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Autore: Macy McKee    06/02/2012    2 recensioni
«Kakeru?» lo chiamò Maya, mentre il bambino si alzava.
«Sì?»
«Perché mi hai aiutata?»
«Perché tu… tu sei molto carina.» si fece sfuggire Kakeru, e arrossì. La bambina sorrise.
«Grazie. Adesso vai però.»

[Psycho Busters]
Genere: Fluff, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Note: Il paragrafi in corsivo e con i verbi al passato sono ambientati all'incirca sette o otto anni prima dell’inizio del manga. I paragrafi normali e al presente invece sono ambientati circa nei i capitoli 16 e 17.

Maya posò una mano sul pavimento, ritraendola all’istante come se si fosse scottata. La pietra dura e grigia era gelida, come se non avesse mai conosciuto il calore. Anche le mura di quella sezione, bianche e asettiche, sprovviste di spiragli sul mondo esterno, erano spente e ghiacciate.
Quell’ala della GreenHouse non era altro che un’enorme fossa, che invece di sprofondare nel terreno si ergeva imponente su numerosi piani. Ma restava comunque una fossa. Immensa, silenziosa come nessun altro luogo, e infinitamente fredda. Fredda di un gelo orchestrato, non accidentale, come incanalato in quel punto per penetrare nelle ossa dei ragazzi e sconcertarli, congelare i loro pensieri.
Sulla GreenHouse, anche d’estate, il sole non splendeva mai.
Maya trattenne un singhiozzo, alzandosi. Si rassettò la gonna a pieghe senza entusiasmo, la macabra parodia di un automa in formato ridotto che compie tutti i movimenti a scatti.
Sentiva un nodo in gola, piccolo ma potente, che minacciava di farla scoppiare in lacrime da un momento all’altro.
Perché mai quel pomeriggio era tutto diverso? La GreenHouse era sempre stata la sua casa, sicura e serena, e Ikushima era il buon padre, che l’aveva accolta e si era preso cura di lei. Era sempre stato un Dio, ai suoi occhi. Senza di lui, la bambina sarebbe stata persa, sarebbe caduta e nessuna mano l’avrebbe aiutata a rialzarsi.
Ma quel giorno, quel giorno era diverso. Maya non si era sentita cadere, si era sentita sprofondare, inghiottire dalle pietre levigate e monocromatiche del pavimento. E si era ritrovata a pensare, senza volerlo, senza rendersene conto, che forse in quel luogo non era una figlia amata, ma una prigioniera.
Sentì qualcosa stuzzicarle gli occhi, e li chiuse immediatamente. Non avrebbe pianto. Oh, no, era troppo forte per piangere. Troppo sicura di se stessa, troppo determinata. Non avrebbe lasciato che qualche lacrima rovinasse tutto quello che aveva costruito nei suoi pochi anni di vita, non avrebbe lasciato che le barriere di gioiosa spensieratezza e ingenuità che aveva eretto, giorno dopo giorno, crollassero.
Quando il nodo alla gola si allentò e il pericolo del pianto si attenuò, Maya aprì gli occhi e sbuffò.
Passata la tristezza, una noia infinita le era piombata addosso all’improvviso, sommergendola.
Non poteva tornare da Ikushima, perché per quanto lo adorasse, presentarsi da lui avrebbe significato arrendersi. Non poteva andare dagli altri bambini, perché non avrebbe sopportato la loro presenza chiassosa e i loro piagnistei.
Si sedette di nuovo sul pavimento, appoggiando le braccia sulle ginocchia. Forse, se avesse chiuso gli occhi, un’idea sarebbe spuntata nella sua mente, come il sole che non aveva mai visto faceva tutte le mattine. Si chiamava alba, no? Il momento in cui il sole sorgeva. Alba? Maya fu sorpresa sentendo quella parola che le si bloccava in gola. Non aveva mai pensato ad una cosa del genere, all’alba, perché per lei il sole era una pallina da ping pong schiacciata circondata da tante matite storte, gialle e arancioni. Era così che l’aveva sempre visto disegnato, quindi doveva essere vero.
E all’improvviso, contro ogni logica, seppe cosa fare. Saltò in piedi, gli occhi che le brillavano di quella cocciuta determinazione di cui solo i bambini sono capaci, e guardandosi velocemente intorno aprì una porta. 

