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Autore: adamantina    12/02/2012    13 recensioni
Joey li ha conservati tutti: dodici oggetti per ricordare Cal, il suo migliore amico. Un’amicizia che è diventata odio e poi passione, segnata dalla rabbia, dalla malattia, dalla morte e dal tempo. E che, nonostante tutto, fa ancora male.
“Have you ever watched you best friend die?”
Genere: Drammatico, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: Lemon | Avvertimenti: nessuno
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Nick autore: adamantina
Titolo storia: Memory
Titolo capitolo: /
Genere: Drammatico, Romantico, Malinconico
Avvertimenti: Slash, Lemon, Angst
Breve introduzione: Joey li ha conservati tutti: dodici oggetti per ricordare Cal, il suo migliore amico. Un’amicizia che è diventata odio e poi passione, segnata dalla rabbia, dalla malattia, dalla morte e dal tempo. E che, nonostante tutto, fa ancora male.
“Have you ever watched you best friend die?”
Eventuali note: La storia è ambientata nel college di Summerhill, una scuola realmente esistita, fondata dal pedagogista Alexander Neill nel 1924 nei pressi di Londra. Essa era basata sugli interessi degli allievi che lì vivevano: la scelta dei corsi era libera e la partecipazione ad essi non obbligatoria. Nella realtà, Summerhill chiuse dopo circa 50 anni, mentre la mia storia è ambientata ai giorni nostri.
La citazione iniziale è tratta dalla canzone “In this life” di Madonna; quella finale da “For Good” dal musical Wicked. La traduzione è al fondo della storia.

Buona lettura!

adamantina

 

MEMORY
 

 




“Have you ever watched your best friend die?
Have you ever watched a grown man cry?
Some say that life isn't fair
I say that people just don't care
They'd rather turn the other way
And wait for this thing to go away…”


Non la tiro fuori finché non sono certo che siano usciti tutti per andare a vedere la partita. Anzi, aspetto anche qualche minuto in più, giusto nel caso qualcuno avesse dimenticato qualcosa e dovesse tornare a prenderla. Non che qualcuno entrerebbe nella mia stanza senza bussare, a parte Linda, ma preferisco non correre rischi.
Poi mi decido: mi alzo dalla scrivania, chiudendo con un tonfo il pesante libro di Filosofia, che per la foga scivola a terra alzando un nugolo di polvere: probabilmente avrei dovuto passare la scopa, questa settimana.
Apro il pesante armadio di legno e mi abbasso, smuovendo il secondo cassetto con uno strattone deciso per contrastare la poca arrendevolezza dei binari metallici laterali. Sotto a uno strato stropicciato e confuso di vari capi di abbigliamento, dei quali è difficile determinare lo stato di pulizia, riesumo una scatola da scarpe. Non è molto pesante, ma mi sembra lo stesso molto faticoso estrarla e portarla fino al letto. Non mi curo di richiudere l’armadio, magari ci penserò più tardi.
Mi siedo sul copriletto a gambe incrociate e guardo la scatola con un misto di timore e di senso di aspettativa.
Ho rimandato abbastanza a lungo da non essere più terrorizzato alla sola idea di rivedere il suo contenuto, ma sono perfettamente consapevole che non sarà una cosa facile, né tantomeno piacevole. Eppure so che è arrivato il momento giusto.
Un anno: trecentosessantacinque giorni, ottomilacentosessanta ore, cinquecentoventicinquemila e seicento minuti, cinque milioni e cinquecentotrentaseimila secondi.
Sembrano tanti, sembrano pochi.
In realtà si tratta solo di tempo che scorre, e che ormai ha perso di significato.
Tolgo con decisione il coperchio.

«Non sono sicuro che sia una buona idea.»
«Tu non sei mai sicuro di nulla.»
«Sono sicuro che sia una pessima idea, se la metti così.»
Incasso la prevedibile occhiataccia e decido saggiamente di non avanzare ulteriori obiezioni che finirebbero soltanto per peggiorare la situazione.
Osservo lo sguardo avido di Cal posarsi sulle curve morbide del corpo di Suzie Miller, dritto attraverso il buco che ha personalmente provveduto a creare nel muro che separa gli spogliatoi maschili da quelli femminili.
«Allora?» chiedo in tono rassegnato.
«Lo sapevo» esulta, stringendo il pugno in un gesto di vittoria e agganciando involontariamente il bracciale di stoffa che ha al polso a un chiodo piantato nel muro. «Deve metterci il cotone, in quel reggiseno.»
Alzo gli occhi al cielo, aiutandolo a districare il bracciale dal chiodo.
«Ora che la tua sete di conoscenza è stata placata, perché non ce ne andiamo prima che arrivi qualcuno?»
«Chi vuoi che arrivi?» taglia corto Cal. «Devo scoprire se con questa inclinazione riesco a vedere fin nelle docce.»
«Magari potrebbe rimandare a un altro giorno questa attività, signor Eller. Per esempio tra un paio d’anni, quando avrà finito di scontare la sua punizione.»
Ci voltiamo lentamente verso il preside Neill. Cal usa la tecnica del sorriso ammaliante senza esitare.
«Sono certo che può capire le mie intenzioni, signor Neill. Dev’essere stato giovane anche lei.»
Trenta secondi dopo, siamo entrambi in punizione e Cal si è guadagnato una sospensione di tre giorni. Evidentemente, la tecnica del sorriso ammaliante funziona solo con me.


Poso sul letto la spatola arrugginita con un leggero disgusto. I residui dei chewing-gum che abbiamo grattato via da sotto i banchi a causa di quell’idea geniale hanno formato una patina scura che non invoglia certo a sfiorarla.

