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Autore: whiteangeljack    03/02/2012    3 recensioni
Un tentativo di portare a galla i retroscena del rapporto tra Sherlock e Mycroft. Spoiler 2x03 "the reichenbach fall"
Genere: Angst | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Mycroft Holmes , Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Disclaimer & Avvertimenti: I protagonisti della serie ahimè non mi appartengono. In pratica è il mio esordio nel fandom. Non è un granchè come storia e non mi convince moltissimo ma dopo la fine della seconda stagione non potevo tacere. Assolutamente no. Fatemi sapere cosa ne pensate.
Attenzione!!! La shot è farcita di citazioni non segnalate e di angst. Tanto, tanto, tanto angst. L'ho detto angst? Lettura a vostro rischio e pericolo.

******



Mycroft, non ho sonno.”


Ricordava tutto di quella notte. Gli occhi brillanti di Sherlock che riuscivano a scavare il buio con il metallo affilato delle loro iridi, il calore delle coperte della stanza che condividevano, il vezzoso profumo di colonia che aleggiava nell’aria, o sarebbe stato meglio dire cheinfestava l’aria, segno che la donna di servizio non aveva ancora cambiato i suoi pessimi gusti, e il respiro che si infrangeva sul soffitto a un centimetro dal suo naso. Letto a castello. Lui odiava i letti a castello. 


“Conta le pecore.” Aveva grugnito seccato, rigirandosi dal lato opposto per dichiarare la discussione chiusa. Speranza stupidamente vana. Allora come oggi Sherlock doveva avere l’ultima parola, sempre.


“Non mi va. È noioso.” Lo avrebbe ucciso. Se per strozzarlo nel sonno non ci fosse stato bisogno di gettarsi in pasto al freddo gelido della camera lo avrebbe fatto, davvero.


“È per questo che si fa di solito, Sherlock. E ora lasciami dormire.” Ennesimo fruscio di coperte, ennesimo pesante sospiro. Un silenzio rassicurante cullava i suoi pensieri. Magari era riuscito a zittirlo. Magari-


“Mycroft?” Sbuffò, gettandosi a pancia all’aria sul materasso.


“Io ti ammazzo.”


Silenzio.
Poi un suono ovattato, argentino, musicale. Inarcò un sopracciglio: ma cosa…?
 In un attimo la consapevolezza: stava ridendo. Di lui.


“Si può sapere che hai da ridere?” Aveva sibilato piccato, affacciandosi oltre il bordo del letto. Erano le tre di notte e lui aveva sonno, un dannato e fottutissimo sonno, e Sherlock cosa faceva? Rideva. L’apocalisse doveva essere alle porte.


“Non essere sciocco. Sappiamo bene entrambi che sei troppo pigro per alzarti da lì. E non guardarmi stralunato, disturbi i miei pensieri e credimi, è già sufficiente dover tollerare il fatto che tu sia ingrassato di circa un chilo, grazie a te le molle del letto cigolano più o meno un terzo in più di prima. E…”

A quel punto del discorso Ricordava di aver artigliato sconsolato il ferro del parapetto smaltato, combattendo l’istinto di prenderlo a testate fino a svenire. Aveva sonno, un maledettissimo, fastidiosissimo, urgentissimo sonno.


“Ok, mi arrendo. Hai vinto tu. Ora dimmi cosa vuoi.”


Sherlock tacque e in quel momento Mycroft immaginò di vederlo sorridere. L’irritazione gli diede alla testa, ma se era questo il prezzo da pagare per un’ora di sonno e sia, gli avrebbe dato la soddisfazione della resa. Qualunque cosa pur di arrivare all’esame dell’indomani con un aspetto per lo meno presentabile. Era pur sempre il suo esame di maturità, diamine.


“Raccontami una storia. – aveva esordito quel fastidioso demonietto che era suo fratello. -  E cerca di non essere noioso.”

