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Autore: Lady Antares Degona Lienan    03/03/2012    2 recensioni
Alice Watson non sa cosa aspettarsi dall'estate. Di certo non quello che le succede il giorno del suo compleanno.
Genere: Azione, Comico, Dark | Stato: completa
Tipo di coppia: FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Di rose, d'estate.

 

 

Quando Alice si svegliò, quella mattina, la prima cosa che pensò fu che, seppur metaforicamente parlando, il mondo s’era capovolto. Come se fosse andato a testa in giù con una mezza capriola, dopo una scivolata. Ovvero sia: ti sembra tutto normale, ma ti senti storto. Non che il suo letto stesse cadendo dal soffitto e la lampada arancione si fosse accasciata sul pavimento, ma c’era qualcosa di disturbante persino nell’aria che le girava attorno.

- Uhm. – disse, mettendo i piedi fuori dal letto. Le piastrelle erano fredde (in ultima analisi, tutto al di fuori delle lenzuola era freddo) e l’aria le faceva pizzicare il naso. – Mamma! – chiamò per prenotare gli ultimi pancake della mattinata – poiché di solito, ovviamente, Alice era l’ultima ad alzarsi e l’ultima ad arrivare in cucina. – Mamma! – berciò di nuovo quando nessuno rispose.

Era palese che in casa Watson tutto il ritmo della quotidianità si era smarrito con l’arrivo dell’estate. Trattenne un brivido; perché faceva così freddo?

- Insomma! – si alzò e sciabattò fino all’appendiabiti, s’infilò la vestaglia e aprì la finestra. A dimostrazione del fatto che qualcosa non andava: troppi uccellini in cielo. Troppi canti d’uccellini nell’aria. Da far venire il mal di testa anche all’ottimista più sincero. Corrucciò le sopracciglia il più possibile e, quando ritenne che la sua fronte avesse assunto l’aspetto di un terreno il momento appena successivo ad un terremoto, sbatté la finestra per chiuderla. Con buona pace del ricambio d’aria: o lui, o il suo cervello. Si grattò un sopracciglio biondastro e gettò un’occhiata di sfuggita ai propri capelli, che al momento avevano la stessa forma di un covone di fieno (esposto ad una tormenta, per giunta). Ironia delle ironie, Alice era bionda. Proprio come quella del cartone della Walt Disney, proprio come quella del libro e proprio come ogni dannata Alice che si rispetti. Peccato che Alice odiasse le bionde: avrebbe stretto una mano al creatore del motto “L’unica bionda buona è una birra”, credeva fermamente che per affogare una della sua specie bastasse mettere uno specchio sul fondo di una pozza e, come se non bastasse, condivideva ovunque quel video di Facebook in cui “Bionda segretaria torna al lavoro dopo cinquant’anni”. Per nascondersi, aveva provato di tutto: dalle tinte più radicali, come il nero (e il risultato conseguito era stato quello di girare per mesi con l’impressione di avere solo quattro peli sulla testa, e pure incollati male) e il castano (perfetto fino a che non aveva iniziato a stingersi su un inquietante color diarrea), alle rasature impossibili (finendo per esser confusa con una fascista di quart’ordine, visti i vestiti che andava portandosi in giro sulla pelle), alle cuffiette in lana della nonna con tanto di fiore (troppo vintage, troppo alternativo, troppo bambina carina). Alla fine, rassegnata, aveva finito per tenersi i capelli così com’erano. Tuttavia: cercava di portarli nella maniera più casuale possibile.

Cosa strana e ancora più inquietante, se non altro combinati così erano originali: assurdi, importabili, ma originali. A riconferma del fatto che qualcosa non andava in quell’apparentemente mattinata perfetta, persino i suoi orribili capelli avevano finito per piacerle. Non c’è mai limite al peggio, si disse. Si auto fece l’occhiolino e poi scattò verso la porta di legno che la divideva dal resto della reggia ad un piano e mezzo in cui abitava da quando era nata, ai confini del quartiere B., che a detta di tutti era ormai il più chic di NY ma che quanto a sporcizia (inorganica ed umana) poteva fare a gara con la peggior cittadina del sud del paese. New York. La grande Mela che, al posto di farsi mangiare dal bruco, fagocitava qualunque cosa le capitasse troppo vicino, risucchiandola nella polpa e facendola marcire fino al centro del suo essere. Come sua madre, vera signorina dell’UpperEast-Side fuggita di casa per sposare l’uomo della sua vita (con in mano una carta di credito e poco più), che era finita a buttare tutte le sue speranze fuori dalla finestra insieme alle briciole dei pranzi e delle cene. Sua madre, bionda sfavillante dagli occhi più azzurri della città e dai vestiti più raffinati del circolo del golf, finita a lavar piatti per il marito cameriere – nemmeno troppo bello – che aveva incontrato ad un cocktail party in onore dei suoi ventuno anni. Che cosa squallida. Il padre, per carità, faceva il suo mestiere abbastanza bene. Era passato da cameriere a gestore di un locale ed era anche sopravvissuto alla fuga di un socio in affari, ma non aveva mai guadagnato abbastanza per passare quella sottile linea di confine tra benestanti e ricchi. Dunque, i Watson erano una famiglia benestante dalla casa sottilmente arredata ma non erano i ricchi dalla casa finemente decorata. C’est la vie, diceva il Signor Watson. Bella merda, commentava la madre stringendo istericamente una sigaretta tra le dita. Dal canto suo, Alice viveva benissimo così: i vestiti non le mancavano, gli accessori nemmeno e i quaderni neppure. Non c’era null’altro che avrebbe voluto possedere, all’infuori di se stessa: che, ovviamente, non possedeva. E non poteva nemmeno comprare.

Alla fine del giro filosofico di auto-analisi tirò lo sciaquone e ficcò la testa sotto il lavandino per bagnare il viso. Strofinò il viso fino a farlo diventare rosso e poi si asciugò, non prima d’aver cercato l’asciugamani a tentoni e aver fatto cadere almeno tre oggetti. – Porc! – si abbassò a livello pavimento: niente di rotto. Una Giornata Troppo Perfetta, pensò.

- Ti porterà alla morte… - cantò dimenandosi. Sculettò fino in cucina, attirata dal profumo celestiale che ne proveniva.

Quando aprì la porta poté solo notare quanto la luce fosse luminosa e tagliente prima di essere investita da un’onda d’urto in forma di urlo.

- BUON COMPLEANNO! –

Roba da non crederci. In men che non si dica fu attorniata dalla famiglia e abbracciata con forza. Sua sorella gemella Katherine (Katie per gli amici, Kat per i veri confidenti e Cat per chi le conosceva abbastanza bene per sapere che lei e Alice insieme erano come Alice nel Paese delle Meraviglie e lo Stregatto) le balzò addosso con uno scatto ferino degno di un atleta. Strano. Loro non si toccavano mai, se non per il necessario alla sopravvivenza.

