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Autore: Shinra    08/02/2012    3 recensioni
"Per fare spettacolo, devi essere lo spettacolo! ... oh mio... cos'è questa? Ceretta!? È inconcepibile che un uomo debba fare certe cose...!"
Genere: Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Il Profeta Bianco

Un attimo prima di battere sulla porta, le mie nocche si arrestarono.
Era strano trovarsi a bussare a una roulotte, invece di sollevare la falda di una tenda.
Quist mi guardò burbero.

“Insomma! Vuoi farlo tu o devo farlo io?”

“Shh! Abbassa la voce...!” dissi in un sussurro gridato, “Abbi un minuto di pazienza, sono nervoso!”

Quist sbuffò sdegnoso, rispettò la mia richiesta per cinque secondi buoni prima di sbottare nuovamente, “Apriti sesamo!”

Alzai gli occhi al cielo, speranzoso che da dentro non si sentisse il nostro alterco. Non volevo minacciarlo, ma presto ne sarei stato costretto se non l'avesse fatta finita.

“Se il padrone ci becca, ci mette in punizione...” gli ricordai, cercando di imprimere nel mio bisbiglio un tono autoritario.

“Solo a te,” ribatté pronto il mio collega, “perché la colpa è sempre tua.”

Mi trattenni dal contraddirlo, non volevo fomentare le sue discussioni idiote. Non sarebbe stato zitto fino a quando non gli avessi concesso l'ultima parola. Ma a volte neanche quella bastava...

“È perché sa che tu hai paura. Come il cane che abbaia e poi scappa quando vede il bastone.” Infierire era il suo mestiere. Almeno mi aveva fatto il piacere di abbassare la voce.

Il breve scambio mi aveva fatto rendere conto che forse era il caso di lasciar perdere, che forse non avevo poi così tanta voglia di sapere...

“Ti muovi o no?”

Mi convinsi che lo facevo perché c'era freddo, non perché me lo diceva Quist. L'aroma caldo delle spezie che trapelava dalla zanzariera abbassata era invitante, così come la luce ambrata e tiepida che intravedevo attraverso le tendine. Invidiavo quell'intimità e quell'ambiente accogliente. Mi attirava come una falena.
Senza più indugi, bussai.

Con una punta di divertimento, immaginai il Profeta alle prese con una sfera di cristallo che fungeva da videocitofono, intento a indovinare chi vi fosse al di là della porta. Invece, i miei occhi colsero un guizzo delle tende, e riuscii a mascherare a stento la delusione mentre il chiavistello girava e la porta si apriva.

Il Profeta Bianco indossava una vestaglia di flanella color rosa pesca, le radici dei capelli bianchissimi erano avvolte nella carta stagnola, e tra indice e pollice teneva una boccetta di acetone, lasciando il mignolo teatralmente in fuori. Mi guardò di traverso, con una lentina sì e una no. Quella bianca ricordava un pesce morto, e il contrasto con l'occhio scuro pronunciava una certa asimmetria.

L'indelicatezza di Quist colpì ancora. “Sembra un guercio strabico.” ghignò. Pregai che il Profeta non si offendesse e non ci sbattesse la porta in faccia, anche se ne aveva tutto il diritto. Invece si limitò a sollevare un sopracciglio, scrutandomi con i suoi occhi scompagnati.
Raccolsi il poco coraggio che mi restava.

“Po... posso entrare?”

“Ma quanto sei stronzo! Io non esisto?”

Cercai di correggermi, inserendo il plurale per includere anche il mio socio, ma le parole non venivano fuori. Odio essere così, odio l'ansia e il terrore che mi assalgono quando parlo con le altre persone. Il senso di oppressione nel petto, i polmoni che bruciano e che sembrano sul punto di scoppiare, il senso di asfissia... E il terribile, imbarazzante silenzio che inequivocabilmente precede e segue i miei balbettii. Il silenzio di chi ascolta, gli occhi puntati su di me, l'orologio immaginario che ticchetta e i secondi che scorrono veloci, velocissimi...

