Anime & Manga > Axis Powers Hetalia
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Autore: raganellabyebye    14/02/2012    2 recensioni
Niente risate stavolta (ammettendo che ne abbiate fatte prima...)! Romulus (giorni nostri, quindi con un nome diverso, perché Romulus non lo potevo prorpio usare!) riscopre una vecchia foto e...
Giallo per stare dalla parte dei bottoni!
Genere: Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Antica Roma
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Salve! Orbene, in piena febbre da pubblicazione, ecco un altro scritto, che spero non abbia deragliato troppo (quello di prima era delirante!). Se doveste pensare meglio del precedente, credo però che dovrei iniziare a preoccuparmi, dal momento che l’ho messo giù qualche tempo prima del mio Francis senza dono della sintesi. Dovrebbe essere anche meno contorto (Jolly, stavolta la tua testa non fumerà più di tanto, questo te lo prometto!), e la sintassi meno perversa, perché si, in caso non lo abbiate notato, più gradi ha una subordinata, o più verbi riesco a eliminare, più vado in brodo di giuggiole!
Ah, si! L’ambientazione! Quasi la dimenticavo....
 
Ambientazione: giorni nostri, a New York (perché l’effetto nostalgia per l’Italia si acuisce e, probabilmente, sarà un prequel / spin-off di una mia prossima fan fiction [che non so ancora come andrà a finire, né quale sarà la trama, ma ambientata in una metropoli oltreoceano che mi concederà di far capitare di tutto]) in uno di quei super – condomini con tanto di portiere in divisa all’ingresso, ultimi tre piani, in una stanza da letto con pareti leggermente sfumate di giallo in modo da rendere calda l’atmosfera al suo interno, mobilia di mogano con linee in stile liberty, finestrone che da sulla strada, (ma con le tende pesanti e quelle leggere che stanno vicino alla finestra tirate, quindi non si vede un tubo, e l’unica luce viene dal lampadario che pende dal soffitto, fatto a candelabro settecentesco ma elettrico) e... Beh, questo basta per l’ambientazione, vero?
Contenuto: a seguito di un certo evento e prima di un altro, un uomo ricorda la sua “regina”...
Protagonisti:
Sono praticamente tutti i vecchi regni mediterranei ed europei, quindi leggete bene, che altrimenti non ci capite una beata cippa:
_Romulus / Impero Romano (ma siccome siamo nel XXI secolo, si chiama Cesare, che mi sembra la “traduzione” più logica)
_Clea, antico Egitto (non so il suo nome, quindi ho storpiato pesantemente Cleopatra, visto che anche facendo l’anagramma di Nefertiti o Nefertiri non veniva fuori niente di buono);
_Patrizia è Tarquinia, ovverosia l’Etruria (non conoscendone il nome, l’avevo chiamata Tarquinia [nella precedente fan fiction, dove si capiscono un po’ meglio anche i loro caratteri e, vagamente, i rapporti], ma è davvero un nome improponibile, adesso);
_Lavinia è Lovino versione femminile (credo che il suo nome sia Chiara, ma non ha davvero la faccia da Chiara! E poi c’è dietro tutta una storia... Francis lo ha già spiegato ad Alfred nel mio mostro di prima)
_Teresa è Teodora (che adesso un nome da gatta e non da persona), moglie di Claudio (padre e figlio non ne parlavano perché il primo la odiava e il secondo temeva che potesse succederle qualcosa a causa della loro relazione [povero scemo, voleva solo i tuoi soldi / territori]). Figlia bastarda di antica Grecia e Impero Persiano (quindi sorellastra maggiore di Grecia, che però è sopravvissuto, mentre lei l’ha ammazzata Sadiq, ciapa mo’!), Romulus aveva capito subito che era una serpe assetata di potere, ma quel pirla del figlio se l’è sposata, non capendo che voleva solo mettere le grinfie sull’Italia attraverso lui e i figli; intanto, s’era già ciullata i territori a oriente. Signore e signori, ecco a voi l’Impero bizantino (bastarda opportunista)!
_Forse si parlerà marginalmente di personaggi non in elenco. Ancora una volta, Francis ha già spiegato tutto. In modo estremamente contorto, ma lo ha fatto. E se lo facessi io qui e ora, non iniziereste più a leggere il racconto. Piccolo cambio di sequenza temporale: l’ordine di nascita dei piccoli Vargas è stato alterato rispetto a quanto avevo precedentemente scritto (nell’altra FF, intendo)
 
Avvertenze:
a) Chiunque pensasse che Hetalia fosse mio (implicando di conseguenza un mio qualche coinvolgimento nella scelta dei nomi della nostra nazione, e io non farei mai uno scempio simile!) si sbaglia di grosso. Quindi no, non è mio.
b)I personaggi qui rielaborati non li ho inventati io, altrimenti questa non sarebbe una Fanfiction e i personaggi non sarebbero rielaborati, ma così al naturale.
c)Riferimenti storici? Approssimativi. Sto incrociando i dati di Wikipedia con quelli del mio libro di testo del liceo e di un atlante storico che si ferma al ’66
d)Manca qualcosa? Quel qualcosa è qui, ma non lo vedete perché è un’entità teorica!
 
