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Autore: Yoko Hogawa    20/02/2012    20 recensioni
38,7 °C.
John fissò il termometro come se fosse il bollettino ufficiale di un’imminente catastrofe.
[Sherlock/John con tanto fluff]
Genere: Fluff, Generale, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson , Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Desclaimer: come al solito, tutti i personaggi della serie sono proprietà prima di Sir Doyle, poi di mr. Moffat e mr. Gatiss; io li uso semplicemente per puro divertimento non retribuito che il più delle volte sfocia nell’angst (sì, c’è gente che ha dei fetish particolari).

Note: mi terrò breve, perché probabilmente qualcuno vorrà scuoiarmi dopo XP

Il titolo e praticamente tutta l’idea di fondo sono tratti dalla legge di Murphy (Wikipedia vi accenderà la luce) e, nello specifico, dal libro che è anche la mia Bibbia: “La Legge di Murphy e altri motivi per cui le cose vanno a rovescio” scritto da Arthur Block.

Avviso che, per cause di forza maggiore, forse Sherlock mi è andato un po’ OOC. Forse. Non saprei dire.

Quello che è descritto è, inoltre, il decorso del virus influenzale più brutto della mia vita. Lo ricordo ancora con reverenza e terrore e quasi mi dispiace averci fatto passare anche Sherlock... ma in realtà vuole essere ironica XD Ah, e la medesima cosa vale per le dita e la caviglia... ho scritto dopo averlo provato sulla pelle ;D

 

Infine, avverto che la shot è lunga, ed effettivamente mi era balenato per la mente di dividerla in due... ma spezzare a metà i corollari mi faceva perdere di continuità, così ho preferito somministrarvela tutta insieme 8D spero non vi sanguinino gli occhi.

Dico davvero.

Detto ciò, auguro buona lettura a chi vorrà sottoporsi

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Murphys Law of Existence

 

 

 

Legge di Murphy:

Se qualcosa può andar male, lo farà.

 

38,7 °C.

John fissò il termometro come se fosse il bollettino ufficiale di un’imminente catastrofe.

In piedi davanti al divano, la destra abbandonata lungo il fianco a sfiorare la vestaglia bordeaux sopra i pantaloni azzurrini e larghi del proprio pigiama, guardò con reverenziale terrore il piccolo schermo analogico finché non si spense con un lieve “bip”.

Almeno... forse Mrs. Hudson, al suo fianco, lo percepì come un “bip”. Lui, personalmente, udì un sentito e metallico “condoglianze”.

« Oh Santo Cielo, Sherlock! » pigolò la donna in vestaglia di lana rosa, portandosi le mani alla bocca: « è altissima! Perché non ci ha avvertito prima? » domandò premurosamente, chinandosi verso uno Sherlock Holmes seduto a gambe incrociate sul divano e posandogli una mano sulla fronte, sotto i riccioli scuri.

Cosa che Sherlock si lasciò fare solamente perché era mrs. Hudson.

« Prima non aveva febbre... » rispose John ancora sconvolto, evitando che fosse Sherlock stesso a prendere la parola (per il bene sia della sua sanità mentale di persona svegliata nel cuore della notte, che di quella della gentile padrona di casa).

Anche se, a guardarlo bene, probabilmente non aveva comunque intenzione di spiccicare parola: sguardo languido, occhi lucidi, guance ed orecchie arrossate... se non avesse collegato quella visione a molte altre espressioni febbricitanti che aveva visto in tutta una carriera medica, avrebbe potuto esserne terribilmente attratto.

Scosse la testa, riprendendosi dalla trance per non distrarsi troppo. Non era proprio il momento adatto per perdersi in considerazioni puramente ormonali sul suo attuale compagno.

« Caro, forse le farebbe bene qualcosa di caldo. Magari un tè? O preferisce un latte caldo? » cominciò tutta gentile la donna, continuando ad intervalli regolari a tastare con il dorso della mano la fronte di Sherlock.

Ovvero, la fronte di una persona che aveva sufficiente pazienza solo quando si trattava di aspettare e scovare un serial killer; per tutte le altre situazioni di vita quotidiana i nervi di Sherlock Holmes avevano una durata che andava mediamente dai trenta secondi ai due minuti e mezzo.

E, con la signora Hudson, quel tempo stava per scadere. John si sentiva obbligato a fare qualcosa prima che Sherlock prendesse fiato per esprimere la sua opinione.

« Mrs. Hudson, credo che un tè non sia una buona idea. Se è il virus di stagione è possibile che fra poco gli verrà la nausea » disse, deformato professionalmente ad assumere il tono del medico curante; prese la donna per le spalle, trasportandola delicatamente verso la porta dell’appartamento con una mano sulla sua schiena: « ci penso io da qui in poi, scusi per averla svegliata e torni pure a dormire » aggiunse, restituendole il termometro con un lieve cenno del capo sia come convincimento che come ringraziamento.

« Per fortuna che lei è medico, John caro... » disse la donna riprendendosi l’oggetto: « mi sento più tranquilla sapendo che c’è lei a tenerlo d’occhio. Però dovreste comprare un termometro! » disse con convinzione, augurandogli la buona notte e cominciando a scendere le scale.

Chiudendole la porta alle spalle, fu John quello a pensare di avere avuto sfortuna.

Il periodo medio di incubazione di un virus influenzale era di una settimana, ma anche facendo mente locale e tornando indietro nel tempo, Watson non faticava a trovare il momento esatto in cui Sherlock avrebbe potuto ammalarsi. O meglio, diciamo che aveva una cosa come svariate possibilità, dal tuffo nel Tamigi con -2 gradi di temperatura esterna (figurarsi quella dell’acqua...) alla corsa a perdifiato per Londra in giacca e camicia perché, ovviamente, stavano facendo tutto all’ultimo secondo e Sherlock aveva ottimizzato i tempi nel non indossare il cappotto prima di uscire. Il suo pensiero passava poi per tantissime altre situazioni di pericolo per la salute dell’altro e si stupì che si fosse preso solo l’influenza.

Ritrovando una sorta di coraggio zen dentro di sé – perché conosceva Sherlock e sapeva che non se ne sarebbe stato buono e calmo anche se impossibilitato a muoversi per cause di forza maggiore – tornò all’interno dell’appartamento e si diresse a passo veloce verso il divano.

Sherlock era ancora lì; aveva appoggiato la testa alla spalliera e aveva chiuso gli occhi ma il respiro appena accelerato, e le dita delle mani che tremavano leggermente sulla coperta, gli dicevano senza ombra di dubbio che non si sentiva per niente bene. Anche la mancanza di parlantina, ma quella era una cosa relativa.

« Ci sono momenti in cui vorrei dirti “te lo avevo detto”, ma so che sarebbe completamente inutile » disse John, allungando una mano e posandogliela sul collo. Era terribilmente caldo.

Sherlock sospirò piano. « Però fai in modo dirmelo comunque » ribatté sagace, stirando le labbra in un lievissimo sorrisetto. Nel frattempo, approfittando della mano di John sul proprio collo, piegò il capo verso di essa.

A Watson sfuggì un sorriso. « Non ti vedo bene » gli disse però.

« Mi sembra ovvio » rispose Holmes.

« Potevi dirmelo, Sherlock » cominciò allora il dottore, evidentemente ansioso di potergli fare la solita ramanzina con i fiocchi: « non può esserti venuta da un momento all’altro, avresti dovuto avere altri sintomi. Mal di gola, tosse, malessere diffuso... dovresti essere in grado di riconoscere quando non ti senti bene! » esclamò.

Sherlock ridacchiò appena e, nel farlo, tossì. « John, passo la metà del tempo sotto nicotina e l’altra metà a correre per Londra. Ero tossicodipendente e “non dormo abbastanza, non mangio decentemente e non mi curo di me stesso”, parole tue » gli disse: « ...e poi stare male è una perdita di tempo e di energie. Se mi concentro e dico al mio cervello di controllare il mio corpo, sono sicuro che riuscirò ad ignorare la mia condizione fisica e a continuare il mio lavoro ».

« Tu te lo scordi, il tuo lavoro » obiettò però Watson, inorridito anche solo dalla prospettiva, assumendo l’atteggiamento duro del soldato: « tu starai a letto, al caldo, almeno finché non guarisci del tutto » asserì.

Sherlock lo fissò come se gli avesse detto di aver sbagliato una deduzione. « Ma... John! »

« Niente “ma” Sherlock, sono il tuo medico » disse.

« No, sei il mio ragazzo! » si lamentò l’altro: « e non puoi impedirmi di pensare, John! ».

Il cuore di John perse un battito, ancora non del tutto abituato a queste esternazioni sincere. Il detective non lo faceva spesso, e solitamente solo quando erano da soli, nudi e avvinghiati sotto le lenzuola della camera di Sherlock – da qualche settimana divenuta la loro camera – ma quando si faceva sfuggire qualcosa era sempre un piacere sentirlo. Tuttavia, dato che in quel momento doveva sembrare più convincente che lusingato, si sforzò di mantenere il sangue freddo.

« Ringrazia che il tuo ragazzo ha una laurea in medicina, allora » gli disse, prendendolo per un braccio e caricandoselo sulle spalle, diretto verso la camera da letto.

Erano le due e venti del mattino e, chissà per quale motivo, John aveva già il presentimento che non sarebbe stata una cosa rilassante, avere Sherlock influenzato.

 

Corollari:

1. Niente è facile come sembra.

 

Erano le tre e un quarto del mattino, e John imprecò.

Il che, se prendiamo in considerazione le persone normali, non è poi così strano. Tutti imprecano.

Ma si sta parlando di John Hamish Watson, qualcuno che aveva imprecato seriamente solo ed esclusivamente quando un calibro 7,62 gli aveva aperto un buco nella spalla, e dalla sua aveva il lunghissimo periodo passato in guerra e la consapevolezza che la ferita appena ricevuta gli sarebbe costata il congedo.

Il semplice fatto che avesse ripetuto l’imprecazione all’interno di un appartamento di Londra, quasi due anni dopo l’esercito, faceva supporre che non stesse vivendo un bel momento.

In sintesi, aveva passato l’ultima ora a ribaltare qualsiasi cassetto, mensola, mobiletto, scatola, anfratto e persino calzino alla ricerca di qualcosa che potesse aiutare il suo coinquilino a diminuire la febbre che, tanto per gradire, era salita superando i 39°C.

Si sarebbe abbassato ad implorare Dio per avere un antipiretico, perché in casa non avevano altro che un blando antidolorifico a base di ibuprofene – quello per il ciclo mestruale, per capirci, e per la propria sanità mentale non si soffermò sul perché lo avessero – e quelli di mrs. Hudson avevano l’aria di essere scaduti durante la guerra del ‘15/’18.

In alternativa, e in attesa che aprisse la prima farmacia disponibile, John si era ritrovato a mettere in pratica non solo la sua conoscenza medico-militare, inventandosi modi con cui tenere a bada la febbre prima che il prezioso cervello del suo amato compare fondesse, ma anche a raschiare il fondo delle sue conoscenze di livello accademico.

Dopo aver combattuto una battaglia prettamente fisica contro uno Sherlock reticente a stendersi sul letto, vinta senza nemmeno troppa fatica date che condizioni svantaggiose del detective, lo aveva coperto togliendo il piumone e sostituendolo con una coperta un po’ più sottile. La febbre era, di base, uno scompenso termico del corpo e coprire Sherlock con qualcosa di troppo pesante non avrebbe fatto altro che alzare la temperatura senza motivo.

Poi era passato alla pezza bagnata sulla fronte, questa volta più per alleviargli il mal di testa che per abbassargli veramente la temperatura corporea.