Il disordine della nostra camera è ancora più evidente sotto la luce brillante del sole settembrino, che entra liberamente attraverso la finestra spalancate. Le casette di Summerhill sorgono su una collinetta, nel mezzo di un meraviglioso prato verde sempre curato; sono costruite in legno e sono venti, due per annata –dai mocciosi di otto ai senior di diciotto-, una maschile e una femminile. Ognuna di queste ospita quattro camere doppie, quindi ci ritroviamo ad essere otto ragazzi e otto ragazze della stessa età. Questo non sempre significa corsi in comune; molti vanno per interesse e per livello, e quelli che seguono un percorso cronologico si contano sulla punta delle dita.
Il college in sé è a circa trecento metri di distanza dalla zona residenziale, raggiungibile attraverso sentieri ricoperti di ghiaia che attraversano la collina come le diramazioni di un fiume argenteo. Oppure come tentacoli di una piovra assassina. La scelta della metafora migliore sta agli studenti, che optano di solito per la seconda, molto più suggestiva.
Comunque. Io, Joey Anderson, ho lasciato da un pezzo la fase da moccioso, e con i miei quasi-diciassette-anni sono al terzultimo periodo di corso. Da otto anni divido la camera con Caledon Eller, altrimenti detto la-mia-rovina, nonché –mio malgrado- mio migliore amico.
Questa mattina in particolare, non vuole farmi la gentilezza di uscire dal bagno. Il mio corso di Filosofia comincia tra venti minuti e devo ancora fare la doccia, cambiarmi e fare colazione, per non parlare della corsa fino all’edificio principale.
«Cal, maledizione, muoviti o giuro che butto giù la porta» ringhio per l’ennesima volta.
Finalmente le mie preghiere vengono esaudite e la porta si socchiude. Ne esce un Cal dall’aria parecchio sbattuta, pallido ed emaciato, i capelli castani spettinati che incorniciano due occhiaie violacee, solo un asciugamano intorno alla vita.
«Che succede? Va tutto bene?» indago, preoccupato, dimenticandomi della mia fretta.
«Sì» brontola lui. «Ieri sera, alla festa di Tim Halley, ho esagerato con la vodka. Tutto qui.»
Annuisco, solidale, e mi precipito sotto la doccia, riuscendo infine ad accumulare solo dieci minuti di ritardo –praticamente un record, come mi fa notare la professoressa Carson simpaticamente.
Quella vecchia zitella acida.

Metto da parte la pagina che Cal ha strappato dal mio libro di Filosofia per disegnarci con un pennarello blu la professoressa Carson in una posizione a dir poco compromettente, facendomi rischiare la morte per soffocamento a causa delle troppe risate. Non oso immaginare cosa sarebbe successo se l’avesse visto.

La prima volta che succede siamo solo noi due.
Anzi, io arrivo appena in tempo. Busso e maledico mentalmente Cal per non voler alzare il culo dal letto mentre cerco la chiave della stanza nello zaino. Dopo qualche minuto di affannose ricerche, finalmente riesco ad entrare. La stanza è vuota, ma la porta del bagno è socchiusa. Sbircio dentro, giusto per assicurarmi che Cal ci sia, e lo spettacolo che mi si para davanti mi fa gelare il sangue nelle vene.
L’immagine mi si imprime a fuoco nel cervello: il mio migliore amico, bianco come un cencio, disteso a terra supino in una pozza di sangue.
Non riesco a trattenere un grido spaventato: mi avvicino e lo scuoto con cautela.
«Cal» lo chiamo, il panico che traspare dal tono acuto della mia voce. «Cal, svegliati, ti prego.»
Lo schiaffeggio come ho visto fare in qualche film e lui, alla fine, apre gli occhi e si porta cautamente una mano alla testa. Fa una smorfia nel ritirarla sporca di sangue.
«Cos’è successo?» chiedo, in ansia, mentre, recuperato il cellulare, compongo il numero del preside. «Come stai?»
«Non … non è niente. Non è il caso di chiamare nessuno.»
«Non essere stupido. Sanguini.»
«Sì, perché sono scivolato e ho battuto la testa.»
Il preside risponde al secondo squillo nonostante sia mezzanotte passata, e in meno di cinque minuti è davanti alla nostra casetta con l’auto.
Aiuto Cal ad alzarsi e lo accompagno fino alla macchina.
«Puoi tornare a dormire, Joey» mi invita il preside con poca convinzione.
Infatti mi oppongo e lo seguo, salendo sul sedile posteriore accanto a Cal.


Sospiro al ricordo. Avrebbe dovuto insospettirmi, ma non l’ha fatto –almeno, non tanto quanto avrebbe dovuto.
Cal non mi riferì quello che gli avevano detto i dottori per diverso tempo –almeno un paio di mesi, ora che ci penso. Fino a quando non era successo di nuovo.

Non è altrettanto drammatico, stavolta. Nel bel mezzo di un’interessante conversazione che comprendeva stilare una lista delle ragazze più carine della scuola, Cal corre via e si chiude in bagno.
Aspetto qualche minuto, quindi entro timidamente. Lui è in ginocchio, la testa appoggiata contro il muro, gli occhi chiusi, le mani chiuse a pugno sul petto.
«Cal? Stai bene?»
«No» dice a denti stretti.
Non mi aspettavo questa risposta: mi chino accanto a lui.
«Chiamo qualcuno?» propongo a bassa voce, teso.
Lo vedo lottare contro l’impulso di negare e infine annuire.
Anche stavolta vado all’ospedale con lui e, mentre dorme, quella stessa sera, vengo chiamato da un medico e mi viene riferito per la prima volta il nome della malattia, quel nome che mi perseguiterà a lungo e che fino ad allora non avevo mai sentito nominare.
Mi dà alcune informazioni, cose generali, dicendomi che potrei informarmi su Internet. Poi aggiunge qualche consiglio pratico.
Cose come “tienilo d’occhio, non fargli assumere droghe, non farlo bere, non lasciare che fumi e impediscigli di fare troppo esercizio fisico” eccetera. Mi sfugge una risatina che sconvolge il dottore.
So benissimo che Cal ha sempre fatto -e sempre farà- solo ciò che vuole.


I fogli scaricati da Internet e stampati di nascosto sono stropicciati. Li ho letti così tante volte, sempre cercando di non farmi vedere da Cal, consapevole che non avrebbe mai voluto che io cercassi informazioni su quell’argomento. Non li riapro, perché in questo momento non mi interessano. Non sono mai serviti a nulla.
In compenso, questo coccio di vetro smussato lo ricordo alla perfezione. Le mie dita ne conoscono ogni curva, solcata da loro stesse quando le estremità erano ancora taglienti.

