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Autore: juliaBarakat    20/02/2012    3 recensioni
Julie è una ragazza che tenta di far funzionare la sua vita e inseguire i suoi sogni in una realtà che le impedisce anche di respirare diversamente dagli altri; nella sua vita fondamentale è il ruolo del signor Purr, il suo marito degli Anni Cinquanta, e poi ci sono Mark e Suz, i suoi compagni di viaggio da sempre, grazie ai quali può inseguire il sogno di arrivare all'arena di Wembley. E infine, ma non per importanza, c'è Gerard, che diventerà un ponte sempre più solido per raggiungere i suoi sogni. Ma il ruolo che più è importante nella vita incasinata di Julie è quello ricoperto da tre band: gli Avenged, i 30 seconds to Mars e i My Chemical Romance, che da una passione adolescenziale si trasformeranno in amici, colleghi e fan del suo piccolo gruppo senza nome. Gli unici ostacoli nella scalata al successo sono i problemi familiari che sempre più gravano sulle spalle di Julie: i debiti del padre, i furti del fratello, il giro di droga e marijuana che gira in casa sua. Julie sarà in grado di abbattere tutte queste barriere per inseguire i suoi Guys on Stage e con loro i suoi sogni di una vita?
Genere: Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio, Synyster Gates, The Rev, Zacky Vengeance
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Anche quella mattina, avevo sperato che fosse l'inizio di un giorno diverso dal precedente. Speravo di non arrivare delusa, la sera, quando mi rendevo conto che anche quello era semplicemente stato un altro giorno fotocopiato e gettato negli appunti di uno studente disordinato.

Un raggio di luce attraversava la mia persiana rotta, e puntava dritto alla mia iride che risplendeva così di un verde smeraldo misto a una vena di marrone. Mi gettai il cuscino sulla faccia nel vano tentativo di riprendere sonno prima di andare a scuola. La sveglia non fu clemente neanche quel 13 febbraio, alle 6:45 suonò inesorabile. Vedere quel sei nelle cifre dell’orario mi faceva sempre pensare che era troppo presto, e l’istinto mi portava ad accasciarmi nuovamente sul cuscino vermiglio fino a quando a svegliarmi, interveniva mio padre.

‘Alzati sfaticata!’ urlò dal piano di sotto.

‘Buongiorno.’ Bofonchiai.

 Mio padre non aveva un istinto paterno, il suo unico problema da risolvere era di arrivare alla fine della giornata rivolgendomi la parola solo per dirmi, anzi urlarmi, di fare qualcosa per il solo piacere di rovinarmi l’esistenza.

Mi alzai e barcollai fino al piccolo bagnetto in camera che mi era stato concesso, dotato di un lavandino nel quale non sarebbe riuscito a lavarsi neanche un bambino di due anni, tanto era piccolo, e di un misero WC di seconda mano, che usavo solo quando ero in punizione o quando volevo evitare lo sguardo di Frank, mio padre, nelle giornate più cupe della mia vita scolastica.

Ecco che iniziava un’altra giornata, mi dicevo mentre le gocce di acqua scivolavano sul mio viso liscio. Osservai i miei occhi, i miei lineamenti che seppur poco marcati, erano quelli di una donna ormai, forse non matura, ma pur sempre una donna, che era riuscita a superare con valore quasi tutta l'adolescenza, senza riportare gravi danni cardio-cerebrali. Avevo diciassette anni, chiunque me ne avrebbe dati quindici, ma poco importava, io mi sentivo così vicina alla soglia dell’indipendenza che l’unica cosa che pensavo quando qualche parente mi staccava la guancia dicendomi ‘Sembri più piccola, tesoro’ , io dicevo semplicemente ‘Me lo dicono tutti, almeno io arrivata alla tua età non avrò problemi di rughe.’ Ci rimanevano tutti male, ma la volta dopo lo rifacevano.

‘Se fai tardi, non ti ci porto a scuola! Rimani fuori fino all’ora di pranzo, perché alle nove oggi aspetto qualcuno, CAPITO?!’

Mio padre urlava e sputacchiava, come tutte le mattine, perché non mi voleva tra i piedi durante i suoi incontri con qualche donna vecchia e ricca che gli avrebbe lasciato una mazzetta per andare avanti fino alla fine del mese.

