Videogiochi > Kingdom Hearts
Ricorda la storia  |      
Autore: _Ella_    15/02/2012    5 recensioni
«Oh, ragazzino, aspetta» il ragazzo lo fermò, correndogli dietro e bloccandolo a qualche metro dal Blanc et Noir; infilò una mano in tasca, tirandone fuori una cannuccia verde «Ne ho trovata una, tieni» fece porgendogliela, poi lo salutò sventolando una mano e rientrando nel bar.
Saïx, alle sue spalle, non poteva far a meno di ridere, ed anche Zexion in realtà sorrideva, ma per un motivo ben differente: era la prima volta che qualcuno provvedeva ai suoi capricci col sorriso sulle labbra e con l’aria di chi è terribilmente soddisfatto.
Genere: Generale, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Demyx, Saix, Zexyon
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessun gioco
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Il Principe di Cristallo



Quando era bambino aveva letto storie su storie, fantasticando sulla presenza di luoghi magici e misteriosi, di gnomi ed elfi, guerrieri cattivi che venivano sconfitti dagli eroi coraggiosi senza alcuna paura; immaginava vasti luoghi immersi nella natura e delle ninfe che ne popolavano i boschi, di maghi e stregoni che con la loro magia potevano far eruttare vulcani e portare pestilenze.
Gli era sempre piaciuta la fantasia, probabilmente più che ad ogni altro.
Perché, differentemente da tutti gli altri bambini, non era lui a non accettare la realtà, ma era la realtà che non l’accettava.
Aveva sempre creduto che un giorno tutto sarebbe andato per il meglio, che sarebbe salito sul proprio cavallo bianco ed avrebbe salvato la vita ad una principessa intrappolata in una torre e tenuta prigioniera da un drago sputa fuoco.
Ma, mentre gli anni passavano e gli adulti gli dicevano che le sue fantasie non erano che un mucchio di sciocchezze, si rendeva perfettamente conto – con grande dolore, del resto – che tutto ciò che lo rendeva felice da bambino, pian piano diventava la sua più tremenda rovina.
Dov’erano gli eroi impavidi, quando lui piangeva stretto al proprio cuscino umido, terrorizzato da i mostri che – differentemente dal normale – non erano nascosti sotto il letto, ma bensì gli davano il bacio della buonanotte?
Zexion però, col passare degli anni, non poteva fare a meno di non abbandonare la fantasia che, come era sempre stato e come sempre lo sarebbe stato, scindeva dalla realtà.
Perché fantasia e realtà sono due entità profondamente diverse e che non trovano punto di congiunzione, come due rette parallele che non si incontreranno mai e poi mai fra di loro.
Almeno, così credeva.

---

«Dai, veloce, non metterti a perder tempo!»
Il campanello al bancone venne colpito l’ennesima volta senza pietà ed il ragazzo, già stanco morto a quell’ora del mattino, sfrecciò tra i tavoli per poter prendere l’ennesima ordinazione e consegnarla ad uno dei tanti clienti della giornata.
Il Blanc et Noir era probabilmente il bar più vecchio di quell’enorme città e il nome non faceva che rincararne il concetto. Non c’era persona che non lo conoscesse, essendo il più famoso e rinomato, ma non per questo era uno di quei bar sciccosi dove persino un bicchier d’acqua ti viene a fare un occhio della testa.
Era, a sentir le recensioni dei giornalisti che ci erano stati, confortevole ed alla mano come la casa della nonna preferita. Ci stavano bene i vecchi che, abitualmente, si rincontravano tutti il mattino presto per prendere un caffè in compagnia ricordando i bei vecchi tempi; ci stavano bene i bambini che cercano dolci con la panna, succhi di frutti e poltroncine dove star comodi; ci stavano bene gli adolescenti e gli adulti che vanno di corsa a suola o al lavoro e – cosa assolutamente importante per il proprietario – ci stavano bene anche gli animali. Perché, ci teneva a ripetere il proprietario Maurice tanto da farlo diventare un suo rinomato motto, “gli animali non mi hanno mai costretto a cacciarli dopo aver bevuto troppo, né sono mai scappati via senza pagar il conto”.
Demyx Bonnet, disastrato cameriere del locale, aveva ventuno anni ma non aveva mai incontrato qualcuno particolare come quell’uomo. Aveva sentito diverse storie sulla sua vita, alcune false ed altre che sfociavano nella leggenda ma poteva esser certo di sapere le cose basilari: Maurice, ottantenne di cui nessuno conosceva il cognome, aveva ereditato quell’appartamento da suo nonno all’età di quindici anni e, tra un lavoro ed un altro, aveva preferito rimboccarsi le maniche e rendere confortevole quel luogo per poi farne un bar; il nome, probabilmente, era stata la cosa più facile da scegliere: il nonno di Maurice era un fotografo e quindi, in suo onore, il nuovissimo bar aveva preso il nome di “bianco e nero”.
Demyx non sapeva molto della sua vita, né voleva averne a che fare, quindi si limitava alle notizie che riguardavano il suo passato e fantasticare su come poteva essere il suo stile di vita in base a come si comportava al bar. Luogo che, in fin dei conti, occupava quasi per tutto il giorno.
Quando anche l’ennesimo cliente ebbe avuto quel che voleva, il ragazzo si concesse un respiro.
La mattina era uggiosa, tipica di quel periodo dell’anno, ma fortunatamente sembrava che non sarebbe venuto a piovere: finiva il turno prima, quel mattino, ed aveva intenzione di andare a comprare un altro paio di scarpe, visto che quelle che aveva ai piedi erano quasi del tutto distrutte; avrebbe comprato un gelato oppure un frappé e si sarebbe ripresentato lì al bar dieci minuti prima che ricominciasse il turno, così da non sorbirsi né le lamentele di Maurice né tantomeno quelle del cuoco, che gli dava del nullafacente.
Aveva una vita piuttosto movimentata, ma non rimpiangeva affatto la tranquillità delle giornate passate in camera a studiare. Erano quasi tre anni che ormai non apriva nemmeno più un libro. Non era stata pigrizia, né tantomeno la mancanza di talento: aveva perso ogni fiducia nell’ordine scolastico quando si era accorto di riuscire a superare brillantemente gli esami solo perché c’era suo padre alle spalle che lo raccomandava in una disciplina che, tra parentesi, non gli era mai piaciuta molto.
Perché i Bonnet erano una generazione rinomata di dottori e lui, che aveva sempre amato la musica, aveva dovuto seguire le stesse orme di suo padre. All’inizio non aveva avuto niente da ribattere, dopotutto andava bene in tutte le materie e gli piaceva ricevere gli elogi dei suoi genitori, che lo viziavano regalandogli ogni cosa che desiderasse: dall’auto nuova ai vestiti, dalla chitarra ai videogiochi più costosi.
Però poi il sogno era finito, Demyx si era accorto come andavano le cose e non aveva potuto sentirsi più disgustato. Quando aveva deciso di lasciare la facoltà di medicina, il castello era crollato tirandosi dietro tutti i libri delle favole: come dal cliché più banale, suo padre l’aveva cacciato di casa, gli aveva impedito di entrare nelle facoltà che gli interessavano allo stesso modo con cui l’aveva favorito fino a quel momento e non aveva voluto più sentir parlare di lui.
A quel punto, quando Maurice aveva sentito quello che gli era successo, gli aveva offerto subito il posto di lavoro, aiutandolo non solo nel lato economico della questione e Demyx, nonostante si fosse sentito sperso e senza speranza un attimo prima, aveva avuto solo la conferma di quanto quell’uomo dai folti baffi fosse meraviglioso.
Poi altri clienti uscirono dal bar, lasciando posto ad altri: Demyx si alzò le maniche e si affrettò perché trovassero il posto pulito.
Nonostante tutto, fuori era cominciato a piovere.

Il bar era finalmente svuotato – quasi – a parte per qualche ritardatario o qualcuno che si era trattenuto un poco in più.
Demyx guardava sconsolato il cielo grigio e la pioggia fuori dalla finestra, mentre puliva i tavoli e metteva tutto un po’ in ordine, prima di concedersi alcuni meritati minuti di riposo, magari bevendo un buon cappuccino assieme a Maurice.
Quando anche l’ultima macchia fu eliminata da acqua e spazzolone, il ragazzo si accomodò ad uno dei tavoli, poggiando il mento sul pugno chiuso della mano.
«Ti vedo abbastanza mogio, oggi» disse l’anziano, scostando la sedia per accomodarsi assieme a lui «Il tempo?»
«Anche» confermò Demyx, strofinando le mani sul grembiule che aveva legato attorno alla vita «Senti, lo so che non potrei, però posso lasciare il bar appena spiove? Ho bisogno di comprar un paio di scarpe nuovo, queste sono tutte distrutte» implorò quasi e l’uomo, giocherellando coi grandi baffi bianchi che aveva sotto il naso, lo squadrò con aria piuttosto acuta
«Non se ne parla»
«Oh, ma dai!»
«Neanche per sogno, Demyx! Qui abbiamo bisogno di te per servire i clienti, io sono troppo vecchio e grassoccio per muovermi con la tua velocità, e  Larry, lì dentro, non può certo darmi una mano»
«Ma le mie scarpe…» sospirò, abbandonando stancamente la testa tra le braccia.
Erano settimane che non si prendeva una pausa e stava sul serio per dare di matto. Aveva bisogno di un giorno, ma anche un’ora o dieci minuti da dedicare a sé stesso che non fosse per andare dal parrucchiere o per comprare roba da mangiare. Voleva perdere tempo, voleva rivedere gli amici che non vedeva da una vita fuori da quel bar e magari dormire anche solo un attimo in più. Voleva solo ricaricarsi, nient’altro, non chiedeva poi molto, no?
«Facciamo così» fece Maurice ad un tratto, attirando la sua attenzione «Resisti fino alla fine di questa settimana, mancano solo un paio di giorni, no? Sabato vai via prima e domenica ti prendi la giornata libera, tanto non c’è molto da fare quel giorno, qui» propose e Demyx, spalancando gli occhi decisamente incredulo, non poté far altro che accettare e ringraziarlo fino ai limiti dell’impossibile.