Da adolescente anormale e amorfa qual era, Alice odiava il suo compleanno. I compleanni, a suo modesto parere, puzzavano, e anche tanto. Perché mai festeggiare un giorno qualunque, a cui era casualmente capitato di accadere mentre un esserino stava nascendo? Gli animali erano più intelligenti, poco ma sicuro: a loro dei compleanni gliene fregava assai poco, eppure vivevano benissimo, tranquilli e pacifici. Non era comunque quella la cosa più strana. I suoi familiari, vista la decennale esperienza, sapevano bene di doversi astenere da qualunque riferimento a festeggiamenti di ogni sorta. Generalmente in casa Watson il 19 di agosto si festeggiava il compleanno di Katherine e basta, la quale ogni anno, puntualmente, commentava: “Il vero giorno dell’anno in cui mi sento figlia unica”. Tant’è, ad Alice pareva di essere figlia unica per molti più giorni, eppure al commento non faceva altro che grugnire e stirare le labbra in un senso di rassegnata desolazione, per la serie, bella fregatura cara, ma questa è la sorella gemella che ti è toccata.

Che poi, a voler esser sinceri, era facile sentirsi perlomeno un’unicogenita, viste le forme di Katie. Occhi azzurri, capelli castani voluminosi e ondulati, fisico minuto ma dannatamente giusto nei punti richiesti. Il senso di straniamento per Alice era massimo: lei era un filino d’erba, uno sputino che si era dimenticato di evolversi in tridimensionale, una linea buttata in un universo 3D di cui non poteva far parte.

E adesso Katie la stava avvolgendo con un braccio, mentre l’altro le tendeva un bel pacchetto incartato continuando ad urlare “TANTI AUGURI SORELLONA!”

Questa era veramente l’estate più ridicola che le fosse mai capitata: e tutto questo solo in virtù di quei dieci minuti d’esistenze che stava attraversando al momento. Dalla stagione delle vacanze non era in fondo lecito aspettarsi solamente caldo, sole e ombrelloni? I brividi continuavano a squassarle il corpo.

Non solo il mondo si era capovolto. Per buona misura, aveva deciso di darsi alle montagne russe. Alice era furente. Provò a balbettare più volte qualche verso di protesta, ma non riuscì nemmeno a sentire la sua voce, tanto era potente quella degli altre tre membri dei Watson.

- Tesoro! – disse sua madre, - Visto che bella sorpresa per te?! –

Sorpresa un cavolo, si ritrovò a pensare Alice, ma strinse i denti e le elargì un sorriso di commiserazione misto a disperazione che le riuscì anche meglio del previsto. Sua madre sorrise in risposta alla sua smorfia.

- Che caz-, che DIAVOLO sta succedendo qui? – gridacchiò invece, la voce roca e impaurita. Temeva che i suoi genitori stessero per saltarle addosso tanta era la felicità nell’aria. Si guardò attorno e individuò agghiaccianti particolari che ancora non aveva avuto modo di notare, tra i quali: dei festoni a tema color rosa cicca, delle candele accese (e pericolosamente vicine ai precedentemente nominati festoni) e due torte – BEN DUE! – poggiate sul tavolo. Erano persino decorate.

- Abbiamo pensato di festeggiare i vostri ventuno anni in maniera speciale, facendo una festa per tutti! – spiegò il padre, Stephen, scuotendo le spalle.

Alice batté ciglio, terrorizzata. – Eh? Tutti…? –

Cinque secondi dopo, i Sorridenti Vicini stavano aprendo la porta che dalla cucina dava sul giardino, portando con sé piatti, posate e quant’altro. Katherine lanciò un breve urlo di gioia e batté le mani, saltando. Alice si sentiva svenire. Contò tre, quattro, poi sette, dieci e infine undici Sorridenti Vicini accalcati nella loro cucina, i volti tesi in uno spasmo che pareva un sorriso.

Ma che stava succedendo a tutti? Stavano sbagliando le dosi di Botox in città? Si guardò attorno temendo di venir circondata da quella gente poco raccomandabile che niente voleva se non la sua infelicità. Sentì l’asma raschiarle la gola e si costrinse a chiudere gli occhi. Okay, pensò, va tutto bene, i miei si saranno dimenticati che non voglio festeggiare il compleanno, non mi resta che dirglielo gentilmente e poi potrò salire in camera, con calma, con calma.

Quando riaprì gli occhi, scoprì che intorno a lei era silenzio. La stavano fissando tutti, e per tutti intendeva anche Spotty, il fidato pesciolino rosso della cucina, Colui che tutto ascoltava ma Nulla diceva. – Cara? – disse la signorina Whistley.

Alice si ricordava di lei, era stata la sua vittima preferita fino ai sei anni. I suoi nani da giardino finemente decorati erano presto diventati l’ideale bersaglio per i proprio fresbee, tanto che, alla fine, la povera signorina aveva dovuto desistere dall’intento d’avere sette graziosi nanetti sparsi per l’erba intorno al soggiorno. Soltanto Biancaneve aveva resistito, forse in nome di un’ipotetica alleanza che le vedeva entrambe annoverate tra le fila delle protagoniste Disney, povere sfigate destinate ad un futuro infinito di sorrisi e cerimonie e vestiti prefabbricati (o predisegnati, in questo caso). La signora Holmes, invece, era diventata l’obbiettivo prescelto dei suoi sette anni: lei e la sua casa di un originale colore rosso che era stato vittima di pettegolezzi fin da quando si era posato sulle pareti in legno della villetta monofamiliare. Il marito della signora aveva vissuto in Russia (almeno così si diceva, ma non ne si era troppo sicuri perché nessuno gli avrebbe dato mai abbastanza confidenza per scoprirlo, in fin dei conti) e si vociferava, dunque, che il colore della villetta fosse un omaggio al compianto compagno Khrushchev.

Tutto questo nel migliore periodo della sua vita, l’estate.

Alice aveva sempre pensato ad un fungo di quelli dei Puffi, bianco e rosso, che poi aveva scoperto chiamarsi Amanita Muscaria (ed essere tremendamente velenoso, oltretutto). Dopo aver scoperto le riserve di vernice nel retro della propria casa, Alice aveva fatto due più due con una facilità sconcertante. Le bombe a vernice bianca erano state la prima invenzione di cui andava fiera (e contava di registrarne il brevetto, prima o poi); la signora Holmes, inutile dirlo, non ne era stata così entusiasta, visto che da un anno a quella parte aveva passato tutti i suoi lunedì a coprire quelle buffe macchie biancastre sulla facciata della casa. Con l’acidità dei quattordici anni, Alice aveva pensato che probabilmente nessun altro lunedì era mai stato speso meglio in tutta la sua vita: anche perché, per quanto fosse una casalinga da tutta la vita, la signora Holmes non sapeva né cucinare né cucire, ma anzi!, confezionava dei pessimi vestitini sformati alle bambine di tutto il vicinato e poi s’offendeva se non le vedeva vestite con quelli per almeno una volta alla settimana. Alice e Katherine avevano (a detta di loro madre) due, se non tre foto in cui comparivano con quei vestiti. Al solo pensiero, la ragazza rabbrividiva.

