Sherlock non capisce

Sherlock non capisce. Non che non capire sia una sensazione nuova, in quel preciso caso – quando si tratta di emozioni e sentimenti, lui non ne capisce mai fino in fondo il significato – ma è ugualmente frustrante e oltraggiosa.

Così fissa ancora il soffitto con ostinazione e rabbia, le sopracciglia corrucciate e le labbra contratte in una smorfia di sdegno, come se quell’intonaco fosse responsabile della sua incapacità di piena comprensione degli eventi.

Sa perché gli altri dovrebbero trovare gradevole quella situazione – studia il comportamento umano da sempre, conosce perfettamente i meccanismi che muovono le loro banali menti – eppure non capisce perché dovrebbe trovarlo gradevole lui, che di ordinario non possiede nemmeno un neurone.

Accanto, John sta dormendo: russa lievemente, col capo incastrato tra il collo e la spalla di Sherlock, il braccio sinistro schiacciato sotto la sua schiena nuda, la mano destra abbandonata pigramente sul suo fianco magro, le gambe attorcigliate tra le coperte che gli ha rubato e i piedi ghiacci bellamente poggiati contro le sue cosce calde.

Sono vicini, sono nudi e vicini, troppo vicini per i sociopatici standard di Sherlock; dovrebbe allontanarlo, alzarsi e buttarsi addosso quel lenzuolo di cui adesso è privo, rendere produttiva quella mattinata noiosa: prendere a revolverate il muro, dedicarsi agli amati esperimenti, persino inveire contro la mediocre programmazione televisiva inglese.

Dovrebbe, insomma, fare qualsiasi altra cosa che non sia poltrire piacevolmente abbracciato – nudo – a un’altra persona – anch’essa nuda.

Dovrebbe trovare fastidioso il respiro di un altro essere umano sulla sua pelle, non provocante; dovrebbe ritenere seccante l’abbraccio confuso e possessivo di qualcuno, non protettivo; dovrebbe riprendersi la sua coperta e scacciare l’altro dal letto, non allontanarsi impercettibilmente per avvolgerlo meglio nella stoffa.

Sherlock non capisce. Non capisce perché rimanga immobile ad accarezzare distrattamente quelle dita posate sul proprio fianco sporgente, non capisce perché il lieve « Buongiorno » bofonchiato da John al suo orecchio lo faccia sorridere come potrebbe fare solo un triplo suicidio che maschera un chiaro omicidio seriale; non capisce perché, appena ha compreso che si è svegliato, si sia tuffato a baciargli le labbra morbide fino a gonfiarle e colorarle di rosso.

Eppure la risposta è semplice – dannatamente semplice, così banale e noiosa! – ed è incisa sul corpo di John a caratteri chiari – nessun rebus da risolvere, nessun codice da decifrare: è scritta nei suoi contorni, sulle sue ossa, tra i suoi capelli, in tutti quei centimetri di John che Sherlock sta quietamente baciando con reverenza, senza traccia di fretta.

« Buongiorno, John » mormora contro il suo stomaco.