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Autore: Mork    21/02/2012    4 recensioni
In cui una ragazza scompare lasciando dietro di sé una serie di fotografie enigmatiche, Sherlock incontra un altro Dottore, e due misteri vengono risolti: uno sovrannaturale, e uno ancora più inaspettato.
Ambientata dopo "The Hounds of Baskerville"
Genere: Angst, Romantico, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson , Sherlock Holmes
Note: Cross-over | Avvertimenti: Spoiler!
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Dopo più di un anno di convivenza, John Watson si era ormai abituato – anche se l’espressione da lui usata era “rassegnato” – a svegliarsi nei modi più improbabili: esplosioni e spari, gas venefici e fumo, urla di sconosciuti e versi delle più disparate razze di animali, per non parlare del violino. Così fu particolarmente sorpreso, quella mattina, di non sentire nessun rumore molesto tranne la propria sveglia e nessun odore che non fosse quello di caffè e pancetta.
La sua reazione istintiva fu una specie di gioia confusa, che si costrinse a stemperare in una più ragionevole circospezione mentre scendeva al piano di sotto: la gentilezza di Sherlock Holmes non era mai fine a se stessa.
«Non devi continuare a scusarti per il resto della tua vita, sai», disse, ancora insonnolito, sedendosi al tavolo davanti alla finestra, dove lo aspettavano un piatto di toast, marmellata, uova e pancetta. Non sapeva se essere sorpreso o meno del fatto che niente fosse bruciato.
«Non sto chiedendo scusa», gli rispose il suo coinquilino, allungandogli una tazza di caffè. John la prese, ma prima di berla pensò bene di annusarne il contenuto con attenzione.
«Né sto cercando di drogarti.»
«Oh bene»
«Anche perché se volessi farlo non te ne accorgeresti, quindi mi pare inutile essere sospettosi»
«Giusto»
Sherlock si lasciò cadere sulla sedia davanti a lui e aprì il portatile; il suo portatile, notò John con rassegnazione. Da qualche mese aveva smesso di cambiare la password ogni volta che poteva: era giunto alla conclusione che, più che un ostacolo, per Sherlock scoprirle tutte era diventato una specie di hobby.
«Trovato qualcosa di interessante?», chiese a testa bassa, continuando a mangiare. Non ottenendo risposta, alzò lo sguardo e vide che quello di Sherlock era fisso sullo schermo del computer, assente.
John lo conosceva abbastanza  bene ormai da poter distinguere quando stava riflettendo su un caso da quando era tormentato da problemi di ben altro carattere.
«Sherlock?»
«Cosa.»
«Stai bene?»
Per la prima volta in quella mattina, i loro sguardi si incontrarono. No, era evidente che qualcosa non andava. Sherlock aveva probabilmente pensato che ricreare un’atmosfera casalinga e tranquilla l’avrebbe mascherato, ma era stato così meticoloso nel suo camuffamento da renderlo palese. John provò una fitta di dolorosa commozione: era come guardare i goffi tentativi di un bambino di nascondere alla madre il guaio che aveva combinato. Deglutì e si sforzò di mantenere gli occhi fissi in quelli ferocemente inquieti di Sherlock.
«E tu come stai, John?»
«Come sto io?», ripeté l’altro senza capire, «Sto bene, direi. Che ti prende?»
«A volte vorrei avere un cervello come il tuo, John. Semplice, tranquillo, limitato...»
«D’accordo, vuoi dirmi che succede?»
«Vorrei saperlo anch’io»
John si prese un attimo per osservarlo attentamente, poi distolse lo sguardo con un sospiro. Sperò che fosse uno scherzo della luce, ma purtroppo sapeva di aver visto bene: Sherlock aveva gli occhi lucidi. Come quella sera. Avrebbe dato qualsiasi cosa pur di non vederlo ancora in quello stato; odiava non sapere cosa fare per farlo sentire meglio, odiava doversi limitare alle prime, stupide frasi che gli venivano in mente. Ma la cosa che odiava di più era la certezza che se anche gli avesse detto ciò che davvero voleva – che non doveva preoccuparsi, perché sarebbe sempre stato al suo fianco, si sarebbe sempre preso cura di lui, e non l’avrebbe mai lasciato da solo con le sue paure – non avrebbe avuto alcun significato per Sherlock. Sarebbe stato ignorato tanto quanto le frasi di circostanza; perciò tanto valeva non esporsi troppo.
«L’ho visto. Quella sera a Dewer’s Hollow», cominciò Sherlock, lo sguardo ora fisso sul tavolo, «Quando ho tolto la maschera a Bob Frankland, ho visto lui. Moriarty. Cosa mi sta succedendo?»
«Be’, c’era... quella maledetta nebbia, è normale che abbia fatto effetto...»
«Ma io non ho paura di lui.»