***

Le sue braccia si muovono, inarrestabili, ma non è lei a volerlo. Come quelle di una marionetta legata con fili d’acciaio al suo burattinaio, le sue membra rispondono solo al controllo del suo manovratore.
No, no. Non deve farlo. No, no. Non può farlo. Non è così che deve andare.
Il primo errore, lo sa, lo aveva commesso innamorandosi di lui. Non avrebbe dovuto, ma era accaduto. Lui era così gentile, così bello, così potente. Lei si era innamorata.
Si era sentita bene. Felice. Maya sapeva che Kakeru non la ricambiava, ma stava con lei. Lui non la respingeva per pietà, per paura di ferirla. Maya lo sapeva, ma si era convinta che un giorno o l’altro lui avrebbe smesso di guardare Ayano, e avrebbe visto lei. Sarebbe successo. Doveva. Lei voleva che fosse così, e di norma otteneva quello che voleva.
In realtà, Kakeru non stava con lei, Maya, ma con Mamidori. Ma non importava. Dopotutto, importava il nome con cui lui la conosceva? Era sempre lei. E importava che lui le desse retta per pena o per amore?
 Intanto lei era felice.
Ma poi tutto aveva iniziato ad andare storto, e ora sono arrivati al culmine, all’inizio della fine.

***

Il bagno era piccolo e angusto, ricordava vagamente uno di quei buchi da incubo che si trovano sui treni economici e in cui è pressoché impossibile muoversi per fare alcunché. Ma, soprattutto, quel bagno possedeva qualcosa di speciale. L’unica finestra raggiungibile in quell’ala della GreenHouse.
Era attraverso quello spiraglio, piccolo ma pur sempre della giusta dimensione, che Maya aveva scoperto che un sole esisteva, nonostante si tenesse alla larga dall’edificio. Era stato lì che aveva capito che la stella non rimaneva sempre ferma nello stesso punto, ma ogni tanto si spostava e andava a brillare su un altro campo di quelli che circondavano il palazzo. La prima volta che aveva provato a guardarlo, però, si era fatta male agli occhi. Li aveva sentiti bruciare per parecchi minuti, e c’era voluto del tempo prima che riuscisse di nuovo a vedere bene. Ma non se ne era mai pentita, perché quel giorno di tanti anni prima aveva scoperto che le tenebre non avvolgevano tutto il pianeta: cingevano come due braccia maligne soltanto la GreenHouse, ma lasciavano respirare il resto mondo. E Maya aveva capito che lì fuori, inspiegabilmente, la luce bagnava ogni cosa.
Chiudendo a chiave la porta alle sue spalle, Maya abbasso il coperchio del gabinetto malandato e ci si issò sopra, appoggiandosi al muro ruvido per non cadere. Era una follia, lo sapeva. Ikushima l’avrebbe scoperta, e l’avrebbe uccisa. Come minimo.
Aprì con cautela la finestrella, temendo che avrebbe cigolato. Se avesse fatto rumore, qualcuno sarebbe accorso e per lei sarebbe stata la fine. Fortunatamente, non emise un suono.
L’apertura, fortunatamente, era alla giusta altezza. Se fosse stata venti centimetri più in alto, Maya non ci sarebbe mai arrivata.
Lentamente, la bambina infilò le braccia attraverso l’apertura e le puntellò contro il muro esterno, issandosi fuori.
Mai, mai Maya si sarebbe sognata di disobbedire a Ikushima e fare qualcosa di tanto ardito come scappare. Era testarda, era orgogliosa, era ingenua, ma non era un’incosciente. Ed era completamente devota all’uomo che ai suoi occhi le aveva donato una vita grandiosa. Ma quel giorno, quel giorno soltanto, era diverso. La mattina dopo sarebbe tornata in sé, e tutto lo spirito rivoltoso che la stava possedendo sarebbe evaporato. Niente più colpi di testa. Ma in quel momento non esisteva un domani. Esisteva solo qui, adesso. Esisteva la voglia di una bambina di fuggire da tutto ed essere felice, e non pensare al ricordo che per quanto stupido le trafiggeva il cuore come un pugnale, e le faceva male.
Con un grugnito di fatica, spinse più forte contro i mattoni a vista della mura esterne, e finalmente riuscì a tirarsi sul davanzale fino alla vita.
Quello che non aveva calcolato, però, era come sarebbe uscita. Si ritrovò con metà busto all’esterno, un’espressione sconvolta sul viso. Non pensava che l’aria potesse essere così buona, che il calore dei raggi del sole che moriva all’orizzonte potessero farle formicolare la pelle così piacevolmente. Il vento – una brezza vera, non i maligni spifferi che infestavano la GreenHouse e la facevano rabbrividire la notte - le accarezzava gentilmente la lunga chioma nera, pettinandogliela all’indietro. Maya prese un lungo, infinito respiro, riempiendosi i polmoni di aria pura. Si sentiva come per tutti quegli anni avesse vissuto in apnea, in una bolla scura e opaca in fondo all’oceano, e ora fosse all’improvviso emersa in superficie vedendo per la prima volta le bellezze del mondo. Doveva essere un sogno. Era tutto tanto, troppo perfetto. Era una magia.