Demyx viveva in un monolocale non molto lontano dal Blanc et Noire che aveva potuto affittare grazie alle ampie conoscenze di Maurice. Dopotutto chiunque andava in quel bar, agenti immobiliari e proprietari di locali compresi, quindi non era stato difficile trovargli un posto comodo dove poter vivere.
Non era chissà cosa, avendo solo una cucina/salotto ed un bagno, però poteva farci quel che gli pareva e – cosa straordinariamente importante – era situata in un posto abbastanza in alto da poter vedere buona parte della città; gli piaceva un sacco, ed inoltre la gente che viveva da quelle parti era piuttosto bizzarra, tanto che nessuno si era mai lamentato se, ad esempio, nel bel mezzo della notte prendeva la chitarra e si metteva a suonare, oppure se metteva il volume della musica piuttosto alto.
Si trovava decisamente bene, quindi, ed essendo anche l’unico abitante di quella casa non poteva dire di starci stretto, anzi: probabilmente in una casa un po’ più spaziosa si sarebbe sentito sperso.
Quando rientrò dal lavoro era quasi ora di cena, ed il suo stomaco brontolava parecchio. Aveva mangiato una piccola brioche che gli aveva offerto Larry, strada facendo, e sembrava che la fame fosse aumentata. Si tolse velocemente le scarpe e la felpa, che lanciò in un angolo della casa, e corse al piano cottura, dove mise subito a bollire l’acqua per la pasta; intanto che l’acqua si scaldava, posò nella dispensa le poche cose che si era fermato a comprare per la strada.
Sbadigliò, esausto, mentre una decina di minuti dopo metteva il piatto pronto in tavola; aveva messo uno dei tanti DVD che si era portato da casa ma non credeva che sarebbe durato molto, visto che gli occhi gli si chiudevano dalla stanchezza. Avrebbe anche dovuto mettersi un po’ a studiare gli spartiti dell’ultima canzone che aveva deciso di imparare ma evidentemente, mentre si addormentava col viso sul tavolo, non avrebbe fatto nulla di ciò che aveva organizzato.

---

Pioveva forte in quel mezzodì di primavera ed il Sole, sbuffando, parlava con rancore alle Nuvole «Spostatevi!» gridava a gran voce. «Voglio ascoltare il concerto!».
Perché, è cosa che dovete sapere, i raggi caldi del Sole quel giorno avrebbero dovuto riscaldare un bel pezzo di Terra, pieno di prati verdi e signor Alberi rigogliosi che, quando lo vedevano, gli suonavano sempre qualche melodia scuotendo i loro rami spessi e rigogliosi delle foglie e dei fiori e dei frutti più belli.
«Lasciaci stare» pregavano le Nuvole, piangendo grossi goccioloni. «Lascia ascoltare un po’ anche a noi!».
Ma il Sole era un gran prepotente e, accordato col suo miglior amico Vento, si fece aiutare per cacciar via le petulanti e scostumate Nuvole.
“Che pace” pensava, ascoltando le magnifiche sinfonie dei signor Alberi “Nemmeno una Nuvola a scocciare, oggi!”.
Ed in verità le Nuvole erano molto offese ed era per questo che non si presentavano più; ma il Sole, burbero e un po’ egoista, non poté che esserne felice.
Passarono i giorni, le settimane e il Sole si accorse che le melodie dei signor Alberi diventavano sempre più monotone e tristi, col tono sempre più basso e – doveva ammettere con somma tristezza e delusione – nemmeno tanto belle come le ricordava.
«Signor Alberi, ma cosa è successo alle vostre foglie verdi? Sembra che l’Autunno sia arrivato prima del previsto!» diceva incredulo, ma i signor Alberi scuotevano le grosse chiome, adesso rinsecchite.
«Siamo tristi, Sole» dicevano, mogi mogi. «Ci manca tanto parlar con le nostre amiche Gocce, portate da Pioggia e Nuvole! Le nostre foglie sembrano esser ancor più tristi senza loro!».
Il Sole, incredulo e sgomento, non poté credere che le foglie dei signor Alberi avessero perso il loro bel verde e la loro capacità di concertare solo per una tal sciocchezza! Tuttavia, visto che voleva molto bene ai signor Alberi, nonostante fosse prepotente, burbero ed egoista, chiese di nuovo aiuto al suo amico Vento, che sbuffando forte richiamò le Nuvole.
«Scusatemi» implorava il Sole, davvero dispiaciuto. «Non avrei dovuto impedirvi di ascoltare una musica tanto bella! Vi prego, facciamo in modo che torni la pace».
E le Nuvole, che in verità erano molto accomodanti, accettarono, e per festeggiare lasciarono cadere su quel pezzo di Terra una grande pioggia, che rese le foglie dei signor Alberi estremamente contente, tanto che divennero subito verdi e rigogliose e ricominciarono a suonar estasianti melodie.
I signor Alberi, che erano molto riconoscenti al Sole che aveva capito i loro bisogni, tuttavia volevano che anch’egli ascoltasse le melodie delle loro foglie e chiesero gentilmente alle Nuvole di fargli un po’ di spazio.
«Certo!» fecero le Nuvole in coro e si scostarono un po’ tra loro, per lasciar libero il Sole di ascoltare.
Quale meraviglia, quale magia!
Quando il Sole sfiorò le amiche Gocce, queste si colorarono dei colori più belli, formando un arco di sette colori sopra le teste dei signor Alberi che, veramente entusiasti, suonarono la melodia più bella che Sole e Nuvole avessero mai ascoltato.
Da allora, quando Sole, Nuvole ed il giovane Arcobaleno son presenti al concerto dei signor Alberi, le foglie danno il miglior spettacolo che possa mai essere ascoltato.
È questo, in verità, il tesoro più bello e prezioso che può celarsi sotto un Arcobaleno.


Zexion fece scrocchiare le dita, bevendo una tazza di caffè. Aveva lavorato tutta la notte per finire quella raccolta di favole ma, sfortunatamente, non era ancora riuscito a completarla. Gli mancava una storia, una sola e misera storia per completare il manoscritto ma l’ispirazione sembrava averlo abbandonato nel momento in cui ne aveva più bisogno.
Era sempre così, del resto.
Aveva la scadenza che cadeva proprio all’inizio del prossimo mese e mancavano meno di due settimane. Probabilmente un’eternità, ma calcolando che quando non riusciva più a scrivere potevano passare mesi prima che ricominciasse, l’idea di dover prolungare i tempi di consegna non l’allettava affatto, visto che come minimo avrebbe avuto una pressione non indifferente da parte dei redattori che, se possibile, l’avrebbe reso ancor più lento.
Saïx non era molto propenso alla bontà con chi consegnava il lavoro in ritardo, in effetti.
Salvò il file e si alzò, abbassando lo schermo del portatile e, afferrando la tazza, si diresse fuori in veranda.
Zexion Leroy era uno scrittore e viveva lontano dal centro della città in una villa enorme che odiava con tutto se stesso. Non perché si sentisse solo, piuttosto perché i suoi fantasmi sembravano non volerne sapere di lasciarlo in pace: guardando il giardino, riusciva ancora a vedere la sagoma di un piccolo bambino dai capelli cerulei piangere senza sosta, le mani sporche di fango e la pioggia battente che gli faceva male alla pelle come fosse acido; quando entrava in cucina, sentiva ancora le urla di dolore scaturite da una mano premuta contro una piastra bollente; la notte, quando andava a dormire, aveva sempre paura che qualcuno gli andasse a dare la buonanotte, prima di spegnere tutte le luci e chiuderlo in camera.
Era bellissima, quella villa. Piena di fiori colorati e rampicanti, con le pareti del bianco più pulito; sembrava una di quelle casette che hanno le buone vecchine che invitano i bambini a giocare nel proprio giardino, e le stanze all’interno erano sempre ben illuminate dalla luce del sole. Ma Zexion ne aveva una percezione diversa, per niente rosea: era come se la realtà gli sfuggisse dalle mani, lasciando la mente in balia dell’immaginazione. Vedeva i fiori dei colori più tetri, le mura bianche spaccarsi e mostrare il marcio che vi era sotto, sentiva le stanze fredde e in accoglienti raccontargli di un passato di cui non sarebbe mai riuscito a liberarsi.
Eppure, anche se odiava quel posto con tutto se stesso, non se ne sarebbe mai andato. Perché quella villa, per quanto non avesse nemmeno un bel ricordo allegato, spremeva la sua fantasia fino all’ultima goccia: aveva provato a cambiare casa, ad andare il più possibile lontano da lì, ma sembrava che lontano dal posto in cui fosse cresciuto la fantasia l’abbandonasse del tutto, che scomparisse senza lasciare traccia.
Bevve un altro sorso di caffè, fissando il cielo limpido di quella giornata così diversa da quella passata, governata da un cielo plumbeo e da pioggia forte. Sbadigliò più volte e quando capì che il caffè non sarebbe bastato per ridargli l’energia della nottata passata in bianco per lavorare, si accomodò sulla comodissima sedia a dondolo che c’era lì fuori, aspettando che il sonno arrivasse.
Da piccolo si addormentava spesso lì, mentre fissava gli uccellini che cadevano dagli alberi per imparare a volare, oppure le farfalle che si posavano sui fiori bellissimi. Probabilmente era l’unico posto – a parte la sua camera – che gli fosse sempre piaciuto, in quella casa.

«Idiota!» lo schiaffo lo prese in pieno volto e il bambino non poté far altro che stringere i denti, cercando di trattenere le lacrime.
La donna anziana continuava a strepitare ed insultarlo, rinfacciandogli che, come al solito, non aveva fatto il proprio dovere come dovuto. Aveva passato tutta la giornata a leggere, invece che a studiare.
«Sei una vergogna, non fai altro che pensare agli affari tuoi! I tuoi genitori sono morti a causa tua, quando ti deciderai a fare il tuo dovere, invece che leggere quelle stupidaggini?!»
Lo schiaffo arrivò più forte di prima, ma non se ne rese neppure conto.
Sua nonna era sparita, era sparito il salotto in cui si trovavano. C’era una strega, adesso, che lo maltrattava e lo teneva rinchiuso in quella casa putrida, cercando di eliminare tutto ciò in cui credeva, incolpandolo in cose in cui non c’entrava nulla.
La strega urlava, urlava sempre più forte quei sortilegi malvagi, digrignando i denti che sembravano zanne, spalancando gli occhi iniettati di sangue.
«Mi stai ascoltando?!»
Zexion ci provava, ci provava davvero. Cercava di controllarsi, cercava di non creare immagini nella sua mente che non fossero intrise di immaginazione. Non voleva deludere nessuno, non voleva essere una vergogna per i suoi genitori o sua nonna. Ma la realtà sembrava così volubile, così falsa. E le immagini fantastiche di cui aveva letto mille volte riuscivano senza difficoltà a prenderne il posto.