Come se non essere noioso agli occhi di Sherlock Holmes fosse la cosa più facile da fare alle tre di notte con i neuroni che connettevano ad intermittenza come le luci di un albero di natale. Sospirò per l’ennesima volta – rimbeccato prontamente dal più piccolo con un ‘non sbuffare, mi irrita.’- e passò mentalmente in rassegna le storie che avrebbe potuto raccontare. Il fatto che Sherlock odiasse le favole a lieto fine ( e cioè il buon 99,9% di quelle esistenti) e che definisse il restante 0,1% con una sequela di epiteti non molto carini – noioso, antieducativo, scontato, banale, sterile,  assurdo e inutile- e pressoché tendenti all’infinito, gli rendeva il compito tutt’altro che facile.

Stava per strapparsi un capello alla volta e la voce pressante di Sherlock stava per riempire nuovamente quel silenzio paradisiaco quando un’idea tanto improvvisa quanto inaspettata, lo folgorò. Ghignò soddisfatto: se il suo adorabile fratellino non amava le favole avrebbe aggirato l’ostacolo utilizzandolo come esercitazione per l’esame dell’indomani. ‘Mettiti comodo’ gli augurò mentalmente prima di sprofondare bene la testa nel cuscino, di chiudere gli occhi e di iniziare a raccontare.


“ C’era una volta un uomo, uno schiavo, rinchiuso sin dalla nascita in una caverna insieme ai suoi compagni e incatenato mani e piedi ad una delle pareti della grotta, così da poter guardare solo in avanti.” Fece una pausa, immerso nel silenzio della camera.


“Non ha senso – borbottò Sherlock. – perché qualcuno dovrebbe voler incatenare degli schiavi in una grotta?”

Alzò gli occhi al cielo.


“È una storia Sherlock, lasciami continuare.”


Riprese nuovamente la parola. “ Le giornate all’interno della caverna erano davvero molto noiose, le uniche cose visibili agli schiavi erano le ombre sulla parete davanti ai loro occhi, e per passare il tempo in molti facevano a gara per indovinare i nomi dei misteriosi oggetti che vedevano. Finché un giorno…”


“Finché un giorno?”


Finché un giorno- ricalcò piccato - uno degli schiavi non riuscì a liberarsi e a fuggire. In preda all’euforia risalì il fondo della grotta e scoprì che ciò che aveva osservato per un’intera esistenza erano solo ombre. Sbalordito, il fuggiasco iniziò a guardarsi intorno e ad ammirare il mondo reale, dapprima timidamente, visto che i suoi occhi erano estremamente sensibili alla luce, poi sempre più audacemente. Osservò per la prima volta i fiori, gli alberi, le stelle, i pianeti, il sole…”


“grazie, credo di aver presente cosa vide.” Aveva sbuffato, irritato, per poi proseguire senza dargli retta.


“Vide il sole, dicevo, e rimase così per molti anni ad ammirare il mondo intorno a lui. Poi un giorno-“


“Noioso.”


“Un giorno dicevo-“


“Noioso.”


“Sherlock, vuoi lasciarmi continuare?”


“È noioso.”


“Lo sarebbe di meno se la smettessi, credimi. Infatti un giorno lo schiavo si annoiò, proprio come te.”


“Cosa?”


“Insomma sei forse sordo?”


“Ma non ha senso Mycroft, perché lo schiavo dovrebbe annoiarsi di ammirare il mondo, ha ammirato le ombre per una vita intera senza
annoiarsi!”

A quel punto aveva sorriso dell’ingenuità del suo fratellino.


“Perché tu ti annoi? Il principio è lo stesso.” Si accorse con un pizzico di autocompiacimento di averlo finalmente zittito.


“Lo schiavo si annoiò - come stavo raccontando- e decise di tornare indietro a liberare i suoi compagni. Raggiunse la grotta, discese nuovamente fino in fondo e ritrovò i propri amici, ma non riusciva a vedere bene, offuscato dalle tenebre.”


“Che sciocco.” Aveva commentato Sherlock, agitandosi sotto le coperte.


“Già, che sciocco. – gli aveva fatto eco Mycroft, pensieroso. – una volta giunto lì, sebbene non vedesse, lo schiavo provò a convincere gli amici di ciò che aveva visto, ma quelli non gli credevano e iniziarono anche a prenderlo in giro. Così lo schiavo provò a liberarli ma quelli non volevano saperne di fuggire e alla fine -“

Il respiro regolare che proveniva dal letto sotto al suo lo rassicurò sul fatto che la piccola peste si fosse addormentata. Le sue labbra si piegarono in un sorriso triste.
 
