva fidare.
“Chi
sei?” le aveva quindi domandato, quasi seguendo il filo dei suoi
pensieri.
Lei
aveva immediatamente capito cosa voleva sapere, perché aveva risposto:
“Studio
genealogia afgana e mi sposto di villaggio in villaggio, per le mie
ricerche.
Mi sono laureata in America… amo molto il tuo paese”
“Tu?
Tu ami molto il mio paese?” aveva chiesto lui, sorpreso da quella frase.
“Mio
padre è afgano, ma mia madre è americana. Sono vissuta in America fino
a poco
tempo fa, e sono tornata qui per i miei studi.” Poi aveva proseguito,
interrompendosi solo per brevi istanti, a raccontargli la sua storia:
la sua
infanzia in America, il primo viaggio fatto con suo padre, da bambina,
per
conoscere la sua gente, gli studi, la decisione di specializzarsi in
quella che
ora praticava come professione.
Victor
l’ascoltava attentamente, affascinato dal suo tono di voce, dal suo
sguardo
sempre rivolto a lui, anche se a volte perso in lontani ricordi, e
dalla sua
storia così interessante.
Aveva
parlato per oltre un’ora, ininterrottamente. Quando aveva terminato il
suo
racconto, gli aveva rivolto un buffo sorriso imbarazzato, e gli aveva
chiesto:
“Perché
non mi hai fermato?”
“Mi
piaceva la tua storia…” aveva risposto lui. In parte era vero, ma
soprattutto
gli era piaciuto ascoltarla. Ascoltarla e osservarla mentre le sue
labbra
morbide formulavano le parole e le mani si muovevano leggermente,
assecondandole con gesti eleganti.
“Ora
capisco perché parli bene la mia lingua. E perché ti sei scoperta il
volto…”
Lei
gli aveva sorriso, di nuovo. Allora Victor non era più stato in grado
di
resistere: lentamente, quasi per darle il tempo sufficiente a
respingerlo, si
era abbassato verso di lei, per baciarle le labbra. E lei non aveva
fatto nulla
per fermarlo. Aveva accolto la sua bocca dolcemente, ricambiando il suo
bacio.
“Farisa…”
le aveva sussurrato, quando l’aveva lasciata.
“Non
dire nulla, ti prego…” aveva replicato lei, accarezzandogli il viso e
attirandolo a sé. Allora l’aveva baciata di nuovo. E questa volta non
c’era più solo dolcezza
tra loro, ma anche desiderio. Il profondo desiderio di abbandonarsi
l’uno tra
le braccia dell’altro, senza pensare a nulla. Dimenticando perché
fossero in
quel luogo. Dimenticando
l’odio che
stava dilaniando i loro paesi, la guerra, il terrorismo, e tutta la
morte che
li circondava. Con il pensiero rivolto solo a loro due e a quel fuoco
che li
stava bruciando e che era apparso tanto improvvisamente. Pensando
esclusivamente ai loro corpi e al piacere che avrebbero potuto
condividere…
Ma
il destino aveva deciso diversamente. Dopo averli fatti incontrare,
dopo aver
acceso in loro il fuoco della passione e la scintilla dell’amore, aveva
in
serbo altro.
Victor
si era sentito chiamare da un suo compagno e l’aveva lasciata andare.
Non
averla più tra le braccia gli era parsa la cosa peggiore della sua vita. Eppure aveva dovuto farlo.
L’aveva aiutata a
sollevarsi e poi si era incamminato con lei verso la base militare. Non voleva lasciarla, ma lei
aveva sostenuto
che, così com’era arrivata, sarebbe riuscita a tornare a Kandahar. Lui
non
avrebbe potuto in ogni caso accompagnarla. Così, rassegnato, l’aveva
lasciata
andare ed era rientrato. Si era voltato un attimo a guardarla, ma lei
era già
scomparsa.
Due
giorni dopo, l’aveva rivista.
Era
tornata a cercarlo, ma lui, purtroppo, non poteva disporre di molto
tempo.