Le palpebre tremarono ed il ragazzo aprì finalmente gli occhi. Non una lacrima, nonostante il sogno causasse più dolore di quanto possibile immaginare, ma ormai ci era abituato: ogni notte sognava il passato di cui tanto aveva paura, tanto da farci l’abitudine.
Guardò stancamente il cielo, che ormai aveva preso i toni accesi del tramonto: non doveva essere più tardi delle cinque. Alzandosi con poca voglia dalla sedia a dondolo, il ragazzo si diresse in cucina, dove posò la tazza sporca ed afferrò in fretta il telefono, componendo il numero.
“Dimmi che hai finito il libro” fu la prima cosa che venne fuori dalla cornetta e Zexion ci avrebbe giurato
«Niente da fare, Saïx. Mi manca l’ultima storia e per il momento non riesco a scrivere» dall’altra parte ci fu un “merda” poco fine, ma il ragazzo sorvolò «Piuttosto, visto che come al solito non starai facendo nulla, ho bisogno di uscire un po’» spiegò, scarabocchiando sul blocco note posto di fianco al telefono
“Va bene, va bene. Passo a prenderti tra dieci minuti, ma non sperare che non parli di lavoro” l’avvertì e lui rise
«E poi ti lamenti del fatto che le tue relazioni non durino. Piuttosto, muoviti e non perder tempo» disse infine, prima di staccare la telefonata.
Aveva bisogno di un po’ d’aria nuova, di un bel posto che lo tranquillizzasse e che lo facesse svagare. Se continuava a pensare al suo blocco, di certo non gli sarebbe stato d’aiuto per ritrovare la voglia di scrivere.
Fece un lungo sospiro mentre guardava l’orologio e, decisosi a darsi una mossa, si diresse al piano di sopra per fare una veloce doccia prima di uscire.

Saïx gli aveva parlato più volte di quel bar, non finendo mai di dirgli quanto ne fosse infinitamente entusiasta. Era una persona piuttosto precisa e con gusti decisamente delicati, quindi non la smetteva mai di criticare mille cose, qualsiasi cosa facesse. Forse era per questo, che era bravissimo nel proprio lavoro.
Ad ogni modo, Zexion dovette trovarsi infinitamente d’accordo perché, quando varcò la soglia di quel posto che si chiamava Blanc et Noir, si sentì davvero a proprio agio. C’era gente qualunque, vecchietti che leggevano il giornale e bambini che giocavano tra di loro, scorrazzando fra i tavoli e con le mani sporche di torta; c’erano gli adolescenti che ridevano tra loro e si lagnavano di quanto la scuola fosse odiosa, e gli adulti – come lui e Saïx – che discutevano di lavoro, per niente distratti da quell’allegro vociare.
«Vieni, sediamoci qui.» 
L’uomo gli indicò con lo sguardo un piccolo tavolino rotondo all’angolo, posto proprio sotto la grande finestra che dava sulla strada per niente trafficata. Era abbastanza isolato quel bar, segno che chiunque ci stesse dentro lo conoscesse non per caso.
Afferrò impaziente il menù e cominciò a consultarlo, mangiucchiando l’unghia del pollice.
«Voglio…» catturò il labbro tra i denti, mentre rifletteva; c’erano un mucchio di cose buone e non aveva davvero idea se la crepes con marmellata e fragole fosse meglio di un frappé  al cioccolato
«Io un caffè» fece ad un tratto Saïx e Zexion si concesse di alzare il viso dal menù, guardando il ragazzo fermo a fissarlo, aspettando l’ordinazione; quando era arrivato?
«Per te, ragazzino?»
Ragazzino?, pensò, storcendo il naso, mentre il suo editore rideva sotto i baffi; ad ogni modo sorvolò e diede un ennesimo sguardo alle figure del menù
«Uhm… una crepes alle fragole ed un frappé al cioccolato» il cameriere prese appunto «Oh, entrambi con la panna sopra, per favore. Ed biscottini nel frappé»
«Certo» il tono ironico del biondo cameriere lo fece un po’ indispettire, ma lo ignorò, sentendo già l’acqua alla bocca per l’aspettativa.
Quando quello andò via, portando con sé i menù, Saïx rise, scuotendo il capo.
«Cosa?» chiese, giocherellando coi fiori finti nel vasetto sul tavolo e facendo dondolare un po’ i piedi «Che ti prende?»
«Nulla, Zexion. Piuttosto, non hai davvero idea di come completare il libro?» chiese, puntandogli addosso i suoi fini occhi ambrati; il ceruleo scosse la testa, grattandosi un po’ la guancia
«In realtà c’è qualche favola che mi ronza in testa, però vorrei completare il manoscritto con qualcosa di… di forte, ecco»
«Qualsiasi cosa andrà bene»
«Non è affatto vero: i bambini non devono leggere cose scontate… c’è bisogno di qualcosa che stuzzichi la loro fantasia e che li faccia riflettere» ribatté «E comunque, ti ricordo che ho una reputazione da mantenere… non posso scrivere quel che capita, se non mi convince»
«Certo, certo» quello fece un gesto noncurante con la mano, stringendosi un po’ nelle spalle «Però sai meglio di me che devi consegnare entro la fine del mese»
«Lo so» sospirò, poggiando il viso sulla mano e guardando fuori dalla finestra «Lo so.»
Il sole era ormai calato del tutto, tuttavia sembrava che ancora un po’ della sua forte luce rischiarasse quelle strade, tanto da non fa apparire così buio quel momento della giornata. Zexion fissò con un sorriso mesto tutti i bambini che sfrecciavano sulle biciclette, ignorando volutamente i richiami dei genitori.
Lui non ci era mai salito su una bici.
«Quand’è che c’è… la cosa, come si chiama?»
«La conferenza stampa? Appena ti decidi a finire quel maledetto manoscritto e pubblichiamo il libro. Piuttosto, non è che potresti consegnarmi le storie già finite, così le leggo e faccio disegnare le illustrazioni?» domanda retorica: Zexion gli scoccò un’occhiata glaciale
«Non se ne parla nemmeno. Potrei avere un ripensamento all’ultimo momento, che senso avrebbe?»
«In effetti tu hai sempre ripensamenti all’ultimo momento. Sei un terribile autore, il peggiore di quelli con cui ho a che fare» sospirò affranto.
Intanto, il ceruleo non aveva ascoltato una parola delle ultime che aveva pronunciato, troppo attento a mandare delle occhiate nella direzione del bancone, visto che il cameriere aveva appena afferrato le loro portate ed andava a servirle. Zexion non riuscì a trattenere un sorriso soddisfatto, mentre sentiva lo stomaco brontolare ed immaginava quanto potesse essere buona e calda quella crepes. Non vedeva l’ora di mangiarla, tanto che si dimenticò di ringraziare il ragazzo, cosa che fece Saïx da parte di entrambi.
«Per l’amor del cielo, dammi ascolto» fece l’uomo dai capelli celesti e non gli rimase che guardarlo indispettito mentre incollava le labbra alla cannuccia del frappé
«Che buono»
«Ma è solo un po’ di gelato sciolto. Dovresti concentrarti di più su quel che ti dico»
«Tanto dici sempre le stesse cose.»
Zexion prese la forchetta tra le dita sottili, prendendo un pezzo di impasto e portandoselo alle labbra. Cavolo, da quanto tempo era che non mangiava qualcosa di tanto buono? Ne prese un altro po’ – questa volta con tanto di panna – e mandò giù il boccone con un sorso del frappé.
Quando arrivò precisamente a metà di entrambi, si dichiarò soddisfatto, e prestò finalmente attenzione al suo povero editor, che sembrava sull’orlo di una crisi di nervi.
«Senti, Saïx, sono stato tutta la notte sveglio per cercare di buttar giù qualcosa, anche un’idea minimamente più originale delle altre, ma niente. Mancano ancora due settimane, sicuramente m’inventerò qualcosa»
«Stronzate. L’ultima volta che l’hai detto hai fatto passare tre mesi prima di completare il tuo lavoro»
«Beh, ho fatto quel che potevo»
«Ma se eri sempre in giro a far nulla»
«Cercavo ispirazione» precisò Zexion, mangiando l’ultimo boccone della crepes «E comunque il libro è stato un successo, quindi non vedo dove sia il problema.»
Mise da parte il piatto – ripulito al meglio dalla marmellata che vi era caduta – e bevve quel che rimaneva del frappé, finché la cannuccia non procurò uno spiacevole rumore un paio di volte.
«Quindi… non posso fare proprio nulla per convincerti a consegnarci quel che già hai scritto?» il ragazzo non si scomodò neppure a rivolgergli lo sguardo «E va bene, e va bene. Ma poi non lamentarti se la critica non sarà clemente»
«Non l’ho mai fatto» borbottò, mangiucchiando la cannuccia «Sei tu che ti preoccupi troppo.»
Saïx si massaggiò le tempie, cercando probabilmente una calma che stava venendo a mancare. Non poteva farci proprio nulla, ma Zexion non trovava assolutamente di prima priorità la critica di uomini  che non sapevano nemmeno più cosa volesse dire essere bambini. I suoi libri andavano ad un pubblico completamente diverso, che non avrebbe trovato strano nulla e che non avrebbe avuto da ridire in termini tecnici. Certo, avere dei commenti positivi lo lusingava, ma gli faceva molto più piacere sentire i bambini al parco che ripetevano tra di loro l’ultima favola che aveva scritto.
«Ho sete» borbottò Zexion, nel bel mezzo del discorso articolato e serio dell’altro, di cui ovviamente non aveva ascoltato una parola; alzò quindi la mano, richiamando il ragazzo biondo che andò subito verso di lui
«Dimmi» fece quello gentilmente, accennando un sorriso che sembrava anche abbastanza stanco; chissà quanto doveva essere stressante, andare avanti ed indietro tutto il giorno
«Un bicchier d’acqua. E mi porteresti un’altra cannuccia? Verde» chiese e il cameriere lo fissò un po’ stralunato, ridendo un po’
«Scusa, ma l’ultima cannuccia verde l’ho data a quel bambino» indicò con la penna un ragazzino di massimo tre anni, che agitava in aria la cannuccia per farci una bacchetta «Se vuoi te ne porto una gialla e una blu»
«Nh, fa nulla» borbottò, stringendosi nelle spalle un po’ deluso «La volevo verde.»
Saïx intanto si passava una mano in volto, abbastanza innervosito dal suo poco interesse e, quando il ragazzo se ne andò per andare a prendere l’acqua che Zexion gli aveva chiesto, non mancò di apostrofarlo male
«Mi farai morire prima del tempo, Zexion»
«Secondo me ti stai surriscaldando un po’ troppo. Piuttosto, sai se c’è un supermercato da queste parti? Voglio una cannuccia verde»
«Ma si può sapere perché vuoi una cannuccia verde?»
«Boh, mi va» commentò, prima di tirare fuori un sorriso affilato e ridere un po’ «In realtà voglio farti innervosire, mi diverte: è che mi stavo annoiando.»
E a quel punto, il povero editor non poté far altro che guardarlo male, insultarlo e dirgli di darsi un mossa, mentre usciva fuori dal bar senza nemmeno lasciare i soldi del suo caffè. Beh, sarebbe dovuto indubbiamente toccare a lui.
Quando il biondo cameriere gli portò l’acqua, scusandosi un po’ per il ritardo, lo ringraziò, bevendo e lasciando anche i soldi del conto sul tavolo, prima di uscire fuori.
«Oh, ragazzino, aspetta» il ragazzo lo fermò, correndogli dietro e bloccandolo a qualche metro dal Blanc et Noir; infilò una mano in tasca, tirandone fuori una cannuccia verde«Ne ho trovata una, tieni» fece porgendogliela, poi lo salutò sventolando una mano e rientrando nel bar.
Saïx, alle sue spalle, non poteva far a meno di ridere, ed anche Zexion in realtà sorrideva, ma per un motivo ben differente: era la prima volta che qualcuno provvedeva ai suoi capricci col sorriso sulle labbra e con l’aria di chi è terribilmente soddisfatto.