Ritornando ai ventuno anni, invece, Alice trovò la Signora Holmes di fianco alla Cox, ferma con il suo pasticcio di materiale organico stretto tra le mani. Il puzzo doveva essere letale perché la Cox storceva il naso cercando – inverosimilmente – di orientarlo in una direzione più favorevole. La chiamavano la Cox perché nessuno aveva mai capito se fosse signora, signorina o vedova. L’uomo che tutti avevano chiamato il Signor Cox per anni – lei se lo ricordava, i baffi unticci e i capelli rossi fiammanti che ondeggiavano al vento stretti in una coda da donna – era sparito ad un certo punto nel nulla, lui e la sua auto blu vecchia di almeno vent’anni che quando partiva sputava e tossiva come una vecchietta. Una cara Wagon da collezione. La Cox era rimasta sola. Ogni tanto qualche coraggioso osava avventurarsi oltre le mura della casa, oltre quel cancello in ferro battuto che più che il benvenuto pareva preannunciare la Morte tanto era malconcio e vecchio stile, ma nessuno resisteva più di due o tre mesi.

La chiamavano la malinconia della Cox, che ogni tanto giungeva nelle case di tutti sotto forma di lamento o musica classica strappalacrime: era quella che faceva scappare gli uomini. Anche se, in realtà, Alice non ricordava mai di averla vista felice; gli occhi della Cox, per lei, erano sempre stati spenti come un lampione a mezzogiorno (semplicemente bagnati di luce riflessa). Sua madre diceva di ricordarla come una bella donna dai capelli neri come la pece mossi da curve tenere e dagli occhi castani, forti e dolci. A vederla così, pareva impossibile. Il grigio s’era impossessato di tutto, dai capelli alla pelle al sorriso. Chissà se sorrideva mai, ai nuovi uomini che si presentavano alla sua porta?, se li leniva con voci dolci prima di portarli in salotto e poi in camera da letto, a fare l’amore che in realtà era atto di dimenticanza e malinconia e disperazione perché l’uomo che lei voleva ed aveva amato non c’era più? Dicevano tante cose, sulla Cox, ma la cosa che l’aveva sempre impressionata era la diceria secondo cui la donna risucchiava via la felicità alle persone. Guai a parlarci troppo, che poi ti sentirai triste e solo. Alice se lo chiedeva spesso, se la Cox fosse veramente triste e sola. Se lo chiedeva soprattutto adesso, perché la Cox le sorrideva follemente (e stortava il naso per via del pasticcio della Signora Holmes) mentre le augurava Buon compleanno. Ebbe paura che le risucchiasse via la felicità (quel poco che le rimaneva dopo ventun anni di vita, santo cielo!) o che addirittura la stesse prendendo da lei.

Che sta succedendo a tutti?, si chiese per la ventesima volta in pochi minuti. Perché tutti sorridevano, perché gli uccellini cantavano, perché sua sorella Katie (Katie che sotto sotto la odiava e lei lo sapeva benissimo) continuava a tenerle la mano? Alice era inquieta. Non era quello che era pronta ad affrontare in una qualunque giornata estiva dal numero dispari e sfortunato.

Non teneva quella mano sudaticcia tra le sue da quando aveva nove anni ed entrambe andavano così fiere di essere in due che dovevano sempre dimostrarlo. Non erano uguali eppure si sentivano uguali, così identiche nell’essere da finire per essere simili persino all’esterno. Sorridi come tua sorella, dicevano loro. Sorridi come lei, proprio uguale, anche se non sei uguale a lei. E lei pensava sciocchi, sciocchi, noi siamo uguali, ma voi non lo sapete.

Poi era successo qualcosa, qualcosa che lei non si era aspettata: aveva capito che Katherine si sentiva sola e incapace di fare amicizie e che, per questo, si era attaccata a lei con disperazione. Poi aveva incontrato Annie Stock, alle scuole dell’infanzia, e aveva iniziato a parlarci. Alice ricordava distintamente di essere rimasta indietro, di voler rimanere fedele a quel legame così unico e particolare. Non aveva stretto altre amicizie, aspettava sua sorella tutto il giorno da lontano, la vedeva giocare con gli altri e anche se voleva piangere non lo faceva mai perché almeno sua sorella era felice.

Katie non era mai tornata, e mentre Alice aspettava, era rimasta indietro. Non capiva quando Annie si fosse sostituita a lei, ma un giorno aveva visto Katherine giocare con una bambina bionda che non era lei e la cosa le era sembrata quasi naturale. Allora, solo allora aveva pianto.

Comunque, tutto il dilemma filosofico che si portava dietro da undici anni a questa parte pareva essere risolto, perché sua sorella Katherine (quella stessa sorella che aveva sputato sulla sua amicizia e sul suo affetto senza nemmeno preoccuparsi di voltarsi indietro, una volta scappata) adesso le era vicina ed Alice, quasi inconsciamente, si stava stringendo a lei tramite quell’unione di mani che poteva non comunicare nulla agli occhi del mondo, ma che nell’universo delle sorelle Watson aveva un significato ben particolare.

Perdono? Pace? Affetto?

Quasi dimenticò di essere lei che avrebbe dovuto perdonare, lei che avrebbe dovuto concedersi i suoi momenti di furia e di rabbia: Katherine così vicina le parve comunque un dono. Anche se non era stata lei ad allontanarsi. Anche se lei stava ancora metaforicamente aspettando.

Le parve finalmente che quell’attesa straziante, durata e percepita in ogni suo secondo, si fosse finalmente esaurita. Pace.

Però, la Cox le stava sorridendo. Non era cosa da poco. Nonostante il naso storto e la sfumatura della pelle che ormai tendeva al verde nausea, quello che agitava le labbra della donna era indubitabilmente un sorriso. Assurdo. Assurdo come tutta quella giornata estiva, come gli uccellini che cantavano (troppo) al limitare di Brooklyn, come il compleanno che non si sarebbe mai dovuto festeggiare.

- Alice? – chiamò la madre. Solo allora la ragazza si accorse che teneva in mano anch’essa un pacchetto pieno di fiocchi color argento (il cui bordo destro s’era ormai sgualcito per la presa vigorosa e troppo nervosa) e dalla carta esuberante. Il suo sorriso ormai era crepato dall’ansia di una reazione negativa.

- Alice? – chiese la sorella.

