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Autore: Aine Walsh    05/02/2012    0 recensioni
In quella calda giornata di metà Giugno l’aeroporto straboccava di gente da tutte le parti, come se le vacanze estive fossero state anticipate per tutti. C’era chi saliva e chi scendeva dalle scale mobili, chi entrava e usciva dai gate, chi salutava amici e parenti con un «Torno presto» e chi esclamava trionfante «Sono tornato!», chi perdeva tempo passeggiando tra i negozi o sorseggiando qualcosa allo Starbucks e chi si affrettava per paura di non riuscire a prendere il volo, e così via.
Ma posso assicurare che tutti, proprio tutti, erano in compagnia.
Eccetto me, naturalmente.
[...]
Amanda Blair Morris, ventidue anni. Nata da padre americano di Baltimora e madre italiana, da otto anni risiedeva a Roma, Città Eterna, ma era stata invitata dal sottoscritto a trascorrere l’estate negli USA.
Ed era la mia migliore amica.
Genere: Comico, Generale, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Capitolo due - Amanda
 
Il viaggio fu abbastanza lungo e stancante, non tanto per Alex, ma quanto per me, povera vittima del jet lag che iniziava a sentirne gli effetti.
Non ricordo com’è che mi addormentai, so solo che quando riaprii gli occhi mi accorsi di essere poggiata contro la spalla del mio migliore amico, che sonnecchiava pure.
Da quella stessa posizione volsi lo sguardo in direzione del finestrino e mi rallegrai nel notare che stavamo cominciando a scendere; poco dopo la voce dell’hostess ci avvertì di prepararci per la discesa.
«Hey, siamo quasi arrivati» mormorai eccitata scrollandolo per una spalla dopo che tornai a sedermi.
Will aprì pesantemente un occhio, sbadigliando: «Questa è una cosa buona».
Attraverso l’oblo vedevo la città californiana allargarsi sempre più, fino a poter distinguere qualche grattacielo che si alzava possente dalla grande macchia grigiastra che tanto risaltava accanto al blu dell’oceano. Sorrisi di me stessa nell’aver pensato di paragonare quel panorama a un ingrandimento effettuato con Google Earth.
Più o meno due ore più tardi eravamo a bordo della Mini Cooper che la band aveva preso a noleggio per il periodo estivo, intenti a cercare di capire dove fosse la casa che ci avrebbe ospitati.
La situazione era abbastanza critica, almeno per noi due che ne eravamo coinvolti: da parecchio, infatti, giravamo in lungo e largo nei dintorni di Malibù, arrangiandoci di trovare la strada giusta da soli - considerato il fatto che il navigatore nel telefono del Gaskarth fosse totalmente fuori uso.
Alex continuava a guidare, ormai del tutto scazzato di girare intorno come un deficiente e infuriato del clamoroso fallimento del suo ipertecnologico cellulare, intanto che io guardavo in ogni direzione, desiderando con tutta me stessa di scorgere quel benedetto numero quindici inciso su qualche muro.
Invece, notai una stradina seminascosta che non mi sembrava proprio avessimo percorso. Indicai perciò quella viuzza coperta dagli alberi al mio compagno d’avventura, che la imboccò sperando in un miracolo. La strada era dritta, delimitata a destra da alti alberi che non permettevano di vedere la villa affianco e a sinistra da una palizzata in legno bianco, oltre la quale potevamo vedere l’oceano.
«Questa zona mi sa tanto di ricchi snob» commentò un po’ infastidito spostando lo sguardo.
«Ho la stessa identica sensazione... In fondo però che ce ne importa?».
«Assolutamente nulla, a meno che non interrompano i nostri festini» ridacchiò.
Risi insieme a lui, girandomi per guadare la strada di fronte appena un attimo prima che finissimo contro un enorme cancello in ferro bianco lucido.
«Alex frena!» gridai.
Con una mossa che avrebbe potuto fare invidia allo stesso Michael Schumacher, il ragazzo fermò l’auto in tempo, facendo urtare appena il cofano anteriore contro quel ferreo rettangolo.
Rimanemmo zitti per un minuto o due, semiparalizzati e con gli occhi sgranati.
«La prossima volta guarda la strada non il paesaggio, ok?!» lo rimproverai spaventata.
Nonostante il mio tono di voce ciò che dissi non sembrò nemmeno lontanamente interessargli, e quando mi voltai per vedere se si fosse ripreso dallo stato di paralisi lo trovai immobilizzato, sì, ma l’espressione di terrore era stata sostituita da un sorrisetto allegro, con lo sguardo perso davanti a sè.
«Quindi... Siamo arrivati» sentenziò infine.
«Arrivati?!».
Chi poteva dirlo che stavamo per avere un incidente contro l’entrata della nostra nuova casa?
Nel giro di una manciata di secondi avevamo già parcheggiato l’auto in garage e ci trovavamo davanti la porta, aspettando che Alex pescasse le chiavi dal borsello che portava a tracolla.