Si era poi messo a spremere delle arance e a zuccherarne il succo, in modo da avere un giusto apporto di vitamine e glucosio, infine a cercare in frigorifero qualcosa che potesse dare vita ad un brodino vegetale, o qualcosa di simile, da dare all’altro per colazione.

Inutile dire che aveva trovato solo una cipolla ammuffita, un pezzo verde di qualcosa che ricordava vagamente del formaggio e un sacchetto pieno di padiglioni auricolari.

Farmacia e supermercato, si era appuntato mentalmente.

Tutto questo, c’è da aggiungere, mentre Sherlock entrava effettivamente in contatto con la realtà e si accorgeva di essere decisamente febbricitante. In parole povere, aveva fatto tutte le operazioni sopra descritte mentre Holmes lo chiamava ogni due minuti e mezzo circa, puntuale come un orologio svizzero e con la cadenza perfetta di una goccia cinese.

John! Non posso avere la febbre, fa qualcosa!

John, mi è caduta la coperta e non riesco a prenderla! (Aspetta Sherlock, non ti alzare, vengo io!).

John... ho mal di testa.

John, non riesco ad alzarmi! (Sherlock, non devi alzarti!).

John, devo andare in bagno.

John! JOHN! Dammi qualcosa per questo mal di testa! (Se smettessi di lamentarti staresti meglio!).

John, John, John, John, John, John!

Aveva sentito il suo nome talmente tante volte che gli era passata la voglia di chiamarsi “John”.

Sherlock Holmes con la febbre era qualcosa di talmente simile ad un moccioso delle elementari alla sua periodica influenza stagionale, che se solo avesse perso l’uso della parola avrebbe anche potuto essere considerato “carino”. Il problema era che non stava zitto, per l’appunto.

Fu dopo l’ultimo “John!” gridato dal detective, mentre era in procinto di farsi un tè per aiutare i suoi neuroni ad affrontare la lunga notte davanti a sé, che avvenne.

Perse la presa sul pentolino bollente e, per evitare di versare la bevanda a terra, si limitò a rovesciarsela sulla mano.

E allora dolore fu. E imprecò.

Le persone sottovalutano le scottature, ma soprattutto non prendono sul serio in considerazione la quantità di male che fa la pelle una volta scottata. Pulsa in una maniera incredibile, fa male a contatto con qualsiasi cosa che superi anche di un grado la temperatura corporea (dunque anche l’acqua della doccia, sì) e persino l’acqua corrente fa sufficiente pressione per far sì che provochi dolore.

Tuttavia sospirò lasciando la mano sinistra immersa al freddo nel lavello e, ritrovando sé stesso, ebbe il coraggio di arrivare fino al piano inferiore – ignorando per una decina di minuti Sherlock ed il suo continuo “John, John”.

Scusandosi per averla svegliata di nuovo, si fece dare dalla signora Hudson la sua crema idratante per le mani, in sostituzione della pomata antiscottature che ovviamente non avevano, e dopo essersi fatto un bendaggio approssimativo con un fazzoletto pulito di stoffa tornò di sopra.

Erano solo le tre e un quarto del mattino e John sentiva di avere davanti a sé una giornata infinita.

 

 

2. Tutto richiede più tempo di quanto si pensi.

 

Rientrò in camera da letto, spegnendo tutte le varie luci di casa e lasciando accesa solamente quella del comodino dal suo lato del letto.

Si sedette sul materasso, schiena appoggiata alla testiera con il cuscino sollevato, tenendosi con la mano destra la sinistra fasciata in un silenzioso tentativo di imporre alle sue dita scottate di smettere di bruciare come l’Inferno.

Al suo fianco, nella penombra, Sherlock era chiuso in un bozzolo di coperte. Non dormiva, cosa che dimostrò girandosi in sua direzione e fissandolo con gli occhi lucidi – e azzurrissimi, damn it.

John, incrociando il suo sguardo non senza emozione – l’emozione profonda e radicata che gli dava la consapevolezza che quell’essere unico adesso era suo – gli sorrise gentilmente. « Come va? » domandò, forse impossibilitato a chiedergli qualsiasi altra cosa senza sembrare uno stupido.

Sherlock però ignorò bellamente la sua domanda. « Non mi hai risposto, quando ti ho chiamato... » cominciò, per poi aggiungere subito dopo: « cos’hai fatto alla mano? Ti ho sentito imprecare ».

John mosse un poco le dita fasciate, che bruciarono puntualmente. « Una lieve scottatura, tutto bene » disse.

« Il tè sta bene? » ironizzò Sherlock con la voce lievemente nasale, alla quale John ridacchiò.

« Ancora sul fornello. Era un peccato sprecare dell’Earl Grey, magari domani lo recupero » spiegò, coprendosi fino alla vita.

Ormai era scontato che non avrebbe dormito. Non ne sarebbe comunque stato in grado a causa dell’ansia che il lasciare Sherlock senza sorveglianza in quelle condizioni gli provocava, ma il motivo principale era un sincero voler stare accanto all’altro per essergli utile.

Sherlock, come leggendogli nel pensiero – cosa che secondo John poteva fare davvero – puntellò i gomiti e si avvicinò a lui, appoggiando la testa sulla sua coscia e chiudendo gli occhi subito dopo. « Mi gira la testa... » biascicò, sistemandosi meglio contro di lui.

Beh, se lo usava come cuscino non poteva muoversi per forza di cose, no?

« È normale, con la febbre che ti ritrovi... » disse John inserendo le dita della mano non fasciata fra i ricci scuri dell’altro, carezzandogli la testa lentamente e delicatamente. « Cerca di dormire, Sherlock » suggerì poi.

Holmes scosse il capo contro la sua gamba. « Mi da fastidio, mi gira tutto... e ho mal di testa. E male alle ossa. E i brividi e quando tossisco ho mal di schiena » si lamentò, esattamente come un bambino.

John non poté trattenere un sorriso dolce, a quella vista.

Sicuramente Sherlock sapeva perfettamente cosa succede ad un corpo umano quando si contrae un virus influenzale, perché certe zone fanno male e certe no, ma in quel momento era evidentemente regredito ad un’età umorale di dieci anni... sperava solo che non avesse cominciato a chiamarlo “mamma” o peggio, “fratellone”. Sarebbe stato inquietante.

« John? ».

La voce di Sherlock lo distrasse del tutto, facendogli riportare la piena attenzione al presente. « Mh? » gli diede ascolto, continuando sempre ad accarezzargli i capelli.

« Forse dovresti andare a dormire nella camera di sopra » ipotizzò.

Watson non si stupì di sentirlo, ma non si fece prendere inutilmente da un panico immotivato e dettato solamente dalla “sindrome del rifiuto causa relazione sentimentale appena instaurata”. « Perché? » domandò allora, cercando di suonare calmo e tranquillo.

Sentì Sherlock sorridere contro la sua gamba. « Non per quello che stai pensando » lo rassicurò « però potrei attaccarti l’influenza » continuò.

« Io ho fatto il vaccino. Comunque, sai, la malattia ti rende più docile e pieno di considerazione per gli altri. Hai mai pensato di ammalarti più spesso? » scherzò il medico alla vista, decisamente strana, di uno Sherlock che si preoccupava per un eventuale contagio.

Il detective storse il naso in una smorfia di disappunto. « Io spero di no, mi blocca il cervello e non riesco a riflettere efficacemente su niente » commentò: « mi sento come tagliato fuori ».

Non che Sherlock Holmes non si preoccupasse affatto per l’ormai davvero suo John Watson. Solo... John non era abituato a vederla manifestarsi così palesemente, soprattutto non sottoforma di frase concreta proveniente dalle labbra sottili del moro.

« È come il sesso » continuò imperterrito il consulting detective: « non ho avuto modo di confrontarti con altri John, ma nelle nostre sessioni di contatto fisico hai la capacità di farmi perdere la testa. Letteralmente. Sarà l’esperienza accumulata, suppongo. Fatto sta che regredisco ad un livello di semplicità cerebrale che trovo disarmante, soprattutto quando mi avvicino all’orgasmo; quasi mi dimentico come si fa a respirare e per la prima volta ho trovato utile il fatto che sia un movimento inconscio, altrimenti... »

John si schiarì la voce, interrompendo l’apologia di Sherlock sulle loro “attività da lenzuola”. « Beh... personalmente spero che tu non avrai presto altri con cui confrontarmi a quel livello, ecco... » bofonchiò il soldato decisamente in imbarazzo, anche se tentava di non darlo troppo a vedere.

« Non credo proprio » si sbrigò a dire Sherlock, il tono pratico e scientifico: « non penso di riuscire ad abbandonarmi così tanto con qualcuno che non sia tu. Tu mi possiedi quando facciamo sesso, John. Nel vero senso del termine. Completamente, praticamente. Non mi fido della gente in modo così esagerato, lo sai » asserì.

Il che, tradotto in inglese dal codice Holmes, probabilmente era un gran bel complimento. Forse.

Watson non si soffermò a scoprirlo.

Doveva semplicemente fermare quel fiume di ragionamenti sconnessi e fin troppo imbarazzanti – per entrambi, anche se l’unico a disagio era solamente lui – perché era sicuro che Sherlock, da vigile e cosciente di sé, non avrebbe mai e poi mai ammesso ad alta voce una cosa simile.

Anche se lo lusingava, ovviamente.

« Sherlock, smetti di blaterare e dormi. Io sono qui se hai bisogno » si risolse a dirgli, la mano sempre fra i suoi capelli.

« Lo so » rispose semplicemente l’altro, decidendosi a chiudere gli occhi e a cercare di rilassarsi.

Quasi un istante dopo che il respiro del moro si era regolarizzato, il cellulare di John vibrò sul comodino. Lo raggiunse con la mano fasciata – non aveva la minima intenzione di staccare la destra dalla testa di Sherlock – e, con movimenti un po’ impacciati ma comunque efficaci, sbloccò lo schermo e lesse l’sms appena arrivatogli.

- Come sta? MH

John non si chiese come aveva fatto a saperlo dopo solo un’ora dall’effettiva misurazione della temperatura di Sherlock, così come non si chiese se quell’uomo dormisse. Anche Mycroft faceva di cognome “Holmes”, tanto gli bastava.

Rispose con un breve “febbre 39, dorme. Ti tengo informato.” per poi guardare l’ora.

Le tre e trenta.

Sarebbe stata una giornata più lunga del previsto.

 

 

3. Se c’è una possibilità che varie cose vadano male,

quella che causa il danno maggiore sarà la prima a farlo.

 

Appena quaranta minuti dopo aver preso sonno, Sherlock si era svegliato dicendo di avere la nausea. John aveva fatto appena in tempo a portarlo in bagno.

Aveva rimesso tutta la cena della signora Hudson e probabilmente anche il tè delle cinque, il cenone di San Silvestro e anche quello di Natale. La nausea era continuata anche dopo che lo stomaco fu effettivamente vuoto, torturando il consulting detective con conati di sola bile. E per la prima volta, “vomitare bile” non era una figura retorica.

John, che aveva passato tutto il tempo a tenergli i capelli lontano dal viso bollente, cominciava seriamente a pregare che arrivasse l’ora d’apertura delle farmacie; combattere una sindrome influenzale senza medicinali era come spegnere un incendio soffiandoci sopra.

Nel frattempo, lo sforzo dei conati aveva steso Sherlock peggio di un chilo a tocchi di cocaina. Seduto sulle piastrelle del bagno respirava solo con il naso – se lo faceva con la bocca fomentava la nausea, diceva – e gli occhi lucidi erano ormai cerchiati da due sottili occhiaie nere appena visibili.

Ed erano solo le cinque e mezza del mattino. Praticamente ancora notte.

Sospirando, John prese un asciugamano pulito dal mobiletto, bagnandone una parte sotto l’acqua per poi premerla piano sul volto e sulla fronte dell’altro, chinandosi sulle ginocchia. « Va un po’ meglio? » chiese, rinfrescandolo.

