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Autore: shelovesrock    11/02/2012    2 recensioni
Joan si risveglia in California, sola e senza sapere come ci è finita. Ad aiutarla e portarla alla Roadhouse è John Winchester, un cacciatore di demoni, come del resto tutte le persone che sostano alla Roadhouse. Qui Joan avrà il suo primo incontro con il mondo del soprannaturale... o forse no? Tutto quello che le è successo è frutto del caso, oppure era già tutto prestabilito?
Genere: Azione, Drammatico, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Più stagioni
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California. L’assolata, calda… lontana California. Come aveva fatto ad arrivare lì, da New York? Sapeva che, con l’auto, ci volevano quasi due giorni. Ma lei non aveva nessun ricordo di essere arrivata con l’auto, anzi peggio: non aveva assolutamente nessun ricordo! L’ultimo era Times Square, le sue luci accecanti, poi più nulla.

“Signorina, sta bene?” le disse qualcuno. Voltò lo sguardo, e solo allora si accorse che c’era qualcos’altro di strano (a parte la memoria svanita): era raggomitolata, con le gambe sotto il mento e la schiena appoggiata a una delle palme del lungomare.

“Sì, credo… credo di sì” rispose. Cercò di alzarsi, ma un dolore lancinante alla schiena la costrinse a fermarsi e a chiudere gli occhi.

“Ne è sicura?”

“Non… non lo so” ammise, riaprendo gli occhi.

“Vuole che la porti all’ospedale?”

“Sì, penso… penso che sia meglio” fece, e provò di nuovo ad alzarsi. Stavolta il dolore si limitò ad assalirla nella zona delle scapole ma, appena tentò di fare un passo, rischiò di cadere e dovette appoggiarsi al braccio della persona che la stava portando all’ospedale.

“Aspetti, non si muova” le disse, e la prese in braccio come se fosse una bambina, sedendola con attenzione sul sedile anteriore di una grossa macchina nera e chiudendo la portiera. Dopo pochi secondi, aprì lo sportello e si sedette davanti al volante, girando la chiave nel quadro e partendo.

Il rombo del motore fu assordante, e lei si coprì le orecchie finché non scemò, fino a tornare a essere non più di un normale rumore di sottofondo. “Come si chiama?”

“Joan” rispose: almeno di quello era sicura. Era più che certa che la chiamassero così, ma non ricordava chi lo facesse.

“Da dove viene?”

“New York. Ero lì, quando… lasciamo perdere”.

“Quando cosa?” domandò lui, fissandola curioso. Joan era appoggiata con la spalla alla portiera e lo osservava: quell’uomo aveva qualcosa, nello sguardo, come se sapesse cosa le era successo.

“Non mi crederebbe mai, quindi non c’è bisogno che lo dica”.

“Sono abituato a sentire storie strane, Joan. Allora, quando?”

“Da quando non ricordo più niente. È come se nella mia testa ci fosse un enorme buco nero, non so cosa ho fatto, dove sono stata e come sono arrivata qua. Niente”.

“Quindi, devo dedurre che non ricordi neanche il tuo cognome”.

“Hai un altro significato per la parola ′niente′?” fece, ironica.

Lui sorrise, e fermò la macchina. Joan si voltò, e vide che erano arrivati all’ospedale: quando si girò verso l’uomo che l’aveva accompagnata, vide che stava frugando in un cassetto, pieno zeppo di carte d’identità. “Ma chi sei?” domandò.

“Alex Donovan” rispose, mostrandole una carta d’identità.

Stava mentendo, ma Joan non si scompose: in fondo, era lei quella che non ricordava nulla. Almeno, quell’uomo aveva un nome e un cognome, anche se falsi… lei neanche quelli. Alex (o come si chiamava) la aiutò a uscire, sempre tenendola in braccio, e la portò nel pronto soccorso.

“Mi scusi” disse lui, fermando un’infermiera. “Ho trovato questa ragazza sul lungomare, credo che non stia bene”.

“Cos’ha?” fece, spostandosi una ciocca di capelli castani.