 
La mia regina
 
Pensavo spesso a Clea, dopo che morì. Il suo modo di muovere impercettibilmente le dita, solo le dita, mentre parlava; appena uno sfarfallio, eppure catturava la mia attenzione: i diversi modi in cui la luce baluginava sul suo anello d’oro, sul corallo appena opaco, sullo smalto rosso che mi piaceva tanto, e il gioco di ombre sul dorso della sua mano, quando tanti piccoli muscoli si mettevano in azione per muovere le sue lunghe, splendide dita di arpista. E quando girava la testa, il modo in cui i tendini del collo si tiravano e distendevano, oppure quando la gettava all’indietro, ridendo. Aveva una risata particolare, Clea. Era teatrale, spettacolare, faceva sussultare la gola e muovere le spalle. Era uno scoppio, un fuoco d’artificio, sembrava che mille riflettori si accendessero sopra di lei, e una folla di ammiratori si girasse a guardarla mentre rideva e rideva. La voce un po’ arrochita dal fumo, eppure ancora delicata, quasi cristallina, ma non gracchiante. Non ci si sarebbe mai stancati di ascoltarla parlare: poteva parlare di qualsiasi cosa, dire qualsiasi cosa, e tutti si sarebbero fermati a sentirla lo stesso. Il suo umorismo cinico, velato di malizia, che ti coglieva alla sprovvista appena pensavi di essere riuscito a metterla al muro con una qualche osservazione che avevi scioccamente pensato potesse fermarla. Fra tutte le cose che m’incantarono di lei, la sagacia fu forse ciò che mi diede la stoccata finale.
 
Erano passati sette anni da quel giorno d’ottobre che trascorsi sotto la pioggia, inginocchiato nel fango del cimitero, contemplando la lapide che vi era stata posta la mattina, vedendo ma non guardando il suo nome inciso nel granito. Stavo cercando il mio vecchio atlante storico per Lavinia, che faceva i compiti in salotto, quando la pila instabile che si era ormai creata sulla mia coscia precipitò definitivamente, facendo scivolare dalle vecchie pagine una foto.
E il mio personale vaso di Pandora si aprì.
Patrizia.
 
Sdraiato sul letto, con la fotografia appoggiata sul cuore e una mano sopra di essa, lasciai che i miei pensieri vagassero in libertà, ripercorrendo quel periodo della mia vita che avevo nascosto per oltre trent’anni.
 