---

La settimana era ricominciata e Demyx doveva ammettere con somma gioia di sentirsi al meglio, e probabilmente era anche merito delle scarpe nuove che – era ancora felice come un bambino – Maurice gli aveva regalato, dicendogli di tenersi i soldi per qualcos’altro.
Così, lui e le sue scarpe nuove quel mattino erano arrivati prima al bar, con somma sorpresa del proprietario e del cuoco, che ormai lo prendevano in giro da ben dieci minuti.
Quando era entrato il primo cliente, si era sentito davvero felice: gli era mancato, quella domenica, dover lavorare, ma senza ombra di dubbio era stata una manna dal cielo.
Sabato era uscito con gli amici che non vedeva da troppo tempo, era tornato tardi e si era svegliato dopo quasi quattordici ore di sonno, completamente rilassato e ricaricato di un’energia che non sentiva sua da una vita. Quindi aveva fatto colazione ed era rimasto a casa a poltrire tutto il giorno, suonando di tanto in tanto qualche brano.
Adesso, era ritornato tutto alla più piena e caotica normalità.
Schivò un bambino per puro miracolo, evitando di cadere e tirarsi dietro l’ordinazione che aveva su un vassoio quindi, piuttosto entusiasta per la bravura che acquistava di giorno in giorno, portò a dei ragazzi le bibite che avevano ordinato.
Ormai era diventata piuttosto tranquilla la giornata: il bar andava man mano svuotandosi, visto che adulti e bambini avevano da fare i propri doveri e i vecchietti andavano via per andare a giocare a carte al parco.
Salutò l’ultima gentile vecchietta che gli aveva mandato un bacio e, ridendo di pura contentezza, si versò un bicchiere d’acqua frizzante. Era assurdo come tutti gli anziani di quel posto l’avessero preso a cuore – anche perché era una vita che stava sempre in quel bar, anche quando non lavorava – e come gli chiedessero ogni santo giorno se stava bene e se avesse fatto pace con i suoi genitori. I bambini, invece, gli giravano sempre attorno, aspettando il momento in cui fosse un po’ più libero per giocare con loro.
Amava stare in quel posto, era come trovarsi in una famiglia allargata.
Stava quasi per annoiarsi, quando l’ennesimo cliente entrò, attirando la sua attenzione più di quanto non facessero gli altro; li conosceva quasi tutti: i nomi e di alcuni persino i cognomi, dove abitassero e persino l’età. Dopo anni in cui c’è sempre la stessa gente, prendi più confidenza e sai persino qual è la cosa preferiscono, così quando gli dicevano “fai tu”, Demyx sapeva sempre cosa portare.
Tuttavia, era solo la seconda volta che vedeva quel ragazzo che non era certo di quelle parti, altrimenti Maurice o qualche vecchietta impicciona gli avrebbe detto come si chiamava e dove abitava.
Aspettato qualche minuto perché consultasse il menù, il biondo lo raggiunse, col solito sorriso e il taccuino tra le mani
«Un momento» fece il ragazzo, senza nemmeno alzare gli occhi dal menù
«Se vuoi comincio a portarti una cannuccia» scherzò Demyx, scorgendo un mezzo sorriso sul suo volto
«Uhm… Puoi portarmi mezzo budino al cioccolato e mezzo alla vaniglia? Altrimenti ne prendo uno di entrambi e… oh, da bere voglio un frullato di mela» disse, poi lo fissò e rise un po’ divertito «La cannuccia la voglio gialla»
«Agli ordini!»
Il biondo rise, scrivendo tutto sul foglio e dirigendosi verso la cucina, per dare l’ordine a Larry. Intanto, lui cercava una cannuccia gialla, cercando di scorgere il colore da sotto la sottile carta bianca.
In quegli anni che aveva lavorato lì, Demyx poteva dire con certezza che gli unici ordini tanto strani fossero quelli che gli davano i bambini che, ad esempio, gli chiedevano di mischiare assieme la cocacola ed aranciata, oppure di mettere il gelato sul legnetto in un bicchiere perché aspettavano che si sciogliesse prima di mangiarlo. Per quanto riguardava i ragazzi dell’età di quel nuovo cliente – che probabilmente non aveva più di diciassette anni – evitavano sempre di chiedere cose troppo strane, forse per paura di dare nell’occhio o perché sceglievano sempre le solite cose.
Trovava piuttosto strano, che un ragazzo di quell’età si comportasse in quel modo.
Ad ogni modo, quando Larry lo chiamò per dirgli che i due mezzi budini erano pronti e che il frullato non aspettava altro che esser servito, afferrò la cannuccia che pensava fosse gialla, e mise tutto su un vassoio.
Quando posò l’ordine al tavolo di quel ragazzo, i suoi occhi blu non potevano fare a meno di essere puntati sui due budini, con uno sguardo piuttosto soddisfatto.
«Ecco a te» fece Demyx, iniziando a sentirsi a disagio quando quello continuò a fissarlo intensamente «C-che c’è?»
«La cannuccia gialla» dichiarò serissimo e lui non poté fare a meno di ridere di nuovo, mentre tirava fuori dalle tasche il bastoncino colorato
«Eccola» disse, poi non poté fare a meno di trattenere la curiosità «Senti, ma che te ne fai?»
«Niente, la mangiucchio e poi la metto a casa nel porta-cannucce, assieme a tutte le altre che ho mangiucchiato»
«No, sul serio. Sono curioso, giuro» il ragazzo però lo fissò serio, persino un po’ irritato
«Guarda che non stavo scherzando»
«…Oh! M-ma dai? No è che… ehm… n-niente, non farci caso, è che mi sembra un po’… strano»
«C’è gente che colleziona accendini e io non posso farlo con le cannucce?» chiese retoricamente, continuando a fissarlo con quello sguardo che iniziava a diventare seriamente inquietante
«Assolutamente» balbettò, prima di trovare una qualsiasi scusa per scappare via e ritornare dietro al bancone.

Gli era capitata una sola volta nella propria vita di sentirsi in ansia a quel modo, ed era la sensazione di non poter aspettare nemmeno un momento in più la sera della Vigilia di Natale, quando aspetti con ansia di addormentarti il prima possibile per svegliarti presto il mattino dopo, correndo fuori dal letto per scartare tutti i regali che ci sono sotto l’albero.
Eppure, adesso che vedeva entrare ed uscire persone su persone dalla porta del bar, Demyx non poteva fare a meno di sentire quella stessa ansia, aspettando di vedere da un momento all’altro una chioma dal quello stranissimo colore, accompagnata dall’altrettanto strano proprietario.
Era quasi curiosità, la sua: voleva sapere che altro strano ordine avrebbe fatto e quale altra particolarità avrebbe scoperto di lui.
Ma quel giorno, nonostante tutto, il ragazzo non si presentò al Blanc et Noir e lui non poté fare a meno di sentirsi un po’ deluso – come se sotto l’albero non avesse trovato il regalo che desiderava tanto – ed era incredibilmente strano che la presenza o l’assenza di uno sconosciuto potesse avere una tale influenza sul suo umore.

Dopo due giorni, il ragazzino si era presentato al bar subito dopo l’orario di apertura del pomeriggio, andando a sedersi ad un tavolo diverso da quelli su cui si era accomodato precedentemente. Senza nemmeno aspettare che prendesse il menù, Demyx era corso da lui, praticamente felicissimo, e l’aveva salutato con un entusiasmo che lasciava stupito persino lui
«Ehi, scusa un momento, non ho nemmeno guardato» fece infatti il ragazzo, un po’ scombussolato dal suo modo di fare
«Figurati, io aspetto qui se non ti dispiace.»
Ti fisso mentre leggi” era la frase nascosta tra le righe, ma il biondo non ci pensò troppo e continuò a stringere forte tra le dita il blocchetto di fogli, curioso di scoprire l’ordine. Tuttavia, un attimo dopo aveva perso importanza scoprire cosa avrebbe chiesto quella volta, perché si era appena reso conto che avesse un colore di occhi che gli ricordava molto quello di sua madre, e gli metteva addosso una malinconia incredibile. Era strano, ma le prime volte non li aveva notati così tanto
«…Senti, posso chiederti perché mi fissi a quel modo?» chiese quello e lui, inevitabilmente, arrossì
«N-niente, scusa. Mi sono incantato nel fissarti» sbottò, rendendosi conto solo dopo dell’equivocità delle sue stesse parole «Cioè! Nel senso che… che i tuoi occhi mi ricordano quelli di un’altra persona e__» ma il ragazzo lo bloccò con un mezzo sorriso ironico
«E poi io sono strano. Certo che voi grandi avete una strana concezione del “normale”»
«Questo perché sei un ragazzino»
«Ma se sono più vecchio di te» ribatté quello, lasciandolo confuso per un momento.
Lui, più vecchio? Ad osservarlo sembrava appena uscito dall’adolescenza, ed in più aveva appena finito di dire “voi grandi”.
Questo mi prende in giro, considerò, mentre il cliente era tornato a fissare il menù, senza riflettere sulla contraddittorietà delle sue parole.
«Un gelato alla menta, in coppetta. Però ce la voglio la cialda dentro» riprese, consegnandogli il libricino
«Da bere?» chiese, ma quello scosse la testa
«Non so che scegliere, quindi nulla» rispose e Demyx annuì, andando in cucina.
Quando gli portò l’ordine, trovò particolarmente curioso il modo in cui il ragazzo lo fissava. Stava per chiedergli se ci fosse qualcosa che non andava, quando quello mandò un’occhiata in giro e l’attimo dopo gli stava chiedendo di sedersi assieme a lui.
Non c’erano clienti, in giro, era ancora troppo presto in effetti. Considerato questo, accettò e l’attimo dopo si stava presentando.
«Demyx, eh?» borbottò quello, usando la cialda come cucchiaino per il gelato «Io sono Zexion» disse.
Stupidamente, gli sembrò che la sua giornata fosse arrivata al culmine del fantastico, adesso che sapeva anche il suo nome.