Sherlock sembrò gradire il contatto con l’asciugamano freddo e annuì appena.

Una volta sinceratosi che gli attacchi di nausea sembravano passati, John lo aiutò a risollevarsi da terra e lo portò nuovamente a letto.

Non appena toccato il cuscino con la testa, Sherlock si addormentò. Doveva essere sfinito, oltre che debilitato dall’influenza, che aveva tirato fuori le unghie già dalle prime ore.

Obiettivamente, per un virus attaccare l’organismo di Sherlock non doveva essere difficile. Con tutti i modi in cui non si curava di se stesso, probabilmente aveva trovato vita facile nelle abitudini poco sane dell’ospite.

Tuttavia, rifletté John, nonostante gli vedesse fare cose al limite del possibile quella era la prima volta che lo vedeva malato. Doveva avere davvero una salute di ferro.

Di conseguenza, quello doveva essere un super-virus.

Decise seduta stante di battezzare l’agente infettivo col nome di “Jim” (chiamarlo “Moriarty” gli sembrava morboso), credendo così di scatenare una reazione del sistema immunitario di Sherlock, che avrebbe fatto di tutto per non essere da meno, risvegliandosi dall’inattività e combattendolo fino a completa guarigione.

E lui cominciava seriamente a soffrire di deprivazione di sonno.

Si strofinò gli occhi con la rassegnazione di chi si crede sull’orlo della psicosi, poi si avviò a passo leggero verso l’esterno della stanza. Non spense l’abat-jour, nel caso che Sherlock avesse bisogno.

Tornato in cucina si preparò una violenta dose di caffeina liquida, riempiendone una bella tazza, e quasi allo scoccare delle sei accese la televisione e si sistemò sulla sedia del tavolo, di fianco al proprio notebook spento. Se si fosse messo in poltrona probabilmente avrebbe ceduto al sonno, e con Sherlock nei panni di un untore non ne aveva la minima intenzione.

Tenendo il volume al minimo, fece zapping finché non incrociò il telegiornale mattutino della BBC.

Bastò il primo fotogramma per fargli andare di traverso il caffè.

Neve. Stava passando una carrellata di immagini di una Londra ricoperta da una fitta coltre bianca, con in sovrimpressione la scritta “nevicata record su Londra”.

Con uno scatto degno di un atleta olimpico piantò la tazza sul tavolo, tuffandosi verso le finestre che davano su Baker Street; la strada era completamente bianca, tanto che si faticava a capire dove finisse il marciapiede e cominciasse la carreggiata. Gli spazzaneve erano già passati, ma era evidente che avessero avuto poco effetto.

Impervie Condizioni Atmosferiche 1, Servizio Pubblico Britannico 0. Palla al centro.

John fissò a bocca aperta i fiocchi cadere copiosi dal cielo, scuotendo la testa in segno di diniego, scioccato.

Non poteva esserne caduta così tanta e tutta nel giro quella notte. Qualcuno doveva averla portata lì con dei camion-rimorchio per scaricargliela. C’erano sicuramente dei cannoni spara-neve a Regent’s Park. Centinaia. Con gittate di chilometri. Non c’era alternativa.

« Non posso crederci... » borbottò a se stesso, passandosi disperato le mani nei capelli. Neve voleva dire possibilità di movimento limitate, ovvero freddo e ghiaccio. I mezzi di Londra erano abituati alla neve invernale, ma era anche vero che causava ritardi degli autobus e problemi di circolazione dei taxi, che puntualmente venivano presi d’assalto dai cittadini che non si fidavano ad usare la macchina.

Ciò significava, quindi, che per ottimizzare il suo tempo avrebbe dovuto raggiungere farmacia e supermercato a piedi, e quindi ad impiegare il doppio (se non il triplo) del tempo che aveva programmato di spendere per quel sopralluogo fuori casa.

Anche se mentalmente, John Watson imprecò di nuovo.

E allora maledizione.

Si sedette nuovamente sulla sedia, riprendendo in mano il caffè e bevendolo tutto d’un sorso per pura disperazione.

Prima l’influenza di Sherlock, una di quelle infide e cattive, poi la neve a bloccare qualsiasi possibilità di movimento. L’unica cosa peggiore di tutto quel marasma sarebbe stata una telefonata di Lestrade per un caso, cioè l’unica cosa che gli avrebbe impedito del tutto di tenere Sherlock sotto controllo e fermo a letto.

Si pentì di averlo anche solo pensato quando, spezzando in due il silenzio del 221B, il cellulare di Sherlock prese a squillare.

John rimase fermo al tavolo per due secondi poi, sgranando gli occhi terrorizzato dallo svolgersi degli eventi, impalò di nuovo la tazza sul tavolo e scattò in direzione della porta della camera, dove Sherlock aveva già preso fra le mani il telefonino.

Gli si tuffò addosso come un giocatore di rugby in cerca della palla ovale, riuscendo a strapparglielo di mano prima che rispondesse.

Ma Sherlock era... beh, era Sherlock Holmes. Aveva già letto il nome sul display. Sapeva già tutto.

« È Lestrade! » gracchiò il moro, perdendo la voce nel tentativo di alzarla.

« No, non è vero, hanno sbagliato numero! » mentì spudoratamente John, inginocchiato sul materasso, alzando il cellulare ancora squillante sopra la sua testa per tenerlo in tutti i modi possibili lontano da Sherlock.

Sherlock che, spudoratamente e con una rinnovata energia, si arrampicava sul suo corpo per raggiungere il piccolo aggeggio squillante. « No, è Lestrade! È un caso! DAMMI IL TELEFONO! » si intestardì il detective, cominciando a sfruttare i centimetri d’altezza in più per sovrastare Watson, che si trovò a doversi inarcare all’indietro per impedire all’altro di prendere possesso del cellulare.

« Dovrai calpestare il mio cadavere prima che io molli la presa! » si impuntò il medico, sempre più inarcato.

« John Hamish Watson, dammi quel telefono! »

« Sherlock Holmes, torna a letto! »

« No! » ribatté prontamente il detective, trapassandolo con quegli occhi disarmanti: « dammi il telefono, John! » ripeté.

Ma il soldato non si fece incantare. Solo che non era fatto di gomma, e di certo non aveva tutta l’elasticità di quando era ragazzo e assumere posizioni come quella in cui si trovava al momento non era proprio consigliabile.

Arrivò il momento in cui i muscoli delle cosce cominciarono a tirare troppo, dunque a far male, e il fatto di avere il compagno praticamente steso addosso non lo aiutò a mantenersi in equilibrio; i suoi quadricipiti mollarono e, cadendo all’indietro, il dottore atterrò con la parte bassa della schiena sulla pediera per poi scivolare e andare a stendersi a terra ai piedi del letto, le gambe ancorate sopra al materasso.

Furono momenti di puro dolore in cui persino Sherlock smise di lamentarsi, osservandolo dal letto senza più la forza di dimenarsi. Lui rimase fermo immobile per qualche istante, pregando di non essersi schiacciato o fratturato qualcosa di importante dalle parti della spina dorsale.

Ci mancava solo quella.

Ma muoveva tutto, dita dei piedi soprattutto, quindi approfittò di quel momento di sfinimento di Sherlock per porre fine all’insistente suoneria. « Pronto? » rispose, notando subito Sherlock prendere a sporgersi verso di lui, allungando la mano in direzione del suo orecchio.

« Pronto... John? » la voce di Lestrade era stanca ma lievemente sorpresa.

« Già, ciao Greg » lo salutò il medico, piantando un piede sulla spalla di Holmes per impedirgli di raggiungere il cellulare.

« John, dammelo, ne ho bisogno! »

« Dacci un taglio o giuro che ti strangolo! »

« ...ho interrotto qualcosa, per caso? » domandò Lestrade e se John non avesse avuto l’unica mano libera fasciata e pulsante, se la sarebbe schiaffata sugli occhi.

« No, ispettore. Mi dica » disse il medico, faticando un poco per tenere Sherlock lontano dal proprio cellulare. Malato quanto vuoi ma era testardo come un mulo, maledizione!

« Avrei bisogno di Sherlock, in realtà... se non è troppo impegnato » ironizzò Lestrade, e Watson ebbe per un istante la voglia intrinseca di dirgliele quattro e anche otto.

« No ispettore, non è troppo impegnato, è troppo malato » gli rispose, sottolineando l’ultima parola.

Dato che Sherlock aveva finalmente dato fondo alla sua energia residua, messo a tacere dalla minaccia di un principio incipiente di nausea, John ebbe modo di spiegare la situazione a Lestrade, che decise saggiamente – probabilmente si era immaginato la situazione del medico e, nel profondo di sé, pregava per lui – di non chiedere nulla a Sherlock e tentare di fare qualcosa da solo, per quella volta. Tanto non era un caso importante, assicurò, stava solo “ubbidendo” alle direttive del consulting detective di procurargli qualcosa che scacciasse la noia.

Dopo i saluti di rito, John sospirò nel chiudere finalmente la chiamata, mettendo a tacere telefono e relativo proprietario. « Lestrade ti augura una pronta guarigione » soffiò a voce bassa, osservando la testa dell’altro che spuntava dal letto sfatto.

Sherlock mugugnò contrariato, un po’ per il caso perso e un po’ per la nausea tornata a tormentarlo. « Così mi uccidi, John... impedisci al mio cervello di lavorare, di pensare, di dedurre! » si lamentò.

« Se non ti metti dell’idea che da quel letto non ti muoverai per un po’, ti assicuro che proverai presto un’esperienza genuina di morte » asserì il medico.

Ore sei e dieci. Dieci come i minuti che gli servirono per ritrovare una postura eretta che non implicasse terribili fitte alla schiena.

 

 

4. Se si prevedono quattro possibili modi in cui qualcosa può andar male,

e si prevengono, immediatamente se ne rivelerà un quinto.

 

La zona lombare della sua schiena era viola. Ma non di un viola tenue da piccola botta disinteressata, era di un viola bluastro che urlava “questa volta ti sei fatto veramente male e sei un coglione”.

Tenendo sollevati i lembi della camicia a quadretti con i denti, girato con il busto all’indietro per poter vedere allo specchio sopra il lavandino il risultato della manovra da acrobata di poco prima, appoggiò delicatamente due dita sulla superficie livida.

Male. Alla minima pressione.

Aggiunse mentalmente una pomata per traumi nella lista ormai oblunga di farmaci che doveva comprare, insaccandosi la camicia nei pantaloni ed uscendo dal bagno.

Nel tempo che lo aveva separato dalle otto del mattino, e che Sherlock aveva passato facendo avanti e indietro dal letto al bagno a causa della nausea, John era riuscito ad elaborare una lista di quattro possibili problemi che, oltre a varie catastrofi naturali e alla caduta di un asteroide, avrebbero potuto colpire il 221B di Baker Street in sua assenza.

Primo: Lestrade che si trovava in seria difficoltà con qualcosa e decideva di piombare lì nonostante fosse stato avvertito delle condizioni in cui versava Sherlock.

Aveva risolto ricordando all’ispettore che lui poteva anche rappresentare Scotland Yard, ma il fratello di Sherlock era il Governo Britannico. Il Governo Britannico in questione, inoltre, soffriva di slanci protettivi “a distanza” nei confronti del fratello minore e ci metteva poco a cancellare da tutti i registri l’esistenza di qualcuno. Parole di Mycroft.

Secondo: Mycroft stesso. Se decideva di non farsi bastare i messaggi di John era capace di andare direttamente a Baker Street, cosa che John non temeva particolarmente ma che non si augurava.