Dall’esterno la casa, o per meglio dire la villa, appariva molto grande e lussuosa: i muri erano bianchi e forati a intervalli regolari da grandi finestre chiuse che non vedevo già l’ora di aprire - da grande amante della luce che sono sempre stata. Il giardino tutt’intorno era verde brillante e ben curato e quando mi accorsi della grande altalena un sorriso mi comparve sulle labbra.
Una volta visto l’interno, non potei più smettere di continuare a chiedermi chi fosse quel ricco folle che affittava una casa del genere.
Appena entrati, ci ritrovammo dentro un grande salone rettangolare, il cui fondo non aveva un muro, ma una lunga vetrata che dava direttamente sull’oceano. Il salotto era grande e tutti gli arredamenti - divano, poltrone, tavolino, cuscini, e via dicendo - erano bianchi e color sabbia. La parete di destra era riempita da un grande televisore appeso e circondato sotto e ai due lati da custodie di Dvd, anche questi incassati. All’opposto, la parete di sinistra era occupata da una porta in legno chiaro, dietro la quale scoprii poi esserci la camera turchese che scelsi come mia stanza personale durante tutta la permanenza.
Dopo qualche minuto di silenziosa meraviglia, abbandonai le due valigie e lasciai cadere con un tonfo i due borsoni che portavo sulle spalle, iniziando a correre su e giù, dappertutto, esaltata.
La cucina, le camere da letto, persino i due bagni e lo sgabuzzino, tutto in quella casa era luminoso, confortevole e bello, ogni cosa sapeva di caldo, di estate, e in quei momenti credetti di non poter mai essere più euforica in vita mia.
Quando sentii la voce di Alex chiamarmi dal piano di sotto scesi in fretta le scale e lo trovai fuori, nel terrazzo che avevo solamente visto di sfuggita, senza farci troppo caso.
Anche la terrazza, ovviamente, era molto ampia e spaziosa, arredata con poltrone in vimini e sdraio in legno.
«Non ringrazierò mai abbastanza Matt e Rian per questo» disse quando fui dietro di lui.
Gli appoggiai una mano sulla spalla, guardando l’orizzonte davanti a me.
Sembrava una scena da film: il sole ormai quasi tramontato, una brezza leggera che ci scompigliava i capelli e il cielo che iniziava a scurirsi sopra di noi.
Una lieve gomitata al braccio mi riportò alla realtà; alzai lo sguardo in direzione di Alex che mi indicò con il capo una scala che non avevo notato e che collegava la villa alla spiaggia sottostante.
Uno sguardo complice e un mezzo sorriso furbo bastarono a farci correre veloci giù per la rampa, dritti verso la distesa blu dove ci tuffammo senza troppe esitazioni.
L’acqua era fredda ma piacevole, e poco mi importava di fare il bagno con i vestiti indosso; stavo lavando via tutta la stanchezza della giornata e le sofferenze degli ultimi tempi, quelle che mi avevano portato ad accettare immediatamente la proposta del mio migliore amico - oltre al fatto che mi facesse un grandissimo piacere rivederlo e che gli volessi tantissimo bene.
Non nuotavo, rimanevo a galla senza muovere un solo muscolo e mi lasciavo trasportare dal movimento lento delle onde, così, alla deriva, leggera e spensierata.
Mentre ammiravo il cielo, non seppi come, mi ritrovai improvvisamente sott’acqua tirata dalla caviglia sinistra, e poco ci mancò che bevessi tutto l’oceano. Riemersi come andai a fondo, senza preavviso, e solo dopo aver tirato un paio di profondi respiri, mi accorsi di trovarmi sulle spalle di Alex, che camminava verso la riva.
«Potevo morire, lo sai?» chiesi, senza alcuna traccia di rabbia o rimprovero nella voce.
«Lo so. Ed effettivamente, ora che ci penso, mi sto chiedendo perché ti abbia tirata su».
«Sei sempre stato molto gentile nei miei confronti, devo ammetterlo».
«Non ti sta più bene? Se vuoi posso provare ad essere quel tipo di migliore amico tutto abbracci soffocanti e parole idiote...».
Frecciatina colta.
«Sappi che se ti stai riferendo alla mia prima adolescenza, Alex, ripensa alle tue paranoie e al tuo essere quasi perennemente depresso, prima di prendere in giro me».
Quando finii di parlare eravamo già sul terrazzino, dove William mi fece scendere dalle sue spalle per poi sedersi su una sdraio. Presi posto accanto a lui mentre mi spostavo i capelli bagnati dal viso.
«Io e te non siamo una coppia normale» sorrise.
«Spiegati».
«Siamo fuori dal comune».
«Nel senso?».
«Nel senso che siamo troppo diversi».
«Gli opposti si attraggono» risposi in uno dei miei momenti di saggezza.
«Già».
Silenzio.
«E allora?» domandai.
«Cosa?».
«Perché siamo fuori dal comune?».
«Perché siamo diversi. Cioè, di solito gli amici non si comportano come noi due, non continuano ad insultarsi a vicenda...».