Sto già quasi dormendo la sera in cui cambia tutto.
È passato più di un mese dall’episodio precedente. Sono solo in camera e ho spento da poco la luce quando la porta si socchiude.
Non vi do troppo peso –io e Cal torniamo sempre all’ora che vogliamo, non c’è nulla di strano- almeno finché non sento un tonfo pesante. Sbuffo, irritato, e allungo la mano per accendere la lampada sul mio comodino.
Appuro che il tonfo era dovuto alla pila di libri che Cal ha buttato per terra passando.
«Complimenti per la finezza» commento acido.
Lui ride e attraversa faticosamente la stanza, barcollando visibilmente e urtando un paio di mobili.
«Hai bevuto?» indago con serietà, scacciando il sonno e mettendomi seduto sul letto.
«Ma certo che no» pigola Cal, ancora ridendo, e apre l’armadio, probabilmente convinto che sia il bagno.
«Sei completamente ubriaco» dico, disgustato, guardando la bottiglia mezza piena che ha ancora in mano. «Non dovresti assolutamente bere, nelle tue condizioni.»
Vedo lo sguardo allegro di Cal trasformarsi davanti ai miei occhi in furioso.
«Io faccio quel che cazzo mi pare» ringhia e, tanto per darne un’ulteriore dimostrazione, avvicina la bottiglia alla bocca e beve un lungo sorso di qualunque cosa essa contenga.
Mi alzo e lo raggiungo.
«Adesso basta» dico con fermezza, tentando di prendergli di mano la bottiglia. È più forte di me, normalmente, ma adesso probabilmente ci vede doppio: non faccio troppa fatica a strappargliela di mano.
«Ridammela!» grida, allungando le mani, e io, nel tentativo di allontanarlo, perdo la presa sulla bottiglia e a lascio cadere a terra. Va in frantumi e l’alcool restante si sparge sul pavimento.
«Sei un coglione!» mi urla contro, spintonandomi per terra.
Colto di sorpresa, mi ritrovo seduto sul pavimento, le mani, istintivamente gettate indietro, proprio sulle schegge di vetro appuntito.
«Ma cos’hai in testa?» sbotto, alzandomi e cercando di ripulirmi le mani dal vetro.
«Tu non puoi dirmi cosa devo fare!» grida ancora, e cerca di darmi un pugno.
Lo evito e lo spingo lontano.
«Ti sei anche fatto di qualcosa?» chiedo con rabbia. «Non hai un minimo di amor proprio?»
«Io mi faccio di quello che voglio!» insiste, e stavolta il suo destro colpisce nel segno, lasciandomi senza fiato quando raggiunge il mio stomaco. «Avanti, reagisci!» urla.
«Sei completamente fuori» decido. «Non voglio … »
Ma lui non sente ragioni e cerca ancora lo scontro. Stufo di essere inerme, provo a difendermi, ma, per quanto ubriaco, Cal ha ancora venti chili di muscoli in più di me ed è molto più allenato. Mi colpisce ripetutamente, mentre io cerco di allontanarlo con calci e pugni e graffi, finché tutto non diventa confuso e irreale nella penombra silenziosa della stanza.
Ad un certo punto, sento la mia schiena sbattere violentemente contro il muro. La vista mi si annebbia per un secondo. Allungo alla cieca le mani verso di lui, tentando di spingerlo via, ma invano. Preme contro di me, togliendomi il fiato.
«Perché … vuoi farti … del male?» ansimo.
«Voglio fare del male
a te» specifica, rabbioso.
«Beh, complimenti, ci stai riuscendo!»
«Io faccio quello che voglio!» insiste, abbastanza illogicamente.
«Tu fai solo il coglione» taglio corto.
Un momento dopo mi accorgo di non riuscire più a respirare. Ma questo non è dovuto ad un pugno, bensì alle sue labbra che premono insistenti sulle mie.
Scioccato, cedo quasi subito alla pressione, lasciando che mi attiri più vicino e, mio malgrado, rispondendo al bacio. Non è affatto come baciare una ragazza: non sa di miele né di ciliegie, ma di vodka, gin e whiskey, e non è per niente delicato, ma violento e brutale. Mi morde il labbro e io ansimo in cerca d’aria.
Si allontana di scatto, fissandomi negli occhi con sguardo spiritato.
Restiamo immobili per un paio di secondi, ma è lui il primo ad allontanarsi, rifugiandosi in bagno e sbattendo la porta.
Tremando leggermente, raggiungo il mio letto, spengo la luce e mi infilo sotto le coperte. Afferro un pezzo di vetro che è caduto sul copriletto e lo stringo tra le dita, incurante del dolore, per assicurarmi di non star sognando. Chiudo gli occhi e ascolto in silenzio i suoi movimenti: dopo qualche minuto rientra nella stanza e si corica sul suo letto. Fingiamo di dormire, consapevoli di essere entrambi svegli nel buio e di sentire il gusto dell’altro sulle nostre labbra.
Mi sento ubriaco anch’io.


Appoggio con cautela il pezzo di vetro sul letto con un mezzo sorriso, divertito dal ricordo di quanto mi aveva scioccato quel bacio e di quante ore avevo passato a pensarci nei giorni seguenti. L’oggetto successivo è un rossetto, color “fragola matura” secondo l’etichetta sbiadita, di semplice plastica nera.
Me lo rigiro tra le dita e lo apro anche, ma senza troppo entusiasmo.

L’imbarazzo tra me e Cal si è acuito sempre di più nei giorni successivi alla lite. A stento ora lui mi rivolge la parola, nonostante condividiamo la camera da letto e la maggior parte delle attività quotidiane.
Quando rientro non è ancora mezzanotte. Sono stato fuori tutto il pomeriggio e la sera, in biblioteca, per concludere una ricerca che avevo lasciato in sospeso.
Cal sta studiando, o così pare, e ovviamente non mi saluta nemmeno. Lo ignoro anche io e mi lascio cadere sul letto, ma la mia schiena urta qualcosa di scomodo. Afferro l’oggetto fastidioso: è un rossetto. Aggrotto le sopracciglia.
«Cosa ci fa un rossetto sul mio letto?» indago.
Cal non dà segno di avermi sentito.
«Hai portato qui una ragazza?» insisto.
«Anche se fosse?» ribatte lui, senza alzare gli occhi dal libro di testo.
«Pensavo avessimo deciso che non avremmo portato ragazze in camera, specialmente non sul letto dell’altro.»
«Fatti i cazzi tuoi, Joey» taglia corto, voltando la pagina brutalmente.
Non replico, lasciando cadere il rossetto nel primo cassetto che trovo e dimenticandomene in fretta.


Il mio sguardo ricade sul rossetto e sui fascicoli medici. Sospiro.
Quel periodo non è stato dei più facili. La convivenza con il mio cosiddetto migliore amico si era fatta quasi insopportabile. O litigavamo, o ci ignoravamo.
Prendo dalla scatola un piccolo bottone madreperlaceo e stavolta sorrido davvero. Questo rientra nella lista dei ricordi migliori, anche se quella giornata era cominciata davvero in modo pessimo.