“Possiamo entrare?” disse Quist in mia vece, cavandomi dall'impaccio. Non era piacevole dover costringere qualcuno a dire le parole al mio posto... E lo invidiavo perché lui ci riusciva così bene...

Il profeta non disse una parola, indietreggiò quel poco che la piccola roulotte gli permetteva, sollevando l'acetone oltre la spalla per facilitarci l'entrata. L'ingresso era così stretto che nel salire il gradino dovetti fare attenzione a non pestargli i piedi. Mi accorsi che aveva i piedi nudi e dei batuffoli di cotone in mezzo alle dita. Non feci commenti, ma Quist non si sforzò di trattenere una risatina.

Bastarono due passi per condurmi dall'ingresso alla zona notte. Il divano letto era chiuso e coperto da un plaid rosso con delle lische di pesce stampate, posto nel palese e mal riuscito intento di celare le scuciture; il plaid era troppo corto per coprirlo per intero, e il tessuto grigio topo del divano era ben visibile, tanto quanto quelle che mi parvero vistose macchie di caffè.
Dal muro pendeva un tavolino ribaltabile, come quelli dei treni, sopra il quale vi era tutto il necessario per la manicure. Sparsi sul divano giacevano altri oggetti: bigodini, pinzette, un barattolo con un pennello intinto, e, per terra, una bacinella che doveva contenere acqua tiepida e chissà cos'altro. Evitai un esame più approfondito. I miei occhi corsero lungo le tende ricche di decorazioni variopinte, tinte sgargianti e colori pastello.
Nulla di quello che c'era in quel posto poteva far supporre di trovarsi nella dimora del Profeta Bianco, la famosa veggente albina. In questa sala, tutto ciò che era il Profeta Bianco non esisteva.

“Non si direbbe proprio che qui ci abiti tu, eh?” sbottò Quist, come se mi avesse letto nel pensiero.

“I... Io... A me sembra m... molto carino...” tentai di dire, maledicendolo per l'osservazione non richiesta.

“Ah sì?” domandò il Profeta, con curiosità genuina, mentre poggiava la boccetta di acetone su una mensola. Il suo tono era privo di tutte le insinuazioni di cui erano solitamente imbevute le osservazioni di Quist.

“Sai, tutto questo colore, questo disordine...” continuò il mio socio, ignaro di poter sembrare sgarbato. “C'è una mostruosa, esorbitante, improponibile differenza tra questo posto e la tenda bianca.”

“Se... sembra quasi...” cominciai, con l'impeto di smorzare il tono poco accorto del precedente commento, “... che non s-sia t-tu...”

Il Profeta non diede l'impressione di provare fastidio, tutt'al più sorrise.

“Mi piace distinguere tra il luogo di lavoro e quello in cui vivo.” disse molto umilmente; mi rivolse lo sguardo, ma io abbassai subito gli occhi. Non sapevo dire il perché.

“P...piacerebbe anche a me...”

“Non dire sciocchezze!” esclamò Quist con fare aggressivo, “Lo spettacolo è tutto: per fare spettacolo, devi essere lo spettacolo! Lo dicevano anche in The Prestige.”

“Qui non siamo in un film, però...!” obiettai.

“Certo,” rispose il mio compagno, “altrimenti lui sarebbe un Profeta vero e non dovrebbe andare in giro travestito da donna e utilizzare... Dio! Cos'è questa? Ceretta!? È inconcepibile che un uomo debba fare certe cose...!”

D'un tratto mi ero pentito di averlo portato con me, e mi vergognai della sua impertinenza, ma il Profeta ignorò maestralmente le sue provocazioni.

“Vuoi del tè?” ci chiese, prendendo una tazza da un'altra mensola.

“Sì, grazie.” risposi io.

“No, grazie.” rispose Quist.