Erano andati a passeggiare di nuovo attorno al campo e lui le aveva
spiegato
brevemente, senza scendere troppo nei dettagli, che era stato
incaricato di una
missione speciale. Lui e i suoi uomini avrebbero dovuto localizzare un
particolare mezzo di trasporto che sarebbe dovuto essere distrutto. Le
aveva
chiesto se avrebbe potuto avvertire il villaggio dove si erano visti la
prima
volta, per impedire agli abitanti di uscire da casa, onde evitare di
essere
coinvolti nell’attacco.
Non
le aveva detto che, nel frattempo, Webb aveva preso informazioni su di
lei e
che lui stesso la stava usando per rendergli più facile la missione.
Del resto,
lui non avrebbe saputo come avvertire gli abitanti del villaggio,
poiché non
parlava la loro lingua. Lei invece conosceva il farsi.
Ma lei aveva capito lo stesso. Lo aveva
guardato in silenzio, con quei suoi occhi intensi, nerissimi e,
sfiorandogli il
volto, gli aveva detto:
“Ti
aiuterò”.
Perché
glielo aveva chiesto? Perché?
In
seguito tutto era andato diversamente da come sarebbe dovuto andare.
La localizzazione del furgoncino che
attendevano era stata effettuata ma, contrariamente a quello che si
aspettavano, l’automezzo non trasportava Kabir.
Si trattava di un furgone dello stesso colore di quello
sospettato, con
a bordo, tuttavia, dei civili: abitanti del villaggio che Farisa
avrebbe dovuto
avvertire. Al momento, però, Galindez non poteva saperlo e aveva dato
via
libera all’attacco. Il risultato della missione era stato la morte di
alcuni
civili afgani e l’ennesimo insuccesso nella caccia a Kabir.
A
seguito di quell’errore, erano giunti alla base, direttamente da
Washington, il
capitano Rabb e il colonnello MacKenzie per svolgere le indagini del
caso e per
valutare le responsabilità di Galindez. L’esercito si aspettava un
rapporto
dettagliato dai due ufficiali del Jag, una volta suoi colleghi. Era
stato
contento di rivederli, anche se le circostanze non erano delle
migliori. L’avevano
immediatamente interrogato in proposito ed egli aveva fornito la sua
spiegazione. Si sentiva terribilmente in colpa per aver causato la
morte di
alcuni civili… Aveva parlato anche di Farisa, limitandosi a dire che le
aveva
affidato il compito di avvertire il villaggio. Ma aveva subito colto
nell’espressione ben nota del capitano Rabb il dubbio che l’ufficiale
si poneva
riguardo alla sua fiducia mal riposta nella donna. Tuttavia Victor lo
aveva
rassicurato, dicendogli che si fidava ciecamente di lei.
Rabb
e MacKenzie non sembravano convinti e, da ottimi investigatori quali
erano, si
erano premurati di verificare cos’era successo quel giorno al
villaggio. Le
notizie che gli avevano comunicato in seguito, lo avevano sconvolto
ulteriormente: secondo la versione riferita da una delle donne del
villaggio,
interrogate dal colonnello, sembrava che nessuna donna avesse avvertito
di
restare nelle case. Al contrario, una donna che accompagnava un uomo
dagli
occhi di due colori diversi, aveva detto loro di fuggire, perché il
villaggio
sarebbe stato attaccato dagli americani. Dalla descrizione fornita, la
donna
sembrava essere Farisa. E l’uomo dagli occhi diversi Kabir.
Il
capitano Rabb e il colonnello MacKenzie, a quel punto erano più che
convinti
che Farisa avesse tradito. Eppure Victor non riusciva ancora crederci:
era
fermamente convinto che Farisa, se davvero di lei si trattava, non
avesse
accompagnato Kabir di sua spontanea volontà, ma vi fosse stata
costretta.
Il
giorno successivo a quella scoperta, Webb lo aveva voluto con sé.