“- alla fine lo schiavo finì ucciso.”
 
 
 
 
Il cielo sopra il Bart’s è una volta scavata nel nulla, un cratere di disperazione e sangue  grigio, che cola sulle cime dei palazzi sottostanti. C’è qualcosa di sbagliato nella scena che gli scorre davanti agli occhi in diapositive sbiadite dal tempo e dai sentimenti, quelli che per un’intera vita si sono riversati e annullati definitivamente nella figura fragile che ondeggia sulla cima del tetto.

Ha i piedi cementati al suolo e se davvero credesse nel Dio lontano che ha condannato quell’essere così puro e innocente, quel bambino viziato e permaloso che gioca a fare l’uomo, fingendo di ignorare la vita che i suoi occhi scorgono e inseguono ma non riescono a raggiungere, se davvero Mycroft credesse nel Dio che ha condannato lui e suo fratello a tutto questo lo pregherebbe di ucciderlo.   
Lo supplicherebbe di fulminarlo lì, all’istante, di disintegrarlo cellula per cellula, atomo per atomo. E non se ne curerebbe, stoico come l’eroe di una tragedia che attende il chiudersi del sipario, in un’attesa trepidante che si insinua sotto pelle e che lo ghiaccia fin nell’anima.
 


Gli eroi non esistono.



Era stato lui ad insegnarlo a Sherlock la prima volta quando, a sei anni, lo aveva visto scoppiare in lacrime per la delusione e piangere. Il vederlo lì inerme, pallido e traballante sulle sue gambe da bambino, con la consapevolezza di essere stato lui l’autore di quel disastro, lo aveva fatto sentire un bastardo. Aveva ucciso il suo eroe, aveva demolito la sua figura di fratello perfetto, aveva cancellato ogni briciolo di fiducia nell’animo fragile di quel cucciolo che lo aveva creduto in lui in ogni occasione.
 


“Gli eroi non esistono, Sherly.”
 


Glielo aveva sussurrato in un orecchio, abbracciandolo per soffocare le lacrime nei suoi riccioli corvini. Era una bugia, una bugia dolorosa che lo avrebbe seguito a vita come un’ombra, era una menzogna inscindibile dal suo essere che però lo avrebbe salvato dagli altri e da se stesso. Era necessario – si era detto- che fosse così, gli eroi non sarebbero dovuti esistere per Sherlock. Mai.
 
 


 Era necessario.
 
 


Se lo era ripetuto quando, crescendo, lo aveva visto allontanarsi sempre di più da lui ed andare alla deriva.
Sociopatico.
 Così lo aveva definito lo psicologo che i suoi genitori lo avevano praticamente costretto a consultare. A quelle parole sua madre era scoppiata in lacrime, artigliandosi i capelli per la disperazione, suo padre invece si era limitato a rivolgere al figlio un’occhiata cupa e dispiaciuta, smarrita. Sherlock era un bambino espansivo, curioso, un po’ timido ma fondamentalmente estroverso con le persone che amava, lo era sempre stato. Ma gli eroi non esistevano e il ghiaccio era germogliato nel suo cuore, cambiandolo, trasformandolo, annullandolo.

“Sociopatico ad alta funzionalità.” Aveva precisato suo fratello quel giorno senza battere ciglio, aprendo e chiudendosi alle spalle la porta dello studio specialistico con una non curanza che aveva colpito Mycroft dritto al cuore. Lo aveva ucciso.
 
 


Era necessario.
 
 


Era successo al suo rientro da una delle prime conferenze dopo la laurea, quando ancora era un consulente alle prime armi ai servizi del
governo. Era rientrato a casa con un pizzico di apprensione e una falsa euforia sul volto e  aveva trovato la sua stanza vuota. Il sorriso gli era morto sulle labbra. Sherlock non c’era. Era corso da sua madre e l’aveva trovata seduta in cucina, il volto pallido e scavato e la chioma corvina spenta e priva di qualsiasi vitalità, lo sguardo vacuo rivolto alla finestra.


“Se ne è andato.” Gli aveva detto semplicemente.

Poi lo aveva abbracciato.