Aveva risolto nel mandargli un sms (“Vado in farmacia, Sherlock è tenuto d’occhio da mrs. Hudson. Farò il prima possibile.”) a cui aveva ricevuto relativa risposta (- Dovrebbe lasciare a mrs. Hudson la sua Browning, dottore. Ne avrà bisogno. MH ).

Terzo: un cliente.

In realtà quella era stata la cosa più facile da risolvere; aveva semplicemente attaccato un cartello di fianco al campanello che decantava la loro impossibilità di ricevere clienti per qualche giorno.

Quarto: il sito on-line. A volte Sherlock riceveva delle richieste lì e, se erano abbastanza interessanti, si metteva a risolvere i casi che gli venivano presentati.

Per ovviare al problema consegnò il cellulare di Sherlock alla padrona di casa e portò i loro computer nella sua camera al piano di sopra, chiudendo la porta e mettendosi la relativa chiave in tasca. Non era convinto che lo avrebbe comunque fermato, ma contava sull’effetto distruttivo dell’influenza per impedirgli di fare effrazione nella sua ormai ex camera da letto.

Convinto di se stesso, una volta che ebbe fatto le ultime raccomandazioni alla padrona di casa, e dopo che lei ne ebbe fatte il doppio a lui, uscì dal portone avvolto in una sciarpa di lana grossa e si incamminò a piedi in direzione della farmacia e del supermercato più vicini.

Ci mise, come aveva previsto, quasi il doppio del tempo. Il farmacista lo guardò stranito quando snocciolò uno per uno i medicinali che gli servivano, ma in compenso la cassa automatica del supermercato quel giorno decise di graziarlo.

Quando uscì aveva cominciato a nevicare molto più forte e dal cielo scendevano veri e propri stracci bianchi grandi come noci. Si strinse di più nella sciarpa e, facendosi forza, ricominciò la camminata verso casa.

Non fece in tempo ad attraversare la strada che il cellulare prese a squillare.

Districandosi fra le varie buste della spesa riuscì ad estrarre il telefono dalla tasca e rispose senza nemmeno vedere chi fosse.

« John, buongiorno » suonò melodica la voce di Mycroft dall’altra parte dell’apparecchio.

Fu il panico.

Mycroft Holmes non chiamava mai se non era qualcosa di importante. Di solito, quando voleva parlare con qualcuno, mandava una macchina scura e metteva in atto un silenziosissimo sequestro di persona. Fu per quello che John capì subito la gravità della situazione, e non poteva esserci niente di più impellente se non...

« Cos’ha combinato? » chiese subito, preparandosi alternativamente o a correre o a imprecare – bensì per la terza volta in un giorno – o a fare entrambi.

Ebbe quasi l’impressione di vedere il sorrisetto compiaciuto dipinto sul volto del Governo. « Una passeggiata, a quanto pare. Deve essere riuscito a distrarre mrs. Hudson. I miei uomini lo hanno facilmente bloccato mentre arrancava alla fine di Baker Street » commentò, e solo quando parlò della sua personale squadra incursioni anti-Sherlock John capì il perché fosse così rilassato. Aveva sentito altre volte il tono agitato di Mycroft – per esempio dopo che avevano rischiato di saltare in aria dentro ad una piscina – e l’unica cosa che cambiava era che faceva molta, molta più impressione.

Se avesse avuto le mani libere, probabilmente Watson si sarebbe massaggiato l’inizio del naso per trovare un po’ di sanità mentale residua da qualche parte nel suo cervello. « Va bene, grazie » riuscì solamente a dirgli: « torno subito a casa » aggiunse, già pronto a correre.

« Stia attento al ghiaccio, dottore » disse semplicemente il maggiore degli Holmes, interrompendo la chiamata.

“C’è sempre qualcosa” pensò fra sé e sé, citando liberamente la stessa persona che lo stava facendo correre come un pazzo sotto una neve insana.

Quinto: l’immane testardaggine dell’individuo di nome Sherlock Holmes.

E a quella non c’era rimedio.

 

 

5. Lasciate a se stesse, le cose tendono ad andare di male in peggio.

 

Davanti alla porta un’automobile nera era posteggiata vicino al marciapiede, e due uomini in cappotto elegante ed occhiali da sole gli fecero un cenno con il capo, per poi andarsene lentamente.

Gli uomini di Mycroft, collegò subito John.

Rientrò al 221B con i capelli bagnati fradici, con sciarpa e pantaloni pieni di neve e le estremità corporee in preda ad un principio di congelamento.

Non si sentiva più il naso e le guance andarono a fuoco quando entrò in contatto con l’aria bollente dell’ingresso. Si tolse cappotto e sciarpa, agganciandoli alla bene e meglio all’attaccapanni dell’ingresso, e salì di corsa le scale a due a due, arrivando sul pianerottolo preparandosi ad assistere a qualche catastrofe.

La prima cosa che vide, tuttavia, fu la testa di mrs. Hudson, che gli si era precipitata addosso in preda ad una qualche crisi esistenziale abbastanza impellente.

« Mi dispiace, John caro, mi dispiace! » stava esclamando: « sono andata in cucina a preparare qualcosa di caldo e lui è riuscito a sgattaiolare via! Non credevo che sarebbe stato in grado di alzarsi, quello sconsiderato! Mi dispiace caro, John caro... » ripeté in preda all’agitazione.

« Mrs. Hudson, si calmi » intervenne subito lui; doveva darle qualcosa da fare, e la prima cosa che gli venne in mente fu la spesa. « Ora, che ne dice di darmi una mano? Lei vada in cucina a sistemare la spesa, io mi occupo dell’idiota in oggetto » le disse, passandole le buste che ancora pendevano dai suoi avambracci, dove praticamente avevano scavato un solco rosso sulla pelle sotto il maglione.

Lei annuì brevemente, prendendo in consegna il cibo e lasciando a John solamente la busta della farmacia. « È sul divano... » sussurrò lei, sparendo poi in cucina.

John si diresse a passi veloci verso il salotto, fermandosi però sulla porta. Sul divano, seduto a gambe incrociate e completamente avvolto in una coperta pesante di panno, Sherlock teneva gli occhi chiusi e il mento appoggiato al petto.

John era furioso. Avrebbe tanto voluto urlargli contro che era un deficiente, un cretino e un idiota, e che lì centrava poco l’intelligenza spropositata che si ritrovava, semplicemente non si poteva uscire sotto la neve con una febbre che dire “da cavallo” sarebbe stato un gentile eufemismo. Aveva veramente voglia di urlargli contro di farsi un esame di coscienza, se la trovava da qualche parte, ma quando fu sul punto di prendere fiato si accorse che Sherlock non era per nulla rilassato e anzi, stava tremando. Probabilmente di freddo.

La preoccupazione vinse sulla rabbia, che sparì in un soffio. Ancora una volta il suo maledetto animo da buon samaritano aveva deciso di evitare ai suoi nervi già molto provati di scaricarsi verso il coinquilino.

« Santo Cielo Sherlock... » soffiò teso, avvicinandosi all’altro a grandi passi: « si può sapere cosa ti è saltato in mente? Uscire nelle tue condizioni è praticamente un suicidio... » aggrottò le sopracciglia, chinandosi davanti a lui e mettendogli le mani sulle spalle.

L’altro, sentendo la sua voce così vicina, socchiuse gli occhi lucidi e stanchi: « Lestrade... il caso era... » borbottò, dovendo interrompersi perché i tremori che aveva gli fecero battere persino i denti.

John ringhiò la sua frustrazione, preferendo non dire nulla a parole. Ci avrebbe pensato quando Sherlock si fosse ripreso, a dargli un pugno nel caro vecchio stile militare su quel muso ingrato.

Appoggiò la mano non fasciata sulla fronte del moro e quasi dovette ritirarla per il calore. Ammetteva che le sue dita erano congelate, dunque sentiva molto più calore di quello che effettivamente era, ma a giudicare dalle condizioni in cui versava Sherlock probabilmente buona parte di ciò che aveva sentito era veramente febbre e non un inganno termico delle proprie mani gelide.

« Sei un’idiota » si lasciò sfuggire, allungandosi verso la propria poltrona a prendere l’altra coperta, quella di pile, mentre urlava alla padrona di casa uno scomposto ed irruento: « mrs. Hudson, prepari qualcosa di commestibile per cortesia! Devo dargli le medicine! ».

Per una volta la donna non rispose con la frase di rito (“non sono la vostra governante!”), probabilmente ancora preda dei sensi di colpa per non accogliere la “proposta” – che somigliava più ad un ordine – del medico.

Dal canto suo, John si limitò a mettere anche quella seconda coperta addosso a Sherlock, coprendolo bene per poi sedersi al suo fianco e tirarselo addosso, facendolo accomodare fra le sue gambe e appoggiato al suo petto.

Holmes vi si appoggiò senza rimostranze, facendosi anche spazio in quel petto caldo, e John prese a strofinargli la mano sana sulle braccia e sulle spalle, nel tentativo di riscaldarlo.

« Sherlock, ti prego, smetti di fare cose simili. Ti supplico. Per me. Prima che mi esploda una coronaria » sussurrò al compagno, continuando a scaldarlo.

Holmes, forse finalmente conscio che le sue condizioni di salute erano quello che erano (ovvero poco e niente), annuì contro il suo petto, aggiungendo un gracchiante: « se me lo chiedi così mi metti con le spalle al muro... » che fece sorridere appena John.

Se fosse riuscito a sopravvivere alla giornata, pensò con rassegnazione subito dopo, Dio o chi per lui avrebbe dovuto seriamente provvedere alla sua beatificazione.

 

 

6. Non ci si può mettere a far qualcosa senza che qualcos’altro non vada fatto prima.

 

Mrs. Hudson aveva preparato un passato di verdure molto liquido, per permettere allo stomaco sottosopra di Sherlock di digerirlo meglio. Lo aveva anche accompagnato con una fetta di pane tostato che però il detective non aveva mangiato, nauseato al solo pensiero di dover masticare qualcosa di più duro dei pezzettini minuscoli di carota bollita che la donna non era riuscita a frullare.

Dopo essersi accertato che quelle sei cucchiaiate di zuppa rimanessero all’interno del sistema digerente di Sherlock, John aveva potuto finalmente somministrargli i medicinali, cominciando con suo enorme piacere dall’antipiretico che sarebbe finalmente riuscito ad abbassargli quella febbre spropositata – aveva raggiunto i 39,5°C grazie alla “salutare passeggiata” che l’altro aveva avuto la brillante idea di fare.

Una volta averlo convinto a tornare a letto, impresa decisamente ardua nonostante tutto, aveva potuto dedicarsi a se stesso. Seduto su di una sedia in cucina disfò la precedente fasciatura alle dita scottate, spalmandoci sopra la pomata anti-scottature con un discreto sollievo. Riformò la fasciatura con garze e rete elastica, trovandola decisamente più resistente di quella approntata quella stessa notte.

Poi passò alla schiena e quella fu la parte più difficile. Tentò di fare tutto alla cieca – di chiedere una mano a Sherlock non ci pensava nemmeno, non ora che si era finalmente arreso all’evidenza e si era messo tranquillo – ma cercare di definire i contorni dell’ematoma solo tramite il tatto gli provocava un dolore continuo ogni volta che si toccava la schiena che era difficilmente sopportabile, per una mente come la sua che aveva perso buona parte della sua meritata nottata di sonno.

« Sarebbe più facile se chiedessi aiuto » la voce di Sherlock gli arrivò come una frustata dato che era immerso nei suoi pensieri, e sobbalzò appena quando la sentì.

Alzò lo sguardo, vedendolo in piedi accanto alla porta. « Pensavo di averti detto di riposarti... » lasciò cadere il medico, osservandolo rassegnatamente.