C’erano
sviluppi nell’operazione HIDRA. Victor l’aveva seguito, fiducioso che
sarebbero
riusciti a catturare Kabir e a salvare Farisa. Ma quando Clayton Webb
gli aveva
comunicato che avevano ricevuto informazioni top-secret che rivelavano
il
nascondiglio di Kabir e nella notte il luogo sarebbe stato bombardato,
Galindez
per poco non lo aveva assalito. Aveva
chiesto a Webb di rimandare l’attacco, pregandolo di agire in modo tale
da
poter catturare Kabir e liberare la donna che amava.
Purtroppo la ragion di stato non ammetteva certi sentimenti. E la
guerra neppure. Pur a
malincuore, Webb non aveva potuto far
altro che dare il via al bombardamento.
Galindez,
col cuore in pezzi, aveva poi seguito l’agente della CIA sul luogo
dell’attacco.
L’immagine
che gli si era presentata davanti agli occhi, lo aveva fatto
sprofondare
ulteriormente nella disperazione: la zona era devastata dalle
esplosioni e le
case, che erano servite probabilmente da rifugio a Kabir, erano
completamente
distrutte.
Ora
Victor stava guardando quelle macerie, disperato. Quante probabilità
avrebbe
avuto Farisa, di salvarsi da quel disastro?
Sentì
una mano posarsi sulla sua spalla e la voce del capitano Rabb che gli
stava
dicendo:
“Mi
spiace, Galindez…”
Non
si era neppure accorto che il colonnello e il capitano avevano
anch’essi
raggiunto il luogo dell’esplosione. Li guardò per un attimo, osservando
che
anche loro sembravano essere sopravvissuti ad un bombardamento, tanto
erano
malridotti e affaticati. Cosa
diamine era successo ai due ufficiali?
Non
fece in tempo a chiederlo: un suo compagno lo stava chiamando. Col cuore in gola, si voltò
verso il soldato
e lo guardò. Immediatamente capì cosa era successo.
“Abbiamo
trovato Farisa…” disse il militare.
“Come
sta?” si sentì chiedere.
“Mi
spiace, Galindez. E’ morta poco fa…”
Com’era
quel detto? Sentirsi crollare la terra sotto i piedi… Ecco: calzava
proprio a
pennello.
“Ha
detto qualcosa, prima di morire?” chiese in un sussurro al suo compagno.
“Si.
Quando è arrivata al villaggio, Kabir l’ha presa in ostaggio e l’ha
obbligata a
fornire false informazioni agli abitanti. Poi se n’è andato, portandola
con sé.
Pensava che, se avesse viaggiato con una donna, avrebbe dato meno
nell’occhio…”
Galindez
guardò il capitano Rabb e il colonnello MacKenzie, come a sottolineare
che
aveva sempre avuto ragione lui: Farisa non lo aveva tradito.
Due
militari uscirono dalle rovine con un corpo avvolto in un lenzuolo e lo
adagiarono delicatamente ai piedi del sergente Galindez. Lui rimase immobile per un
attimo, a fissare
quel corpo nascosto. Vagamente percepì la voce del capitano Coulter che
ragguagliava Rabb e MacKenzie sugli ultimi sviluppi: tra le macerie era
stato
trovato un dito, il cui DNA risultava essere quello di Kabir. Un dito
solo,
senza alcun corpo…
Finalmente
si decise. Si piegò sulle ginocchia e scoprì il volto. E,
immediatamente gli
occhi gli si riempirono di lacrime.
Il
bel viso di Farisa giaceva a terra, sporco e ferito, ma sempre
bellissimo. Victor
desiderò poter rivedere, per un’ultima
volta, i suoi occhi. Ma non sarebbe stato più possibile…
Girò la testa
dall’altra parte, mentre le lacrime scesero a rigargli il volto. A lui
non
importava, però. Non importava che i suoi uomini lo vedessero piangere…
Non gli
importava che il capitano Rabb, il colonnello MacKenzie e lo stesso
Clayton
Webb fossero lì, muti testimoni del suo dolore.
Farisa
era morta e lui non poteva più amarla come avrebbe desiderato fare… Il
loro
amore era durato solo un attimo.
Solo
un attimo, eppure…
Eppure
lui l’avrebbe ricordato per sempre.