Jared
20 settembre 1999, Los Angeles.
Uscii dagli studios con passo stanco, ma felice. Mi stavo impegnando tanto per quel film, Sunset Strip… Interpretavo una rockstar country, e avevo i capelli lunghissimi, come non li avevo mai avuti prima. Nemmeno a Versailles li avevo portati così lunghi. Il mio look però mi piaceva: aveva qualcosa di selvaggio. Alcune mie ammiratrici dicevano che ero molto sexy. Mi lusingava, certo, tuttavia la parte che mi interessava di più di quel film non era il look che avevo adottato, ma l’emozione che provavo mentre recitavo.
Avevamo cominciato a girare nel 1998, e a quanto sembrava avrei passato ancora tanto tempo sul set. Ma andava bene così: facevo quello che mi piaceva, era la mia passione. Certo, cantare, suonare, erano cose diverse, ma diventare un personaggio nuovo ogni volta che recitavo in un film diverso era affascinante. Era spingermi verso un limite e cercare di varcarlo. Era essere una persona diversa.
Non sto forse recitando anche ora? Questo non è il mio vero aspetto. Nessuno sa chi sono.
E di nuovo, andava bene così. Ero felice di essermi lasciato alle spalle la vita che avevo vissuto fino a poco tempo prima. Quei secoli erano una fase ormai chiusa: erano diventati parte di una vita passata.
Io ero rinato negli anni 90. Nuovo nome, Jared, nuovo cognome, Leto. Non ero più Joseph Devour. Mio padre era lontano, in Francia, ad inseguire i suoi strani ideali, a muover guerra a dei fantasmi; io, Christopher e mamma eravamo negli Stati Uniti. Attualmente, loro stavano nel Louisiana, mentre io ero nella città degli angeli per lavoro. Christopher, anzi, Shannon, come si chiamava adesso, sarebbe presto tornato a New York, e io sarei andato con lui. Avevamo un progetto grandioso in mente: prendere la nostra passione per la musica e trasformarla in qualcosa di reale, tangibile e spettacolare. Volevamo diventare i nuovi Pink Floyd, i nuovi Depeche Mode, ma con un’intensità diversa. Volevamo qualcosa di più potente, più cattivo, quasi. Alcuni testi erano già fatti, e una canzone, Revolution, era già in parte registrata. Ma mi mancava qualcosa… un dettaglio che mi sfuggiva. Quello che componevo mi piaceva, ma non era come volevo. Era come se dentro di me le canzoni esistessero già, e fossero solo lì ad aspettare che io le cercassi, e le trovassi. Solo, non avevo cercato ancora abbastanza. In quel caos era facile perdersi. Una volta trovato un senso alle mie idee, avrei dato vita alla musica che sognavo. Fino ad allora, dentro di me c’era un uragano.
Respirai a fondo l’aria inquinata di Los Angeles. Quanto era cambiato il mondo. Era duro ammetterlo, ma Marsiglia cominciava a mancarmi. Scossi la testa. Niente ripensamenti. Ora sono Jared Leto. Ricomincerò con un nuovo nome, e guarderò verso l’infinito.
Cercai le chiavi della macchina delle tasche del mio giaccone, inseguendo quel pensiero. Sarebbe potuto diventare una frase di una canzone… Mi ero perso nei miei pensieri, come mi accadeva spesso, quando delle grida interruppero il mio volo pindarico.
Una ragazza stava urlando a gran voce, imprecando ed insultando chiunque avesse sotto tiro.
-Stronzi! Figli di puttana che non siete altro! Non sapreste riconoscere l’arte nemmeno se ballasse nuda davanti ai vostri occhi da porci!-
Mi bloccai a quella vista. Quella ragazza era così diversa dalle altre che frequentavo a Hollywood.
Camminava veloce, infilandosi una giacca di pelle. I capelli castani, lunghi, ribelli, danzavano attorno a lei come se fosse immersa nell’acqua. E il suo sguardo bruciava. Vidi l’azzurro dei suoi occhi anche da quella distanza. Erano ghiaccio rovente.
La osservai, divertito, mentre si girava, e con un gesto plateale faceva il dito medio con entrambe le mani al via vai di persone che entravano e uscivano dagli studios.
-Fottetevi tutti, dal primo all’ultimo!- disse, poi riprese a camminare. Qualcuno le urlò dietro un insulto, e lei si limitò a tenere ben alto il braccio con cui faceva il suo gesto.