Le vacanze estive sono passate e ho cominciato da poco il mio ultimo anno qui.
Ho comunicato a Cal che oggi trascorrerò la notte nella camera di Linda, nostra coetanea nonché grande amica, perché la sua coinquilina è via per qualche giorno a causa di problemi famigliari. Salvo poi scoprire che in realtà i suoi problemi si sono risolti e che non c’è più un letto libero per ospitarmi. Resto a chiacchierare con loro per un’ora abbondante, quindi decido di tornare in camera mia.
Apro la porta senza pensarci due volte, usando la mia chiave, senza bussare per non rischiare di infastidire Cal, ultimamente già abbastanza nervoso.
E mi trovo davanti il mio migliore amico con Suzie Miller praticamente nuda sul
mio letto.
«Oh, cazzo» impreco, accendendo la luce e facendo sussultare i due. «Fuori di qui, Miller» dico con fermezza.
«Vattene tu» sbuffa Cal, mettendo una mano intorno alla vita nuda di Suzie.
«Questa è la mia stanza, e quello è il mio letto. Hai un minuto di tempo per sloggiare» ripeto con insolita durezza.
Suzie capisce dal mio tono che è meglio non contrariarmi. Si alza, si rimette la camicetta, si sistema la gonna ed esce, non prima di aver lanciato un’occhiata languida a Cal e una assassina a me.
«Sei un bastardo» sbotta Cal, mettendosi in piedi a sua volta. «Non hai il diritto di-»
«Senti» dico con calma, frenando con un gesto i suoi istinti omicidi «Se vuoi continuare a scoparti ogni appartenente al genere femminile di questa scuola per urlare al mondo che sei eterosessuale e non hai nessun dubbio in proposito, sei liberissimo di farlo. Ma
non nella mia stanza
«Tu –cosa? Primo, io
sono eterosessuale. Secondo, questa è anche la mia stanza e posso farci venire chi mi pare e piace.»
«Non sul mio letto!»
«Era Suzie Miller» dice, come se questo chiarisse tutto e concludesse il discorso.
«Certo, ma sai cosa, Cal? Non sarà Suzie Miller che ti sarà vicino quando alla fine tirerai le cuoia.»
Non so da dove mi sia uscita questa acidità, questa cattiveria cinica a lungo repressa. Fatto sta che Cal spalanca gli occhi, sconcertato, con tutta l’aria di non riuscire a credere che io l’abbia detto veramente.
«Ah, no?» commenta alla fine, stringendo gli occhi, recuperato lo smalto gelido. «E chi ci sarà? Tu?»
«Si dà il caso» ribatto, teso, incrociando le braccia sul petto, «che io sia ancora il tuo migliore amico e che, per qualche strana e assurda ragione, ci tenga ancora a te.»
Nonostante questo, lo sguardo che gli rivolgo non è affatto da migliore amico. Si sofferma troppo a lungo sul suo petto nudo e sulla cintura slacciata dei suoi jeans per essere innocente, ma non riesco ad evitarlo.
«Sì, beh» borbotta «Era comunque Suzie Miller.»
Sbuffo con impazienza e lo raggiungo in due passi, senza pensare a ciò che sto facendo, per poi baciarlo con insistenza.
Non mi respinge, anzi, ricambia, ma solo per pochi secondi. Poi mi allontana bruscamente.
«Io non sono gay» dice, come per auto convincersi.
«Lo so» replico semplicemente.
Ed è lui il primo a cedere, attirandomi di nuovo a sé.
Ancora una volta, non è affatto dolce, né delicato, ma brutale e passionale, ma non per questo mi piace di meno.
Finisco, senza sapere come, con la schiena affondata nel letto -la mia camicia sul pavimento, separata dalla maggior parte dei suoi bottoni- coinvolto in una lotta senza quartiere di labbra e di lingue e di denti e di mani. L’unico suono nella stanza sono i nostri respiri accelerati, i gemiti che ci sfuggono e che non sappiamo da chi dei due provengano.
Dopo un morso particolarmente feroce arrivo ad urlare e penso confusamente che i nostri coinquilini ci sentiranno di sicuro, che tutto il mondo ci sentirà di sicuro, ma poi non riesco a pensare più a nulla se non ai brividi che mi sconvolgono e mi lasciano senza respiro.
E restano solo le sensazioni.
Ad un certo punto mi rendo conto che fa male, sto per protestare ma Cal non me ne lascia il tempo, zittendomi con un ennesimo bacio mentre, finalmente, inizia ad affondare dentro di me. Grido, inarco la schiena, mi volto per incontrare il suo sguardo sconvolto, intenso e quasi spaventato e alla fine cedo al piacere che cresce, cresce, cresce e non mi dà tregua, proprio come le spinte a cui vado incontro.
Mentre il mondo esplode intorno a me, le mie ginocchia cedono e mi ritrovo schiacciato sotto il peso di Cal, che cade sopra di me e non mi lascia muovere. I nostri respiri ritrovano lentamente un ritmo normale. Restiamo immobili, restii a tornare alla realtà.
Poi, dopo qualche eterno e brevissimo minuto, Cal esce da me, provocandomi un sussulto di dolore, e si distende al mio fianco.
Ci guardiamo in silenzio.
«Ti ho fatto male, Jo?» mormora lui alla fine.
«Non troppo» lo rassicuro, desiderando alzare una mano per scostargli i capelli castani dagli occhi ma non trovando il coraggio di farlo. «È stato molto … bello.»
Lui annuisce, quindi sorride per la prima volta.
«Certo» commenta. «Sono stato bravissimo.»
Rido.
«Un vero dio» confermo ironicamente, tentando di recuperare le coperte per tirarle su di noi.
Mi allungo per spegnere la luce.
«Joey?» mi chiama dopo un po’.
«Mm?»
«È vero quello che hai detto prima?»
«Cosa?»
«Che resterai con me quando morirò?»
«Oddio, l’ho detto davvero?» gemo. «Scusa. Non intendevo … sono certo che guarirai, Cal. Non … »
«Non hai risposto» mi fa notare con uno sbadiglio, sistemandosi meglio nel poco spazio disponibile.
Esito e taccio per qualche secondo.
«Sì» rispondo alla fine. «Certo che dicevo la verità.»
Ci addormentiamo insieme.


Mi rigiro tra le dita il bottone, ritrovato a distanza di qualche giorno sotto il mio letto, strappato dalla mia camicia dalle mani impazienti di Cal.
Lo lascio cadere sul letto e osservo ciò che è rimasto nella scatola.