« Lo hai fatto » confermò il detective, ovviamente ignorando il significato sottointeso che sicuramente aveva colto ed avvicinandosi a lui a passo lento. « Girati e solleva la camicia » disse poi, afferrando il tubetto della crema.

John sospirò, facendo come gli era stato detto. Se Sherlock stava in piedi da solo era una buona cosa, in effetti, perché significava che il medicinale aveva effetto e la febbre si stava abbassando.

Sobbalzò appena quando sentì le dita fredde di Sherlock sulla pelle, rilassandosi mentre spalmava con delicatezza la pomata sull’ematoma.

« È stupido farsi male per un telefono » commentò il moro alle sue spalle, continuando il suo lavoro con tutta la delicatezza di cui era capace.

« Andare a camminare in mezzo alla neve con la febbre a 39 è ancora più stupido, mi dicono » rispose John, piccato.

« Chi te lo dice? ».

« Il buon senso ».

« Non è una persona » rispose subito Sherlock, staccando le dita dalla sua pelle solo per prendere un altro po’ di crema. Lo fece anche poco dopo: « Però ora mi sento meglio, e... » tentò.

« Non se ne parla » lo interruppe però John.

Sherlock sbuffò esattamente come un bambino a cui è stato proibito di andare fuori a giocare a causa della pioggia – neve, in quel caso. « Andiamo, John! Non è un caso difficile, ci metterò mezz’ora! » si lamentò.

John lasciò perdere la medicazione della sua schiena livida, girandosi per poterlo guardare negli occhi: erano ancora lucidi, le gote arrossate e la fronte leggermente sudata; si vedeva a prima vista che la febbre c’era ancora, seppure di un grado più bassa.

Il medico sospirò pesantemente, preparandosi a suicidare qualche nervo per riuscire a trattenere il compagno dal correre di nuovo a fare la maratona Baker Street - New Scotland Yard.

« Anche se ci mettessi due minuti compresi i saluti a Lestrade, non ho intenzione di farti uscire di qui » gli disse, appoggiandogli le mani sulle guance e guardandolo negli occhi – in quegli occhi azzurri praticamente debilitanti, for God’s sake, era un reato averli così.

« Me l’hai promesso, Sherlock » aggiunse poi, sperando di fare leva sul lievissimo senso di responsabilità che Sherlock sembrava avere quando si trattava di lui.

Si sentiva quasi in colpa a sfruttarlo in quel modo, ma se questo permetteva all’altro di non peggiorare la situazione in cui versava tanto valeva usarlo.

Vide Holmes prendere aria per ribattere, ma probabilmente lo sguardo di John gli recapitò il messaggio subliminale che stava cercando di comunicargli proprio con gli occhi. Alla fine Sherlock cedette, annuendo: « va bene » disse brontolando, ma almeno questa volta si era convinto del tutto.

John gli sorrise, approfittando della posizione per posare le labbra sulle sue in un veloce bacio. Tutte le volte che lo faceva, a causa della piccola ma essenziale differenza d’altezza, doveva sempre alzarsi un poco in punta di piedi... e anche se si sentiva una ragazzina, continuava comunque a pensare che i benefici fossero maggiori delle perdite.

Sherlock lo guardò sconfitto, tornando in camera. Nel tragitto però, che John osservò dalla cucina mentre si rassettava la camicia, il detective posò gli occhi sul tavolinetto vicino alla poltrona. « John? » chiamò poi.

« Cosa? » rispose l’altro, voltandosi.

Ciò che vide ebbe la capacità di iniettargli in vena un puro concentrato di terrore e panico.

Le bollette. Le maledette bollette della luce e del gas, che Sherlock teneva in mano, mostrandogliele.

Era l’ultimo avviso. Era l’ultimo giorno per pagarle.

Lo sguardo di John volò all’orologio a muro.

Era l’ultimo avviso, l’ultimo giorno e anche l’ultima ora in cui poteva sperare di trovare l’ufficio postale aperto.

Nei piani della mattinata, nei piani originari della mattinata, il pagamento delle bollette doveva avvenire esattamente prima di passare al supermercato.

Ma quelli erano i progetti di quando Sherlock non aveva la febbre, ovvero di quando il suo cervello non aveva ancora riformulato le proprie priorità dimenticandosi completamente delle bollette.

Ok, probabilmente non gli avrebbero staccato subito luce e gas ma... non era abbastanza coraggioso per testare la propria teoria.

« Va bene: vado » decise subito, afferrando cappotto, sciarpa, portafogli e bollette mentre si metteva le scarpe. Era già con la mano sulla maniglia della porta quando si fermò di scatto, andando a rivolgere a Sherlock un’occhiata torva.

« Tranquillo, non mi muovo » assicurò il detective, decisamente annoiato e seccato.

John decise di fidarsi della sua parola, precipitandosi giù dalle scale.

Povero, povero John Watson. La vita non gli aveva mai dato una mano e lui, d’altro canto, non aveva nemmeno mai cercato di spronarla a farlo. Riteneva già una “fortuna” (fra virgolette) l’aver incrociato il cammino di Sherlock Holmes, nonostante fosse un cammino tutt’altro che diritto e luminoso, e lui era uno che si accontentava, dunque non si sentiva in dovere di chiedere altro.

Nemmeno un po’ di fortuna. Che gli sarebbe servita quando, arrivato di corsa a qualche metro dall’ufficio postale, a causa della neve depositata non vide la fine del marciapiede.

Cadde, sbilanciato, appoggiando il peso sulla caviglia in fallo.

E quando sentì il “crack” era già troppo tardi.

 

 

7. Ogni soluzione genera nuovi problemi.

 

- Cosa hanno detto i dottori? SH

 

John sospirò leggendo l’sms sul cellulare, cercando con tutto se stesso di non alzare lo sguardo sul pronto soccorso affollato del St. Mary’s Hospital.

Non che ci fosse poi così tanto da vedere. La maggior parte delle persone era lì per il suo stesso motivo: erano scivolati su una dannata lastra di ghiaccio o non avevano visto uno stramaledetto scalino.

Seduto sul lettino da quasi due ore, John era appena tornato da Radiologia, dove un’infermiera gentile quanto robusta lo aveva aiutato a posizionare il piede da radiografare in modi impensabili. Aveva anche cercato di fargli il meno male possibile, ma non possedeva il dono delle mani delicate e John aveva quasi artigliato il tavolo di metallo su cui era stato steso, quando la donna aveva fatto il gravissimo errore di girargli la caviglia troppo in fretta.

Aveva ucciso per molto meno.

Tuttavia era riuscito a fare quei benedetti rx ed era poi stato messo su di un altro lettino, nel bel mezzo del pronto soccorso, in attesa dei referti. Non credeva che ci fosse qualcosa di rotto, ma in vita sua non aveva mai visto un piede diventare così blu e contemporaneamente gonfiarsi così tanto nel giro di un quarto d’ora.

Osservando proprio il piede in oggetto, sepolto sotto un sacchetto di ghiaccio secco, rispose al messaggio.

“Ancora niente, aspetto le lastre. Sei ancora a casa? J”.

Lungi da lui non fidarsi di Sherlock, ma aveva perfettamente idea di cosa fosse in grado di fare quando diventava cocciuto.

Il cellulare vibrò in pochissimo tempo, segnalandogli la risposta. Cosa buona, voleva dire che non era in giro a disobbedire ai suoi ordini tassativi.

 

- Ovvio. Quanto ci vorrà ancora? SH

 

John sollevò l’angolo sinistro della bocca in un mezzo sorriso. Aveva molte idee riguardo a come rispondergli, idee che normalmente avrebbero portato ad una conversazione romantica con un pizzico di sensualità palpabile nel mezzo, dunque ad un modo del tutto piacevole di passare il tempo in quell’ospedale.

Ma, per l’appunto, avrebbe funzionato se avesse avuto come compagno qualcuno che non faceva di nome “Sherlock Holmes”.

Non che non capisse la sensualità, solo la dimostrava in un modo più... fisico, ecco.

John scosse la testa, togliendosi dalla testa quei pensieri. Questo succedeva quando ad annoiarsi era lui, oppure quando si faceva mangiare il cervello da talmente tanta ansia che esso cercava disperatamente una via di fuga in pensieri di tutt’altro tipo.

In quel momento le sue meningi stavano disperatamente fuggendo dalla considerazione “Oh God ho lasciato Sherlock a casa da solo con l’influenza dopo reiterati tentativi di ribellione”.

Si massaggiò con la mano l’attaccatura del naso, limitandosi a rispondere all’sms in maniera normale.

“Spero poco, comincio ad annoiarmi. J”.

Come prima, la risposta fu quasi istantanea.

 

- Benvenuto nel mio mondo. SH

 

John sorrise, tuttavia scosse un poco il capo.

Era impensabile, per uno come lui, capire completamente il “mondo” di Sherlock. Non si era nemmeno avvicinato a comprendere la persona, figuriamoci ciò in cui viveva, ciò che pensava, ciò che provava. Non poteva vantarsi di conoscere così bene nemmeno se stesso, dubitava di riuscire a farlo con chiunque altro. E Sherlock non era e non era mai stato “chiunque altro”.

Glielo disse. Con un sms. Si sentiva in dovere di farlo.

“Temo di stare solo sfiorando il tuo mondo. Temo che non sarò mai in grado di comprenderlo davvero. J”.

Si pentì di cosa aveva scritto nel momento stesso in cui diede l’invio, probabilmente preda di dubbi e sensi di colpa che non avevano vero motivo di esistere, o forse perché con quelle semplici parole si era scoperto troppo.

La sua analista aveva avuto ragione, nel diagnosticargli dei problemi a riporre negli altri la propria fiducia. Con Sherlock era stato subito facile, subitaneamente piacevole, fidarsi, ma una delle controindicazioni nel non credere negli altri è che si è molto restii a parlare di se stessi.

Ed era diverso da quando Sherlock semplicemente deduceva le cose. Quello significava raccontare qualcosa di sé di propria spontanea volontà.

La risposta arrivò alcuni istanti dopo.

 

- Ne sei parte. SH

 

Fissò quelle pochissime parole come se fossero la più bella delle frasi. Come quelle citazioni anonime che trovi sulle carte dei cioccolatini e ti sorprendi che siano lì, stampate su di un involucro, quando invece dovrebbero far parte di un libro, o di qualsiasi altro scritto che potrebbe dare loro onore.

Tre semplici parole che non stavano bene sullo schermo di un cellulare. Che meritavano di essere scritte sulla vecchia carta da lettere ottocentesca con pennino d’oca ed inchiostro di ferro e galla, in quella bella grafia d’una volta.

Almeno, lui avrebbe davvero voluto che fosse così. Una visione romantica di qualcosa di piccolo e, forse, insignificante agli occhi d’altri.

« Dottor Watson? » chiamò una voce in avvicinamento, distraendolo dai suoi pensieri e riportandolo alla realtà. Un medico con pochi capelli e molto stomaco gli si avvicinò, il camice bianco svolazzante dietro ai suoi passi svelti.

« Sono il dottor Miles, ortopedico. L’infermiera di radiologia mi ha detto che parlo con un collega » gli disse l’ometto.

John appoggiò il cellulare sul letto accanto a sé, allungando la mano destra per poter stringere quella del medico: « John Watson, piacere » si presentò, nel rigido comportamento militare che non lo aveva mai abbandonato – e non ne aveva intenzione.

« Beh, dottore, ho i referti degli rx e non ha niente che non va » cominciò subito, tirando fuori le lastre da una busta gialla e passandogliele: « è solo una distorsione. Direi ghiaccio, una fasciatura durante il giorno e riposo per almeno 15 giorni. Se preferisce posso darle qualcosa per il dolore » gli disse, mettendo per riflesso la mano sulla penna nella tasca anteriore del camice.