- Cara? – gorgheggiò la Holmes, il pasticcio ben fermo nella presa da rapace.

- Sì. – disse lei. – Hem, grazie a tutti. E’… una cosa strana, questa. –

Sua madre stiracchiò una risatina isterica e il padre le batté affettuosamente una mano sulla spalla. Persino da quel breve contatto Alice riuscì a percepire il calore che s’irradiava dal suo palmo. Stephen era sempre stato un uomo caldo. Irrazionalmente, Alice aveva sempre cercato uomini con questa caratteristica perché ben sapeva (viste le innumerevoli esperienze dell’infanzia) quanto una stretta calda potesse comunicare conforto e protezione.

Suo padre era un uomo caldo e tutto in lui era fuoco. Peccato che la fiamma, troppo violenta per un piccolo uomo, si fosse estinta prima del tempo, lasciando dietro di sé solo cenere e qualche mucchietto d’ossa. Alice Watson aveva un padre che era il fantasma di quello che era stato. Lo ricordava energico nei suoi ricordi e poteva confermare una simile impressione grazie alle foto poggiate sulla mensolina del soggiorno (mensola che il padre stesso aveva affettuosamente intagliato per la nascita delle gemelle). Stephen Watson aveva un sorriso così caldo da sciogliere il vetro del portafoto: a volte, a guardare lo scatto troppo intensamente, si aveva l’impressione che tutto attorno ad esso fosse meno luminoso.  Però suo padre non era un buco nero, o meglio: non lo era ancora diventato, perché prima avrebbe dovuto collassare su se stesso. E al momento Stephen era solo una piccola nana bruna destinata a diventare un sasso spento (al contrario di Vanessa, che minacciava un’esplosione da Supernova di tipo II non appena avesse trovato qualcuno con cui collassare in felicità – magari proprio la Cox, il dubbio effettivamente rimaneva). E adesso, lui le aveva poggiato una mano sulla spalla. Alice si ritrovò catapultata in un mondo che ormai non le apparteneva più, il calore del padre e l’affetto della sorella. Solo sua madre sciatta come una casalinga priva di domestica riusciva ancora ad ancorarla alla realtà quotidiana. Perché tra il compleanno e la Cox che (ancora!) sorrideva c’era veramente da uscirne scemi.

- Insomma, - concluse – mi fa molto piacere avervi qui ma la cosa mi disorienta. –

- Dev’essere perché siamo tutti compressi in cucina. – obbiettò sua sorella. – Perché non ci spostiamo in salotto? Mamma? –

- Eh! – commentò Vanessa Watson. – Non sarà il massimo dell’ordine, ma andiamo. –

Ovviamente: il salotto era stato tirato a lucido e una mosca non avrebbe nemmeno osato posarsi sul mobilio per paura di finire accecata (data la brillantezza), ma la falsa modestia degli snob poteva sopravvivere anche a vent’anni di agi e comfort ridotti.

I festoni avevano invaso ogni angolo della stanza, compreso il mobilio abitabile. Alice scostò un AU di AUGURI per sedersi e poi si fece piccola piccola nella sua poltrona, la sorella al fianco.

- Dunque! – iniziò il padre.

- Dunque. – disse la madre.

Poi cadde il silenzio. A suo modesto parere, la penuria di festeggiamenti doveva aver compromesso le abilità di vaneggiamento di entrambi i genitori.

Katherine si schiarì la voce un paio di volte, promettendo l’inizio di qualcosa a più riprese, ma poi si limitò ad accomodarsi meglio sul sofà. Stavano per caso aspettando lei? Perché Alice da se stessa non si aspettava proprio niente. Sua madre spalancò gli occhi nella sua direzione e poi alzò eloquentemente le sopracciglia bionde, ammiccando. Si stavano decisamente aspettando qualcosa da lei. E in effetti, la stavano fissando tutti, un’altra volta, come in cucina dieci minuti prima. Cielo, che impressione.

- Beh, non saprei che dire. – ridacchiò imbarazzata. – Mi fa piacere che siate tutti venuti qui per farmi- farci una sorpresa. – più che altro stava per dire agguato, ma poi si era trattenuta. Il sorriso della signorina Whistley acquistò un altro paio di denti, segno che evidentemente tutti stavano, se non capendo il punto della questione, almeno apprezzando lo sforzo. – Insomma, il succo della questione è, grazie a tutti per essere venuti, e, uhm, grazie ai miei per aver organizzato questa simpatica festicciola. Ora potremmo tutti mangiare e, beh, occupare la bocca. – disse.

Sua madre la freddò con un’occhiataccia: lei rispose al fuoco nemico con una smorfia che pareva quasi di dolore. Il padre l’osservava con sguardo mite. Tipico, pensò Alice.

Katherine le ficcò il fatidico pacchetto in mano e lei lo prese, quasi stordita. Lo spacchettò con cura fino a trovarsi sul grembo un portafoto decorato a mano: conteneva una fotografia delle gemelle. Lo stesso sorriso, si ritrovò a commentare. Era proprio vero che certe cose non si dimenticavano mai. Suo malgrado. Katie le dedicò un’occhiata complice e poi l’avvolse in un abbraccio stringente. – Oh, Al! Sono così contenta che tu sia rimasta per la festa. –

Ci fu qualcosa, in quella frase, che le fece scattare una molla nella testa. Come se Katherine avesse detto una parola non menzionabile, come se in un istante tutto il loro rapporto si fosse capovolto (come il mondo. Come. Il. Mondo.) – Al? – disse. – Tu non mi chiami mai Al. –

Katherine fece spallucce e sciolse l’abbraccio. – Dài, - ridacchiò, - ti chiamavo così quando andavamo alla scuola dell’infanzia. – Alice strinse gli occhi ad una fessura e poi crollò il capo. – Non mi hai mai chiamato così. – insistette.

Sua sorella continuava a sorridere, come se nulla attorno a lei potesse crepare quell’atmosfera di felicità che la circondava e l’avvolgeva; come se niente potesse sconvolgerla. – Massì Alice, dài, non ti ricordi? Tu eri Al e io Cat, la bimba e il gatto magico. –

- Io sono sempre stata Alice, come puoi non ricordartelo? –

Si rese conto di essere patetica: eppure certi dettagli la colpivano nel profondo. Per quale motivo sua sorella avrebbe dovuto continuare a sostenere una cosa sbagliata?

Katherine fece spallucce. – Sarà come dici tu, ma secondo me ti sbagli. –

Oh no cara, no che non mi sbaglio, pensò lei. Ricordava tutto dei momenti passati con sua sorella, da quando lei le stringeva la mano così forte da farle male (per non sentirsi sola nei momenti più difficili) a quando se n’era andata, lontano e sempre più lontano, lasciando quella mano lì a raffreddarsi in solitudine. E lei a piangere come una sciocca che non aveva capito in tempo come sopravvivere.