Il Profeta ci voltò le spalle e scomparve dietro una tenda che faceva da separè. Quist voleva sbirciare per sapere cosa vi nascondeva, ma io lo trattenni. Il tessuto della tenda era blu scuro, con delle stampe bianche che sembravano geroglifici. Fissarle e tentare di decifrarle mi salvò dall'imbarazzo di posare lo sguardo su qualsiasi cosa il mio collega avrebbe definito come 'poco maschile'.
Per quanto Quist potesse additarlo con disprezzo, io non credevo che il travestimento del Profeta fosse da imputare a un suo orientamento sessuale. E anche se così non fosse, cosa potevamo dire noi dei gusti sessuali altrui? Se una veggente donna attirava più clienti, mica era colpa sua!

“Cosa volevi chiedermi?” sobbalzai, vedendolo emergere dall'estremità opposta della tenda.

Involontariamente guardai Quist, ma lui non rispose al mio sguardo. Dovevo dirglielo io, lui non sarebbe accorso in mio aiuto qualora mi fossi inceppato.
Presi con la mano la tazza che mi porgeva. Riconobbi il profumo inebriante delle spezie, lo stesso che avevo sentito fuori dalla roulotte. Mi illusi che l'odore e il calore potessero farmi rilassare. Socchiusi gli occhi. Il tepore contro il mio palmo era confortante, ma non osai bere prima di aver detto ciò che mi premeva.

“Ecco... ehm...” inizia, cercando di prendere tempo perché le parole non volevano uscire. “V-volevo chiederti se...”

“Vuole farti predire se guarirà dalla sua balbuzie!” esclamò Quist, ridicolizzando i miei tentativi. “Ah, se non ci fossi io a salvare il numero ogni volta...!” si vantò. Eppure gli fui grato dell'interruzione, perché mi diede il tempo di trovare la forza di parlare.

“T...ti disturbiamo, Profeta?”

“No.” rispose lui, schietto. “No, non ho nulla da fare, anzi mi fa piacere avere compagnia. Però ti sarei grato se la smettessi di chiamarmi così.”

“Ammetti di essere un ciarlatano, allora!” esclamò Quist, quasi facendomi strozzare col tè. Non riuscii a gustarne il sapore, e quel poco che ingoiai scese lungo il mio esofago come se fosse acido. “Hai visto? Questione chiusa. Ho vinto la scommessa, andiamocene.”

“Aspetta, non è vero!” lo fermai. Come al solito, quando parlavo con Quist non avevo nessun problema. Niente balbettii, niente tremarella, niente macigno sul petto... Era il minimo, eravamo sempre insieme e lui mi conosceva meglio di chiunque altro, e io lo ammiravo. Quanto avrei voluto somigliare più a lui che a me stesso...!
“Io l'ho visto, lui non è un ciarlatano!”

Davanti a me, il Profeta rimase impassibile. D'un tratto, persi tutta la mia baldanza.

“Ci... cioè... non l'ho visto, l'ho... l'ho sentito... ehm... ecco... voglio dire...”

“Sbrigati,” insisté Quist, “Non vedi che il tè si raffredda? Perdi troppo tempo a dire quello che vuoi dire, e poi le persone si annoiano e ti lasciano perdere.”

Fissai il liquido ambrato, il mio volto riflesso era deformato dalle increspature. Sentii gli occhi degli altri che mi scrutavano insidiosi.
Non riuscivo... Non riuscivo... Per quanto mi sforzassi, non sarei mai riuscito a dire quello che volevo. Era un dolore che mi dilaniava il petto. Un velo mi offuscò la vista.
La vocina del mio compagno mi bisbigliò all'orecchio, mi dava del codardo.

Approfittando della mia titubanza, il Profeta (anche se mi aveva detto di non chiamarlo così) percorse la breve distanza che lo separava dal divano e raccolse le cianfrusaglie per liberare spazio. Quando ebbe finito mi... no, ci invitò a sedere.
Il divano era più duro di quanto sembrasse, e qualcosa di appuntito e sottile mi si infilzò nella schiena. Sopportai.
Per sé, il Profeta scelse una scaletta pieghevole nascosta in un angolo, e la posizionò dalla parte opposta del tavolino ribaltabile, di fronte al divano. Sedette raccogliendo le ginocchia al petto, i piedi poggiati sul secondo e ultimo gradino.
Silenzio.