“Ahm, credo che abbia qualcosa di rotto: non riusciva ad alzarsi e a camminare”.

“La sieda qui” indicando una sedia a rotelle. “Chiamo il medico”. Alex la sedette e, in quell’istante, qualcosa cadde in una stanza: di nuovo, quel rumore costrinse Joan a tapparsi le orecchie. Ora che ci pensava, quando si era svegliata, aveva già avuto la sensazione che ogni cosa avesse il volume troppo alto: le onde del mare, il vento fra l’erba, il battito di ali dei gabbiani… perfino il suo stesso respiro.

“Joan, cos’hai?”

“Il rumore. È assordante, ed è dappertutto. Non ce la faccio più” esclamò. Alex stava per chiederle qualcos’altro, quando arrivo un uomo in camice bianco.

“Salve, io sono il dottor Brian, lei è…?”

“Joan” rispose, e il medico la fissò, con la penna a poca distanza dal foglio.

“Joan come?”

“Non me lo ricordo” ammise, e il dottore scrisse qualcos’altro.

“L’ho trovata raggomitolata sotto una palma, sul lungomare” intervenne Alex. “Quando ha provato ad alzarsi all’inizio non c’è riuscita, poi, dopo un passo, è caduta”.

“E lei è?”

“Alex Donovan”.

“Ok. Per ora, la signorina è ricoverata qui al pronto soccorso: fra poco, la porteremo a fare una TAC per capire cos’ha” ordinò il dottore, e un’infermiera con una lunga treccia la portò verso una porta bianca alla fine del corridoio.

Si voltò verso Alex, e vide che rispondeva al medico con molta disinvoltura… allora, non era la prima volta che mentiva. Certo che, di tutti quelli che potevano aiutarla, proprio quello con più segreti di lei doveva farlo!

L’infermiera aprì la porta, e la spinse all’interno di una sala. “Dovrebbe cambiarsi: indossi questo” le disse, sorridendo e porgendole una camicia da notte da ospedale. Joan la prese, e iniziò a togliersi i vestiti. Solo in quel momento, fece caso a quello che indossava: dei jeans scoloriti e stracciati alle giunture, un paio di trainer bianche con delle scritte indecifrabili, un giubbotto di pelle pesante, una maglietta rossa a maniche lunghe, sporca di quello che sembrava cibo e, ai polsi, dei bracciali borchiati. L’infermiera la aiutò a piegare tutti i vestiti con cura e anche a indossare la camicia.

“È sicura di non ricordare nulla?” le chiese.

“Perché?”

“Perché ha la schiena piena di cicatrici”.

“Davvero? Posso… posso vederle?” domandò, e l’infermiera prese due specchi: uno lo diede in mano a Joan, e l’altro lo tenne per sé. Grazie a questo gioco di specchi, Joan osservò la sua schiena e la vide piena di segni rossastri, che s’incrociavano tra di loro. “Io… io non mi ricordo come me li sono fatti” ammise.  L’infermiera farfugliò qualcosa, ma Joan non capì quello che aveva detto; posò lo specchio sulle sue ginocchia, prima di rialzarlo al livello del suo viso e guardarsi.

L’immagine riflessa era quella di una ragazza dal viso magro su cui spiccavano due iridi così nere da sembrare formate solo dalle pupille, e i capelli erano dello stesso colore. Si passò una mano fra essi, e le dita rimasero impigliate fra i nodi; abbassò la mano, e rimase in attesa che arrivasse il dottore per la TAC.

Come diavolo aveva fatto a farsi quelle cicatrici? Risalivano a prima o dopo il suo ultimo ricordo? E, cosa più importante, come diavolo aveva fatto ad arrivare dall’altra parte del Paese?

Mentre si faceva tutte queste domande, il medico entrò nella sala. “Pronta per la TAC?” le chiese. Joan fece di sì con la testa, e l’infermiera la portò in un’altra sala, con uno strano apparecchio da cui usciva un lettino, su cui la fece sdraiare.

“Si rilassi, e non si muova. Se dovesse avvertire una sensazione di claustrofobia, suoni questo pulsante e…”

“Claustrocosa?”