Come si somigliavano, Clea e Patrizia. Non le avevo mai paragonate, non mi ero mai permesso di farlo, e adesso mi rendevo conto di tutti quei punti comuni che le rendevano donne straordinarie: quella forza interiore, quel fuoco dentro, quella volontà di continuare, e tanto, tanto altro.
Gli occhi, per esempio.
Quelli di Elena avevano un taglio vagamente orientale, neri come l’onice, mentre quelli di Patrizia erano verdi, scheggiati d’ambra; c’era qualcosa di strano nel loro colore, che mi faceva pensare alla Campania. Forse per via di quella particolare sfumatura di verde, simile a quegli arbusti ostinati che a volte vedi crescere nei posti più aspri della costa, senza mai demordere. Perché Patrizia era così, testarda, cocciuta, davvero implacabile. Ciò che avevano in comune era la scintilla, quella favilla che si trasformava in fiamma quando la passione divampava in loro: ira, amore, gioia; quando il furore si appropriava dei loro animi, i loro occhi erano come il cielo la notte di San Lorenzo, vivi e brillanti di mille luci; specialmente quelli di Patrizia: le schegge d’ambra si animavano di vita propria, apparivano e scomparivano, pulsavano come se il suo stesso cuore battesse dietro di questi, minacciando di lacerare definitivamente il tessuto a ogni battito; erano fuoco sotto la cenere, che appare e scompare, sembra spento, ma basta spostare un tizzone per vederne la vitalità, la forza nascosta, la voracità: un passo falso, un attimo d’incertezza, e ne sarei stato consumato, divorato.
Erano belle, così belle. Di una bellezza che solo loro potevano sfoggiare, che non rientrava in nessun canone, perché era l’incendio che bruciava dentro di loro a illuminarle, a farle splendere di vita propria, come astri nel cielo, più sfolgoranti di qualsiasi altra stella. Avevano lineamenti pronunciati, ma quelli di Patrizia  erano addolciti dagli occhi incredibilmente grandi, dalle labbra piene e rosate, la guance leggermente paffute. Clea compensava con occhi espressivi, ammalianti, circondati da lunghe ciglia nere, e labbra sottili, sempre semiaperte, in un continuo accenno di sorriso accattivante, come a prenderti in giro, a godere fra sé di un segreto che ti riguardava, che ti imbarazzava; dicevano “io lo so cosa nascondi, cosa non vuoi dire, e non puoi sfuggirmi, non puoi nasconderti da me”.  Sembrava in grado di poter piegare chiunque alla sua volontà, avvolgendolo nella spirale di quel fascino oscuro che sprigionava la sua figura ammantata di mistero. Patrizia non sapeva reprimere la sua indole a quel modo: lei era luce, calore, una forza dirompente che profumava di mare, di vento, bosco e collina e montagna e fiume e tutto ciò che mi ricordava la vita; una natura selvaggia, primitiva, ma anche dolce, accogliente, benevola nel suo essere priva di argini, limiti e confini. Era anche orgoglio, coraggio, con una vena di arroganza che le conferiva una sorta di strana compostezza, quando l’occasione lo imponeva. Il suo non era uno sguardo ammaliatore o intrigante, non ti faceva sentire inerme come un topo di fronte a un gatto che gioca con lui; era una sfida in campo aperto, un’aggressività contenuta: c’era qualcosa che ti spingeva a portarle rispetto, o ad averne terrore, a seconda di quali fossero le tue intenzioni. Il primo, se eri lì per trattare onestamente, perché sapevi che ti trovavi di fronte a una persona che non avresti mai potuto abbattere; il secondo se rischiavi di scatenare la sua vendetta, perché glielo leggevi negli occhi che l’avrebbe fatto, che ti avrebbe spezzato come un soldato fa con il suo nemico, se avessi osato tradirla.
Quella vitalità immensa mi aveva sempre fatto pensare che nulla l’avrebbe mai scalfita, nemmeno il tempo. Ma non potei mai potuto confermare tale affermazione: ci lasciò soli, me e nostro di figlio di nemmeno cinque anni. Si spense definitivamente una settimana prima del nostro settimo anniversario, tre giorni prima del suo venticinquesimo compleanno, e buona parte di me morì con lei. Un amore iniziato presto, quando aveva dodici anni lei e quattordici io; ci sposammo appena potemmo permettercelo, quando lei aveva diciotto anni e io venti.
I sei anni più belli della mia vita.
Clea apparve vent’anni più tardi.
Non avevo fatto particolari giuramenti a me stesso. La convinzione di non poter amare più nessun’altra donna dopo Patrizia era a tal punto radicata in me, che non ci pensavo nemmeno più, all’amore. Le donne che andavano e venivano erano solo svaghi, intrattenimento, come io ero per la maggior parte di loro; non provai mai sensi di colpa o rimorsi. Il mio mondo girava attorno a Claudio, che intanto cresceva, da bambino si faceva uomo, indipendente e sempre meno bisognoso di me. Ero triste e orgoglioso alo stesso tempo.
Clea fu un fulmine a ciel sereno.
Fu la mia compagna per sette anni, passati sempre insieme, eppure non la confrontai mai con Patrizia. Mi rendo conto solo ora che si, lo sapevo che erano simili, che era quell’aura particolare che le avvolgeva ad avermi chiamato verso Clea: una donna arguta, colta, divertente; una ventata d’aria fresca in questa città grigia, che solo tu sei riuscita a farmi amare. Mi hai portato nei tuoi posti preferiti, mi hai fatto vedere cose che non avrei mai immaginato. Hai condiviso con me la nostalgia di una terra lontana e la gioia della scoperta in questo posto che sentivo ancora estraneo.
Ma Patrizia, la mia bellissima Patrizia...
Perdonami Clea, se penso a lei così tanto. Ti ho amata, amata davvero, con tutto me stesso. Sei stata la mia compagna, il mio sostegno, la mia amante e la mia migliore amica per tanto tempo; è a me che hai dedicato gli ultimi anni della tua vita, il tempo libero fra un’esibizione e l’altra, è a me che hai dedicato la tua ultima esecuzione.
Ma la mia regina è sempre stata lei, e lei soltanto.
 
 
Fine della prima parte!
Voleva essere uno one-shot, ma mi sono accorta che sarebbe diventato troppo lungo!
  
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