“Tu... tu non sei quello che dici di essere.” mi sorpresi di me stesso quando dissi quello che dissi guardandolo negli occhi.

Forse fu solo un'impressione causata dalla luce, o dal vapore che saliva dalla tazza, ma mi sembrò che un'ombra passasse sul suo volto.
Il Profeta sostenne il mio sguardo per parecchi secondi. Non sapevo se mi stesse sfidando, ma ovviamente fui io ad arrendermi per primo.

“Ah sì?” chiese ingenuamente, inclinando la testa di lato.

“Non lasciarti ingannare!” sputò Quist, sempre accanto a me. “Non vedi che sta facendo lo gnorri?”

“N-no... io... no-non credo...”

“Ti ascolto.” disse lui.

Era l'incoraggiamento che mi serviva. Presi un bel respiro, fissai gli occhi sulla tazza e cominciai.

“C'era Zuzu c-che stava facendo le prove c-con Nocciola e Ca-castagna... Tu... tu stavi parlando con B-becca, pa... parlavate delle... o-ordinazioni. T-tu le dicesti di ordinare anche u... una p-pomata per c-co-contusioni...” presi fiato, e feci finta di sorseggiare del tè per prendere tempo. “Poi Nocciola è scivolata... non s-subito, d-dopo q-qualche g-giorno.” Pausa. “E ha p-piegato male la zampa e ha sba... sbattuto lo zoccolo...” Altra pausa. Osai alzare lo sguardo.

Il Profeta mi guardava senza tradire alcuna emozione, sembrava una bambola dalle fattezze d'avorio. Senz'altro era la luce a dargli quel colorito e quell'aria di immobilità. Le palpebre erano leggermente abbassate, lo sguardo bicolore traeva in inganno, sembrava a tratti vacuo, a tratti penetrante, come un'illusione ottica. Mi diede l'impressione che fosse un essere appartenente a un altro mondo; la sua delicata bellezza mi colpì, e mi sembrò di tornare indietro nel tempo, di stare nuovamente sbirciando da una falda della piccola tenda bianca. Rividi i suoi riccioli pallidi, il trucco delicato, gli occhi socchiusi per simulare la trance...
In quel momento seppi che avevo colto nel segno.

“Beccato.” bisbigliò Quist, con un risolino saccente.

Il Profeta aspettava che continuassi. Quando non lo feci, disse semplicemente, “Quindi?”

Tutto qui?

“Tutto qui?!” sbottò Quist.

Abbassai lo sguardo, imbarazzato e confuso. Una parte di me sapeva che stava cercando di mettermi in difficoltà, un'altra pensava che forse non aveva capito una parola di quello che aveva detto.

“Ci stai prendendo in giro?!” esclamò il mio compagno, stizzito.

Ma il Profeta continuava a non dire nulla e fissarmi, come se fosse in attesa di qualcosa. Decisi di porre una domanda diretta.

“Lo... lo avevi previsto?”

L'ombra di un sorriso gli increspò le labbra. “Sì.” rispose, schietto. Era trionfo quello che mi stava riempiendo i polmoni? “Sì, ma non nel modo che intendi tu. Prevedere non è la stessa cosa di essere previdente.”

Prima che io o Quist potessimo dire qualcosa, continuò. “Eppure, so di non poterti ingannare. Potrei dire che avevo parlato con la responsabile dell'infermeria, che mi aveva detto lei di ordinare la pomata... Ma non funzionerebbe, vero?”

La sua calma mi sconcertò. Era una confessione?

“Allora lo ammetti!” Quist diede voce ai miei pensieri.