«E quindi sei uno scrittore» borbottò il biondo, sorseggiando il suo succo di pera «Ma non sei un po’ troppo giovane per cominciare a lavorare in questo campo?» il ragazzo lo guardò con un sopracciglio alzato
«Ma se ti ho detto che sono più grande di te»
«Beh, che c’entra… si vede che hai massimo diciassette anni» fece convinto e il ragazzo accennò un sorriso, stringendoti nelle spalle
«Fa’ come vuoi: se ti fa più comodo che io abbia diciassette anni, allora ne ho diciassette» dichiarò con un’espressione indecifrabile.
Aveva notato, Demyx, che c’erano momenti in cui i comportamenti di Zexion avevano qualcosa di infinitamente infantile – ad esempio il modo in cui si muoveva sulla sedia, oppure le curiose ordinazioni – ed altre in cui sembrava un trentenne nel pieno della carriera, un uomo vissuto che stava prendendo tutto ciò che ancora non aveva avuto dalla vita.
Ed era strano, vedere certi comportamenti e certi modi di fare in un corpo che sembrava paralizzato nel pieno dell’adolescenza; e non aveva alcuna vergogna di affermare che lo trovasse affascinante, curioso, e non avrebbe voluto mai smettere di fissarlo, perché voleva scoprire come ragionava sulle cose, ed ogni altro suo minimo pensiero e gusto.
Non era mai stato tanto interessato ad una persona, considerò mentre faceva l’ennesima domanda che usciva fuori dalla sua bocca solo dopo che se ne fosse accorto.
«No, in effetti non vivo da queste parti, ecco perché non mi hai mai visto in giro» confermò quello, mandando giù l’ultimo boccone di gelato «Però qui non è molto lontano da casa mia, ci metto dieci minuti in macchina.»
Macchina? Cazzo, allora è vero che non ha diciassette anni!
«Comunque, perché lo chiedi? Vuoi forse venire a trovarmi a casa?» chiese con naturalezza eppure, avendo una minima esperienza sul campo, Demyx poté giurare che alludesse ad altro.
Uno di appena diciassette anni non poteva avere tutta questa sfrontatezza, assolutamente.
«…A trovarti?»
«Ho detto qualcosa di stra__ uh!» si fermò ad un tratto, come colto da un’illuminazione improvvisa «Me lo puoi portare una spremuta d’arancia, sì? Mi è venuta improvvisamente voglia» sbottò e lui, piuttosto stordito da quel cambio d’umore, annuì solamente, alzandosi per andare in cucina.
Due erano le cose: o era un adolescente che si divertiva a prenderlo per culo, oppure era un ultraventenne con problemi di personalità.
E sfortunatamente, entrambe gli sembravano terribilmente plausibili.
Tornato al tavolo, Demyx non ci trovò altro che delle banconote per pagare. Zexion era sparito e, con la bocca aperta per la sorpresa, il biondo iniziava a pensare che quel tipo gli avrebbe fottuto il cervello molto presto.

---

C’era un motivo preciso per cui Zexion era scappato all’improvviso senza dir nulla, ed era un fatto che tutt’ora – immerso nella vasca da ben mezz’ora a rifletterci – lo lasciava sconcertato.
Da quando in qua ci provava coi ragazzini ventenni?
Per carità, un tempo, quando era più giovane, ci aveva provato eccome, ma avevano davvero troppi anni di differenza, anche se il fatto che Demyx pensasse che aveva appena diciassette anni aiutava parecchio.
Però c’era un altro problema, che non aveva niente a che fare col fatto di mentire o meno ad un ragazzino che era così addormentato da non rendersi neppure conto di fissarlo con adorazione, ed era questo: lui aveva un lavoro da finire e gli rimaneva quasi una sola settimana per farlo, non poteva perdere tempo dietro un ventenne.
Si immerse fino a sotto il naso nell’acqua, cominciando a sbuffar fuori l’aria per fare delle bolle.
Saïx l’avrebbe ucciso senza pietà, se avesse saputo che pensava ai cavoli propri invece che terminare il lavoro. Insomma, era un professionista, lui; non era più un ragazzino, doveva mettere in chiaro le priorità e provarci sfacciatamente col bel cameriere di turno non era tra queste.
Vero? – ci pensò davvero, per un momento, poi si diede un colpo alla testa – Ma certo! Non voglio che Saïx mi spacchi il culo a suon di calci.
Una volta ci era andato vicino – quella volta che aveva consegnato il manoscritto con tre mesi di ritardo – e non aveva la minima intenzione di ripetere l’esperienza, soprattutto se la cosa che lo fermava era l’attrazione per un ragazzo qualunque.
Un bellissimo ragazzo qualunque, precisò la sua mente, ma Zexion tentò di ignorarla.
Tuttavia, l’attimo dopo era uscito dalla vasca, cercando di sbrigarsi per ritornare al Blanc et Noir.

Quando Demyx lo vide, appoggiato al bancone e seduto su uno degli sgabelli, gli rivolse uno sguardo stranissimo. Probabilmente era un misto tra “Vaffanculo ci pensi due volte prima di andartene via senza dir nulla” e l’esatto opposto “Oddio, come sono felice che tu sia tornato!”. A Zexion stavano bene entrambe le cose.
«Ma si può sapere prima dov__»
«Voglio uscire con te, stasera» dichiarò, mordendosi la lingua l’esatto istante dopo, quando tutti i clienti erano rimasti in silenzio e Demyx l’aveva fissato con gli occhi sgranati, mezzo sconvolto ed incredulo, oltre che perfettamente in imbarazzo.
Beh, ormai già aveva parlato, quindi era inutile continuare a preoccuparsi.
Zexion sperava, mentre il cuoco si affacciava dalla finestrella dietro il bancone guardando in giro con sguardo torvo, che a qualche vecchietto dal cuore delicato non fosse preso un colpo.
«Allora?» borbottò il proprietario, dando un colpetto a Demyx che – rosso fino alla punta dei capelli – sembrava voler morire dall’imbarazzo da un momento all’altro.
Oh, insomma, aveva venti anni, possibile che la sua domanda l’avesse turbato tanto?
Il momento dopo il biondo l’aveva afferrato per il polso e – col bancone che li divideva – se lo tirò dietro, e Zexion dovette stare attento a non colpire gli sgabelli, mentre quel ragazzino lo chiudeva in bagno con sé.
Quasi si interveniva, per il suo imbarazzo.
«Tu!» urlò all’improvviso, facendo sobbalzare appena Zexion «Ma si può sapere che… insomma! Sono cose da chiedere di fronte a tutti?!»
«Cazzo, lavori in un bar pieno di gente, non potevo mica aspettare che finivi il turno.»
Demyx spalancò la bocca, nuovamente senza parole, ma almeno dava segni di vita, visto che si era nascosto il volto tra le mani
«Che figura»
«Guarda che se non ti muovi iniziano a pensare male di sicuro» sbottò e il biondo parve riprendersi
«Ok, ok. Usciamo assieme, però esci da qui» fece frettolosamente, spingendolo fuori e richiudendo la porta, probabilmente senza la minima intenzione di uscire dal bagno.
Zexion scoppiò a ridere, e mormorando un “vengo a prenderti appena finisci”, uscì dal bar il più in fretta possibile, visto che tutti avevano finito di bisbigliare appena lui era uscito “allo scoperto” ed avevano cominciato a fissarlo tanto da farlo sentire in imbarazzo.

Era un po’ agitato, doveva ammetterlo e non per qualche moina – del tipo che aveva paura di fare brutta figura con Demyx – ma perché era una vita che non usciva con qualcuno di quell’età. Negli ultimi mesi, gli uomini con cui era stato, avevano più o meno la sua età ed era quindi abituato a discutere di un determinato genere di cose, come il lavoro, la politica, l’ultimo noiosissimo ma non meno importante libro che aveva letto e – come tralasciabile ma non meno importante dettaglio – spesso andava a finire che, anche al primo appuntamento, si finisse sotto le coperte. Perché, in fin dei conti, alla sua età poteva prendersi il lusso di farlo senza che poi si creasse un legame sentimentale, oppure senza sentirsi sfruttato se poi il giorno dopo quello non si faceva sentire.
Come avrebbe dovuto comportarsi, con Demyx?
Prima che l’ansia arrivasse e iniziasse a soffocarlo, Zexion guardò un’ultima volta la propria immagine riflessa nello specchio all’entrata, poi afferrò le chiavi dell’auto e si decise a non pensarci troppo.
Quando arrivò all’incrocio tra la strada principale e il vicoletto dove si trovava il Blanc et Noir, parcheggiò l’auto e, resosi conto che non aveva il numero di cellulare del biondo barista, non gli rimase che raggiungerlo al bar. Entrò, facendo sempre un cenno di saluto al proprietario che ricambiò con un sorriso sibillino da sotto i baffi bianchi. Si accomodò ad uno dei tavoli vuoti, trovando l’atmosfera del bar molto più tranquilla del solito; forse era a causa del buio che si vedeva fuori, dell’assenza dei bambini che giocavano fuori casa, delle luci tiepide che illuminavano la stanza, e del silenzio che permeava più del solito, visto che non c’era in sottofondo la voce di qualcuno che chiacchierava.
Giocherellò coi lacci della felpa che indossava, cercando di ignorare il fastidio che gli provocava lo sguardo del vecchio proprietario, che sentiva solleticargli la guancia.
Ad un certo punto, tutto il pesante silenzio fu distrutto da una specie di urlo isterico, che probabilmente proveniva dalla cucina – o da lì vicino – e, distrattosi dai complicati giochi che si era messo a fare coi lacci verdi, puntò gli occhi verso il bancone, cercando di capire inutilmente quel che stesse accadendo. Poi sentì una porta sbattere, qualche voce che diceva cose senza senso – o almeno lui non riusciva a capire – e Demyx fu finalmente nel suo campo visivo, il viso pallido e sudaticcio, tutto ansante manco avesse fatto una corsa, e – gli concesse – vestito davvero molto bene.
«Ciao» balbettò quello, avvicinandosi e sedendosi un po’ imbarazzato di fronte a lui «Aspetti da molto?»
«Non sono nemmeno cinque minuti, non ti preoccupare» lo tranquillizzò «Beh, hai qualche preferenza, oppure ti va bene andare ovunque?»
«Dove vuoi» disse e dopo un attimo di pausa posò finalmente lo sguardo nei suoi occhi «Dove vuoi.»