“Se ne è andato Mycroft.” Per la prima volta quel nome,  il suo nome gli era sembrato vuoto. C’era troppa disperazione in quella voce incrinata e malferma, troppo dolore in quegli occhi, troppo silenzio in quella casa così grande e immensa per due persone sole. Ma ciò non sarebbe bastato a farlo tornare.


“Tornerà mamma.”


Stava mentendo. Ancora. Ma sua madre lo aveva stretto a sé un po’ più forte, fingendo forse di credere alle sue parole inzuccherate per farlo sentire un po’ meno in colpa, un po’ meno fallito, o forse fidandosi di lui come aveva fatto Sherlock la prima volta.


“Ti voglio bene Mycroft.” Gli aveva mormorato, amorevole. E si era sentito un bastardo per la seconda volta.


“Ti voglio bene anch’io, mamma. Credimi.” Credimi, ti prego.



 Se ne era andata tra le sue braccia poco più di un mese dopo.

Perdonami mamma.

 
 


Era necessario.
 



 
La lapide dei suoi genitori era di un bianco anonimo e candido, ruvida al tatto come gli abbracci di suo padre e luminosa come il sorriso abbacinante di sua madre. Il cimitero era vuoto, quel giorno. Il funerale era stato breve e silenzioso, cupo come tutti i funerali. Alla funzione erano presenti solo lui e Anthea, la sua segretaria, che lo aveva seguito passo dopo passo con il solito riserbo, senza far domande. Le aveva chiesto di lasciarlo solo solamente quando erano arrivati all’ingresso del cimitero. “Bada a Sherlock e assicurati che non faccia gesti folli.” Le aveva detto e poi era entrato, strascicando un po’ i passi.


Si sentiva male ma non voleva darlo a vedere. Sarebbe morto presto anche lui, come aveva fatto sua madre e suo padre prima di lei.

Come aveva fatto Sherlock.

C’era un’unica pecca nell’essere un genio. Solo un genio può ucciderne un altro. E forse per questo motivo nella storia dell’umanità i grandi geni erano sempre stati soli. Due geni erano destinati a respingersi come atomi prima di disintegrarsi l’un l’altro e dar vita a qualcosa di nuovo. Un solo genio era un eroe. Due geni erano sinonimo distruzione. E forse era per questo motivo che quella menzogna gli era sembrata così vera all’inizio: gli eroi non esistevano per lui e per Sherlock ma sarebbero esistiti se uno dei due si fosse annullato.

Ma gli eroi non dovevano esistere per lui, e per questo Mycroft andava avanti.


Rimase in silenzio ad osservare la tomba dei suoi genitori. Avrebbe voluto gettarsi a terra e piangere, comportarsi come un qualsiasi essere umano per una volta sola nella sua vita, avrebbe voluto non credere di non essere un eroe. Per un attimo la febbre che lo tormentava divampò e fu come se il dolore prendesse letteralmente fuoco irraggiandosi nelle vene e attraversando muscoli e ossa senza alcuna distinzione. L’istante dopo tutto era vuoto.


“Sei in ritardo.” Aveva una voce persuasiva e quasi si stupì che fosse in realtà la stessa del vecchio se stesso.


“Mi hanno preceduto, ci hanno preceduto entrambi.”

Si voltò. Sherlock era più alto dall’ultima volta o forse era la sua estrema magrezza a farlo sembrare tale. I riccioli scuri gli adombravano il volto diafano, perfetto, acceso solo da quegli occhi penetranti e burrascosi; per un attimo gli sembrò quasi di notare la differenza.



Gli eroi esistono Sherlock, gli eroi esistono.




Erano più chiari, come vetri appannati dalla sua menzogna. Tutta la figura di Sherlock era più chiara, più luminosa, quasi evanescente. Vuota. Esattamente come lui.
 
 



Ma era necessario.
 



 
Vede il cappotto sollevarsi in uno sbuffo come un cavallo indomito. In quel momento tutto in Sherlock gli ricorda l’eroe che è stato e l’uomo felice che avrebbe potuto essere. Non è più certo ormai che la sua menzogna lo salverà, perché eliminato l’impossibile ciò che resta per improbabile che sia deve essere la verità,  ma prega che in qualche modo sia così.