Il Profeta che non era un profeta cavò da una tasca della vestaglia una minuscola scatola, e dall'altra un cigarillo. La scatola conteneva dei fiammiferi altrettanto minuscoli. Lo guardai come un bambino, mentre i miei occhi si meravigliavano di come potesse prenderli senza romperli con le sue mani al confronto così grandi.
Il mio socio era impaziente di premere per una risposta, ma io lo trattenni dal parlare. Aspettammo in vibrante silenzio, entrambi con il fiato sospeso, mentre lui accendeva il cigarillo e aspirava il fumo. Pensavo che l'odore sarebbe stato forte e sgradevole, e mi sorprese notare che si intonava perfettamente al gusto del tè. Una nuvola grigia accompagnò l'inizio del suo racconto.

“Io ho sempre avuto un dono. Un dono che pochi capivano o riuscivano ad apprezzare. Un dono che da molti è desiderato, ma al tempo stesso temuto e disprezzato. Tante volte ho sentito ragazze e ragazzi, uomini e donne, esclamare con desiderio 'Oh, se solo avessi potuto prevederlo!', 'Quanto mi piacerebbe conoscere il futuro!'... Ebbene, quanto vorrei dire a queste persone che non si perdono nulla, che l'abbondanza è come la mancanza, e non ti rende per niente più facile la vita, né migliore! Che se possedessero ciò che possiedo io, sentirebbero di essere marchiati, e preferirebbero di gran lunga vivere una vita normale, ignari del proprio destino...”

“A-allora esiste...” lo interruppi senza remore, “... esiste il Destino?”
Una parte di me ragionava sul fatto che quel marchio, quella macchia indelebile di cui parlava, io la conoscevo bene. La rivedevo chiara e precisa, impressa a fuoco su di me, ogni volta che non riuscivo a parlare. Non avrei mai immaginato che una persona come lui potesse provare quello che provavo io...

Alla mia domanda, il Profeta che non era un profeta sorrise. “Solo una traccia,” disse, “una scia, esiste ed è visibile ai miei occhi. Un percorso facile da seguire, in cui si incanala il flusso della storia. Ma no, non è invariabile né determinato. Il Destino può cambiare e può essere cambiato. Lo vedo ogni giorno...”

“A-allora... è per questo che non vuoi dire alle pe-persone q-quello che le aspetta?” lo interruppi nuovamente, rubando la parola persino a Quist, che però non si lasciò superare e disse,

“Naturale, se le persone sapessero che il Destino è infallibile, dove andrebbe a finire il libero arbitrio? Perderebbero la voglia di vivere!”

“Sì, ma...” continuai, “le persone solitamente credono nel destino, almeno la maggior parte... Lo maledicono e lo accusano di tutte le colpe. Io credevo... credevo che lo facessero per non incolpare loro stesse...”

Alle mie parole, il Profeta sorrise comprensivo. Era buffo sentirlo fare discussioni così profonde con indosso una vestaglia rosa e della carta stagnola tra i capelli.

“Se le persone non avessero bisogno di credere in qualcosa, non leggerebbero così spesso l'oroscopo!” commentò acido Quist.

“Che credano o meno nel Destino, resta comunque il fatto che le persone non amano sentirsi dire la verità. Più il Destino si manifesta incombente, più lo vedono come improbabile.”

Inorridii al pensiero che si potesse essere così ciechi. “ Ma... ma allora... chi si rassegna, c-chi si s-scoraggia...? Chi... chi si arrende al... al su-suicidio...?”

“Vedi, coloro che si tolgono la vita lo fanno proprio per sfuggire alle grinfie del Destino. Per gli altri, invece, esiste ancora la speranza. Conosci il detto.”

“Non so perché, ma mi pare che ci stiamo avventurando in una discussione complicata.” osservò Quist, piccato.

Il Profeta che non era un profeta aspirò una lunga boccata di fumo, la sua espressione parve rilassarsi, e anche io mi sentii sciogliere, consapevole che per una volta non toccava a me dover parlare. Sprofondai un poco in quel divano scomodo, e l'oggetto appuntito che si era conficcato nella mia schiena scivolò via, ingoiato dallo schienale.