Pensavo che l’imbarazzo sarebbe sceso su di noi ancor più di prima, ma effettivamente non è quello che succede. Anzi, i rapporti si distendono.
Un paio di giorni dopo riusciamo addirittura a parlarne, anche se ovviamente non tutto è rose e fiori.
«Ti ho visto fissare Suzie, oggi, a biologia» dico quasi casualmente, mentre, seduto alla scrivania, fingo di fare i compiti.
Cal, disteso sul suo letto, sta giocando ad un qualche videogame, e non si preoccupa neanche di guardarmi.
«Geloso, Jo?» chiede casualmente.
«No. Mi chiedevo se sapessi che è andata a letto con Simon Corkin, ieri sera, e quella prima con Bertrand Martin.»
Alza gli occhi.
«Davvero?»
«Ah-ha. Me l’ha detto Linda.»
«Resti comunque geloso.»
«Non sono innamorato di te, dolcezza.»
«Beh, io non sono neanche gay.»
«Disse colui che aveva scopato con il suo migliore amico» lo prendo in giro.
Cal afferra un libro dal comodino e lo lancia verso di me, mancandomi di un millimetro appena.
«Sembra quasi che te ne vergogni» gli faccio notare, sorridendo.
«Non mi vergogno di nulla» ribatte lui, imbronciato.
«Allora posso dirlo a Linda?»
«No!» sbotta.
«E a Suzie Miller?
«Joey, ti giuro che se solo ci provi … » ringhia.
Scoppio a ridere, ma c’è un tono leggermente amaro nel mio divertimento.
«Tranquillo, sarò muto come una tomba.»
«Sarà meglio per te» mi minaccia.
«Temi che Suzie non voglia più venire a letto con te per il disgusto? Ne dubito, andrebbe persino con una pianta.»
«Joey!»
«Andiamo, ammettilo.»
«Non con una pianta, dai. Al massimo con un animale.»
Al che, tra le risate, Cal scarabocchia sul retro di un volantino uno schizzo piuttosto osceno di Suzie Miller e un cavallo.


Poso il volantino, ridacchiando. Suzie è sempre stata uno dei nostri migliori oggetti di prese in giro, nonostante tutto.
Il pezzo successivo è una cravatta. Una mia cravatta, per la precisione, blu scuro, molto semplice.

Mi preparo al meglio per la festa.
Ad organizzarla sono i ragazzi dell’ultimo anno, che hanno avuto l’idea di invitare anche noi, di un anno più giovani. Ovviamente hanno dovuto ottenere il permesso del preside –difficile fare qualcosa di nascosto, qui- ma quello che Neill non sa è che gli alcolici sono stati acquistati in città dai maggiorenni e saranno disponibili in gran quantità.
La musica rimbomba nelle casse ad altissimo volume. La stanza non è troppo affollata: siamo trentadue, tutti gli appartenenti alle ultime due annate.
Indosso una camicia bianca e una cravatta blu allentata su un paio di jeans sdruciti ad arte, abbigliamento impostomi da Linda dopo che mi ha bocciato ogni t-shirt.
Vedo Cal che balla con Suzie Miller, poco distante, ma subito dopo i miei occhi si posano su Linda, insieme a delle amiche, e decido di raggiungerla.
Comincio a scatenarmi con lei. Ho bevuto un po’, ma non sono ubriaco, solo un po’ brillo. Nonostante ciò, mi ritrovo a muovermi sempre più vicino a lei, i corpi che si sfiorano, le mani che si allungano troppo. La cosa non mi dispiace. Le metto una mano sulla vita e la attiro ancora più vicina a me, finché i nostri visi si trovano vicinissimi, tanto che potrei-
Una mano ferma cala sulla mia spalla. Sussulto e mi allontano da Linda, voltandomi verso il disturbatore. Ovviamente non può che essere Cal. Lo guardo storto e urlo per farmi sentire sopra la musica.
«Cosa diavolo-» comincio, ma non riesco a proseguire.
Cal mi strattona verso di sé, mi mette una mano tra i capelli e cattura le mie labbra in un bacio aggressivo.
Rispondo senza pensarci, con naturalezza, fino a quando il silenzio della gente intorno a noi non mi ricorda che siamo in pubblico. Mi stacco da Cal e lo guardo sconvolto, per poi voltarmi verso le trenta facce che ci fissano a bocca aperta, Suzie Miller davanti a tutti, con un’espressione disgustata sul volto eccessivamente truccato.
Cal aggrotta le sopracciglia, quindi alza elegantemente il dito medio verso tutti i presenti, mi prende per la cravatta ormai allentata e mi trascina fuori, verso la nostra camera.
Non ne usciamo fino alla mattina seguente.

Non riesco a sorridere, perché questo ricordo piacevole fa da anticamera ad altri molto più seri.
Guardo la piccola clip di metallo nella scatola e la sposto sul copriletto. Questo ricordo mi spaventa ancora.