- E’ come dico io. – sibilò.

Ancora prima che sua sorella potesse aprire bocca per replicare, Vanessa Watson fece precipitare in grembo ad Alice il secondo pacchetto. Era piccolo e non particolarmente compatto, ma tutti quei nastri facevano tenerezza. Sorrise. – Grazie mamma. –

Lei annuì. – Ti pare. E’ pur sempre il vostro compleanno. –

Alice chiese che ne fosse stato del regalo per la gemella, e la madre rispose che Katherine il suo l’aveva già aperto ieri. Il pacchetto rivelò una pinza per capelli finemente decorata dai colori sobri ed eleganti.

- E’ per i capelli. – spiegò sua madre, - così quando non ti piacciono puoi sempre legarli. – Alice dal canto suo non credeva alle sue orecchie. Sua madre che le consigliava di legarsi i capelli quando non le piacevano? Sua madre? La stessa donna che sfoggiava la sua chioma bionda (e quella della figlia) per tutto il vicinato? Quella donna?

Ora come ora, sentì veramente l’esigenza di alzarsi e di correre in camera sua. Spostò lo sguardo verso l’alto e si scontrò di nuovo con almeno una decina di sorrisi tra cui quello sempre più inquietante della Cox, che pareva star facendo sforzi disumani per tenere su l’impalcatura di pelle attorno ai denti. La ragazza si sentì quasi in dovere di farle due carezze sulla mano come ricompensa. Dal canto suo, Sthepen Watson stava tagliando la torta cioccolato e pere. Altro avvenimento straordinario.

La cioccolato e pere era la sua torta preferita, e la cosa non era un mistero per nessuno. Accadeva semplicemente che, essendo sua sorella allergica alle pere, nessuno aveva mai osato portarla in casa. E adesso, improvvisamente, ce n’era un’intera torta a meno di dieci metri? Improbabile. Avrebbe detto impossibile, se il dolce non fosse stato effettivamente sul tavolino del soggiorno, attorniato da snack di ogni tipo e di fianco (troppo vicino, per Dio!) al pasticcio della Holmes. Alice sperò che la puzza del suddetto non invalidasse il sapore della propria torta.

Perché quella era indubitabilmente la sua torta. Santo cielo.

Le girava la testa tante erano le novità che le erano state sbattute in faccia in una sola mattinata. Con somma vergogna per se stessa si accorse di essere ancora in pigiama, avvolta dalla sua vestaglia color bordeaux. – Mamma, - disse. – forse è il caso che mi vada a mettere qualcosa addosso. – Tutto si poteva dire di Vanessa Watson, ma non che non avesse gusto per il vestire: e di fatti, l’occhieggiò, poi storse il naso con fare disgustato e parlò: - Hai ragione. Mio Dio, non so come ho potuto permetterti di scendere in cucina conciata così! Vai subito a metterti qualcosa addosso e sistemati i capelli. E Alice!, - la richiamò mentre stava per prendere le scale – vedi di essere elegante. –

Alice grugnì. – Sì mamma. –

Mentre saliva le scale barcollando sentì distintamente la Cox salutare i presenti dicendo di dover scappare per adempiere a determinate faccende casalinghe. Tutti risposero sinceramente al saluto. Le persone che salutano la Cox, pensò fra sé e sé Alice, questo è veramente il mondo capovolto.

Quando arrivò in camera provò l’intenso desiderio di rifugiarsi sotto le coperte e poi nascondersi fino a che la giornata non fosse giunta alla sua naturale conclusione. Purtroppo erano solo le undici e mezza del mattino e temeva che il suo nascondiglio sarebbe stato scoperto troppo presto. Ripensò a tutto quello che era successo. La strana sensazione appena svegliata. La luce del mattino troppo intensa per essere vera. Gli uccellini (troppi) che cantavano con intensità non necessaria. I suoi genitori che festeggiavano il suo compleanno. La sua famiglia che sembrava una famiglia seria. Katherine che l’abbracciava e le stringeva la mano come se il domani non esistesse e il passato fosse solo una macchia da cancellare. Vanessa che le diceva di legarsi i capelli e vestirsi bene (anche se l’ultima uscita poteva quasi essere considerata normale). Suo padre, vivace e contento come non lo vedeva da un tempo. E la Cox che sorrideva.

Se un giorno qualunque avessero chiesto ad Alice Watson in quale stagione si sarebbe aspettata una simile e improvvisa svolta negli eventi più importanti della sua vita, Alice era certa che non avrebbe mai detto: in estate. I mutamenti erano più da primavera, da autunno, dove anche la natura accompagnava concettualmente mutandosi e trasformandosi più volte. I fiori fiorivano, gli alberi perdevano le foglie per poi ributtarle sei mesi dopo. L’estate, invece, era appiattita dall’afa e dal cielo perennemente azzurro; un temporale improvviso estivo non bastava per giustificare quel senso di trepidazione che li avvolgeva.

Affacciata all’armadio, Alice si concesse un momento per pensare. Almeno i suoi vestiti parevano normali: la cosa, per quanto ridicola, la tranquillizzò moltissimo.

L’accogliente marrone del cappotto la fece sprofondare in una calma indotta che le permise di respirare. Affondò il viso dentro un paio di maglioni appesi ad annusò l’odore tipico di lana misto alla naftalina che ancora conservava nel fondo della cabina. I suoi vestiti; ad Alice era sempre piaciuto pensare di sapersi vestir bene – in maniera alternativa, ma bene. Le piacevano i toni del marrone abbinati al rosso e al blu. Comprava milioni di sciarpe retrò solo per il gusto di avvolgersi qualcosa di morbido intorno al collo (come a compensare una dolcezza che non veniva dalla famiglia, né dagli amici).

Insomma, il suo armadio la faceva stare bene e le conferiva, in qualche modo, una migliore capacità di analisi. Dal canto suo, Alice ormai ne era più che certa: c’era qualcosa che non andava, ed era pure qualcosa di grosso. Non riusciva a liberarsi da quell’impressione di dolce ed appiccicoso che pareva galleggiare tutt’intorno a lei, soffocandola. Per quale motivo oggi, stranamente, avrebbero dovuto essere tutti ebbri di una felicità quasi fasulla da sembrare infine comica? Questo Alice non sapeva spiegarlo.

Eppure gli uccellini avevano cantato, gai e spensierati. I fiori erano sbocciati a mazzi. Poteva vedere il rosso fiammante delle rose che erano sgorgate (come getti di sangue vermiglio) dal roseto che costeggiava il giardino della Cox. La Cox, tra parentesi, stava appunto in giardino, armata di guanti pesanti e di un paio di cesoie ben affilate. Finalmente, pensò Alice, qualcosa di normale in questa giornata che pare colar miele da tutte le parti. La Cox era dedita ad attività tristi e deprimenti come suo solito.