***

Maya, quando si era innamorata di lui, non aveva realizzato che Kakeru sarebbe dovuto morire. Era scontato, in effetti, ma lei si sentiva così bene con lui… Non aveva pensato neanche per un secondo che prima o poi sarebbe dovuto finire tutto perché, alla fine, loro sono… be’, nemici.
Masato sbuffa, riportandola alla realtà.
Maya sussulta a quel suono. Lo conosce. Il ragazzo è stufo di giocare. Maya sa cosa succederà adesso.
«N-No!» urla la ragazza, stringendo forte l’impugnatura del coltello fra le dita. Non ha nemmeno il coraggio di completare il pensiero, di ammettere che la vita di Kakeru si sta vertiginosamente avvicinando alla fine..
Masato Kiryu chiude i pugni, guardando con odio la scenetta. È patetica. Ridicola. È ora di mettere la parola fine a quel pietoso melodramma.
Si concentra, socchiudendo gli occhi, e scaglia una frustata di potere cinetico verso Maya.
«Smettila… Non voglio…» rantola la ragazza; Kiryu sente una singola goccia di sudore scivolargli sulla fronte.
«Certo che manovrare una persona non è affatto uno scherzo…» sbuffa. Se poi la persona in questione ha una stupida forza di volontà determinata come la sua, la cosa non diventa certo più semplice, aggiunge mentalmente. Ma non le darà quella soddisfazione. Mai.

***

Magia. Sì, ecco cos’era. Era un incantesimo, un’illusione. Maya aveva già una certa dimestichezza con le illusioni, e sapeva quanto potessero essere reali, convincenti, quanto potessero affascinare e portare alla follia.
Eppure, dentro di sé, la bambina sapeva che era reale. Nessuna mente, neanche la più geniale o la più malata, avrebbe potuto inventare dal nulla uno spettacolo tanto magnifico. Nel cielo, cento nuvole rosa bordate d’oro le sorridevano, incoraggiandola. Il prato, scompigliato dal vento, bisbigliava. La invitava a scendere, ad andare a toccarlo, a rotolarcisi sopra. Il borbottio di un ruscello vicino, ma nascosto alla sua vista, era un russare beato che la incitava a dissetarsi e a riposarsi sulle sue sponde. La natura la vedeva, le parlava, la voleva con sé. 