“Claustrofobia. È la paura degli spazi chiusi, lei potrebbe soffrirne ma non lo sappiamo. Comunque, noi potremmo comunicare grazie a dei microfoni, e le diremo se c’è qualcosa che non va, chiaro?”

“Sì. Grazie” rispose, e cercò di rilassarsi. Poco dopo che la porta si chiuse, il lettino iniziò a muoversi con un ronzio che trapanò le sue orecchie: avrebbe voluto tapparsele, ma quell’infermiera le aveva detto di non muoversi, e comunque sapeva che dopo qualche minuto il rumore sarebbe diminuito.

“Sta bene?” le disse una voce dall’interno della macchina.

“Sì” disse con un fil di voce, rimanendo con gli occhi chiusi: quella macchina le faceva paura, non sapeva cosa fosse né a cosa le servisse. Come faceva quella macchina a sapere cosa le era accaduto? Dopo pochi minuti, il lettino di mosse di nuovo, sempre con quel solito, fastidioso, fortissimo ronzio. Una volta fuori, l’infermiera era già lì assieme al dottore, entrambi con una strana espressione sui volti.

“Cosa c’è? Qualcosa non va?”

“È davvero sicura di stare bene?” le domandò il medico.

“Sì. Sto bene, a parte la memoria vuota e…” in quel momento, si accorse di non sapere come spiegare cosa le succedeva ogni volta che sentiva un nuovo suono.

“E cosa?” le chiese, mentre si sedeva sulla sedia a rotelle.

“Ecco, ogni volta che sento un rumore nuovo, è come se… come se fosse al massimo del volume. Ma perché, qualcosa non va?”

“Dovrà essere ricoverata: per un paio di giorni, rimarrà qui” le rispose, scrivendo sulla sua cartella. “Nel frattempo, cercheremo di scoprire chi è, d’accordo?”

“Che cos’ho?” ripeté Joan, fissandolo.

“Ha… qualche osso rotto, ma niente di grave” le disse, senza guardarla. “Ora, deve solo cercare di lavorare sulla sua memoria per ricordare”.

Fu portata in una stanza singola, con la finestra sul parco dell’ospedale, e si mise a guardare fuori. Rimase così per ore, finché non calò la notte e il cielo non divenne nero; non le andava di mangiare la cena che le avevano portato, quindi lascio che la minestra si raffreddasse e la portassero via. Si girò dall’altra parte, e cercò di prendere sonno, ma c’era qualcosa che glielo impediva. All’improvviso, ebbe la sensazione che ci fosse qualcuno, alle sue spalle, e si voltò.

“Che diavolo…” iniziò a dire, ma Alex le mise un dito sulle labbra per farla stare zitta, e le restituì i vestiti.

“Indossali, e fai piano” sussurrò. Joan non fece obiezioni, e si tolse la camicia dell’ospedale per rimettersi i suoi abiti. Nel frattempo, Alex era accanto alla porta, per vedere se arrivasse qualcuno, con la mano dietro la schiena: si chiese cosa avesse, sotto il giaccone da caccia.

“Fatto?” le disse, e Joan bisbigliò un sì a mezza bocca. “Andiamo, avanti. E non fare rumore”. Aprì la porta, e la fece uscire: per tutto il corridoio, non c’era nessuno, l’unica luce veniva da sotto una porta chiusa.

Cercò di non fare nessun rumore, e in poco tempo arrivarono alla porta della corsia. Alex aprì anche quella, piano, e si guardò attorno. “Prendiamo l’ascensore, di qua” fece, e la accompagnò di fronte ad una porta di metallo che si aprì, rivelando uno spazio stretto. Entrarono, e lui pigiò il tasto per il piano terra.

“Perché sei venuto a prendermi? E cosa più importante, dove vuoi portarmi?”

“Lontano da qui. I medici non hanno idea di quello che ti è successo”.

“Neanche io so quello che mi è successo, se è per questo” ironizzò lei.

“Ma io ne ho una mezz’idea” ammise, e Joan lo fissò.

“Sei una specie di dottore?”