« No, andrò benone. Sono felice di sapere di non essermi rotto nulla » disse semplicemente, alzando controluce le proprie radiografie e constatando che davvero non c’era niente di rotto, fratturato o anche solo lievemente incrinato.

E dire che aveva fatto un rumore inquietante, quando era caduto. E faceva anche un dolore pulsante quasi terribile.

Dopo qualche ultimo scambio si congedò dal medico, che continuò il suo giro di pazienti, e lui venne gentilmente accompagnato da un’infermiera all’uscita del Pronto Soccorso.

Una volta sulla soglia, però, si trovò in un piccolo impasse. Già che si era in tema di cose piccole ma fondamentali.

La caviglia gli faceva un male dannato anche se solo appoggiava in terra le dita, motivo per cui doveva rimanere con il piede sollevato. Era riuscito a mettersi la scarpa solo perché la fasciatura era ben stretta, ma senza allacciarla, e la stessa sorte non era toccata al calzino, che ora giaceva ripiegato nella tasca sinistra della giacca.

Faceva sempre freddo, c’era sempre neve, continuava sempre a scenderne. Non vedeva taxi e, anche se fosse stato, probabilmente avrebbe aspettato ore prima di riuscire a trovarne uno libero. Prendere la metropolitana era fuori questione con una caviglia così.

Ed era così che, da una soluzione, si creava un nuovo problema: come ci tornava, a casa?

La risposta gli arrivò prima per via visiva, poi tramite sms.

Un paio di uomini in completo nero e cappotto – urlavano “Microft Holmes” e “dipendenti al servizio di pezzi grossi del Governo” a chilometri di distanza – si avvicinarono a lui con passo spedito, subito dopo i quali arrivò anche la consueta macchina scura.

Una volta salito e aver salutato l’immancabile Anthea (e il suo Blackberry), prese il cellulare e guardò il messaggio, sorridendo sotto i baffi.

 

- Ho pensato che ti servisse un passaggio. SH

 

Se era disposto a chiedere un favore a Mycroft, per lui, allora aveva tutto il diritto di sentirsi davvero parte di almeno un piccolo anfratto della vita dell’unico consulting detective del mondo.

 

 

8. I cretini sono sempre più ingegnosi delle precauzioni

che si prendono per impedirgli di nuocere.

 

Rientrato al 221B, dopo una rampa di scale che nemmeno quando aveva il bastone era stata così faticosa da salire, si abbandonò ansante contro il muro subito al di là della soglia al primo piano.

Nonostante al pronto soccorso avessero provveduto a dargli un antidolorifico, il dolore alla caviglia era qualcosa di estremamente debilitante e pungente: se teneva il piede staccato da terra andava tutto bene, gli bastava semplicemente non muovere nulla (oltre alle dita); se invece appoggiava anche solo l’alluce sul pavimento, subito partivano delle scosse di dolore sordo lungo tutto il piede fino all’astragalo(1). Prima che lo bendassero, inoltre, aveva potuto vedere con orrore che l’effettivo ematoma prendeva tutta la parte esterna del piede e della caviglia stessa.

Si stupiva seriamente di non essersela rotta.

Con attenzione si tolse entrambe le scarpe, zoppicando in silenzio verso la camera da letto. Non c’era nessuno né in salotto né in cucina, e questo gli diede la sollevata impressione che finalmente Sherlock avesse capito quanto fosse utile rimanere a riposo e fare sì che gli antipiretici facessero il loro mestiere in santa pace.

Entrò dalla porta facendo il più piano possibile – per quanto poteva essergli concesso dalle sue condizioni – e notò subito Sherlock disteso fra le coperte. Una tazza mezza piena di tè ormai freddo era posata sul comodino accanto alle varie scatole di medicinali e da quella capì che mrs. Hudson aveva avuto la gentilezza – e il buon senso – di passare saltuariamente a dargli un’occhiata.

Appoggiandosi al comodino per essere il più delicato possibile si avvicinò a Sherlock, appoggiandogli il dorso della mano sulla fronte, scostando appena i ricci scuri. Era ancora caldo, ma gli sembrava lo fosse meno di quando era uscito. Il respiro era regolare e lo sguardo rilassato, segno che stava davvero dormendo.

Rasserenato da quella vista, sorrise.

A dire il vero, il suo ego abitualmente minuto e riservato si era figurato che Sherlock lo aspettasse in piedi, magari preoccupato anche solo la metà di quanto si preoccupava lui di solito, sarebbe stato più che sufficiente; poi la sua parte medica, ovvero quella che andava decisamente per la maggiore, aveva preso il proprio ego a bacchettate sulle mani e quella sorta di discussione interiore aveva avuto termine con il senso di sollievo che ancora lo invadeva nel vedere Sherlock finalmente dormiente.

Preso da un insolito attacco di dolcezza, John si abbassò a baciargli la fronte, per poi prendere pigiama e vestaglia ed uscire dalla stanza in penombra.

O almeno, l’intenzione era quella. Una voce lo fermò quando aveva già la mano sullo stipite.

« Zoppicare ti viene bene » ironizzò la voce profonda di Sherlock. John sorrise automaticamente.

« Mi sono allenato » rispose alla battuta, osservando poi l’altro dalla porta: « come stai? » domandò subito.

« Come prima » fu la breve risposta di Sherlock: « tu piuttosto. Non mi hai aggiornato. Cos’hanno detto al pronto soccorso? » gli chiese, gli occhi chiari che sembravano assorbire e riflettere tutta quella poca luce presente nella stanza grazie agli scuri socchiusi.

John fece spallucce. « Una distorsione, niente di che. Ghiaccio per oggi e quindici giorni di riposo » sminuì.

In realtà faceva un male fottuto, ma questo a Sherlock preferiva non dirlo, né darlo a vedere. In questo era bravo, dopotutto era riuscito a mantenere la calma persino quando si era accorto che gli avevano sparato.

Sherlock lo guardò attentamente dal letto, respirando dalla bocca socchiusa e parlando con una voce leggermente nasale: « riposati, John. Stai per collassare » affermò con sicurezza.

John scosse il capo. « Non preoccuparti, sto bene. Mi metterò in poltrona a guardare un po’ di televisione » disse.

Holmes non sembrò per nulla convinto di quelle parole, ma lasciò correre in onore della propria situazione di grave influenzato.

Vide John sorridergli dalla porta, l’espressione davvero stanca sia a causa della nottata che del dolore nei vari punti del corpo in cui si era fatto male. Gli avrebbe chiesto di stendersi accanto a lui se solo non si fosse chiamato Sherlock Holmes, motivo per cui non gli passò nemmeno per la mente di invitare John ad occupare, tra l’altro, quella che era effettivamente la propria parte del letto già da qualche settimana.

E non riuscì a trattenersi oltre: « ho invitato Lestrade a cena » disse.

John, dal canto suo, si bloccò nell’intento di fare un passo oltre la soglia.

Per un attimo l’immagine di Sherlock e Lestrade a cena da Angelo a lume di candela – quella candela, la candela di Angelo, la candela che Angelo metteva sempre sul loro tavolo, Angelo e la sua candela(2) – gli attraversò il cervello, ma fu subito smembrata e decomposta per essere sostituita da un improperio contro se stesso – ma cosa ti metti a pensare, John Watson?! – e da una domanda.

« Perché? » domandò, sembrando subito sospettoso.

Sherlock sorrise a quell’accenno di dubbio nella voce. Il suo John faceva progressi.

« Perché ha telefonato per informarsi sulle mie condizioni e ho pensato che non fosse una cattiva idea » gli disse, anche abbastanza approssimativamente. Stranamente approssimativo.

John lo osservò con la fronte aggrottata.

Se c’era una cosa che Watson poteva dire di Sherlock, era tutta chiusa nella frase fatta “genio è sregolatezza”. Ma Sherlock Holmes, passato da coinquilino ad amico a compagno in relativamente poco tempo, non faceva mai le cose “perché mi sembrava una buona idea” e questo lo sapeva fin troppo bene.

Inoltre Lestrade gli aveva giurato su New Scotland Yard che non avrebbe telefonato prima della settimana successiva. E sapevano tutti che da quando la moglie lo aveva definitivamente lasciato Scotland Yard era la cosa più vicina ad una famiglia che quell’uomo avesse.

Unire i pezzi del puzzle non fu difficile.

« Sherlock! » esclamò il medico, inorridito davanti al sorrisetto trionfante di Holmes a filo della coperta: « ti sei fatto mandare il caso a casa?! » esclamò sdegnato.

Il detective annuì piano. « Se dormo tutto il pomeriggio e prendo tutti i medicinali agli orari che mi hai detto tu, entro questa sera la febbre si sarà abbassata abbastanza da permettermi di stare sul divano e di risolvere il caso. Ci metterò mezz’ora, te l’ho già detto, non farmi ripetere l’ovvio, John! » disse, per poi continuare subito: « così io non mi annoio e tu puoi fare pace con te stesso e con il tuo karma interiore, che molto evidentemente ti sta giocando tiri mancini da tutto il giorno ».

« Io non credo nel karma, Sherlock » rispose duro il dottore, ma tutto ciò che ottenne fu un’alzata di spalle appena riconoscibile da sotto le lenzuola.

Il medico prese fiato per rispondere, o urlare, ma la sua mente non aveva voglia di collaborare così evitò semplicemente di dire qualsiasi cosa. Uscì dalla stanza per andare in bagno e godersi una bella e rilassante doccia, al termine della quale si sarebbe messo sulla poltrona con una tazza di tè ed un sacchetto di ghiaccio sul piede. Si sarebbe rilassato, finalmente. Sì.

« Comunque Lestrade viene veramente a cena! » sentì il suo coinquilino esclamare dalla camera, ma lo ignorò. Per il suo bene. E per quello del muro di mrs. Hudson. Aveva ancora la sua Browning nel comodino e quelli erano i momenti in cui avrebbe volentieri aperto un buco in fronte allo smile giallo dipinto sulla parete, colpendo con precisione millimetrica lo stesso punto di muro fino a che non si fosse aperto un varco con l’appartamento di fianco.

« Gli ho detto di portare cinese, John! » sentì di nuovo. « John?! » un’altra volta.

Lo ignorò. E anzi, pianificò la sua vendetta.

Raggiunse il cellulare sul tavolino accanto alla sua poltrona e digitò velocemente un messaggio. Destinatario: Mycroft Holmes. Oggetto: invito a cena.

Tempo un minuto, e proprio mentre stava per abbassare la maniglia della porta del bagno il cellulare di Sherlock squillò un messaggio.

« JOHN! » sbottò il moro dalla stanza, probabilmente venuto a conoscenza del nuovo invitato a cena.

Ridacchiando trionfante, John Watson entrò nel bagno e si chiuse la porta alle spalle.

 

 

9. Per quanto nascosta sia una pecca, la Natura riuscirà sempre a scovarla.

 

Sentì una mano scuotergli la spalla.

« John? » lo chiamò una voce famigliare, a cui però non rispose.

Stava facendo un bel sogno, anche se non se lo ricordava. Aveva appena smesso di fare un bel sogno e quella sensazione di serenità che si ha quando si è consapevoli di avere appena terminato un tour mentale in mezzo a cose piacevoli lo stava appagando, come se fosse una concessione amichevole di Madre Natura per scusarsi della giornataccia che gli aveva fatto passare.

« John, se continui così ti prenderai l’influenza anche tu » continuò quella voce: « cosa che, ahimè, preferirei evitare, visto l’individuo che mi trovo ad avere come consanguineo » disse ancora, dolce e melodica nella sua intrinseca e onnipresente cordialità.

« Ed ecco riassunto anche il pensiero dell’implicita controparte, che trova ironico il fatto che il cosiddetto “fratello maggiore” sia affetto da una spudorata pigrizia e da una facilità fisiologica nel trasformare carboidrati in grassi e, ovviamente, a stiparli in parti del corpo mai abbastanza nascoste dai completi eleganti » ribatté una seconda voce, questa volta più bassa e brusca, parlando a raffica in un solo respiro.