Zexion adorava i posti particolari; quelli che sembravano essersi incastrati in un mucchio di momenti passati e che pareva non volessero nemmeno liberarsene. Adorava casa sua per questo, ed amava altrettanto restare per ore a guardare il mare che s’infrangeva contro un vecchio porto, dove erano ormeggiate delle barche abbandonate; gli piacevano le casette in campagna, immerse nel verde e circondate di campi arati, perché sembrava che il passare degli anni e tutte le comodità che si erano create fossero scomparse tutt’un tratto.
Probabilmente piacevano ad una parte del suo animo dove – proprio come in tutti quei luoghi – il passato era rimasto incastrato senza via di scampo. Ed inoltre, oltre che essere posti assolutamente affascinanti e rilassanti, giovavano non poco sulla sua ispirazione. Erano i posti che i bambini sognano spesso, ed immaginano di viverci mille e più avventure; perché – aveva notato Zexion – in una città caotica dove la gente stava stretta, non c’era molto spazio per la fantasia.
Così, dopo quasi un’ora di autostrada, erano arrivati nel suo ristorante preferito. Non era lussuoso, non era quel tipo di posto dove ci vedi solo gente altezzosa e ricca, ma era incredibilmente più bello.
Si trovava su di un’alta scogliera ed era un vecchio casale un tempo abbandonato, di cui però aveva mantenuto l’aspetto antico: la facciata, di un bianco sporco e ricoperto da rampicanti di fiori rossissimi, era un vero spettacolo al tramonto e Zexion si dispiaceva di non aver potuto farlo vedere a Demyx. L’interno, invece, aveva le pareti fatte di pietre, che mantenevano tutto il calore del camino che era sempre acceso, quando faceva fresco; poi c’era il piano superiore, aperto solo quando c’era bel tempo, poiché era una terrazza che affacciava direttamente nello strapiombo, e gli era sempre piaciuto tantissimo sporgersi per poter fissare la luce riflessa nell’acqua limpida del mare. Ed era proprio lì che voleva passare la sera.
Sapeva per certo di riuscire a far colpo eppure, quando vide l’espressione sorpresa ed estremamente estasiata dell’altro, non poté che sentirsi più felice. Si prospettava davvero una bellissima serata.
«Cavolo, certo che ne conosci di bei posti!» esclamò il biondo, accomodandosi ad un tavolo libero che stesse vicino la ringhiera «Sai, sinceramente pensavo che uno scrittore stesse tutto il tempo chiuso in casa a leggere e che fosse totalmente asociale»
«Secondo te uno che passa il pomeriggio da solo in un bar è un’amichevole persona piena di amicizie?»
«Però con me hai parlato»
«Questo perché mi interessi, quindi mi sforzo» disse semplicemente, ridendo della sua espressione decisamente soddisfatta
«Wow, devo essere sul serio uno schianto!» esclamò esaltato, poi afferrò il menù «Oh… sai, non so se prendere una pizza o altro, tu cosa fai?»
Si chiese, Zexion, se fosse possibile entrare tanto in sintonia con una persona in così poco tempo. Di solito i suoi appuntamenti passavano sempre discutendo in un modo quasi atono, dicendo le solite cose che si dicono per riempire il tremendo imbarazzo, e non gli era mai importato: sia lui che il suo accompagnatore pensavano probabilmente ad un’unica cosa, quindi perché sprecare energie per certe futilità, se così si voleva chiamarle?
Demyx era la prima persona con cui discuteva con voglia dopo molto tempo, escludendo il proprio editor.
«Ti dirò: adesso il dubbio ce l’ho anche io… Beh, possiamo prendere entrambe, chissenefrega» sbottò e, quando abbassò il menù per fissare l’altro, lo vide ridere in silenzio
«Figuriamoci, chissà perché ma me l’aspettavo» disse e Zexion ricambiò l’espressione, prima di chiamare il cameriere.

---

Con la pancia piena, e i muscoli che gli facevano male per le risate, Demyx poté affermare che quello era di sicuro il miglior appuntamento di tutta la sua vita.
Si era accorto anche di adorare praticamente ogni piccola cosa di quel ragazzo – uomo? – e non vedeva l’ora di conoscerlo meglio. Prima di tutto, lo trovava davvero bello, con quell’aria sognante e lo sguardo che, tuttavia, non faceva che ripetergli che avesse i piedi ben piazzati per terra; gli piaceva il suo taglio e lo strano colore dei capelli, che stavano benissimo col viso dai tratti delicati che sembravano non essersi definiti ma che – si era accorto fissando davvero bene – tuttavia lo erano. Gli piaceva il modo spiccio di fare su cose totalmente insignificanti su cui a volte uno si fissava troppo, e la serietà con cui discuteva di cose interessanti. Gli piaceva il tono leggero della voce limpida, e quel vizio che aveva di mordersi l’unghia del pollice destro quando pensava – l’unica, tra l’altro, che non era curata e perfettamente in ordine come le altre –.
Era una persona dannatamente interessante e, se avesse avuto quel pizzico di coraggio in più che gli mancava, l’avrebbe invitato per passare la notte assieme, ma temeva di rovinare le cose, se Zexion avesse frainteso: voleva dormire con lui, nient’altro. Voleva sapere se il respiro si appesantiva di più mentre era tra le braccia di Morfeo, voleva sapere di che sapevano i suoi capelli, voleva sentire il calore del suo corpo contro il proprio.
Probabilmente, mentre finiva il suo sorbetto al limone, Zexion si era accorto che voleva dirgli qualcosa, infatti iniziò a fissarlo con qualcosa che assomigliava tanto ad aspettativa.
«M-mi chiedevo» iniziò, non riuscendo più a trattenersi e con la sensazione che, se non l’avesse detto, se ne sarebbe pentito di sicuro «Se ti dicessi che voglio dormire con te, ma dormire, c-che mi dici?»
Quello lo fissò in silenzio, tenendogli addosso gli enormi occhi blu
«Che ce ne hai messo di tempo per chiedermelo» e a quel punto, Demyx si sentì irrimediabilmente soddisfatto, ma il sorriso gli sparì dal volto quando lo sentì ridere
«B-beh?» chiese
«Credevo che ragazzi della tua età fossero un po’ più spigliati, ecco» commentò, mantenendo l’espressione divertita «O forse eravamo noi una generazione che andava fin troppo al sodo.»
Il biondo ventunenne arricciò le labbra, fissandolo con attenzione mentre beveva la sua birra. Si chiedeva, se prima o poi si fosse deciso a rivelargli la vera età, ma oramai era più che appurato che fosse maggiorenne, visto che guidava l’auto, solo che – nonostante si fosse accorto che avesse particolari completamente estranei ad un adolescente – non poteva darsi pace, visto che sembrava sicuramente più grande di lui, per quanto riguardava l’aspetto, almeno.
Magari aveva trovato una pietra filosofale e ci aveva fatto l’intruglio per la giovinezza eterna; plausibile, no?
«E… da quant’è che porti l’auto?» chiese, ricevendo in cambio uno sguardo piuttosto eloquente
«Certo, ti piacerebbe saperlo»
«Nh, così è ingiusto però» sbottò, alzandosi per potersi poggiare alla ringhiera e guardare il bellissimo paesaggio.
Faceva leggermente fresco, così si strinse nella maglia, per niente intenzionato a lasciar perdere la storia dell’età: prima o poi sarebbe riuscito a scoprirla, poco ma sicuro, anche perché tutta quell’aura di mistero non faceva altro che renderlo ancor più curioso.
Mandò uno sguardo a Zexion con la coda dell’occhio e, quando fu sicuro che non avrebbe potuto vederlo, sorrise.