Fuori casa, comunque, i saluti gratuiti verso la donna scoppiettavano entusiasti. Strano. Ancora più strano, la Cox rispondeva sorridendo. L’inquietante smorfia simpatetica della donna non accennava a calare d’intensità e gli occhi parevano vivi, accessi. Il mondo cercava di comunicare con la Cox, e la Cox interagiva. Altro che 2012, la fine della Terra era già arrivata e nessuno aveva avvisato l’umanità in toto. Bella fregatura.

Il cielo era limpido e terso, l’aria pura, le nuvole si rincorrevano senza mai oscurare il sole per più di dieci secondi. Era la giornata perfetta. Fu in quel momento che Alice si accorse di un piccolo dettaglio che, improvvisamente, rimise tutto quanto nell’ordine naturale delle cose. Per un attimo, la Cox perse il suo smagliante (ed inquietante) sorriso, e tirò le labbra nella solita piega dritta che le apparteneva. Solo allora Alice si accorse che la Cox stava tagliando tutti i boccioli delle rose. E poi: le rose non sbocciavano in primavera?

 

Alla fine la festa di compleanno si era esaurita in brevissimo tempo, giusto un paio di istanti ancora affinchè Alice potesse fare il giro dei festegiati con dei vestiti decenti e perchè sua sorella potesse ridacchiare un poco del suo viso sconvolto. La Cox ancora non si vedeva: evidentemente aveva deciso per una fuga definitiva (e Alice non aveva il coraggio di giudicarla per questo) piuttosto che per una pausa dal complesso lavoro che i suoi muscoli facciali stavano attuando.

La Cox che tagliava i boccioli di rose, ovvero sia, l'unico elemento che stonava in maniera evidente con la perfezione della giornata: inutile mentire a riguardo, la visione l’aveva quantomeno scioccata. Quando l’ultimo, Orrido Vicino lasciò il salotto dei Watson Alice crollò su una poltrona, decisa a non muoversi per almeno due anni di vita o giù di lì.

- Alice? – ovviamente sua madre non era d’accordo, come dubitarne. – Alice, cara, dovresti proprio andare allo store per prendere un paio di cosette, ecco, giusto due o tre… -; ovvero sia: munisciti di carrello e se proprio non ce la fai a venire a casa da sola, affida tutto alle sapienti mani della consegna a domicilio. Alice fece il punto della situazione, la lista della spesa stretta nel palmo. Non dare all’addetto delle consegne anche le uova, che poi finisce che ne viene fuori una frittata prematura come la volta scorsa. Aveva dovuto buttare anche la farina, visto lo stato in cui versava. Alice sapeva benissimo che, come recitava una cara vecchia filastrocca, il Karma è una vecchia puttana traballante, ma un colpo così basso proprio non se lo aspettava. E chi mai s’aspetta, d’altra parte, di essere spedita allo store a mille miglia da casa sua proprio nel giorno del suo compleanno? Ma soprattutto, perché sua sorella era esente dalla commissione?

- Io lavo i piatti. – chiarì sua sorella con tono leggero, alzando le spalle, come se le avesse letto nella testa. – Ma se vuoi facciamo cambio. –

Ironico scherzo del destino: Alice aveva una presa semplicemente disastrosa. Prima delle undici del mattino, in generale, le sue mani non collaboravano nemmeno se dovevano stringere un cucchiaino. Di tenere un piatto in mano senza correre rischi, fino all’una, nemmeno a parlarne. Alzò un sopracciglio, ironica, e poi crollò le spalle. – Come vuoi tu. –

Katherine rise e l’additò con un dito. – Come vuole il Karma, cara mia. –

E figuriamoci.

 

Non è che fare la spesa le pesasse più di tanto, figuriamoci: c’erano un sacco di cose assai più gravose e di cui non voleva nemmeno sentir parlare. Camminare per una decina di minuti e passare in rassegna sei o sette scaffali era una fatica che Alice era ben disposta a sopportare, pur di poter rimanere sola con se stessa. In casa si era lamentata; solo adesso comprendeva quanto confuso fosse il suo cervello e quanta necessità avesse di inquadrare la situazione in uno schema ben preciso.

Ad esempio, in che relazione stavano il sorriso della Cox e l’azione omicida contro i fiori compiuta della medesima? Questo Alice non lo sapeva. Una cosa era certa, tuttavia: qualcosa non andava nel verso giusto. Più camminava e più se ne convinceva, come se, ad ogni passo, ogni parola detta fra lei e la sorella, ogni sguardo scambiato tra i suoi vicini assumessero significati che ancora non aveva valutato.

- Alice? Alice Watson? –

Alice si voltò per cercare chi l’avesse chiamata e si paralizzò, un piede ben tenuto davanti all’altro e la mano stretta sui manici della borsa in pelle firmata che si portava appresso. Una Gucci: Gucci che, tra parentesi, al momento non valeva nemmeno la metà di quello che si era manifestato davanti ai suoi occhi. Ferma sul marciapiede, un’aria da Pasqua felice che nemmeno il Signore in persona, stava Annie Stock. Quell’Annie Stock che avrebbe voluto investire (e poi, per buona misura, aver pure l’attenzione di ripassarle sopra in retromarcia) fino al suo diciottesimo anno di vita.

Non che la Stock, dal canto suo, provasse sentimenti fraterni. Semplicemente, Alice era sempre stata una persona incapace di nascondere qualunque tipo di sentimento provasse, dall’odio all’amore. Specialmente l’odio. Se stavi antipatica ad Alice Warson, poco ma sicuro venivi a saperlo quasi immediatamente (via pettegolezzo o lancio di uova).

A quindici anni, Annie era stata letteralmente tempestata di marciume dalla gemella cattiva del duo Watson – e poi, inutile dirlo, ripulita dalla metà mancante. Per rappresaglia, un mesetto dopo (la vendetta è un piatto che va gustato freddo, ma mai surgelato), Alice si era ritrovata a mollo in un torrente, poiché una bici un po’ troppo frettolosa l’aveva buttata oltre l’argine. Simpatia portami via e, già che ci sei, raccatta su anche l’altra.

Che troia, si ritrovò a pensare Alice. Ha cercato di investirmi con la bici e poi, non contenta, m’ha pure fatto fare il bagno. Anche a ripensarci con un certo distacco, il nervosismo sismico della ragazza non diminuiva.

Quello che invece pareva essere assai diminuito era il coefficiente di aggressività di Annie Stock, la quale, non contenta di averla fermata e poi salutata, ora la fissava con sguardo bonario aspettandosi chissà quale convenevolo. Deve essere la giornata sbagliata di per sé, pace. – Uhm, Annie. – buttò lì, - Come va la vita? –

- Una faaaavola. – rispose subito lei, sorridendo. – Al momento lavoro in questo negozio di Lingèrie francese che non ti dico nemmeno, a LaPerla questi qui ci mangiano proprio sulla testa. – Alice dubitava che un negozio a Brooklyn potesse competere con le firme italiane, ma fece buon viso a cattiva sorte, sperando che Annie decidesse di levar presto le tende. – Dài. Che posto è? –

- Nonna Lulù. – disse Annie.