Ho appena finito di studiare con Linda un lunghissimo programma di Filosofia. La bibliotecaria ci caccia via perché è ormai giunto l’orario di chiusura, le nove di sera.
Linda torna nella sua stanza mentre io decido di aspettare che Cal finisca gli allenamenti di basket.
In realtà, lo trovo fuori dalla palestra, appoggiato al muro, lo sguardo perso nel vuoto.
«Ehi» lo chiamo. «Già finito?»
«No» dice seccamente. «Andiamocene.»
Decido saggiamente di non fare domande e lo precedo verso l’uscita. Ad aspettarmi c’è uno spettacolo inaspettato: un violento temporale, con tanto di vento forte e fulmini che squarciano il cielo cupo di novembre.
«Oh, merda» impreco. «Non ho l’ombrello.»
«Ce l’ho io» afferma Cal, tirandolo fuori dal borsone della palestra, e mi avvicino a lui prima di avventurarmi nel diluvio.
«Allora, cos’è successo?» gli chiedo a voce abbastanza alta da sovrastare il fastidioso ticchettio della pioggia.
«Niente» taglia corto lui.
Aspetto.
«Il coach non vuole farmi giocare» dice alla fine. «Mi ha messo in panchina per il resto della stagione nonostante sia uno dei suoi migliori elementi.»
«Cosa? E perché?»
«Per quello che è successo sabato. Sai, l’attacco e tutto.»
Si riferisce a ciò che è accaduto nell’aula di Chimica sabato scorso: è stato male, ha avuto dei dolori fortissimi al petto e allo stomaco ed è stato portato in infermeria, dove il suo medico l’ha raggiunto poco dopo, diagnosticando un nuovo avanzamento della malattia.
«Oh» mormoro soltanto.
«Non dirmi che sei d’accordo» sibila. «Sono perfettamente in grado di giocare.»
«Beh, il medico ha detto che non dovresti sforzarti troppo, lasciar perdere l’esercizio fisico … »
«Questo include anche l’esercizio fisico che abbiamo fatto ieri notte in camera?» mi sfotte. «Non mi hai rimproverato per quello, mi pare.»
«È stato scientificamente dimostrato che quel genere di esercizio fisico fa bene alla salute.»
«E da chi è stato dimostrato, da te?»
Non riesco a rispondere: una voce scavalca prepotentemente la mia.
«Ehi,
ragazze
Mi volto per vedere due ragazzi dell’ultimo anno, Simon Corkin e Bertrand Martin, in piedi sotto la pioggia che ci fissano.
Faccio cenno a Cal di allontanarsi, ma loro insistono:
«Non mi avete sentito,
checche
«Come ci hai chiamati?» sibila Cal, uscendo da sotto l’ombrello nonostante io afferri il suo gomito per trattenerlo.
«Hai capito,
frocetto
Non è niente di innovativo, ma Cal, con il suo status di popolare stella del basket, non è abituato a sentirsi insultare.
«Potete andare entrambi a farvi fottere» ringhia.
«Ti piacerebbe» commenta Simon.
«Coglioni» conclude Cal, per poi girarsi di nuovo verso di me con l’intenzione di andarsene.
Meno di venti secondi dopo, mi trovo a fare da spettatore ad una rissa vera e propria.
Considerato che tutti e tre ne sono avvezzi, le cose si fanno subito serie. Inizialmente resto immobile, senza saper cosa fare –non ho mai partecipato ad una rissa in vita mia- ma poi mi sento in colpa, sapendo che Cal dovrebbe evitare cose del genere. Quando lo vedo ricevere un pugno sulla faccia, mi decido finalmente ad intervenire. Pur esitando, lascio cadere l’ombrello e afferro il braccio di Bertrand, che sta per sferrare un altro cazzotto a Cal. Lui si gira e io mi pento subito della mia azione avventata, ma ormai è tardi. Bertrand si libera con uno strattone e mi spintona con violenza, facendomi scivolare a terra. Cerco di rialzarmi subito, ma mi pianta un piede sul petto e me lo impedisce. Lo vedo sollevarlo di poco, probabilmente con l’intenzione di darmi un calcio in piena faccia, e chiudo gli occhi di scatto, proteggendomi istintivamente con le braccia e ricevendolo in questo modo sul gomito. Urlo dal dolore, sentendo quello che con ogni probabilità è il mio osso che si spezza, e me lo stringo al petto.
«Jo!» sento Cal che mi chiama, ma non riesco a prendere abbastanza fiato da rispondere, perché il piede di Bertrand cala di nuovo, stavolta direttamente sul mio viso.
Il dolore è di nuovo una fitta che mi strappa un grido.
Apro gli occhi e vedo che sta per colpire di nuovo, ma Cal lo raggiunge e lo spintona via, lontano da me. Lui reagisce aggredendolo, ma Cal gli dà filo da torcere, anche se Simon accorre subito in soccorso del compare. Mi rialzo cautamente, e vedo con estrema chiarezza il gesto di Bertrand. Porta una mano alla cintura e ne estrae qualcosa. Distinguo solo il lampo del fulmine che illumina il cielo riflettersi sulla lama lucida.
«Cal!» urlo, e lui intercetta il movimento.
Si scosta dalla traiettoria del coltello e cerca di strapparlo di mano a Bertrand; io accorro subito in suo aiuto.
Con furia, l’aggressore si libera dalla nostra presa.
«Andate all’inferno,
finocchi» ringhia Bertrand, prima di affondare il coltello verso di me.

Il ricordo è ancora spaventosamente vivido nonostante il tempo che è passato. Stringo con forza la clip tra le dita.

Mi risveglio qualche minuto più tardi. Il dolore è accecante e fatico quasi a capire da dove proviene, tanto è diffuso. Apro gli occhi e vedo il sangue che impiastra la mia felpa grigia, intrisa d’acqua, a livello dell’addome, dove il coltello è affondato.
«Joey!» mi sta chiamando Cal, la voce colma di panico che sovrasta lo stillicidio frastornante della pioggia.
«Dove … » riesco a mormorare, ma non ho la forza di proseguire.
«Se ne sono andati» replica lui. «Non ho il cellulare … tu ce l’hai?»
Lo guardo senza capire la domanda, il nero che invade di nuovo la mia visuale, sfocandola. Sento che mi fruga nelle tasche e ne estrae il mio telefono.
«No … Jo, non chiudere gli occhi. Resta sveglio» mi prega, mentre cerca sulla rubrica il numero del preside e lo chiama.
Nonostante le sue parole, abbasso le palpebre e sto per cedere al buio, ma lui mi scuote. La telefonata dev’essere finita.
«Joey! Resta con me. Coraggio, sta arrivando Neill» insiste Cal.
«Fa male» mormoro incoerentemente.
«Lo so» replica piano lui, e sento che mi scosta i capelli bagnati dal viso prima di prendere la mia mano e stringerla. «Andrà tutto bene, te lo prometto, Jo.»
Neill arriva velocissimo, pochi minuti dopo, e mi porta all’ospedale. Cal non mi lascia neanche per un attimo.
Vengo operato d’urgenza: il coltello mi ha trafitto lo stomaco. In più, il mio braccio sinistro è rotto e ho diverse abrasioni sul viso.
Quando mi risveglio è ormai pomeriggio inoltrato. Mi guardo intorno, confuso, faticando a ricordare cosa sia successo.
«Jo!» esclama una voce familiare.
Seduto su una sedia in plastica bianca accanto al mio letto c’è Cal.
«Ciao» dico, ma mi esce solo un filo di voce.
«Ti prendo un po’ d’acqua?» propone con zelo.
Non ho ancora avuto tempo di annuire che l’ha già fatto.
«Grazie» dico, con voce più ferma, dopo aver bevuto.
«Mi hai fatto prendere un bello spavento» mi rimprovera con serietà, ma il suo tono esprime solo sollievo.
«Sei rimasto qui» gli faccio notare.
«Certo.»
«Speravo che, una volta sveglio, ci sarebbe stata Suzie Miller al mio capezzale.»
Scoppiamo a ridere, ma io smetto subito per le fitte spiacevoli che mi trafiggono l’addome.
«Joey?» mi chiama Cal dopo un po’.
«Sì?»
«Ricordi quella cosa che ho detto che non ero?»
Alzo gli occhi su di lui, sorpreso.
«Certo» rispondo, in attesa.
«Beh … credo che forse, ma solo forse, potrei esserlo. Un po’, insomma.»
«Solo forse e solo un po’» annuisco con un grande sorriso.
«Non fare quella faccia compiaciuta» mi avverte.
«Cosa ti ha fatto cambiare idea?» chiedo con aria innocente.
Mi guarda storto.
«Tu» replica, burbero, e poi mi bacia.