Voce che avrebbe riconosciuto ovunque.

« Gesù! Siete nella stessa stanza da un minuto e già state battibeccando? » si aggiunse una terza voce, più roca e dozzinale, unita ad una sferzata d’odore di cibo cinese.

Quando il cervello di John decise finalmente di abbandonare il dormiveglia, e aprì gli occhi, ricollegò le voci appena sentite a quelle di Mycroft, Sherlock e Lestrade.

Com’era prevedibile, una volta lavatosi e sedutosi sulla poltrona si era addormentato prima ancora di poter accendere la televisione. E lo aveva fatto in una posizione discutibile dato che era sistemato di traverso, con le gambe a cavallo del bracciolo.

La sua idea era di svegliarsi prima che arrivassero Greg e Mycroft. Anche perché era in pigiama. Ma evitò di dare peso alla cosa, dato che uno già si considerava suo cognato – nonostante gli avesse più volte ripetuto che non lo era (non ancora) – e all’altro sicuramente non importava poi più di tanto, vederlo in vestaglia e pigiama.

« Ringrazia che non si sono ancora azzannati, Greg » ironizzò John, aprendo gli occhi e ritornando del tutto nella realtà.

« Non siamo animali, John » appuntò il suo coinquilino, biologicamente seccato ogni qualvolta Mycroft era nella stessa stanza e respirava la sua stessa aria.

« Ironia, Sherlock » disse semplicemente lui.

« Ah. Ok » rispose l’altro, colto in fallo come ogni volta che si parlava di sensazioni ed affini.

John si rimise composto sulla poltrona, facendo attenzione a non sbattere la caviglia offesa da qualche parte e sfregandosi per un minuto le mani sul viso con l’intendo di togliersi dalla pelle gli ultimi residui di sonno.

« John, sono piselli quelli? » domandò Lestrade, appoggiando le tre buste del cinese sul tavolinetto e sedendosi nella parte del divano lasciata libera da Sherlock.

Evidentemente si riferiva al sacchetto di plastica trasparente pieno di piselli ormai scongelati che ancora albergava a cavallo del suo piede.

Il dottore annuì, osservando Mycroft accomodarsi nella poltrona di fronte alla sua, solitamente occupata da Sherlock, e accavallare le gambe con portamento elegante. « Non avevamo ghiaccio » borbottò come spiegazione, la bocca ancora un po’ impastata.

L’ispettore aggrottò un po’ le sopracciglia. « Va bene... ma perché i piselli? » domandò ancora.

« O questi o un sacchetto di alluci » rispose lui. Lestrade non chiese più nulla, probabilmente per evitare di arrestarli.

« Sarebbe interessante osservare il perché di quel sacchetto di piselli, piuttosto » intervenne Mycroft, allungandosi per primo verso le buste e pescando dal mucchio un contenitore a caso ed un paio di bacchette di legno usa e getta: « distorsione alla caviglia, vero? E poi lieve ustione sulle dita della mano sinistra e trauma alla schiena, probabilmente nella zona lombare » disse.

Tutto corretto, ma ormai John nemmeno si stupiva. « Non voglio nemmeno sapere come l’hai intuito » sentenziò, afferrando a sua volta un paio di bacchette e prendendo il contenitore a lui più vicino, non senza uno sforzo un po’ doloroso della schiena.

Fu Sherlock a fugare subito ogni dubbio: « a parte l’ovvietà delle dita fasciate si capisce che è una scottatura dal fatto che le dita non sono l’unica parte della mano interessata: infatti c’è un alone rosso sulla pelle del dorso, scottato a sua volta ma non coperto da alcun bendaggio, probabilmente per scomodità o perché non fa poi così male; per quanto riguarda la schiena John è un libro aperto: ha avuto una smorfia di dolore nel muoversi quando si è seduto composto sulla poltrona ed ha fatto particolarmente attenzione a sistemarsi in un modo che gli permettesse di tenere staccata la zona lombare dal resto della spalliera della poltrona, segno che fa ancora più male quando quella zona entra in contatto con qualcosa, segno a sua volta di un trauma muscolare da botta. Per la caviglia non è tutta farina del tuo sacco, dato che sono stato io a dirti che John si era fatto male questo pomeriggio, ma è comunque facilmente intuibile dal fatto che la fasciatura non interessa le dita dei piedi o il polpaccio e soprattutto non è gesso ma fascia elastica e garza. Dai voce all’ovvio, fratello? » snocciolò a velocità supersonica, attaccando le parole una all’altra come se fossero incollate.

Mycroft gli lanciò un’occhiata a metà fra il divertito e la superiorità: « potrebbe non essere ovvio per tutti... » lasciò cadere, riservando una piccola occhiata divertita a Lestrade, che per il bene dei suoi neuroni gli ignorò e prese la sua razione con le sue bacchette.

« Ora capisco come ti senti a stare intorno a Sherlock ventiquattro ore su ventiquattro, dottore, e sappi che ti ammiro per il coraggio che hai avuto a cominciare persino una relazione con lui » disse poi a John, afferrando l’unico contenitore in alluminio del mucchio e passandolo a Sherlock: « tieni, il rancio speciale degli ammalati ».

Il detective lo aprì. « Riso in bianco? » domandò retorico: « una botta d’originalità senza pari, ispettore » ironizzò poi, cominciando tuttavia a mangiare.

Solo in quel momento John realizzò che Sherlock si era messo addosso il maglione che aveva indossato lui quella mattina, e a quella vista sorrise appena.

« Un pettegolezzo che è ancora sulla bocca di tutti » intervenne Mycroft distrattamente, osservando il contenuto del proprio contenitore: « ...temo di non apprezzare i gamberi al limone » aggiunse poi.

« Se può andar bene il riso alla cantonese, quelli posso mangiarli io ».

« Volentieri, ispettore ».

Lestrade e Mycroft si scambiarono le pietanze mentre John, cercando di non far notare il leggero rossore alle orecchie, affondava le bacchette in mezzo ai pezzetti di pollo in cerca di una mandorla.

Tutte le persone a loro più vicine erano a conoscenza della loro relazione. Mycroft lo aveva intuito subito (anche prima di loro), così come aveva fatto lo spiccato sesto senso di mrs. Hudson. A Molly lo aveva detto Sherlock, usando una noncuranza incredibile mentre era distratto dall’analisi di un cadavere, così come lo aveva comunicato distrattamente anche nell’ufficio di Lestrade con Donovan e Anderson presenti, l’ultimo dei quali si era quasi strozzato con il caffè.

John si era limitato a dirlo ad Harry, che oltre ad una battutina sul fatto di averla raggiunta sull’altra sponda non aveva né infierito particolarmente né esultato eccessivamente.

Come ci si aspetterebbe da una sorella che senti saltuariamente e vedi esclusivamente a Natale, dopotutto.

Aspetta un attimo, cosa aveva detto?

« Quale pettegolezzo? » se ne uscì allora Watson, alzando gli occhi su Mycroft.

Quello, dal canto suo, sorrise lievemente e fece spallucce. « Nel mio staff lo sanno quasi tutti, e a Scotland Yard ormai è argomento di conversazione nella pausa caffè » disse.

John voltò scandalizzato il viso verso Lestrade, che annuì. « Ultimamente le pause sono abbastanza monotematiche » ammise con semplicità.

John trattenne il fiato, cercando con tutto se stesso di non assumere una tonalità troppo spinta di rosso.

Erano cose che detestava, le chiacchiere da ufficio ed i pettegolezzi. E non perché stava con un altro uomo, no, aveva detto chiaramente che non gli interessava e così era; quel disturbo patologico nei confronti del gossip era radicato in lui da tanto tempo, fin dall’inizio.

Odiava sentirle, odiava sentirne parlare, odiava prenderne parte e soprattutto esserne parte.

Probabilmente era ancora uno dei pochi uomini all’antica che se dicevano di separare lavoro e vita privata lo facevano seriamente, così come poteva considerarsi una delle ultime persone sulla terra che preferiva veramente che la propria vita privata rimanesse tale.

« Ah, a proposito » aggiunse Mycroft dopo aver deglutito: « anche mamma ne è lieta, anche se le sono serviti un paio di giorni per abituarsi all’idea » disse, così tranquillo e rilassato che sembrava parlasse del tempo e non della relazione amorosa omosessuale del fratello minore.

John fu a pochi passi dallo strozzarsi con un pezzo di pollo.

Ma gli altri lo ignorarono. « Abituarsi al fatto di Sherlock insieme ad un altro uomo? » domandò Lestrade, suonando interessato: « comprensibile ».

« No, ad abituarsi all’idea di Sherlock insieme a qualcuno » precisò il maggiore degli Holmes: « nostra madre è sempre in pena, per colpa di Sherlock; sempre preoccupata per lui, perché “non fa mai amicizia non nessuno, Mycroft, non voglio che passi la vita da solo!” » citò l’uomo testualmente, facendo sbuffare il diretto interessato.

« Beh, adesso il problema è risolto, ho John » ribatté piccato il minore degli Holmes, mangiucchiando qualche chicco di riso senza molta voglia di farlo realmente.

« Sì, e mamma vuole conoscerlo » disse Mycroft.

A John scivolarono di mano le bacchette. « Cosa? » domandò scioccato, la bocca aperta.

Sherlock evitò, per una volta, qualsiasi commento mentre Mycroft gli sorrise gentilmente. Ma non con la gentilezza standard del tipo “va tutto bene, non preoccuparti”, piuttosto con il tipo finto che usa il dentista quando sta per aprirti la gengiva con un bisturi per strapparti via il cocciuto dente del giudizio che non vuole uscire e fa un male del porco. Quella gentilezza tipica del “non preoccuparti, il proiettile ti ha aperto in due l’aorta per il lungo, ma ti salverai!”.

« Oh, non agitarti troppo » aggiunse il maggiore degli Holmes con un movimento leggero della mano, come a scacciare lontano da sé la preoccupazione dilagante di John: « è una signora a modo, non ha mai mangiato nessuno ».

« Finora... » aggiunse però, borbottando, Sherlock, e finalmente il dottore sentì tutto il residuo d’appetito entrare in relazione di proporzionalità inversa con il suo mal di testa nuovo di zecca.

I due esponenti del gene Holmes cominciarono un nuovo battibecco, ma per una volta Watson ignorò le lunghezze d’onda delle loro voci e si concentrò sul movimento circolare delle proprie dita sulla tempia destra. Dall’altra parte della stanza, Lestrade mimò in sua direzione un “mi spiace”, ridacchiando divertito.

Se solo non fosse stato acciaccato peggio di un incidentato e avesse avuto la forza mentale di alzare il sedere dalla poltrona, probabilmente avrebbe dato sfogo alla sua frustrazione prendendo a pedate un detective inspector di Scotland Yard e due fratelli fin troppo rumorosi.

Circondato da “non puoi permetterti di parlare così di lei”, da “è mia madre, ne parlo come voglio” e da “è anche mia madre, perciò portale rispetto!”, John considerò seriamente che Madre Natura doveva essere adirata con lui in quel periodo, oppure era il maledetto Karma che si prendeva la rivincita per chissà cosa.

Forse gli conveniva fare testamento.

Il suo istinto di autoconservazione, che gli aveva salvato il culo più volte ai tempi della guerra, diede l’ordine al suo cervello di sviare il discorso, nella speranza che Mycroft si dimenticasse della faccenda e non organizzasse un rapimento per il giorno successivo (o non appena la neve avesse smesso di cadere copiosa dal cielo londinese).