Indossai i miei jeans e la mia maglietta dei Ramones e mi avviai in cucina, evitando il gradino traballante della scala senza passamano. Vivevamo in una catapecchia nella cittadina di Huntington Beach, California. Quando scesi in cucina, mio fratello era come al suo solito disteso sul divano a crogiolarsi con Space Invaders, l’ultimo gioco per la sua Play Station che gli era costato il suo stipendio, guadagnato a dire il vero senza troppa fatica nel panificio sotto casa, appartenente al sudicio zio di mia madre, Joe. Non avevo più mangiato quel pane, dopo aver visto qualche anno prima, che negli ingredienti era presente anche una certa dose di sudore dello zio.

Al posto mio in cucina sarebbe potuto entrare un granello di polvere, che non faceva alcuna differenza su quegli scaffali ormai pronti per fare da piccoli orti per verdure. Non dissi buongiorno, non ne avevo voglia, e nessuno poi me l’avrebbe ricambiato. In tavola c’era una confettura di pesche confezionata e a ben guardare, scaduta; due fette integrali e un bicchiere di latte che non aveva come al solito un aspetto invitante. Trangugiai comunque ciò che c’era, sicura di non trovare di meglio al mio ritorno da scuola e affamata dalla serata precedente, che avevo trascorso a casa di Suz, la mia migliore amica e membro della nostra piccola rock band, i 'Cigarette'. Io ero la chitarrista, lei la bassista e poi c’era Mark, un ragazzo che alla batteria era una bestia. Ci mancava il cantante, o la cantante, e per questo ci limitavamo a fare la parte sonora, organizzando di tanto in tanto dei provini per scegliere un cantante che potesse tener testa alla nostra, non per vantarmi, estrema abilità con gli strumenti. La serata precedente era stata rivolta proprio a quello, e si erano presentati nel garage di Suz i soliti cinque, che non riuscivano a capacitarsi di essere obbrobriosi per entrare in una band, seppure agli inizi, come la nostra. Li avevamo scartati, ovviamente.

Mi gettai lo zaino in spalla e uscii da casa con un bruttissimo sapore di latte andato a male. Mio padre non si preoccupava più di me e Adam, il mio fratello maggiore. Si premurava di fare lo stretto necessario per non avere sensi di colpa sul letto di morte, quando sarebbe arrivato, sicuramente molto prima delle sue aspettative se avesse continuato a fumare e bere in quelle quantità. Raggiunsi la fermata del bus e mi fermai, come al solito, a parlare con il signor Purr, un uomo sulla sessantina, gracile e dolcissimo, che reincarnava quasi perfettamente il mio ideale di uomo e di padre. Mi ripeteva che da giovane aveva avuto l’occasione di vedere live il gruppo che avevo sulla maglia, dai Guns’n’Roses ai Metallica, e mi suggeriva di partecipare ai live dei gruppi emergenti che gli sembravano davvero forti. Ridevo per la prima volta durante la giornata, e mi ritrovavo a pensare a lui da giovane, sicuramente bellissimo, con i capelli ormai tinteggiati d’argento, ma che erano sicuramente stati neri come la pece durante la gioventù, e con gli occhi azzurri, o meglio, quasi color del ghiaccio, che ancora a quell’età mostravano una luce rara tra quelli dei ragazzi della mia età. Più di una volta pensavo che se fossi nata negli Anni Cinquanta, avrei saputo che uomo sposare. Questo pensiero si scostava parecchio data l’evidenza: sarebbe sembrato bizzarro un matrimonio tra un sessantenne e una diciottenne che sembra ancora una bambina.

‘Oggi che cos’hai sulla maglia Julie?’ iniziava.

‘Sono i Ramones, signor Purr. Lei li ha visti?’ rispondevo speranzosa.

 ‘Ti prego, chiamami Gerard.’ Mi diceva lui, sorridendo e calcando così le rughe che sbucavano dall’estremità degli occhi. E continuava: ‘Ramones, sì, certo che me li ricordo. Li vidi una volta, mi pare, e fu uno dei concerti più belli ai quali ho assistito.’

Ricambiai il sorriso. ‘Mi sarebbe piaciuto venire a qualche live insieme a lei, davvero. Lei sì che è forte, altro che mio padre…’ esordivo.

‘Ma no ragazza mia, non dire così – diceva scompigliandomi i capelli – tuo padre sta semplicemente attraversando un brutto periodo, vedrai che passerà.’

‘Grazie signor Gerard, grazie davvero. Il mio bus è arrivato, a domani.’ E salivo, obliterando il ticket e agitando la mano verso quell'uomo che ogni mattina mi faceva sentire meno sola, immaginandolo con quarant’anni di meno, mentre mi teneva la mano e saliva su quel bus insieme a me.

  
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