Sorrido a quest’ultima parte del ricordo, ma con amarezza. Bertrand e Simon non sono mai stati espulsi, per “mancanza di prove”: la testimonianza mia e di Cal non è stata considerata sufficiente. Simon ha ricevuto solo un’ammonizione e Bertrand tre giorni di sospensione per possesso illegale di un’arma da taglio.
La clip che teneva ferme le bende attorno al mio stomaco finisce insieme agli altri oggetti e prendo dalla scatola uno degli ultimi tre rimasti, una cartolina dalla Malesia.

Lascio l’ospedale un paio di giorni dopo per poi tornarci il mese successivo, solo che stavolta le posizioni sono invertite.
Cal si sente male durante la notte e sono di nuovo io a telefonare al preside, che commenta cinicamente che ormai dobbiamo aver messo il suo numero tra i preferiti nei nostri cellulari.
Stavolta l’attacco è più serio e si presenta con dolori fortissimi uniti ad una crisi respiratoria.
I medici dicono cupamente che è solo più questione di tempo, che gli organi interni sono seriamente compromessi, che Cal non potrà più neanche tornare a scuola.
Tutte queste informazioni le snocciolano al preside Neill, che ascolta in silenzio, perché i genitori di Cal sono in viaggio in qualche paese del Sudest Asiatico per una conferenza. Io, dietro di lui, registro ogni parola e la metabolizzo lentamente, quindi rientro in camera di Cal, lasciando al preside il compito di telefonare ai suoi genitori.
Lui è sveglio e sta guardando la TV senza prestarvi alcuna attenzione.
«Ehi» dico piano, sedendomi sul bordo del letto.
«Ehi» mi fa eco, e la sua voce debole mi chiude la gola ancora di più.
«Come stai?»
«Ho avuto dei momenti migliori.»
«Immagino.»
La conversazione si blocca. Ci guardiamo con un lieve imbarazzo, poi Cal sospira e chiude gli occhi.
«Allora» esordisce «Quanto mi hanno dato?»
Sussulto.
«Cosa? Guarda che non … » protesto subito.
«Oh, avanti. Lo so che ti hanno detto qualcosa.»
Incrocia il mio sguardo e fissa gli occhi scuri nei miei.
«Non va bene» dico alla fine, sottovoce, cedendo. «Dicono che non tornerai più a scuola.»
Prende fiato ma non commenta.
«Possono sempre sbagliare» proseguo, vagamente stridulo, tentando di sdrammatizzare. «Insomma, non è detto che perché lo dicono loro debba veramente essere … così grave.»
«Certo» concede Cal, ma sappiamo entrambi che sto mentendo.
Gli prendo una mano e la stringo forte, senza lasciare il suo sguardo.
«Ricordi quello che ti avevo promesso?» sussurro. «Non ti lascerò, te lo giuro.»
Lui annuisce con serietà.
«Lo so. Non l’ho mai messo in dubbio» replica con sincerità.
Torno a scuola, quella sera, ma solo per preparare vestiti e generi di prima necessità per restare all’ospedale per qualche giorno. Trovo sulla scrivania una cartolina e la guardo.
Proviene dalla Malesia e recita testualmente:
“Tanti saluti da questo posto stupendo. Mamma e papà”. Nient’altro: non “ci manchi”, non “ti vogliamo bene”, non “vorremmo essere lì”, non “guarisci presto”.
Il mio primo istinto è di strapparla e gettarla via, ma cambio idea e la lascio dove l’ho trovata. Dopotutto non è per me. La appoggio sulla scrivania, per quando Cal tornerà, in un testardo gesto di speranza.


Riguardo le parole allegre dei genitori di Cal prima di posare la cartolina.
Ci sono solo più due cose, nella scatola.
La prima è un bracciale sfilacciato, uno di quelli che si comprano al mare, bianco e nero, un po’ sporco. Quello che si era agganciato ad un chiodo mentre spiavamo Suzie Miller dal buco negli spogliatoi. Non ricordo di aver mai visto Cal senza di esso negli ultimi tre o quattro anni.

Sono passate più di due settimane. È un febbraio insolitamente soleggiato, anche se freddo, ed è quasi arrivata la fine.
Lo sappiamo da giorni. I dolori di Cal sono peggiorati e sono aumentate progressivamente le dosi di morfina che devono somministrargli.
È incosciente per la maggior parte del tempo, ma io sono sempre qui accanto. I suoi genitori non si sono preoccupati di farsi vivi, se non con un paio di occasionali telefonate in cui si scusano di non riuscire a terminare il viaggio prima del previsto per motivi di lavoro. Naturalmente.
L’ultima volta che si sveglia, mi guarda e sorride.
«Jo» mormora.
Io sto piangendo. Non posso evitarlo, anche se mi maledico da solo perché vorrei mostrarmi forte davanti a lui e riuscire a confortarlo.
«Sì, sono qui» dico comunque, la voce rotta.
Le sue mani corrono al polso, e cercano di slacciare il braccialetto di stoffa che lo avvolge. Lo aiuto d’istinto, senza pensare.
«Prendilo» mi invita, fermandomi con un cenno di diniego quando cerco di metterglielo in mano.
«Non posso» replico.
«Non essere stupido» mi rimprovera, e allora obbedisco.
«Grazie» sussurro.
«Grazie a te.»
Chiude gli occhi e torna a dormire.
Succede il giorno successivo: i valori sul monitor crollano all’improvviso. Il medico, che l’aveva previsto, è già lì accanto.
Io gli sto tenendo la mano inerte tra le mie.
Il bip costante dei macchinari è diventato, in questi giorni, un suono abituale, quasi come il canto degli uccellini che proclamano di essere sopravvissuti all’inverno.
Quando diventa un lungo suono ininterrotto e poi tace è come se gli uccelli avessero smesso di cantare.
Stringo la sua mano un’ultima volta prima di lasciarla andare.
«Ti amo» dico, adesso che non mi può più sentire.
Il freddo mi è entrato nelle ossa e non credo se ne andrà mai più.