« Greg, non avevi portato il caso a Sherlock? » domandò, sovrastando con la voce quella concitata dei due consanguinei, che alla domanda tacquero contemporaneamente.

Lestrade lo guardò stranito, ma John annuì. Era consapevole di darsi la famigerata zappa sui piedi, di stare calpestando i suoi ideali di medico vecchio stampo “riposo ed antibiotici”, ma almeno la risoluzione di un caso avrebbe tenuto impegnato Sherlock e, senza un interlocutore della casta Holmes a fomentare le sue risposte, anche Mycroft avrebbe ceduto al piacere di una conversazione dai toni normali con persone normali.

Toglieva la legna dal fuoco, in poche parole.

Già si aspettava un rumore di scartoffie estratte dalla borsa e la spiegazione – assolutamente superflua con Sherlock in ascolto – di Lestrade... ma quel momento non arrivò mai.

« Oh, no. L’ho risolto da solo » disse Gregory Lestrade.

Nell’intero appartamento calò il più completo silenzio.

E mentre sul viso di Mycroft prendeva spazio un’espressione alla “mi hai stupito, ispettore”, e sulla faccia di Sherlock si faceva avanti lo shock interiore di una persona già destinata al tedio esistenziale, John si era semplicemente dipinto sul viso un sorriso spento e tirato, tipico dell’individuo che vede arrivare l’asteroide e sa che è tardi per rimediare in qualsiasi modo.

Fra tutte le cose che potevano andare male, solo una poteva andare peggio: Sherlock che rimaneva senza il caso promessogli.

L’unica, vera, pecca.

 

 

10. Madre Natura è una puttana.

 

Quando aprì gli occhi, la mattina successiva, era steso supino sul letto ed il bianco del soffitto gli faceva pizzicare gli occhi.

Li chiuse, poi li riaprì. Li chiuse e li riaprì di nuovo. Niente. Bruciavano alla vista del bianco illuminato dalla pallida luce proveniente dagli scuri dimenticati aperti la notte prima, quando aveva accompagnato a letto Sherlock con un’altra pastiglia di antipiretico e un principio di shock interiore dovuto al fatto di essere stato privato del caso tanto atteso.

Mugugnò contrariato ad un lieve mal di testa, allungando ad occhi chiusi la mano al suo fianco. Il letto era vuoto.

Probabilmente stava meglio, si disse quando prese coscienza di essere solo – come tutte le mattine in cui si svegliava, perché Sherlock a volte non dormiva, ma quando lo faceva era comunque molto mattiniero.

Avrebbe dovuto dirgli qualcosina sulla deprivazione di sonno, prima o poi.

Sospirò, cercando di nuovo di aprire gli occhi e questa volta ebbe più successo... con il soffitto. Già spostare gli occhi sulla finestra fu ugualmente fastidioso e, mentre si sollevava per mettersi seduto sul materasso, se li sfregò con la mano sinistra.

La coperta gli scivolò dalla maglia a maniche lunghe, scoprendogli il torso, ma quando fu completamente seduto si rese finalmente conto che qualcosa non andava. Si sentiva stanco, fiacco, aveva male ai muscoli – oltre che agli altri punti in cui si era fatto male il giorno prima, ma quelli erano “dettagli” – si sentiva la testa pesante e, se solo provava a guardarsi intorno, cominciava a girargli. Inoltre, e lo notò storcendo il naso, aveva i sudori freddi.

Era un medico, non ci mise molto a fare due più due con i sintomi.

« Non è vero... » soffiò in un lamento, lasciando perdere l’intenzione di alzarsi dal letto e buttandosi all’indietro con la testa sul cuscino.

Sensibilità alla luce, mal di testa, malessere diffuso, dolori articolari, sudore freddo... era lampante. Trascinando se stesso arrivò al comodino di Sherlock, afferrando con le dita il termometro e provandosi la temperatura. Quando fece il classico “bip” di avvertimento, se lo portò davanti agli occhi.

38,7 °C.

Davvero, davvero, divertente. Cazzo.

« Ma non è possibile... » borbottò contrariato, lasciando perdere il termometro da qualche parte nel letto e coprendosi fino al collo, girato su di un fianco e con le ginocchia al petto.

Cominciava a sentire freddo, aveva i brividi e, rendendosi conto di essere ammalato, la fiacchezza tipica dell’influenza gli era caduta addosso tutta in una volta. Forse aveva ragione Sherlock quando diceva che il cervello – o forse era meglio dire la volontà – guidava il corpo.

Beh, il suo aveva appena abbassato anche le ultime difese che gli rimanevano.

Chiuse gli occhi, deciso a dormire un altro po’ prima di affrontare effettivamente la sua condizione di influenzato, quando la porta della camera si aprì e Sherlock fece il suo ingresso.

Attraverso le ciglia, John lo osservò. Portava ancora il suo maglione, sopra il pigiama e sotto la vestaglia, notò. Probabilmente non se lo era nemmeno tolto per dormire, considerò poi, ritenendola una situazione più probabile.

Sherlock rimase in piedi a guardarlo, assottigliando poi gli occhi quando quelli azzurro ghiaccio del detective incontrarono i suoi socchiusi. « John? » chiamò, forse credendolo ancora mezzo addormentato.

« Sono sveglio » si limitò a biascicare lui, stretto nelle coperte.

« Questo lo so » rispose l’altro: « ti senti male? » aggiunse, probabilmente la traduzione di quel “John” che aveva pronunciato prima.

Non avrebbe mai capito come funzionava la mente di Holmes. Mai.

Dovette trovare dentro di sé molto coraggio, per dire quelle parole. « Ho la febbre » sibilò con il naso arricciato in un moto di rigetto interiore nei confronti di quell’ammissione di colpa.

Holmes, dall’alto del suo infinito metro e ottantacinque, piegò in un ghigno l’angolo destro delle labbra.

Questo, nel dizionario della comunicazione non verbale di Sherlock Holmes, equivaleva ad una risatina divertita.

« Ti prego, sta zitto » lo anticipò John, Sherlock si strinse nelle spalle senza però abbandonare il sorrisetto.

« Non ho detto niente » disse.

« Ma lo stavi per fare » argomentò John: « me lo sento nelle ossa, che lo stavi per fare. Dunque no, stai zitto » aggiunse seccato, sentendosi arrabbiato con tutti e con nessuno per la maledetta situazione in cui versava.

Non bastavano le dita scottate, un livido sulla schiena, una caviglia slogata, la neve, il ghiaccio e il freddo tutto condito con Sherlock che si prende l’influenza. No. Non bastavano.

Adesso anche lui aveva dovuto prendersi il virus influenzale.

E si era anche vaccinato, per la miseria!

Sherlock continuò a sghignazzare, salendo sul materasso e sedendosi a gambe incrociate accanto a lui, in silenzio.

John aveva improvvisamente cominciato da solo una battaglia contro i mulini a vento, forse in rimostranza metaforica contro una qualsiasi entità superiore che si divertiva a vederlo soffrire, e si rendeva conto che si stava comportando come un moccioso ma non gliene importava nulla. Tuttavia non gli ci volle molto per capire che, anche se non rivolgeva parola a Sherlock – a cui tra l’altro non riusciva a dare la colpa nemmeno della giornataccia passata ieri, perché lo aveva “accudito” veramente col cuore, e non per obbligo - non risolveva niente.

« Tu come ti senti? » gli chiese infatti, uscendo sconfitto dalla guerra che aveva appena cominciato contro se stesso.

« Meglio » gli rispose Sherlock: « la febbre è a trentasette e due, praticamente nulla, e mrs. Hudson sta preparando la colazione per entrambi... anche se dovrò dirle di non fare la tua parte » disse, cogliendo la smorfia disgustata che John aveva fatto non appena aveva sentito nominare un’ipotetica colazione.

Il detective allungò poi la mano sulla sua fronte, passando in una carezza un po’ impacciata il dorso fresco della sua mano anche sulla guancia di John, che si beò di quel contatto.

« Te la sei provata? » gli domandò poi, ritirando la mano con dispiacere del medico.

« Trentotto e sette » disse quello, riaprendo gli occhi o guardando l’altro.

« Ma non avevi fatto il vaccino? » chiese allora l’altro, ancora piacevolmente divertito dalla situazione.

John sospirò, tornando a chiudere gli occhi per il fastidio alla luce. « Probabilmente è un altro ceppo » considerò. La maggior parte delle volte era proprio quella, la causa dell’inefficacia del vaccino anti-influenzale.

« Madre Natura che l’ha con te ».

« Madre Natura è una puttana ».

Questa volta, alla battuta di Watson, Holmes rise. Una risata breve, bassa e vibrante, che però fece stirare anche le labbra di John in un lieve sorriso.

« Sherlock, stenditi » disse poi il medico, all’improvviso.

Il detective lo guardò per un istante, per poi stendersi al suo fianco, girato verso di lui. John, dal canto suo, tirò fuori il braccio sinistro dalle coperte e, avvicinandosi a Sherlock, glielo passò attorno alla vita appoggiandosi con la testa sulla sua spalla.

Sherlock, osservandolo durante tutta la manovra, fece poi la stessa cosa, circondandolo un po’ goffamente con entrambe le braccia.

Non ci era ancora abituato, a quel tipo di slanci affettivi.

« Non ti facevo così, John » gli disse poi, il mento appoggiato ai corti capelli chiari del medico placidamente sistemato fra le sue braccia.

« “Così” come? » domandò John, la testa nell’incavo fra collo e spalla di Holmes, incastrato come se quello fosse stato sempre il suo posto, creato apposta per lui.

« Così... dolce » ironizzò il moro, prendendolo lievemente in giro senza però cattiveria.

Scherzi da amante, pensò John. Sta migliorando.

« È la febbre... » rispose allora il dottore: « ...non rispondo delle mie azioni, quando ho la febbre » ironizzò.

E si sarebbe potuta aprire una parentesi infinita sui molteplici significati della frase che aveva appena pronunciato, ma sapeva che Sherlock non ci avrebbe mai pensato e lui non si sforzò nemmeno più di tanto a mettere in atto quella serie di pensieri poco casti che gli avevano attraversato la mente.

Voleva solo stare così: stretto alla persona più improbabile e strana della Terra che, in un modo a dir poco confuso e complicato, era diventato per lui la persona, quella per eccellenza, l’insostituibile.

Le dita pulsavano ancora, la schiena era un fastidio perenne, la caviglia faceva male continuamente. Aveva freddo, era debole e l’influenza. Tuttavia, nonostante tutto, stretto in quell’abbraccio impacciato poteva tranquillamente dire di sentirsi in pace con gli altri e, soprattutto, con se stesso.

Semplicemente, bene.

Il resto poco importava.

« ...oggi posso andare a Scotland Yard, vero? ».

Sospirando pesantemente, John Watson pensò che lo avrebbe volentieri strangolato.

 

Corollario di John H. Watson alla Legge di Murphy:

Evidentemente, anche Murphy ha conosciuto Sherlock Holmes.

 

 

 

 

 

~The END.

 

 

 

_________________________________________________________

 

In realtà sì, non vedevo l’ora di mettere quei quattro a mangiare cinese insieme. Era un mio sogno proibito.

Comunque, passando alle note:

 

1 – l’Astragalo è (se ho letto bene l’atlante) un osso della caviglia, di cui la punta dovrebbe essere visibile e percepibile al tatto nella parte esterna di entrambe le caviglie.

 

2 – Chi ha riconosciuto “Le Follie dell’Imperatore” alzi la mano! XD Per chi non ha ancora provveduto a vedersi quello splendido film Disney, ecco la frase che ha ispirato la citazione: “Ah, certo! Il veleno. Il veleno per Kuzco. Il veleno scelto appositamente per uccidere Kuzco. Kuzco e il suo veleno... Quel veleno?”

   
 
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