Alice aveva un paio di idee su come la catena Nonna Lulù potesse mangiare sulla testa di LaPerla, tra le quali una meravigliosa immagine di una vecchina calata dalla finestra sulla sua carrozzina volante (con la colazione in mano) e una fichissima LaPerla che passava casualmente là sotto.

- Oh! Beh, wow. Sono contenta per te, insomma, mi ricordo che hai sempre detto di voler fare quella cosa lì… - Quella cosa lì, ovvero sia, la commessa in un negozio di lingèrie per poter subodorare gli affari privati di tutti. – Già. – disse Annie. – Giusto ieri ne parlavo con la signorina Mentoza, che era passata per comprare un completino per la nipote che ha appena compiuto i diciott’anni e ha il ragazzo. Ma dico io, che nonna compra alla nipote un completo d’intimo?, manco gestisse una casa per sig –

Allarme pettegolezzo. Il terrore inghiottì la mente di Alice, che però fu lesta a trovare qualcosa da dire. E infatti, prima che Annie potesse dare della proprietaria di un bordello alla signora Mentoza, Alice trovò un argomento migliore. – Ma dài! E che mi dici del college? –

Annie Stock aggrottò le sopracciglia (ricordava benissimo quanto detestasse essere interrotta) ma poi scosse le spalle e si piegò docilmente sul cambio di direzione imposto dall’altra ragazza. – Tutto bene. – fece un’espressione sconsolata. – Anche se ho un corso di economia che proprio non va giù. –

Bello sapere che certe cose del passato ricompaiono nelle più svariate forme anche nel presente: ad esempio, ricordava distintamente un pomeriggio passato in camera sua a fare i compiti di matematica di Annie Stock, la quale, ora, tempo presente, trovava difficoltoso un corso di economia. Dicevano tanto del Karma ma era innegabile che alla fine c’era della giustizia a quel mondo. Anche se inizialmente si manifestava sotto forma di spesa.

- E tu? –

- Eh? – balbettò Alice.

- Che fai adesso? –

Bella prova, Alice, pensò. Che idea furba cercare di farla parlare d’altro usando la scuola come argomento. Ti daranno un premio, da tanto sei stata furba. E adesso? Mentire? Dire la verità e poi fuggire dagli occhi pietosi del mondo? Correre via come se avesse appena visto George Clooney nudo che passava per la strada, là davanti (o come se avesse avuto una leonessa ringhiante dietro le spalle?)? – Uhm. – disse. – Devo andare. –

La salutò con una mano e prima che quella avesse modo di dire alcunché si precipitò dentro ad un negozio a caso. Chiusa la porta vi si appoggiò contro con tutta la schiena e si lasciò andare ad un sospiro liberatorio. Per la sopravvivenza di tutti, mai parlare ad Alice della scuola. – Buonasera, come posso aiutarla? – una piccola commessa dai capelli bruni scintillanti e gli occhi scuri come una stampa appena sfornata le si rivolse con un sorriso gentile, ma in qualche modo furbesco. Era il primo ghigno che Alice vedeva in tutta la giornata. Fa pendant con la Cox che taglia rose, pensò lei. La sagra della felicità da una parte e la fiera del macabro dall’altra. ‘ndiam bene. – Oh. Niente, grazie. Stavo solo sfuggendo ad una persona. – fece una smorfia buffa. Detta così sembrava una psicopatica.

- Come ti chiami? -

La commessa l’osservò con interesse. – Fatti i cavoli tuoi. – sbottò. Poi corrucciò le sopracciglia e ci ripensò. – No, scusami. E’ una giornata del cavolo. Sono Alice. –

La ragazza (che non poteva avere più di vent’anni, considerò brevemente la bionda) chinò il capo lateralmente e fece un bel sorriso. C’era comunque un ghigno di sottofondo, una nota di amaro che l’intrigava. – Beh, piacere Alice, io sono Pirkko. –

A lei tremò leggermente il mento, inutile negarlo. Cercò di contenere una risata e finì per strozzarsi con la propria saliva. Tossì, respirò. Pirkko rise. Si rigirò una sciarpa inventariata tra le mani e chinò gli occhi per un istante, come se stesse pensando. Poi le ripuntò quello sguardo scuro sulla faccia, in maniera quasi sfrontata. – Pirkko è un diminutivo di Brigitta. Sono svedese. –

Bella fregatura. Ormai non si poteva nemmeno più contare sulle care, vecchie, bionde svedesi. – Non sembri molto svedese. – anche perché era alta quanto una mela. Al contrario di Alice che, per lo meno, arrivava al glorioso metro e settantacinque. Pirkko non sembrò particolarmente offesa dall’osservazione e si limitò a fare spallucce. Posò la sciarpa sul bancone e le si avvicinò: al momento del contatto Alice si accorse che la punta del naso di lei le toccava appena la clavicola.

- Parla l’americana senza le tette e gli occhi azzurri. – sputò quasi con cattiveria. In effetti lei almeno quelle le aveva.

Alice si guardò allo specchio oltre le spalle di Pirkko. Un fantasma. Si era sempre sentita un fantasma. Lei non aveva gli occhi azzurri di Katherine, né la pelle olivastra del padre che, ad ogni modo, conferivano volume alla figura. Era pallida come un fantasma e aveva due buchi al posto degli occhi. Buchi profondi in cui inciampare e poi cadere. E dov’era l’appiglio, adesso? Tutto sommato, però, lo specchio non le rimandava una brutta immagine (certo, era magra e per i cultori delle forme aveva un appeal di una carota): una cosa che aveva sempre apprezzato di se stessa era l’eleganza.

- E chi ti dice che io sia americana? –

Pirkko fece una faccia perplessa. – Ma è ovvio che sei americana. Nessuno riesce a essere così snob e così stupido allo stesso istante! –

- Ah. – fu tutto quello che riuscì a cavare dalla bocca. – Beh, se la metti così, non saprei proprio che dire. – Perché poco ma sicuro, Alice era snob quanto la regina di Inghilterra, e ancora attendeva un upgrade. Che discorso surreale.

- Che discorso idiota. – disse la mora. – Scusami, è proprio una giornata del cavolo. Tipo, non so, come se stesse per crollarmi tutto sulla testa. –

Alice spalancò gli occhi. Le tornò il dubbio che non fosse solo una sua impressione. Gli uccellini. La Cox. Annie Stock. – O piuttosto che sia tu a stare per spiaccicarti sul cielo. Al contrario, intendo. – ridacchiò, buttando lì la questione. Cercando a tentoni un appiglio per iniziare una conversazione utile.