Appoggio con cautela il braccialetto accanto al resto. Un nodo mi stringe la gola con forza. Non sopportando di prolungare troppo l’agonia, afferro l’ultimo oggetto rimasto.
Una rosa bianca di plastica. Mi sfugge uno sbuffo di risata tetra.

Il funerale si tiene due giorni dopo.
Tutta la scuola è presente. Vedo Linda e la sua compagna di stanza e poi Suzie Miller e persino quei due coglioni di Bertrand e Simon –il che mi dice che Neill deve aver reso la partecipazione obbligatoria.
Dovrei essere seduto in prima fila, non lontano dai genitori di Cal, ma non ci riesco. Rimango al fondo e seguo la cerimonia in silenzio, gli occhi fissi sulla bara di legno scuro coperta di rose bianche.
Non mi muovo, non mi unisco a coloro che parlano in memoria di Cal.
Mi limito a rigirarmi tra le dita un vecchio e familiare coccio di vetro, con qualche sporgenza ancora appuntita che mi ferisce i palmi. È un dolore che conosco e che posso accettare; in questo momento ne ho bisogno.
Resto qui finché i professori che portano la bara escono dalla chiesa, passandomi accanto. Una rosa bianca cade a terra; la raccolgo senza pensarci.
Allora mi accorgo che le rose sulla bara, che da lontano apparivano splendide, in realtà sono di plastica.
L’ironia macabra della situazione si fa sentire davvero per la prima volta: i genitori di Cal, che non si sono disturbati a farsi vivi mentre il figlio moriva; Suzie Miller, quella puttanella, che ci guardava con disgusto dopo aver visto il nostro bacio; Bertrand e Simon, che ci avevano aggrediti e chiamati finocchi; il preside Neill, che si lamentava per le corse in ospedale a cui lo costringevamo e non si è mai preoccupato di punire i nostri aggressori. Tutti costoro adesso mostrano dispiacere e contrizione, piangono e ostentano dolore insostenibile.
È tutto finto, proprio come le rose di plastica, e non posso trattenermi dal ridere.
La gente che sta uscendo mi guarda male, come se fossi impazzito.
Cal avrebbe riso con me.

Ripongo anche la rosa e rimango ad osservare la scatola vuota.
Mi sento proprio così: smarrito, perso, vuoto.
L’anno appena trascorso è stato solo una sofferenza prolungata: ogni persona, ogni cosa, ogni luogo che vedevo mi ricordava Cal per qualche motivo. Dovevo dormire nella stanza dove ci eravamo baciati per la prima volta, dove avevamo fatto tante volte l’amore (senza mai definirlo tale), dove eravamo stati amici, nemici e infine amanti per nove lunghi anni. Il suo letto era lì accanto al mio, insieme ai suoi libri e ai suoi vestiti: dopo un paio di settimane i suoi genitori sono venuti a riprendersi tutto e Neill ha recuperato il letto per un’altra camera dove ce n’era bisogno.
Allora è rimasto il vuoto.
Un posto vuoto sul pavimento, uno nell’armadio, uno nel bicchiere degli spazzolini da denti. Uno, il più grande, nel mio cuore.
Dicono che il tempo guarisce ogni ferita. Io non credo che sia così: ci sono ferite che nulla può guarire. La verità è che il tempo fa dimenticare il dolore, cancella dalla nostra mente il ricordo della sofferenza e anche i dettagli che la rendevano così vivida. Fatico già a ricordare il suono della voce di Cal.
Dopotutto, ormai ora questo è tutto ciò che resta: una spatola, una caricatura, un fascicolo di fogli scaricati da Internet, un coccio di vetro smussato, un rossetto color “fragola matura”, un bottone, un volantino scarabocchiato, una cravatta blu, una clip metallica, una cartolina dalla Malesia, un braccialetto di stoffa sfilacciata, una rosa bianca di plastica.
Cosa resterà fra cinque, dieci, trent’anni?
Cosa ricorderò di lui?
Forse solo i fatti -un bacio, una morte prematura- nudi e crudi, privi di emozioni.
O forse succederà il contrario, resterà solo un’emozione, una vaga e indefinibile tristezza nel pensare ad una perdita lontana.
La vita continuerà, smetterò di pensare a lui in ogni momento della giornata.
La scuola finirà tra poco: è febbraio, tra meno di quattro mesi chiuderò per sempre con Summerhill e le sue contraddizioni.
Inizierò l’università, o magari prenderò un anno sabbatico. Mi innamorerò, probabilmente di un ragazzo, oppure di una ragazza –cuore imprevedibile-, mi sposerò e avrò dei figli a cui racconterò storie di quando avevo la loro età.
O forse non avrò una seconda occasione.
Dicono che il grande amore si trova una sola volta nella vita.
Dicono che le grandi occasioni non si ripresentano.
Ma, se c’è una cosa che Cal mi ha insegnato, è che non deve fregarmene un cazzo di quello che dicono. Perciò andrò avanti con la mia vita, mi divertirò e mi prenderò sbronze colossali, sbaglierò e farò qualcosa -il minimo indispensabile- di giusto e morale.
E forse un giorno ci rivedremo, o forse scoprirò che tutto questo è stato un sogno, come in uno di quei film di serie B.
Non lo so.
Ripongo tutti gli oggetti nella scatola e la rimetto al suo posto, nell’armadio, nascosta da strati di vestiti.
Se Cal fosse qui, probabilmente mi direbbe che mi sto facendo troppe seghe mentali.
E, cazzo, come sempre avrebbe ragione.

“It well may be that we will never meet again in this lifetime
So let me say before we part so much of me
Is made from what I learned from you
You'll be with me like a handprint on my heart
now whatever way our stories end
I know you have re-written mine by being my friend...”




N.d.A.
Traduzione brano iniziale:
“Hai mai guardato il tuo migliore amico morire?
Hai mai guardato un uomo adulto piangere?
Qualcuno dice che la vita è ingiusta
Io dico che semplicemente la gente se ne frega
Preferisce girarsi dall’altra parte
E aspettare che questa cosa se ne vada da sola …”

Brano finale:
“È probabile che in questa vita non ci incontreremo più
Quindi lascia che ti dica, prima che ci separiamo, quanto di me
È fatto da ciò che ho imparato da te
Sarai con me come l’impronta di una mano sul mio cuore
Ora, in qualunque modo finiranno le nostre storie,
So che tu hai riscritto la mia essendo mio amico … “.
   
 
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