«Caro Alexander William, lasciami dire due cose: la prima è che penso proprio sia meglio così, immagina che tipo di amicizia sarebbe se ci comportassimo in modo... Più serio, ecco. Io e te! Seri! Ma ci pensi?» mi interruppi per ridere insieme. Avevamo più di vent’anni e continuavamo ancora a comportarci come se fossimo dei piccoli adolescenti stupidi e insensati; ricorrevamo alla serietà solo nei momenti di massima urgenza. «Seconda cosa, - continuai - più che coppia, io ritengo che noi siamo un duo, sì. “Coppia” suona in un certo modo... “Duo” sa più di complicità invece».
«E anche se sono irresistibilmente irresistibile, devo ammettere che la parola non si rifà al nostro caso».
«Vedo che hai capito, bravo!».
Si battè un indice sul mento, riflettendo. Alla fine esordì - realmente convinto di ciò che diceva: «Perciò siamo come Stanlio e Ollio...».
«Dio, Lex! Stanlio e Ollio no!» risi a gran voce tenendomi la pancia.
«Proponi tu, allora, sono curioso».
Mi morsi il labbro inferiore cercando di pensare a qualcuno che potesse somigliarci, ma non mi venne in mente nulla di appropriato.
«Ci penserò e ti farò sapere» conclusi alzandomi.
«Dove vai?».
«A fare una doccia» risposi ormai in salotto.
Mi presi tutto il tempo necessario - forse anche un po’ di più - e quando allungai una mano per prendere l’accappatoio, non trovandolo, mi ricordai di averlo lasciato dentro la valigia che non avevo ancora disfatto. Dovetti accontentarmi di prendere un telo bianco lì accanto al lavandino e di avvolgermelo intorno al corpo.
Altro problema: avevo abbandonato valigie e borsoni davanti alla porta d’ingresso.
Uscii dal bagno e mi insospettii subito del fatto di non udire alcun rumore; la televisione era spenta e, sbirciando dalla vetrata, Alex non era fuori. Cominciai a chiamarlo mentre mi avvicinavo alle scale, pensando che magari si trovasse sopra.
«Lex, tutto a posto? Lex? Dove sei? Al... Ah!».
Accadde tutto in un istante.
Per la seconda volta in quel giorno, mi ritrovai nuovamente sollevata da terra, fra le braccia di qualcuno che si divertiva come un matto a scuotermi a destra e sinistra. Quando finalmente quella muscolosa persona si decise a lasciarmi, mi sentii come in preda ad un brutto attacco di mal di mare.
Mi presi la testa fra le mani, voltandomi mentre sbottavo irritata: «Si può sapere che ti è pres... Zacky!». Il tono di voce iniziale cambiò radicalmente nel pronunciare l’ultima parola.
Il bassista palestrato dagli occhi chiari mi stava di fronte in tutta la sua statuaria figura, ridendosela come un matto. «Povero Gaskarth, non trattarmelo male» rise un’altra voce.
«Rian!» esclamai vedendo apparire anche il batterista.
«Che vuoi farci, a suo dire la causa di tutte le catastrofi sono io» borbottò Alex.
Rivolsi un sorriso al mio offeso migliore amico prima di andare incontro a quei due energumeni appena arrivati per abbracciarli.
«E’ bello rivederti, Amy», Merrick.
«Anche per me, ragazzi. Ma non dovevate arrivare la prossima settimana?».
«Abbiamo deciso di farti una sorpresa», Dawson.
Quei due erano la dolcezza fatta persona, giuro.
Dopo che sciogliemmo lo stretto abbraccio e mi guardai intorno, mi resi conto del fatto che fossimo quattro invece che cinque e perciò chiesi: «E Jack?».
«Eccomi» rispose facendo il suo ingresso.
Vestito con jeans scoloriti e strappati e una maglia blu, avanzava verso di me con calma insieme alla sua abbronzatura e al suo luminoso sorriso.
Non ho sentito campane a festa, non ho visto i fuochi d’artificio e non mi sono sentita svenire: semplicemente, ho avvertito un improvviso senso di confusione e felicità insieme, miste ad una strana leggerezza.
Sorrisi a mia volta, e notai subito che era un sorriso diverso da quello che avevo rivolto a Zack e Rian, diverso anche da quello che avevo serbato per Alex, ma non comprendevo esattamente in cosa si differenziasse.
Da quando Jack era diventato così... Così sexy, ecco?
E da quando io mi sentivo un’adolescente inesperta alla prima cotta?
Lo vidi allargare le braccia ed ero pronta e preparata già alla sola idea di farmi stringere da lui, fino a che non si fermò a un passo da me e mi squadrò dal basso verso l’alto, e spostare poi lo sguardo dal mio viso al mio petto.
«Vatti a vestire, svergognata!» esclamò divertito.
Gli altri presero istantaneamente a ululare dalle risate, mentre io, afferrando al volo un borsone, correvo con le guance in fiamme verso camera mia strillando con quanto fiato avevo in corpo: «Barakat, sei un fottuto pervertito!». 



Oooh, she's got a ticket to Ride... She's got a ticket to Ri-i-de...

Buondì! :D
Alors, la situazione mi sembra chiara... E qualora aveste domande, queste saranno chiarite nei prossimi capitoli, tranquille :)
Per il resto... Beh, mi auguro che questo capitolo vi sia piaciuto, tutto qui.
Grazie ancora a tutti :D

A.
  
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