---

La casa di Demyx era piccola, praticamente quasi quanto la sua camera da letto. Dall’entrata, sulla destra, c’era il divano – che presumibilmente diventava un letto – e di fronte il televisore, con una console ben tenuta e i CD annessi impilati al mobile di fianco; Sul muro di sinistra c’era una piccola cucina con un tavolo e, dietro, la porta di quello che presumibilmente doveva essere il bagno.
Piccola, certo, ma ben proporzionata, e perfetta per un’unica persona.
Zexion era restato un po’ sulla soglia, circospetto, abbagliato dalle luci della città che filtravano dalla finestra alla sinistra, vicinissima al tavolo; quando il ragazzo biondo gli fece cenno d’entrare, si chiuse la porta alle spalle e, abbandonato il leggero giubbino sul bracciolo del divano, cominciò a guardarsi meglio attorno, notando che – di fianco al divano, nascosta tra la parete e il bracciolo – c’era la custodia di quella che sembrava una chitarra.
«Suoni?» chiese retoricamente, mentre Demyx lo raggiungeva annuendo, dicendogli di accomodarsi. «Mi puoi far sentire qualcosa?»
«Vuoi? Beh… ok! Tu, vuoi qualcosa? Un caffè, che ne so…»
«Solo dell’acqua, ti ringrazio».
Zexion si sentiva stranamente agitato, ma non per il fatto che fosse da solo in una casa con il ragazzo con cui era tornato da un magnifico appuntamento; Demyx, in effetti, non c’entrava nulla. Si sentiva quasi fuori posto, ancor più rispetto a tutte le case, sue e non, in cui fosse stato. Sentiva che gli mancava qualcosa, un’aria di malinconia che non era mai riuscito a lasciarsi dietro, ed adesso era come svuotato.
C’era troppa serenità in quella casa, come se non avesse mai vissuto un dramma o non avesse mai sentito una bugia, come se quelle mura di giallo chiaro non avessero mai visto piangere nessuno, né tantomeno avessero sentito delle urla.
Il ragazzo, dopo avergli portato dell’acqua, si era seduto al suo fianco sul divano, ed aveva afferrato la chitarra, facendo per toglierla dalla custodia. Ma Zexion non seppe zittire la domanda che gli stava ronzando in testa.
«Da quanto vivi qui?».
«Ehm… Poco più di tre anni, perché?».
«Beh, si vede che non è molto vissuta… e come mai hai deciso di vivere da solo? Insomma… lavori in un bar, quindi presuppongo che l’affitto lo paghi per conto tuo» l’altro lo guardò stralunato, probabilmente scosso dalle sue osservazioni fatte in poco tempo «Sempre se puoi dirmelo, eh» aggiunse e Demyx annuì.
«Ma sì, figurati, non è che c’è molto da dire» cominciò, mentre lui sorseggiava dal bicchiere «Sai, mio padre è un medico abbastanza conosciuto, quindi sono sempre vissuto con l’aspettativa di seguire le sue orme, diventare medico ed essere come lui. Ad essere sinceri, non mi era mai dispiaciuto, studiare medicina non mi faceva nemmeno tanto schifo, anzi, ero anche bravo, credo… il fatto è che ero favorito da mio padre, che conosceva tutti i miei professori. Quando l’ho scoperto, ho capito che preferivo lasciar perdere invece che essere un raccomandato, così mi hanno sbattuto fuori di casa, questo è quanto» concluse, e il frizzante dell’acqua sembrava avergli messo in subbuglio lo stomaco.
Improvvisamente, Zexion aveva realizzato che sarebbe stato più facile andarci a letto e continuare su questa via per un tempo interminabile, piuttosto che saperlo.
La sua non era stata una vita facile, tutt’altro.
Sua madre era morta di parto, suo padre si era suicidato quando era ancora piccolo perché sommerso dai debiti – o forse era solo scomparso nel nulla, non ne aveva idea –. Era rimasta sua nonna, madre della sua, che l’aveva accolto probabilmente allo stesso modo che ci sarebbe stato per  un cancro maligno. L’odiava, per il semplice fatto che aveva ucciso sua figlia, lo trattava male perché era gracilino e dalla salute cagionevole, gli impediva di comportarsi come tutti gli altri bambini, perché c’era solo lo studio, quello severo ed accademico.
Non dovevano esserci fiabe, fantasie. Non doveva permettersi di inventare storie, non poteva osare di usare qualsiasi parola che non provenisse dalla realtà pratica e materiale.
Zexion ancora oggi si chiedeva come fosse possibile aver mantenuto intatta la sua parte infantile, forse era stato proprio merito del fatto che per troppo tempo era rimasta chiusa dentro, aspettando solo il via libera per uscire.
Demyx aveva avuto tutto dalla vita: amore ed aiuti. E per un capriccio infantile li aveva buttati al vento, solo perché l’orgoglio e forse i soliti ideali banali gli avevano impedito di andare avanti. Aveva appena detto di essere bravo, che gli piaceva. Aveva mandato all’aria una carriera prestigiosa e libera da impicci solo perché non voleva ammettere di essere un figlio di papà?
Gli faceva venire i nervi.
«Sei terribilmente infantile, sai?» il biondo non poté rispondere, gli occhi sgranati e la sorpresa dipinta sul volto, assieme alla confusione. «Il mondo va così, Demyx. Non sei il primo e non sarai l’ultimo che sarà aiutato dai genitori e sai cosa? Trovo terribilmente stupido da parte tua lasciare tutto per… per niente solo perché volevi fare la parte dell’eroe dai sani principi. Non ne abbiamo bisogno».
«Oh, wow. Anche nelle tue storie ci scrivi che si deve essere dei raccomandati?», Zexion lo fulminò con lo sguardo.
«Non fare lo gnorri, Demyx, non è questo che ti ho detto. Ci sto solo dicendo che c’è gente che si venderebbe una gamba per avere l’aiuto che hai avuto tu. E mi hai appena detto che studiavi, che ti piaceva e che eri bravo, hai mandato a puttane tutto solo perché non ti rendi conto di come è difficile cavarsela da soli» detto questo, in un moto di stizza si alzò, afferrando il la giacca
«Ma… Ehi, aspetta!» il ragazzo l’afferrò per il braccio, sovrastandolo con la sua altezza; ma il ceruleo non l’aveva mai visto più piccolo. «Non ti permetto di giudicare, non mi conosci abbastanza per farlo, e sinceramente non ti credevo così… venduto. Come tutti gli altri!».
«Qui si tratta di usare un po’ di cervello» il ragazzo si liberò malamente dalla sua presa. «Hai vissuto in una campana per un mucchio di tempo, poi hai iniziato a lavorare con un vecchietto che probabilmente ti conosce da quando avevi il pannolino. Tu non sai com’è vivere da soli, cavarsela da soli. I tuoi genitori ti hanno sbattuto fuori di casa ed hai trovato la compassione e l’affetto di altri. Sei stato solo terribilmente fortunato, ecco tutto, fin troppo da poter anche solo immaginare per un solo attimo com’è difficile costruirsi da soli ogni singola cosa» fece con acidità. «Ti ringrazio per la bella serata, ma credo che sia meglio che vada» disse infine, guardando per un’ultima volta il viso indecifrabile di Demyx, che lo lasciò andare senza aggiungere altro.
Mentre camminava verso l’auto, Zexion non poteva fare a meno di sentirsi infinitamente frustrato.

---

Due giorni.
Mancavano due giorni allo scadere della consegna, e Saïx non si era mai sentito più stressato. Zexion era il peggior autore con cui avesse a che fare e, per dirla tutta, lui non aveva per niente a che fare con gente per bene, ma almeno erano tutti più o meno puntuali. Sia chiaro, era un genio, scriveva favole che erano uno spettacolo, era divertente parlare con lui, era una persona per bene e, nonostante cercasse tutti i modi per distrarsi quando parlavano di lavoro, il resto delle volte era piuttosto illuminante discorrere di varie cose, ed accettava i consigli la maggior parte delle volte – completamente differente ad un altro autore di sua conoscenza, del resto –.
Ma lo faceva dannare troppo, troppo con i tempi di consegna. Ed era anche permaloso, per giunta!
Gemendo frustrato per il traffico in cui era imbottigliato, Saïx si ripromise di prendersi una vacanza al più presto, lontana da quegli artisti strambi e le loro strambe abitudini e i loro strambi modi di pensare.
Voleva un po’ di pace, non chiedeva molto, no?
Una settimana senza leggere nulla che non fosse il giornale del giorno, oppure i fumetti di Charlie Brown e Snoopy. Magari in compagnia di una bella donna, possibilmente sigle e con un odio viscerale per la letteratura.
Ah, sì. Lontano da tutto ciò che riguardasse i libri.
Sembrava un sogno.
I clacson che suonavano impazziti gli facevano venire una voglia matta di suicidarsi. Insomma, era possibile che nessuno avesse niente di meglio da fare che stare per strada alle due del pomeriggio?!
Esasperato, Saïx si concesse di abbandonare la fronte sullo sterzo, lasciando che anche il suo, di clacson, cominciasse a strombazzare.
Aveva bisogno di una pausa, prima che il lavoro e gli scrittori lo uccidessero.

Il Blanc et Noire era il suo posto preferito, soprattutto quando scappava dal chiasso ed aveva voglia di stare un po’ in mezzo la gente, visto che stare avanti al televisore a leggere i soliti ultimi capitoli e bere birra aveva cominciato a stufarlo.
E poi non aveva nulla da leggere – avrebbe voluto tanto avere tra le mani il manoscritto di Zexion – quindi doveva in qualche modo passare il tempo. E questo qualcosa comprendeva il non stare da solo a casa. Insomma, magari trovava anche una bella donna in giro, no?
Velocissimo come al solito, il barista biondo si fiondò su di lui. Fece per dirgli l’ordinazione, ma quello si sedette sulla sedia libera che aveva di fronte, e cominciò a fissarlo.
A Saïx venne voglia di scappare via dalla finestra: era lì, gli occhi celesti puntati su di lui, la faccia da cane bastonato e una certa aspettativa nello sguardo. Sospirò raccapricciato. Avrebbe dovuto aspettare anche per il caffè.
«Dimmi» fece, la voce stanca, poggiando il menù sul tavolo e mantenendo il volto con la mano; quello parve illuminarsi, e si raddrizzò meglio sulla sedia.
«Io sono Demyx, piacere» cominciò, ma non gli diede nemmeno il tempo di presentarsi. «Io so che conosce Zexion, mi ha detto che è il suo editor ed è una vita che sto aspettando di incontrarla. La prego, mi dica dove abita, è successo un casino e voglio rimediare. Lui mi odia, ma non m’interessa, voglio far pace e…».
… E partorire i suoi figli, che altro?
«…E?».
«E non lo so. Forse voglio fargli sentire una canzone, baciarlo, portarmelo a let_ non lo so! Lei mi dica solo dove abita, la scongiuro».
Saïx si rendeva conto di essere davvero troppo, troppo vecchio, per ragazzi del genere.
E si chiedeva, soprattutto, come fosse possibile che tra gli autori che aveva preso tra le sue braccia – grinfie? – ce ne fossero un sacco tendenti all’omosessualità. Se magari fosse nato qualche centinaia di anni prima, Oscar Wilde sarebbe stato probabilmente uno dei suoi studenti modello.
Sospirò pesantemente, puntando lo sguardo in quello affranto del ragazzo.
«Non credo di poterlo fare».
«Ma… ma come?! Lei deve! Non può farmi questo, pensi a me, a Zexion! Per favore, la scongiuro!».
«Se le do l’indirizzo mi porterà un caffè alla svelta?».
«Sicuro, glielo offro io!» e schizzò via, così, finalmente rilassato, Saïx non poté far altro che tirare fuori dalla borsa una penna e scrivere l’indirizzo su uno dei fazzolettini di carta che c’erano nel contenitore sul tavolo.
Dannazione.
Avrebbe venduto sua madre per un buon caffè, in quel momento.

