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Autore: Artemisia89    02/10/2006    4 recensioni
Ambientata ( e scritta ) direttamente dopo la puntata dell'appuntamento: ricordate la sigla di Dr. House? Quando scorre sullo schermo il nome di Jennifer Morrison, c'è l'immagine dell'ansa di un fiume, ci sono degli alberi che allungano i loro rami sull'acqua. E Allison è li' che si rifugia, per lasciar andare il suo amore nella corrente.
Genere: Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Allison Cameron
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Ombre sull’acqua

 

 

 

Non mi piace commiserarmi, tendo a non farlo mai, ecco perché ogni volta che la vita mi pone davanti a scelte impossibili, a decisioni che fanno tremare gli animi e possono anche far urlare dal dolore, io reagisco sempre con grande forza di spirito.

 

 

 

 

La pausa sta finendo, ma ho chiesto qualche ora di permesso.

Non l’ho chiesta a lui, questo potrebbe insospettirlo prima del tempo, e non voglio che lui sappia che sono palesemente fuggita – perché si, di una fuga vera e propria dal mondo, si tratta – per prendermi qualche attimo di raccoglimento.

Ho preso la macchina che avevo parcheggiato in disparte, più vicina all’uscita rispetto al solito.

Veramente, non avevo intenzione di concedermi queste ore di riposo, ma credo che la mia volontà abbia agito da sola, questa volta e io l’ho lasciata fare, glielo dovevo.

Ho appoggiato ad un appendiabiti il camice quindi, e indossato il cappotto – ci saranno ancora poche ore di luce, poi scenderà il buio e comincerà a fare freddo – sono scesa nel parcheggio e in silenzio ho preso la macchina per raggiungere l’ansa del fiume, quella con gli alberi spogli che neri, esili ed alti, si stagliano cupi contro il freddo cielo incerto di ottobre, per poi riflettersi sulla superficie, ombre scure sull’acqua che scorre.

 

Sul sedile accanto a me, c’è la mia piccola borsa nera.

Dentro quella piccola borsa nera di pelle, ci sono oggetti che quasi di dovere dovrebbero abitare una borsetta firmata di una donna come me.

Credo che dentro ci sia ancora un po’ di rossetto nel vecchio tubetto comprato da Rubinstein tempo fa, poi un pacchetto di fazzoletti, una penna, un bloc notes, dell’aspirina, chiavi, portafoglio.

 

Due fiori.

Due boccioli di rose bianche.

 

 

 

La strada per il fiume sembra breve, ma è più lunga di quanto ci si possa immaginare, e poi, in fondo, io me la sto prendendo con calma. Se andassi veloce e facessi un incidente, lui sicuramente non crederebbe ad una tragica fatalità, e per quanto io sia amareggiata e si, un po’ triste, per la serata di ieri sera, non ho alcuna intenzione di farla finita, né tantomeno oggi.

Sto semplicemente raggiungendo l’ansa del fiume, dove potrò sedermi e riflettere, raccogliendomi nel mio lungo cappotto di terra scura e pensare.

Vedo le ombre confuse degli alberi e dei palazzi che mi vengono incontro, e io, superandoli con la macchina, mi accorgo appena della loro presenza.

 

Il fiume è un corso d’acqua molto particolare per il suo genere.

Mentre l’oceano è così sconfinato da farti credere di poterne morire, il mare è una sua versione più piccola e più dolce, il lago è una gemma incastonata in luoghi sperduti, così ingenua e pura e onesta e così poco perfetta da ricordare me.

Il fiume è diverso.

Il fiume ha visitato tanti paesi e conosciuto tanta gente, ha raccolto le loro lacrime, si è sporcato del loro sangue.

Non è puro, né innocente. Sa essere torbido e reale, l’ideale per chi come me, non può più concedersi di sognare.

 

Freno e frizione, appena uno sbuffo di terra che si alza, polvere chiara nel bagliore blu del cielo, vedo in lontananza i rami degli alberi come un tessuto di un arabesco su uno sfondo azzurro mare.

Apro lo sportello e scendo, con il mio leggero e gravoso carico di ricordi, di parole da esporre in silenzio al mio placido uditore.

 

Le mie scarpe producono suoni quasi impercettibili sul selciato, mi bastano pochi passi ed ecco che arrivo in quel posto che a lungo ho scorto nelle mie corse tra una camera e l’altra dell’ospedale.

Raggiungo quella malandata panca di pietra e mi siedo, sentendo il freddo che mi penetra fin dentro le ossa: l’acqua scorre con andamento sostenuto davanti a me, ma vicino ai miei piedi, vicino alla riva, si formano dei piccoli gorghi, come parole brevi di incitamento.