Quella ragazza mi incuriosiva. La vidi dirigersi verso la fermata del pullman. Mi tenni a distanza e la seguii.
La trovai appoggiata al palo che sosteneva il cartello della fermata. Mi avvicinai un po’, e vidi due righe lucide lungo le sue guance: stava piangendo. Il trucco nero era colato un poco. Eppure, non avevo mai visto nessuno di così affascinante. Ero rapito. Ricordo di essere rimasto ad osservarla, a qualche metro di distanza, mentre controllava l’orologio e si lasciava sfuggire un’imprecazione.
Mi feci coraggio e mi avvicinai di più. Farmi coraggio? Farmi coraggio?? Non capivo come quella ragazza potesse mettermi in soggezione.
-Va tutto bene?- le chiesi.
Mi trafisse con il suo sguardo di ghiaccio.
-Secondo te?- rispose.
Si asciugò le lacrime con un gesto veloce.
-Hai del fumo?- mi chiese.
-No, mi dispiace.-
-Acido? Pasticche? Niente di niente?- chiese ancora, impaziente.
-No, non ho nulla.-
Lei sbuffò.
-Scusami, è che… lasciamo perdere. Mi chiamo Mary.-
-Io sono… Jared.-
Stavo per rispondere Joseph… cosa mi prendeva?
Rise della mia incertezza e mi strinse la mano. Indugiò un momento, prima di lasciarmi andare.
-Sei uno di loro? Uno schiavo dell’industria cinematografica?-
Feci un timido sorriso.
-Gli piacerebbe... No, sono solo un attore che vuole qualcosa di più dalla vita.-
-Tipo?-
-Vivere della mia arte. Le mie parole, le mie canzoni…- mi interruppi. Perché le sto rivelando tutto questo?, pensai.
-Oh, suoni.- Non era una domanda. -Hai un gruppo?-
-Sì, ci chiamiamo…-
Mi bloccai di nuovo. Avrebbe riso del nostro nome. Tutti quelli a cui l’avevo detto mi avevano guardato come se fossi pazzo. A parte Christopher, cioè… Shannon. Dovevo mettermi in testa di chiamarlo con il nuovo nome.
-Vi chiamate?- mi chiese, strappandomi dal mio delirio mentale.
-30 Seconds To Mars.-
Mary accese una sigaretta, aspirò il fumo, poi lo lasciò andare piano piano.
-30 Seconds To Mars…- ripeté, come se stesse assaporando le parole. -Mi piace- sentenziò, sorridendomi.
-Mi piacerebbe tanto vivere su Marte. Chissà com’è la vita lassù. Sicuramente, sarà meglio di questo schifo.-
Fece un’altra boccata, poi lasciò la sua sigaretta a metà, la lanciò lontano e si avvicinò a me.
-Non ho nessuna voglia di aspettare quel dannato pullman. Perché non mi porti tu a casa?-
-Come sai che sono venuto qui in macchina?- chiesi, assecondandola. Incrociai le braccia al petto.
-Ti ho visto mentre cercavi le chiavi nel giubbino. Non sei esattamente il tipo di ragazzo che non si fa notare…-
Queste cose mi erano state dette tanto volte, e spesso non mi avevano fatto effetto. Dette da lei, ebbero un risultato totalmente diverso. Ero quasi felice che mi avesse notato. E avrei voluto prendermi a sberle, per quanto mi stessi comportando da stupido.
-E come sai che non sono un maniaco?-
-I tuoi occhi…- disse. Poi si interruppe, sbatté gli occhi e si allontanò di un passo.La imitai.
-Beh, allora andiamo, no?- proposi, incerto.
La accompagnai a casa. Per tutto il tragitto era stata favolosamente in silenzio. Mi diceva solo dove andare, e per il resto del tempo guardava fuori dal finestrino. Amavo questo comportamento: in quel periodo troppe persone mi assillavano con le loro parole senza senso.
Mi stupì ancora quando arrivammo a casa sua. A quel punto, tutte le ragazze che avevo incontrato nella mia vita invitavano a salire, e io perdevo puntualmente il mio interesse. Lei non lo fece.
Mi sorrise, mi ringraziò per il passaggio e mi diede un bacio sulla guancia. Poi scese dalla macchina e si diresse verso casa sua correndo.
Ancora non avevo capito quanto fosse speciale per me. Altrimenti, non l’avrei mai lasciata andare.