Gli eroi muoiono alla fine della favola, gli eroi finiscono inevitabilmente per esser massacrati dai loro stessi simili, sono carne da macello che nasce con l’obiettivo di salvare gli altri ma con l’incapacità di salvare se stessa. Per questo Mycroft non crede negli eroi. Eppure uno di loro è lì, sul ciglio di un palazzo, e lui sta per ucciderlo. O forse lo ha già ucciso.
 


“SHERLOCK!!!”

 
Le grida del dottore squarciano l’aria e l’eco è straziante, insopportabile, come se la voce, prima di spezzare l’aria, gli abbia strappato il cuore dal petto.

Intorno a lui la gente si muove come tanti piccoli burattini nelle mani di un unico, sadico, marionettista. Mycroft rimane ad osservare la cima del Bart’s anche dopo la caduta, e la consapevolezza del fallimento gli esplode dentro con una violenza che sa che non potrà mai più estinguere. È come un’ombra, legata a doppio filo a lui, un’ombra che lo restituisce alla vita, che lo catapulta di nuovo nel mondo reale. E il dolore è così umano da colpirlo come uno schiaffo.

Quando vede John Watson trascinato via a forza dal corpo di suo fratello è costretto a voltare lo sguardo.


Dovrebbe esserci lui lì, in quel momento. Avrebbe dovuto esserci lui lì a difenderlo


“Vuole che dia disposizione di sgomberare l’area?” La voce di Anthea è un sussurro delicato carico di una gentilezza e di un tatto che non sente di meritare.


“No. Andiamo a casa.” La vede sbattere le ciglia in un moto di sorpresa: è dalla morte di sua madre che non torna in quel posto.


“Ne è sicuro?” Annuisce.


“C’è una cosa che devo fare.”
 
 
 




Gli alberi del cortile sono spogli e rattrappiti e le foglie sparse per il giardino accrescono l’inquietudine di quella casa bianca che lo osserva con lo sguardo appannato dal freddo. Aveva due anni quando suo padre aveva deciso di trasferirsi lì e quella casa conserva tutti i ricordi di una vita che ora gli sembra lontana anni luce e che riabbraccia con un sollievo inaspettato.


“Aspettami qui.”

Anthea ribatte al suo ordine con un cenno e lo segue con lo sguardo mentre ripercorre a ritroso il vialetto d’ingresso.

Mycroft non si sente a disagio, in un certo senso è come se la casa fosse caduta in un lungo sonno in attesa del suo ritorno, un ritorno senza rancore né gioia, condito solo dalla delusione. La porta cigola nell’aprirsi e l’interno è un uguale a come lo ricordava. Un velo di polvere ricopre i mobili ma sforzando un po’ l’immaginazione può quasi rivedere sua madre affacciarsi in cucina con le mani  sporche di farina e suo padre seduto in poltrona alzare lo sguardo dal giornale, ed accogliere con un sorriso il suo ritorno. Per un istante Sherlock è lì, seduto sul tappeto ad impilare uno sull’altro i libri della biblioteca per poi farli cadere e rotolare a terra fra le risate, e lui ha ancora i testi del college nella cartella e corre su per le scale come una furia, per gettare finalmente lo zaino sul letto e tornare dalla sua famiglia.


“Sei in ritardo.”



E Sherlock è davvero lì, seduto sul tappeto ad aspettarlo, e i suoi occhi non sono più montagne di ghiaccio né mari in tempesta ma sono aria, ossigeno che gli riempie i polmoni e spazza via con violenza ogni dolore, ogni rimorso, ogni delusione.


“Mi hai preceduto.” Sussurra, ed è come un disco rotto. Il suo cervello non riesce a pensare più nulla di coerente e Sherlock è lì, in quella casa dove pensava non sarebbe mai tornato e invece è lì, è lì.


“Perché?” Domanda ad un tratto, e avrebbe mille cose da chiedergli perché nei loro discorsi, brevi o lunghi che siano, parlano sempre di tutto e di nulla. E per una volta Mycroft ha bisogno di domandare, di sapere, di conoscere. E vorrebbe gridare come un folle: “Mamma,
Sherlock è tornato!!!”



“Dovevo dimostrarti che ti stavi sbagliando quel giorno. Gli eroi esistono, Mycroft.”


E tu sei uno di questi.
  
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