“Conosci Cassandra?” chiese il Profeta.

“E chi se la scorda! Due belle bocce e un pacco a sorpresa!” esclamò il mio compagno.

Mi vergognai per la sua mancanza di pudore. “Non credo che stesse parlando della donna barbuta...” obiettai.

“Cassandra è un personaggio mitologico di cui narrano le leggende.” continuò il Profeta incurante del nostro scambio di battute. “Fu condannata a prevedere il futuro.”

“Le è andata meglio di quella che conosciamo noi!”, ghignò Quist, dandomi il gomito.

“P-perché c-condannata?” chiesi io.

“Perché nessuno avrebbe mai creduto alle sue visioni, nessuno. Cassandra avrebbe visto compiersi il proprio fato e quello dei suoi cari, senza poter fare nulla per evitarlo.”

I suoi occhi vagarono per la stanza, forse inseguendo i ghirigori di fumo, infine si posarono su di me. Sembravano stanchi, invecchiati.

“Credi che gli avvenimenti significativi delle vite degli altri appaiano nella sfera come pop-up? Prova a immaginare come sarebbe lanciare uno sguardo alla vita delle persone, persone di cui, per altro, non ti interessa sapere alcunché. È come guardare un film mandandolo avanti veloce, anzi peggio. Così tante informazioni riversate all'improvviso nella tua testa, come una banda impazzita che si accalca e si affolla, in cui ogni strumento cerca di prevalere sull'altro... In pochi minuti devi riuscire a selezionare gli eventi maggiori, e se sgarri di un secondo le persone iniziano a chiedersi se non ti sia addormentato, ti interrompono o se ne vanno.” Parlava velocemente e con tale foga repressa che se persino a Quist era difficile insinuarsi nel suo discorso, figurarsi per me. “E alla fine l'unica cosa che ottieni è un gran mal di testa.” lo disse con una smorfia, più che un sorriso.

Nessuno di noi due se la sentì di interrompere il suo sfogo.

“Pensi che alle persone piaccia sapere la verità?” mi domandò, afflitto. “Pensi che gliene freghi qualcosa di sapere che inizieranno a fumare, che avranno un gatto, che il nipote tenterà di fregargli la casa, o che metteranno il sale nella torta?” sorrise divertito alle sue stesse affermazioni, solo che i suoi occhi non sorridevano. “No, a tutti interessa se avranno una bella automobile, se sposeranno la persona dei loro sogni, se avranno dei soldi...” sospirò, un sospiro carico di depressione e stanchezza.

“Tsk! Lo chiedessero a me gli risponderei: cazzo mi frega della tua vita, fila, sparisci!” commentò aspro il mio socio.

“Ma... ma perché continui aa... a farlo?” mi intromisi.

Gli occhi più tristi del mondo incontrarono i miei. “Questa è la mia condanna, suppongo.” disse con un sospiro.

E in quel momento lo vidi per quello che era: un uomo stanco, spento, rassegnato... Mi si strinse il petto, peggio di quando non riuscivo a parlare, e provai pena per lui. Anche io ero stato così, prima di trovare Quist in quel magazzino mezzo diroccato. Incompreso, inconsolabilmente solo. Quist mi aveva salvato. Con lui avevo trovato un altro me stesso. Era nascosto bene, sì, ma lui mi aveva insegnato a farlo emergere. E ora senza di lui mi sentivo perduto. Era come se avessi passato tutta la vita come una mezza persona, e quando avevo trovato Quist, ero diventato completo. Eravamo un duo formidabile, durante gli spettacoli, si intende. Ovviamente, capitava anche a noi di litigare. Nessuno è perfetto...

Ero così assorto nei miei pensieri che non mi accorsi che il Profeta si era alzato. Forse aveva creduto che non lo stessi ascoltando e si era offeso. Avrei voluto trovare qualcosa che potesse tirargli su il morale e distrarlo dal suo fallimento...