Senza pensarci due volte, piegò le gambe sulla tavoletta e le distese, aiutandosi anche con le braccia, e si ritrovò a sfrecciare fuori dalla finestra.
Troppo tardi, quando le ginocchia ormai erano già in volo e tutta la parte superiore del suo corpo stava sfrecciando verso un tremendo incontro frontale con il terreno, si rese conto di non aver calcolato bene la forza necessaria e di non potersi più fermare. Compì una mezza capovolta per aria, ritrovandosi sotto sopra, e colpì il prato umido con la schiena.
L’impatto le tolse il respiro, come un pugno allo stomaco. Spalancò gli occhi più per la sorpresa che per il dolore, che stranamente non arrivava. Poi arrivò, e le scivolò addosso tutto in un colpo solo, come una valanga.
Si sentiva come se fosse appena stava investita prima da un camion, poi da una frana e ancora da una mandria di mucche inferocite. Aveva il battito accelerato per lo spavento e per la paura di essere stata scoperta.
Senza fiato chiuse gli occhi, sperando con tutto il cuore che nessuno l’avesse sentita cadere. Aspettò un minuto, poi due, poi cinque, e vide che nessuno correva fuori dall’edificio per farle qualcosa di molto, molto brutto. Si puntellò sui gomiti, cercando di alzarsi, ma una fitta alla schiena la fece gemere di dolore e ricadere a terra, ansimante.
Era stata una pessima, pessima idea, pensò frustrata. Nuove lacrime, pungenti come tanti spilli, si affacciarono nei suoi occhi.
Lentamente, dopo un lasso di tempo che non tentò nemmeno di calcolare, il dolore iniziò a scemare e lo stesso fece lo spavento che le aveva serrato lo stomaco. Girandosi su un fianco, con cautela, Maya scoprì di potersi muovere. Si mise a gattoni e si alzò, asciugandosi quelle inutili lacrime e spolverandosi i vestiti; All’improvviso, un ghigno soddisfatto le si aprì sul volto mentre la consapevolezza la invadeva. Era fuori dalla GreenHouse. Ce l’aveva fatta.

***

Ora basta, però, continua mentalmente Masato. È stanco di manovrare la ragazzina, e in più il suo giochetto gli sta facendo consumare un considerevole numero di energie, che non ha assolutamente intenzione di sprecare.
Chiude gli occhi, per un istante, concentrandosi. Sa cosa vedrà una volta che li avrà riaperti: sangue, sangue rosso che imbratta il pavimento e zampilla glorioso, quella sciocca ragazzina in lacrime, e il suo patetico nemico che si contorce a terra, per poi morire con il terrore negli occhi. È così che va sempre.