“Non proprio. Ora silenzio, siamo arrivati” disse. Le porte si aprirono, e in silenzio, come le aveva detto Alex, uscirono e si trovarono fuori dall’ospedale in poco tempo. La macchina di Alex era parcheggiata a poca distanza dall’entrata del pronto soccorso, se non sbagliava esattamente dove l’aveva messa quel pomeriggio; forse non l’aveva mai spostata.“Sali”.

“Dove mi vuoi portare?”

“In un posto in cui potrai capire cosa ti è successo, e ricordare ti sarà più facile che non rimanendo qua”. Joan entrò in macchina e vide, sul cruscotto, una busta dell’ospedale. “Sono i risultati delle tue radiografie”.

“Come le hai avute?”

“Un amico mi doveva un favore. Cosa ti ha detto il medico?”

“Che ho qualche osso rotto”. Alex scoppiò a ridere, mettendo in moto la macchina.

“Davvero? Beh, allora rimarrai sorpresa: avanti, guardale”. Joan aprì la busta, e tirò fuori una delle lastre: doveva essere quella dei suoi femori, ma c’era qualcosa di strano.

“Senti, io non sono laureata in medicina, ma le ossa… non dovrebbero essere così, o sbaglio?”

“Non sbagli. Quelli sono i tuoi femori, e a quanto pare sono rotti in più punti. E lo stesso vale per tutte le tue ossa: sono tutte rotte in questo modo, perfino quelle del cranio, cercale” rispose.

Joan rimase scioccata, ma le cercò comunque. Alla luce intermittente dei lampioni, cercò di vedere qualcosa ma non ci riuscì. Alex, allora, accese la luce in macchina. “Guarda da qui”.

“Ma è troppo piccola”.

“Per una radiografia del cranio va più che bene”. Lei la alzò, e spalancò gli occhi: ogni osso era spezzato in più punti, come se fossero tanti pezzi di un puzzle messi in ordine.

“È per questo che non ricordo nulla?”

“No” rispose. “Chiunque avesse le ossa ridotte in questo modo, sarebbe morto. E tu, decisamente non sei morta”.

Joan abbassò le mani, e rimise le radiografie a posto. “Mi cercheranno”.

“Sì. Forse si sono già accorti che sei sparita, e avranno già allertato la polizia”.

“La polizia?” esclamò lei. Non era del tutto certa, ma credeva di ricordare che non le piacesse molto la polizia.

“Sei una ragazza che non ricorda nulla, con le ossa spezzate, sparita da un luogo pubblico: che ti aspetti?”

“Già, è vero”. Guardò fuori, e vide la strada sfrecciare accanto a loro. “Quindi, se le ossa si sono rotte nel periodo che io non ricordo, lo stesso vale anche per le cicatrici sulla mia schiena?”

“Hai delle cicatrici sulla schiena?” domandò sorpreso.

“Sì. Non le hai notate prima?”

“No. Ero più impegnato a sentire se arrivasse qualcuno. Ma dimmi, quante sono?”

“Non le ho contate, ma sono parecchie: si incrociano, e alcune sembrano vecchie, quindi potrebbero risalire a prima”.

“Non lo so. Non voglio fare più supposizioni di quelle che già sto facendo”.

“Senti, ma mi vuoi dire chi sei? A partire dal tuo nome, non è Alex Donovan”.

“Ok. Mi chiamo John Winchester, vengo da Lawrence, nel Kansas. E sono un cacciatore di demoni”.

“UN COSA?” urlò, fissandolo.

“Un cacciatore di demoni. E il fatto che tu non ricordi nulla, mi fa pensare che tu sia stata posseduta da uno di loro. Però, non riesco a capire come fai ad essere ancora viva”.

“Cioè, sono stata posseduta da un… un essere orrendo?”

“No, i demoni non hanno una forma vera e propria, appaiono come del fumo nero”.

“E perché ti stupisci che sono viva?”

“Quando un demone possiede un essere umano, possono anche sparargli ma non muore. Solo quando il demone lascia il corpo, allora si muore, ma tu… tu sei ancora viva, con ossa a pezzettini e cicatrici”.

  
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