“Q-quindi...” sbottai incerto, spinto più dalla fretta che da una domanda spontanea, “Di... dicevi che il futuro può essere cambiato... C-che lo-lo vedi ogni giorno...”

Il Profeta, che nel frattempo ci aveva dato le spalle, annuì lentamente.

“E dove... d-dove lo vedi?”

Aspettò qualche istante prima di darmi una risposta, come se volesse essere sicuro che fosse quella giusta. Davanti a lui c'era solo il muro, eppure lo immaginai intento a sbrogliare il flusso del tempo, osservando con cura le linee che portavano a chissà chi e chissà dove...

“Nei bambini.” disse infine. Non mi sfuggì un pizzico di sollievo nella sua voce.

“I bambini!?” sbottò Quist, sconvolto. “Quei bambini che ogni volta mi tirano e mi battono come se fossi un giocattolo??”

Gli gettai uno sguardo ammonitore, ma lui mi ignorò come sempre.

“Credi veramente che quei mocciosi salveranno il mondo, o cambieranno il futuro? Oh, lo credo anch'io, ma solo in peggio!” continuò, amareggiato.

Non potevo vedere se il Profeta si era offeso per quello che Quist aveva detto, ma avvertii comunque l'impulso di scusarmi.

“Lascialo perdere. È un folle, non vedi? Andiamocene!”

All'improvviso ero in piedi, con Quist che mi tirava con forza la mano. In due falcate fummo alla porta. Mi voltai verso il Profeta, le mie labbra e la mia lingua cercavano di articolare una qualsiasi parola di scuse, senza riuscirci. Ero sicuro che se avesse visto il mio sguardo avrebbe capito le mie buone intenzioni, ma lui era immobile, dimentico anche del cigarillo, e guardava il muro senza vederlo.
I suoi vestiti fuori luogo riflettevano il suo stato d'animo. Era una parodia di sé, immerso in chissà quali futuri possibili e improbabili...

Quist aprì la porta e uscimmo. Una serata gelida ci accolse. Sentii di essermelo meritato: ancora una volta, la mia balbuzie mi aveva impedito di dire quello che volevo. Mi odiai.

“Ma lo hai visto? Mi ha ignorato tutta la sera! Non gli rivolgerò mai più la parola!” detto da Quist, poteva essere visto come un premio, più che una punizione. Malgrado tutto, sorrisi al pensiero.

“Forse potremmo regalargli un burattino...” proposi speranzoso. “Si sentirebbe meno solo...”

“Scordatelo!” mi ammonì severamente Quist, “Quelli come lui non ci meritano.”

“Secondo te diceva la verità?” gli chiesi, pentendomi di provare dei dubbi per una persona come il Profeta, che stimavo e ammiravo, soprattutto ora che conoscevo a fondo il suo dolore.

“Chissene frega!” ribatté stizzito il mio compagno. “Piuttosto...” continuò, “guai a te se mi lasci in balia di quelle piccole pesti un'altra volta! Con quelle mani che si infilavano dappertutto... Mi hanno sgualcito il vestitino, denudato, perso una scarpa e fatto un bernoccolo! Gli sono bastati dieci minuti!”

“Eddai... al pubblico piaci, mica gli posso dire di no...!”

“Se non glielo dici tu, glielo dico io!”

“Se lo fai, sarò costretto a metterti nel baule.” Gli impedii di parlare parlando a mia volta. “Ehi, ricordi che l'altro giorno è arrivata una bambina, qui al circo? Ti immagini se dovesse essere proprio lei a cambiare il futuro!”

“Tsk!” il mio socio mise il broncio, incrociando le braccine e voltandosi dall'altra parte. Lo avevo offeso decidendo di parlare al suo posto. Quando faceva così, rischiava di essere così deciso nella sua cocciutaggine da compromettere lo spettacolo.

Presi un bel respiro e cercai di fare pace con lui.
  
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