Lo
osservavo lavorare dalla porta socchiusa, attento a non farmi notare.
Aveva
un’espressione serena mentre le sue mani esperte e sicure
eseguivano una
coreografia incomprensibile, facendo sparire e riapparire oggetti per
il puro
divertimento di farlo. Lo faceva come se fosse stata la cosa
più naturale del
mondo e la cosa mi incantava. Anch’io sarei diventato come
lui, un giorno.
Sarei stato il degno erede di Toichi Kuroba. Nei suoi occhi azzurri
rivedevo i
miei, lo stesso sguardo vispo e allegro, talvolta quasi infantile. E
mentre le
sue mani continuavano a danzare, il suo sorriso si allargò.
“Kaito,
vieni dentro,” mi intimò senza distogliere lo
sguardo dal suo gioco.
Entrai
con cautela, accostandomi la porta alle spalle. Aspettavo il suo
rimprovero.
Che, per mia sorpresa, non arrivò.
“Perché
ti nascondi? Hai paura perfino del tuo papà? Ti credevo
più coraggioso…”
“Io
sono coraggioso,” sbottai.
“E
allora avvicinati.”
Non
smetteva di sorridere, un sorriso dolce e malinconico. Le sue mani
iniziarono a
muoversi più lente e delicate. Con le lunghe dita affusolate
disegnava linee
morbide su una tela invisibile.
Azzardai
un passo verso di lui, poi mi fermai. Non ero più tranquillo
di prima, ma papà
non sembrava affatto turbato. Divorai quegli ultimi metri che ci
separavano,
attraversando l’enorme stanzone quasi di corsa.
Papà rise del mio entusiasmo.
Salii in piedi su una sedia accanto alla sua scrivania per vedere
meglio.
“Da
grande anch’io voglio diventare un mago come te,”
esclamai, cercando di imitare
i suoi movimenti.
“Sei
ancora un bambino, Kaito,” disse sorridendo.
Calò
il silenzio. Io lo fissavo incantato mentre una colomba appena apparsa
volava
via dalle sue mani.
“Insegnami
a fare le magie! Anch’io voglio essere come te,
papà!”
Senza
dire una parola, mi prese una mano tra le sue e ne fece apparire
un’altra
colomba, più piccola della prima.
“Può
sembrare bello, Kaito,” disse, improvvisamente serio,
“ma non è così. Io non
sono perfetto come pensi.”
“Ma
tu sei il mio papà!”
“Sì,
piccolo mio. E niente potrebbe rendermi più
felice,” sussurrò.
Il
suo viso era una maschera di tristezza. In quegli occhi di un blu quasi
surreale vedevo la pesantezza di quelle parole, sapevo che non si
sarebbe
lasciato andare così ancora, non molto presto almeno.
Dalle
sue mani, che non avevano mai smesso di ballare nell’aria,
uscì soltanto una
nuvola di fumo. Poi lasciò cadere le braccia lungo i
fianchi. Ci guardammo a
lungo, senza una parola. In quel silenzio ci stavamo dicendo tutto e
niente in
una lingua che solo noi due potevamo capire, anche se nessuno ce
l’aveva mai
insegnata. Mio padre si lasciò sprofondare nella poltrona
alle sue spalle.
Sempre in silenzio mi fece cenno di sedermi sulle sue ginocchia.
Obbedii,
stavolta senza riluttanza.
“Kaito,”
sussurrò, “ti voglio bene.”
Appoggiai
la testa sul suo petto, mentre mi sussurrava una ninna nanna
all’orecchio,
stretto nel suo caldo abbraccio. Ci addormentammo entrambi che il sole
già
faceva timidamente capolino tra i palazzi all’orizzonte. Le
colombe avevano
smesso di tubare, come se avessero capito che non dovevano darci
fastidio. Si
erano addormentate l’una accanto all’altra, anche
loro. Non sognai niente:
infondo non c’era sogno più bello di quello che
stavo vivendo.