***

Con rinnovato entusiasmo, Maya iniziò a camminare. Le doleva ancora un po’ la schiena e le tremavano le gambe, ma la luce risoluta nei suoi occhi non era mai stata così brillante. Non si sarebbe arresa.
Ben presto, però, si rese conto di non sapere dove andare. Si era lasciata incantare dal richiamo della natura, andando alla deriva, e anche se aveva presente dove fosse la GreenHouse non aveva idea di dove si sarebbe potuta dirigere. Non era mai uscita dall’edificio, e non sapeva se nelle vicinanze ci fosse una città, un villaggio, anche solo un cottage abbandonato. Eppure non si fermò, andando avanti a camminare. Le sembrava quasi che le sue gambe stessero decidendo al suo posto. Fece sempre in modo che la GreenHouse rimanesse alla sua spalle, quasi involontariamente.
L’erba le arrivava sopra alle caviglie, solleticandole le gambe lasciate scoperte dalla gonna corta, e il calore le faceva pizzicare la pelle nuda delle braccia. Maya era stupefatta da quante cose incredibili ci fossero fuori dai muri grigi della GreenHouse. Se non le avesse viste con i suoi occhi, non ci avrebbe creduto. Stava scoprendo emozioni, sensazioni e persino colori che non aveva mai incontrato prima, e ne era abbagliata. Il momento più sconvolgente, però, arrivò insieme al crepuscolo.
Il sole stava già calando da tempo verso la linea dell’orizzonte; la bambina abbassò lo sguardo, osservando una farfalla svolazzare allegramente fra i fiori profumati, e quando lo rialzò il sole non c’era più. Il semicerchio che stava abbracciando la terra fino ad un minuto prima era scomparso, ma non aveva inghiottito e portato con sé tutta la luce. Il cielo sembrava diviso in lunghe strisce colorate, con un inizio di tenebre che pulsavano ai suoi margini e lottavano per superare una barriera invisibile e divorare i colori.
E, si rese conto Maya mentre l’oscurità vinceva la sua battaglia ai confini del cielo e iniziava ad espandersi, le luci del crepuscolo non erano le uniche che illuminavano il paesaggio. Poco lontano, infatti, brillava un altro tipo di stelle: erano stelle artificiali, tutte con la stessa forma. Erano le luci di una città, non molto lontana.
Vedendola, Maya iniziò a correre. Aveva le gambe stanche, ma quasi non se ne rendeva conto. Incespicò un paio di volte ma si rialzò sempre, pulendosi la terra delle mani e dai vestiti, senza fermarsi.

***

Sfortunatamente per lui, però, Kiryu Masato non vede niente di tutto quello che ha immaginato.
 Apre gli occhi una frazione di secondo prima che la sua sferzata di potere faccia effetto, ma non accade nulla di quanto sperato.
Il coltello trema nelle mani di Mamidori, di Maya, e comincia la sua breve traiettoria. Nella direzione sbagliata.
Affonda nella carne della ragazza come un dito nel burro. Così, come se non fosse una gran cosa; le perfora il petto, spruzzando un fiotto di sangue che ricorda la versione horror di uno zampillo d’acqua che esce dalla bocca di una sirena di marmo. Il plasma ricade sul pavimento lurido, espandendosi in una scura pozza di morte.
La ragazza si ripiega su se stessa, franando a terra. Il pugnale rimane nel suo torace, come una macabra bandiera, squarciandoglielo ancora.

***

La città la inglobò all’improvviso, senza che lei se ne rendesse conto. La rapì, inghiottendola in un vortice di luci e rumori appena mise piede sull’asfalto sconnesso della strada più vicina, lasciandosi alle spalle i campi. Maya si bloccò per un attimo, spaesata. Era un luogo completamente nuovo per lei, che non aveva mai oltrepassato le porte della GreenHouse. Erano rumori, colori, odori nuovi. Era come quando poche ore prima aveva scoperto la natura, ma cento volte più violentemente. La città le era corsa incontro, colpendola come il terreno quando era caduta dalla finestra. All’improvviso, si rese conto che le girava la testa. Era troppo per lei, tutto in un colpo.
Si appoggiò al muro di una casa, scivolando lentamente a terra e sedendosi sul bordo rovinato e umidiccio del marciapiede.
Chiuse gli occhi, con le mani strette sopra nuca, aspettando che l’attacco le passasse.
Ad un tratto, sentì un brusio concitato vicino, e qualche gridolino allegro. Aprì gli occhi, accorgendosi con sollievo che la testa aveva smesso di girarle, e vide un gruppetto di bambini che dovevano avere circa la sua età che attraversava la strada camminando in fila dietro ad una donna con i capelli grigi e il volto stanco. Un bambino si guardava intorno con occhi curiosi, senza prendere parte al chiacchiericcio collettivo, e ad un certo punto la sua attenzione si posò su di lei. Maya distolse lo sguardo,  sapendo di avere ancora gli occhi arrossati e i vestiti sporchi di erba e terra, per non parlare dell’espressione sconvolta che doveva essersi stampata sul suo viso, ma il bambino si fermò e smise di seguire il gruppo. Rimase immobile in mezzo alla strada, incerto, prima di parlare.
«Tutto a posto?» le chiese, avvicinandosi. Maya girò risolutamente la testa dall’altra parte, senza rispondere. Non voleva essere soccorsa, perché non aveva bisogno d’aiuto. Se la cavava benissimo da sola.