 

 

 

 

Ieri sera non è andata poi così male.

È stato un fallimento completo a dirla tutta.

Forse, non avrei mai dovuto proporgli un’uscita insieme per farmi ritornare al lavoro. Credo sia stato un comportamento molto poco onesto, e ancor meno maturo, quasi il capriccio di una ragazzina che non riesce ad ottenere con mezzi più leali l’oggetto della sua brama: purtroppo a volte, l’amore fa fare cose pazze e il desiderio ci spinge a compiere scelte che vanno oltre il giusto senso del bene e del male.

Poco prima della serata Wilson è entrato nel mio studio: adoro il suo viso così gentile ed educato, lui si preoccupa veramente di Gregory, e lo fa sinceramente.

Lui ha creduto che io potessi ferirlo, ma sai, anche se  lo volessi veramente, non potrei farlo.

Io amo House, lo amo sul serio, senza nessun doppio fine. Non voglio sfruttarlo finché poi non avrà più niente da darmi, non lo getterò via quando finalmente sarà un uomo nuovo che non avrà mai più bisogno di un sostegno, né lo indurrò ad amarmi, a desiderarmi, a darmi quello che nessuna donna da lui mai ha avuto per poi abbandonarlo, sparendo come nebbia al tepore del primo sole del giorno.

In quell’ospedale lui è odiato, ma sopportato con grande facilità, perché in fin dei conti tutti quanti hanno bisogno di un vento sferzante di ironia e sano menefreghismo e anche se pochi, pochissimi lo ammetterebbero, House sa come rendersi indispensabile.

Con la sua aria così saccente e a volte indifferente, è un po’ il nostro simbolo.

C’è una nave che sta passando davanti a me, poco più di una barca, stipata di passeggeri con cappelli e macchine fotografiche. C’è qualcuno che punta l’obiettivo su me e gli alberi, sento il suono del flash che mi investe, qualche gabbiano vola sull’altra sponda, placidamente.

Mi da un po’ fastidio il pensare che l’immagine della mia tristezza diverrà al massimo uno sfondo per il computer di uno sconosciuto – io, tra gli alberi scuri, e la panchina di pietra vecchia, e le foglie che la corrente porta via e le ombre sull’acqua - .

 

 

 

Rovisto con lentezza nella mia borsa nera, e le mani sfiorano il rossetto e la penna, finché non toccano gli steli senza spine delle rose, con calma le porto fuori dalla borsa, nell’aria di Ottobre.

Le osservo un po’, notando qualche piccola macchia nel candore dei petali

merce avariata/merce avariata

e le faccio girare ancora un po’ tra le mie mani, poi alzo la testa, alzo il mio corpo, faccio qualche passo e mi avvicino ad un albero, la mia mano sul tronco, il mio sguardo sull’acqua.

 

 

 

Io non consumo la mia voglia di fare del bene amandoti, come potrò mai spiegartelo con le giuste parole, i giusti gesti, il giusto tono di voce?

Non sono un medico anche nella vita privata, sono una donna normale che si nutre di speranze, senza abbandonare il suolo, che prova affetto senza dimenticare il dolore.

Sono una persona normale.

Perdonami se mi sento attrarre da te, non è una cosa che ho scelto.

Ma se ti posso fare del bene, anche a costo di sentirmi mascherare il mio sacrificio, lo farò.

Anche a costo di veder morire in me tutto di quel sentimento che provo nei tuoi confronti.

 

 

Non voglio provare rabbia, non adesso, non ora che anche il dolore è così dolce da commuovermi.

Credo che il sole stia tramontando oltre i palazzi che mi coprono la visuale, ma vedo l’acqua che, ecco, diventa tutta dorata e così, mi dico che è il momento giusto di lasciar andare le rose, di lasciar andare te e il mio amore ostinato nella corrente e allora compio qualche passo, staccando la mano dalla forza equilibratrice dal tronco dell’albero, e le getto nell’acqua, te e il mio amore, te e tutta la dolcezza ingenua del mio essere, e le seguo con gli occhi quelle due rose appena sfiorite, appena ma inesorabilmente macchiate, finché la corrente non le trascina così lontano da ridurle semplicemente ad ombre incerte sull’acqua che diventa sempre più scura, riflettendo il cielo, riflettendo il mio spirito, più leggero, si, più libero si, ma più solo, ricordandomi che adesso, è proprio ora di raccogliere i cocci, tornare in macchina e attraversare ancora la soglia di quell’ospedale, dimenticandosi di quegli alberi spogli, di quelle rose annegate nel fiume come due amanti disperati, di quelle ombre sull’acqua che in fin dei conti, il mio occhio già non vede più.

 

 

 

 

FINE

  
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