John si arrischiò a lanciargli un’occhiata e vide che lo stava fissando intensamente, il celeste degli occhi reso ancora più luminoso dalle lacrime; distolse di nuovo lo sguardo e si schiarì la voce: «No. Lo so. Ma magari hai paura di... quello che rappresenta per te.»
«Quello che rappresenta?»
«La possibilità di una sconfitta.»
Sherlock rise aspramente e nascose il viso nelle mani. John lo guardò di nuovo e stava per allungare una mano  per toccargli un braccio –  diavolo, almeno quello poteva farlo – quando l’altro riprese a parlare: «È assurdo. Ero sempre riuscito a controllarmi, a tenere le emozioni lontane da me; perché da un po’ di tempo non ci riesco più? Cosa c’è di diverso in me? Cos’è cambiato da un anno a questa parte?»
Ci fu una pausa terribile, in cui la tensione fra i due sembrò saturare l’aria. Il respiro di Sherlock era irregolare, segno che stava facendo un notevole sforzo per non scoppiare a piangere. Ma più del dolore, ciò che il suo viso esprimeva era il disprezzo verso quella sua fragilità; John non aveva immaginato che dopo il ritorno a Baker Street avrebbe avuto ancora i nervi così scossi. Dal canto suo, aveva i suoi buoni motivi per essere nervoso, se non spaventato: non lo stupiva il fatto che Sherlock non conoscesse la risposta alla sua ultima domanda, e se avesse potuto, anche lui avrebbe fatto volentieri a meno di ammetterlo. Non aveva idea di come fosse stato Sherlock prima di conoscerlo, ma era palese che da quando si erano incontrati qualcosa in lui era lentamente cambiato; anche se John faticava a credere di esserne il responsabile. Sherlock Holmes semplicemente non era il tipo da farsi impressionare dalle azioni tutt’altro che straordinarie di un uomo comune come John Watson.
A disagio, John si costrinse a borbottare: «Io».
«Tu?». Sherlock lo scrutò come se lo vedesse per la prima volta; «È colpa tua quindi.»
«Colpa? Lo dici come se ti avessi danneggiato.»
«Non è certo un vantaggio.»
John rise, sconfitto. Non poteva sostenere una conversazione simile.
«Avanti, John, a cosa servono le emozioni? Seriamente.»
John si leccò le labbra, soppesando la risposta. Cosa avrebbe potuto dire ad un uomo simile? Che sono le emozioni a spingerci ad agire, molto più della ragione? Che rendono un uomo quello che è?
«Rendono la vita più completa», buttò lì alla fine, sperando di concludere il discorso il più presto possibile.
«Completa? Completa di cosa? Di confusione, dubbi, rimorsi, contraddizioni, dolore, paura.»
«Oh andiamo, non puoi credere che sia solo questo. C’è anche speranza, e gioia, e... e amore...»
«Amore!», sghignazzò Sherlock, «Ma l’amore non è esattamente quello che ho descritto io?»
«Ci rinuncio», sbottò John alzandosi in piedi, «Cosa ne puoi sapere tu?»
«E tu quanto ne sai più di me? Perché spero che non ti innamori davvero di tutte le ragazze con cui esci, John, altrimenti dovresti spiegarmi quale vantaggio ci trovi.»
«Cerco solo di farmi una vita normale.»
«Perché, questa non ti va bene?», chiese Sherlock amaramente, con un sorriso beffardo «Oh, ma immagino che non regga il confronto con le emozionanti e innumerevoli meraviglie della vita normale. Banale, noiosa, stupida. Effettivamente ti si addice molto.»
In quel preciso istante, come un pacificatore che si mette in mezzo tra due litiganti, suonò il campanello, ma nonostante entrambi riconobbero quel suono come l’arrivo di un potenziale cliente, ci misero un po’ prima di reagire: Sherlock aveva distolto lo sguardo da John con un lampo d’irritazione e si stava massaggiando le tempie nel tentativo di calmarsi, mentre John faceva del suo meglio per fermare il tremito alla mano sinistra, uno dei souvenir che la guerra gli aveva lasciato.
Finiva sempre così, tra loro due. Un’intera relazione che oscillava tra attimi di comprensione reciproca e continui fraintendimenti; litigavano di rado, ma ogni volta la conclusione era sempre la stessa: una resa amara da una parte e una sconfitta annichilente dall’altra. Più tempo passava, più si avvicinavano, più diventava faticoso poi recuperare quell’armonia che tanto amavano – senza averlo mai confessato nemmeno a se stessi.
«Vuoi che lo faccia salire?», chiese John, spezzando la tensione.
Sherlock annuì, ingoiati di nuovo i suoi sentimenti, e si andò a sedere sulla sua poltrona come se non fosse successo niente.
Prima di scendere le scale, John si fermò sulla soglia e mormorò: «Grazie per la colazione», dando le spalle al suo coinquilino. Sherlock non diede segno di averlo sentito.
  
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