 

***

 Kakeru rimane immobilizzato per un istante, inorridito, ma quasi affascinato da quella scena che sembra troppo cruenta per essere reale. Non può stare accadendo davvero. Devo essermi addormentato davanti all’ennesimo film dell’orrore di serie B, pensa confusamente. Ma ovviamente non è così.
È tutto fin troppo reale.

***

«Io sono Kakeru.» si presentò il bambino, affatto intenzionato a demordere. Lei lo sbirciò con la coda dell’occhio, ma rimase in silenzio. Kakeru aveva dei bei capelli, folti e neri, e un visino curioso e sveglio. A Maya piacque.
«Io Maya.» disse finalmente, senza guardarlo negli occhi.
«Perché sei triste?» le chiese, chinandosi e sedendosi sul marciapiede accanto a lei.
Maya sospirò, scuotendo la testa.
«Dai, non fare così. Se mi dici cos’hai ti aiuto io!» esclamò il bambino, sorridendole incoraggiante.
«Be’, c’è…il mio papà, ecco, che non mi vuole più bene. Lui…a lui non importa se oggi è il mio compleanno, ecco.»
«Come?» chiese Kakeru, spalancando gli occhi. «Il tuo papà non sa quando compi gli anni?»
Maya scosse la testa. «No. E io gliel’ho detto, gli ho detto che era oggi, e lui mi ha detto “auguri” così, e non gliene importava niente, e non mi ha neanche guardata ed è andato a abbracciare un altro bambino.» disse lei sinceramente, sforzandosi di non singhiozzare. Dire che Ikushima era “il suo papà” forse era un po’ esagerato, ma era così che l’aveva sempre visto.
«Mi dispiace…» sussurrò il bambino, rabbuiandosi.
«Perché non sorridi più?» gli chiese lei, sorpresa.
«Perché sono triste perché non so come aiutarti.» rispose lui, aprendo le braccia sconfortato. «Aspetta!» esclamò poi, togliendosi lo zainetto dalle spalle e aprendo la lampo per guardarci dentro. «Ho qui una cosa… ecco!» disse tutto fiero, estraendo un enorme lecca-lecca e mostrandolo orgogliosamente alla bambina. Lei spalancò gli occhi. «Per me?»
«Certo! Io ne ho già mangiati tre oggi e poi tu sei triste e io no quindi devi prenderlo tu.» spiegò tutto d’un fiato, gesticolando infervorato.
Maya sorrise, prendendo il lecca-lecca dalla mano del bambino. Era uno di quelli rotondi, con una spirale con tanti raggi colorati si dipartivano dal centro. Doveva essere buonissimo.
«Grazie.» mormorò. «E’ la cosa più carina che hanno fatto per me.»
Kakeru si limitò a guardarla allegramente, felice di aver potuto fare qualcosa per aiutarla.
«Tu cosa ci fai qui? Vivi qua?» domandò ad un tratto la bambina, agitandosi sul marciapiede scomodo.
Lui scosse la testa. «No, sono in gita con la mia classe.»
«Oh! Ma allora devi andare!» esclamò Maya, pur non sapendo bene cosa potesse significare “gita”. Ricordava il gruppetto dei bambini con la signora stanca, e intuì che Kakeru avrebbe dovuto essere con loro.
Il bambino si morse un labbro, imbarazzato.
«Be’…»
«Vai, su!» lo incalzò lei, capendo di aver visto giusto. Kakeru esitò.
«Però torni a trovarmi, vero?» le chiese, speranzoso.
«Certo.» mentì lei, sentendosi incredibilmente in colpa.
Kakeru prese una biro e un fazzolettino di carta dallo zainetto ancora aperto, scarabocchiandoci furiosamente sopra qualcosa con una grafia incerta, e tendendolo a Maya.
«Io abito qui. » disse, chiudendo la cerniera lampo dello zaino mentre la bambina prendeva il fazzoletto. «Devi venire da me, così giochiamo insieme.»
Maya annuì, guardandolo negli occhi e sentendosi un mostro, perché sapeva che non avrebbe potuto mantenere la promessa. 
«Kakeru?» lo chiamò lei, mentre il bambino si alzava.
«Sì?»
«Perché mi hai aiutata?»
«Perché tu… tu sei molto carina.» si fece sfuggire Kakeru, e arrossì. La bambina sorrise.
«Grazie. Adesso vai però.»
«Prego.» rispose lui, annuendo, e poi corse via. Maya lo guardò allontanarsi e voltarsi soltanto una volta, allo sbocco della via. La bambina lo salutò con la mano, e Kakeru le sorrise da lontano, alzando il braccio per rispondere al saluto prima di scomparire oltre l’angolo.
Maya rimase a fissare a lungo il punto in cui era sparito, accarezzando con la punta delle dita la carta lucida del lecca-lecca. Inconsciamente, quel giorno Maya decise che se mai avesse comprato un altro lecca-lecca, nel caso in cui caso prima o poi avesse avuto il coraggio di aprire e consumare quello, sarebbe stato esattamente della stessa forma e colore. Non avrebbe dimenticato quello che il bambino, un perfetto sconosciuto, aveva fatto per lei. 