---

Quando Demyx arrivò, il fiato corto per la corsa che aveva fatto in bici, rimase senza parole, ma non per l’aria che gli mancava. La villa dove viveva Zexion era davvero enorme, dannatamente stupenda: assomigliava a quelle che vedi dipinte sui libri di favole, oppure quelle che disegni da bambino immaginando la casa dei tuoi sogni. Gli piaceva da matti che le rampicanti coprissero tutta la recinzione, formando una specie di muro protettivo, che non lasciava guardare all’interno; solo il cancello ne era leggermente libero, permettendogli di poter guardare meglio dentro.
Vedeva il portico, diviso dal vialetto che percorreva il giardino solo da un paio di gradini, e la porta dal vetro colorato dell’ingresso. Deglutì e, fissando il citofono, premette forte il tasto per un paio di volte.
“Chi è?” sentì poco dopo, ed era inconfondibilmente la voce di Zexion, solo più metallica.
«Ehm… sono io…» sussurrò e probabilmente nulla dei suoi bisbigli era stato ascoltato.
“C’è nessuno?”.
«Zexion, sono io, Demyx» pronunciò questa volta con voce più ferma e, se l’udito non l’ingannava, poteva giurare d’aver sentito un sospiro, dall’altra parte. «Voglio parlarti, per favore».
Solo un altro attimo di silenzio, poi lo scatto metallico del cancello che si apriva lo fece sobbalzare. Strinse forte la presa sul manico della bici, cercando di farsi coraggio; in fondo, non doveva fare chissà cosa, no?
Guardandosi vagamente attorno, ma troppo pensoso per potersi concentrare davvero su qualcosa in particolare, Demyx poggiò la bici contro la ringhiera di legno della veranda e, quando sentì il rumore della porta, alzò il suo guardo, incontrando quello di Zexion che, poco più in alto, lo fissava, aspettando che salisse quei due scalini e lo raggiungesse.
Correre alla maratona di New York sembrava meno stancante.
«Ehi» lo salutò, accennando un sorriso, seguendolo con lo sguardo mentre si sedeva sulla ringhiera, la schiena poggiata alla colonna portante.
«Che dovevi dirmi?».
Demyx era scosso, ma non per il modo brusco con cui l’aveva risposto, non in modo diretto, almeno. Non aveva usato quel tono per essere sgarbato o per metterlo in soggezione, ma sembrava molto più fermo ed adulto di quanto avesse mai notato. Gli aveva ricordato un po’ suo padre, quando dopo averlo messo in punizione voleva sul serio ascoltare le sue scuse.
Il fatto che l’età di Zexion non fosse riflessa nel suo aspetto ed a volte nemmeno nei modi lo metteva in difficoltà.
«Sai, dopo che… insomma, dopo quella sera ti ho cercato su internet, sai? Però ho scoperto che non c’è l’indirizzo privato, giustamente e… cavolo, non ci voglio proprio credere che tu abbia__».
«Sei qui per parlare della mia età, Demyx?» chiese, massaggiandosi la fronte all’attaccatura del naso. «Scusa, è solo che non ho dormito per tutta la notte…».
«Lavoro?» chiese e quello annuì; prese un sospiro e si fece coraggio. «Ok. Allora. Io non so… non so esattamente cosa dirti, perché non posso dirti “scusa”, visto che non credo di aver sbagliato o almeno non me ne pento, e sinceramente tu non centri nulla con ciò che mi è successo, ma il punto è che: tu mi piaci. E ti direi anche scusa se servisse a qualcosa, e voglio continuare a vederti se… se è possibile perché… perché ho passato una settimana d’inferno sperando che entrassi da quella caspita di porta, che ti sedessi all’ennesimo tavolo diverso e che ordinassi… che ne so, cannucce verdi e crepes col budino e che mi prendessi in giro perché parlo troppo ma il punto è che voglio chiarire, ecco» disse tutto d’un fiato, abbassando lo sguardo sulle tegole di legno bianco che aveva sotto i piedi, cercando di ignorare lo sguardo fisso dell’altro.
Ti prego dì qualcosa…
«Credo di aver esagerato» fece d’un tratto l’altro e Demyx si costrinse a guardarlo in faccia «Non volevo offenderti, né farti la morale, sono io che devo scusarmi».
Demyx sorrise, più rilassato, avvicinandosi un po’ e poggiando la mano accanto la sua coscia, sul legno bianco della ringhiera; alzò appena il viso per guardargli il suo e, quando si accorse che Zexion stava facendo esattamente lo stesso, si concesse di arrossire.
«Vuoi restare qui a farmi compagnia?» chiese quello d’un tratto, rivolgendogli un accenno di sorriso «Ho terribilmente sonno, ma possiamo sempre chiacchierare un po’ prima che mi addormenti».
Il biondo annuì, sentendo il volto andare in fiamme quando l’altro gli passò una mano tra i capelli, carezzandogli le ciocche puntute e, con un po’ di forza in più, fare in modo che i visi si avvicinassero. Sentiva il suo respiro sulla bocca, il suo sguardo calmo puntato sul suo volto rosso. Deglutì e l’attimo dopo, afferrandogli tra le dita il polso della mano posata tra i suoi capelli, Demyx poté finalmente sentire la consistenza delle sue labbra sulle proprie, con una percentuale di agitazione che gli agitava lo stomaco davvero altissima, mentre gli carezzava le labbra febbrilmente.
La risata di Zexion gli vibrò sulla bocca
«Sei proprio un ragazzino» disse, prima di baciarlo ancora.

Il ragazzo si stiracchiò appena, facendo le fusa al cuscino e sentendo un particolare vuoto al suo fianco. Allungò il braccio e, quando non trovò il corpo minuto di Zexion che aveva dormito al suo fianco fino a poco prima – o almeno c’era, prima che prendesse sonno anche lui – si decise ad alzare la testa dal guanciale.
Lo scrittore era lì, seduto alla scrivania di fianco al letto, e Demyx giurò che stesse scrivendo qualcosa, visto che il braccio destro si muoveva forsennato. Si concesse di fissargli la schiena coperta dalla maglia leggera ancora per un po’, poi gli chiese cosa stesse scrivendo.
«Niente d’importante» borbottò l’altro, posando finalmente la penna. «Vado a fare una doccia, fai come se fossi a casa tua» detto questo sparì fuori dalla stanza, senza degnarlo nemmeno di uno sguardo.
Si strinse nelle spalle ed alzandosi a malincuore dal letto – dovendo abbandonare sia il tepore che l’odore magnifico di cui erano impregnate le lenzuola – raggiunse la scrivania, accomodandosi ed afferrando tra le mani i fogli un tempo bianchi, adesso occupati da una calligrafia chiara e piccola, impressa con dell’inchiostro blu.
«Non ti ho detto che potevi leggere» sentì dire alle sue spalle, e Zexion si aggirò in camera alla ricerca di un paio di mutande pulite.
«Ma nemmeno che non potevo farlo» sorrise Demyx nella sua direzione.
Quando le sue spalle furono cinte dalle braccia sottili dell’altro, che gli scoccò un bacio tra i capelli, il ventunenne barista poteva esser certo che ci fosse un motivo, se Zexion aveva scritto proprio quella favola dopo che aveva dormito al suo fianco. Sorrise ancora e, riponendo i fogli sulla scrivania, si disse che – anche se non adesso, magari tra qualche ora, giorno, settimana o mese – si sarebbe fatto spiegare il motivo per cui aveva pianto nel sonno, stringendosi a lui come se volesse nascondersi da qualche mostro.
C’erano parecchie cose che non sapeva di Zexion, segreti che forse non gli avrebbe mai nemmeno rivelato, vicende che non avrebbe voluto fargli sapere ma, mentre lo attirava verso di sé per poterlo baciare ancora una volta, si disse che c’era tempo.
Avevano appena iniziato, del resto.

C’era una volta, in un giardino baciato dal sole, un piccolo Principe fatto del Cristallo più prezioso, che viveva in un bellissimo castello costruito coi petali delle rose più rosse.
Il Principe viveva nella torre più alta, e da lassù guardava i felici passanti che si fermavano a cogliere i fiori più belli. Era triste, tuttavia, perché oltre le Nuvole nessuno si fermava mai a parlargli, e lui si sentiva davvero molto solo.
«Povero me» diceva. «Sono destinato a vivere qui e restare solo per sempre».
Perché, dovete sapere, il cristallo di cui era fatto il Principe, oltre ad essere il più prezioso, era anche il più delicato e, se fosse uscito dal castello di petali, si sarebbe rotto in mille pezzi.
Per questo piangeva lacrime d’oro fuso, perché voleva essere anche lui felice come quei passanti, mentre invece era destinato a vivere in solitudine per tutta la vita.
Un giorno, mentre sussurrava al signor Vento il sogno che aveva fatto quella stessa notte, una delicata voce gli giunse alle orecchie e quindi puntò il suo sguardo di zaffiro nel giardino: poggiata su un bel fiore, c’era una piccola Farfalla bianca che lo chiamava.
«Principe di Cristallo» diceva. «Sembri davvero molto infelice. Scendi nel giardino, così giocheremo assieme».
Ma il Principe, a quelle parole, sospirò:
«Mi spiace, piccola Farfalla, ma sono costretto a rifiutare: il Cristallo di cui sono fatto è troppo delicato, se scendessi mi romperei di sicuro» spiegò.
«Questa è proprio una bella sfortuna» disse allora la Faralla. «Non c’è nulla che io possa fare per te?».
«Diventa mia amica» pregò il Principe. «Se mi farai compagnia sarò più felice. Vieni, vola qui vicino a me, te ne prego».
Ma a quelle dolci suppliche, la Farfalla poté solo scuotere le delicate antennine che aveva sul capo.
«Scusami, Principe, ma credo non sia possibile: le mie ali sono troppo piccole e delicate perché io voli lì in alto, e sono proprio costretta a rimanere qui tra i Fiori» spiegò e, facendo un rigoroso inchino, volò via.
Il principe, di nuovo solo, pianse tristemente.
«Quanto vorrei essere un Fiore» diceva. «Così potrei stare con la mia amica Farfalla» e continuava a piangere.
Poco dopo, passò lì vicino la Magia, la stessa che aveva costruito il Castello di petali ed aveva fatto nascere il Principe di Cristallo. Sentendolo piangere così tristemente, decise di esaudire il suo desiderio ed in un batter d’occhio, il Castello divenne di cristallo, ed il Principe si trasformò in una stupenda Rosa rossa.
Quando la Farfalla bianca si posò su di lui, il Principe si sentì felice per la prima volta in tutta la sua vita.
Perché, vedete, esser fatti di Cristallo è assai poca cosa, addirittura una terribile sventura, se si è soli e non si può esser felici.


 



Ehilà! *-* Rieccomi di ritorno, questa volta con una Zemyx <3
Tengo particolarmente a questo paring ormai troppo in disuso, e mi chiedo come è possibile che non siano amati. Sono meravigliosi, no?
Beh, sono 20 pagine, arrotondando per difetto, e spero davvero che siano leggere da leggere ;w;
L'età di Zexion non si potrà mai sapere. Vi dico solo che posso saperlo solo io e Demyx <3
Che altro dire? Oh, beh, le favole sono mie, spero che piacciano e che non siano troppo banali *u*
Beh, io penso di aver finito qui ;w; 
Mi raccomando, fatemi sapere, ci tengo tanto a questa storiella ;w; 
Vi voglio bbbbbene <3

See ya!

   
 
Leggi le 5 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Videogiochi > Kingdom Hearts / Vai alla pagina dell'autore: _Ella_