***

Poi, la salvezza. Il paracadute, la coperta calda, il sole che spazza le tenebre.
Maya sente delle mani fredde posarsi sulle sue, mentre il coltello le graffia il petto. Guarda in basso, stupefatta. La lama non ha trapassato la carne in profondità. Com’è possibile? Ha visto, ha sentito, il pugnale che perforarle il torace. Ha sentito l’odore della morte, crudo e agghiacciante, invaderle la gola. Ha sentito la vita abbandonarla, scivolarle via.
Ma non è morta. Non è mai morta. Kakeru stringe le sue mani intorno a quelle di lei, bloccandole. Le sorride, e la luce la investe. Maya sorride a sua volta, abbagliata. Il cuore le batte forte, ma si sente quasi in estasi. Un’energia incontrollata, irrazionale le scorre dentro.
Poi l’energia scompare, risucchiata dal nulla all’improvviso e tutta in un colpo. Maya viene investita dalla tensione e dalla stanchezza e risucchiata da nuove tenebre, stavolta benigne e rassicuranti, e perde i sensi tanto velocemente da non rendersene neanche conto. Cade fra le braccia sicure di Kakeru, dove rimane. A lungo. E nell’incoscienza si sente ancora una volta felice, calda, salva.

***

Da quel giorno,un nuovo sole splendette sulla GreenHouse. Era una stella piccola, diversa da quella che ardeva nel cielo; seguiva Maya ovunque andasse e la illuminava, dandole la forza di andare avanti, di perdonare Ikushima e addirittura di dimenticare, con il tempo, quello che le aveva fatto. Dandole la forza di impegnarsi con tutte le sue forze in ogni cosa facesse, e di diventare quella che è adesso. Solare, vivace, cocciuta. Un po’ come la bambina che era stata, in effetti, ma con una differenza: ora è innamorata, e ogni volta che può compra lo stesso tipo di lecca-lecca da cui non si separa mai.
E questo suo sole personale, che l’aveva ristorata, accompagnata e salvata, aveva e ha ancora oggi la forma del sorriso di Kakeru. 

 

   
 
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