Forse fu solo un’impressione dettata dall’angoscia, ma vide le pupille dell’altra stringersi e ridursi alla capocchia di uno spillo. – Che cosa? – sibilò Pirkko.

- Non ti sembra tutto strano, tutto al contrario? Come se tutti fossero troppo felici per essere normali? –

Pirkko vestì il miglior ghigno di tutta la conversazione e la fissò dritto negli occhi. – Alice. – iniziò, - Ti è mai venuto in mente che potresti essere una Conscia? – E poi la sua pupilla si allargò e diventò cenere e inghiottì tutto il volto e fu solo allora che Alice gridò e gridò e si dimenticò persino di aver lasciato la sua Gucci su un armadio perché stava già fuggendo.

- MA CHE DIAVOLO?! –

Fuori dal negozio era tutto normale. Diversi passanti la stavano fissando: sorridevano, come a rassicurarla. Alice si agitò ancora di più. Che cos’era stato? Non aveva il coraggio di voltarsi verso le vetrine del negozio.

Poi, per evitare gli sguardi inopportuni della gente, finalmente si girò. La vide subito perché era impossibile non notarla, pur essendo alta un soldo di cacio. Gli occhi di Pirkko non erano più occhi; non erano niente che appartenesse a quel mondo. C’era una consapevolezza, impressa in quello sguardo, che le fece paura, perché improvvisamente confermò tutti i suoi timori più profondi. Ogni suo dubbio, ogni sua incertezza: spazzati via da quella ragazzina svedese che di svedese non aveva nulla (ed era certezza ed incertezza nello stesso, medesimo, doloroso istante). Sapeva qualcosa e quel qualcosa aveva a che fare con dei… Coscì? Maledizione a lei che stava già dando fuori di matto ancora prima che l’altra iniziasse a darsi all’horror. Pirkko agitò la mano per salutarla e poi tornò all’interno del negozio.

Ad Alice non rimase altro che andare a fare la spesa. Perché doveva fare qualcosa di normale, o sarebbe palesemente impazzita.

Mentre camminava, curiosamente, le venne in mente che forse era il momento di trovarsi un lavoretto e guadagnare qualche cosa. Anche perché non ne poteva più di essere quella che non aveva finito il college e poi non aveva più concluso niente. Il suo sogno s’era infranto nel nulla: non aveva mai avuto abbastanza voglia per studiare prima dei diciotto, e la voglia non le era magicamente comparsa dopo. Era stanca anche di farsi guardare dall’alto in basso da sua sorella, che al suo terzo anno di legge già furoreggiava tra gli studi locali in qualità d’assistente. Alice non voleva ammetterlo, però l’incontro con Pirkko le aveva dato, in qualche modo, dell’importanza. Si era sentita considerata, come se avesse ragione per la prima volta in un lungo periodo di tempo.

- Consci! – disse, battendo la mano mentre pagava il conto. – Ecco che cosa ha detto, Consci! Non Coscì! – Il commesso le rivolse un’occhiata gentile e sorrise. Tuttavia, sembrava un po’ preoccupato. I suoi occhi color cielo la scrutarono fino a che non ebbe guadagnato l’uscita.

Respirò di nuovo. Doveva passare di nuovo dal negozio? Doveva tentare la fortuna? Decise contro. Non aveva voglia di spaventarsi di nuovo e poi non voleva fare troppo tardi.

Sulla strada del ritorno, le persone continuavano a sorriderle, quasi a volerla convincere del fatto che c’era del bene nel mondo, e che stava palesemente vincendo. Alice non sentiva questa sensazione. Non la sentiva per niente. Si sentiva semplicemente a disagio.

E poi la Cox l’aveva chiamata dalla porta di casa.

Stava tornando a casa ed era anche riuscita a calmarsi. Sognava il suo letto, tanto era stanca, ed era quasi ora di fare merenda. Per colpa di quella stupidissima festa di compleanno non aveva nemmeno pranzato. Se c’era una cosa che odiava era saltare i basti, perché poi la cosa influiva negativamente sia sul suo umore, sia sul bioritmo. Ovvero sia: se saltava un pasto, poi tentava di addormentarsi da tutte le parti.

Insomma, stava già pregustando un enorme fetta di pane letteralmente ricoperta di marmellata, che la strega del regno di Oz l’aveva chiamata. E due secondi dopo, era già sul suo vialetto di casa, ad osservare le rose sopravvissute all’ecatombe della mattina.

Cosa da non credere: era appena entrata nell’antro della strega, di sua spontanea volontà, come se quella avesse detto “Prego cara, vuoi un po’ di the coi pasticcini?”. Invece la Cox si era limitata ad aprire la porta mentre lei rientrava dalla spesa folle; poi l’aveva fissata con quegli occhi grigi come la nebbia e la sabbia che si deposita sulle auto (portata dalla pioggia messaggera) e aveva semplicemente detto: - Alice Watson. –

Lei aveva risposto – Signora Cox. – mettendo quel “signora” davanti al cognome perché lei, il nome della Cox, mica lo sapeva. E forse nemmeno ci teneva a saperlo. Fattosta che alla fine si era avvicinata all’ingresso, aveva messo un piede dentro la casa e si era improvvisamente sentita più triste. Ma non quel triste malinconico su cui potevi soprassedere, su cui si poteva pure lasciar correre.

Era una sensazione così corrosiva, così acida, così scioccante che il primo desiderio fu quello di fare retro front ed infilarsi sotto il piumone. E poi, chiudere gli occhi e sperare che tutto il resto sparisse tanto brevemente quanto il dolore era venuto. Invece gli occhi grigi della Cox l’inchiodarono al pavimento dell’anticamera e Alice non ebbe altra scelta che abbassare lo sguardo e aspettare che quella dicesse qualcosa. Notò sotto i suoi piedi un tappeto liso che doveva avere un certo valore. La trama, seppur esposta dal tempo, era fine ed intricata. Un po’ come la Cox. Alice fece saettare per un attimo gli occhi sulla donna e per la prima volta notò una certa fierezza nei suoi movimenti. La bellezza antica e sciupata non poteva certo concorrere con creme e botulino, ma c’era un’inesorabile voglia di andare avanti, di continuare nonostante le avversità. E quanto dolore nei suoi occhi. Così tanto dolore da essere impresso persino nello sguardo, e non solo nel colore. Quella donna le faceva una paura colossale. Aspettò ancora. Credette di star ferma per ore (anche se probabilmente erano pochi minuti), mentre la Cox decideva dove dirigere la piega inflessibile delle sua labbra.

- Alice Watson. – disse infine, rassegnata. – Che ragazza stupida. –

Alice piegò un sopracciglio. Non era esattamente il benvenuto che si era aspettata, ma andava da sé: quando la Cox cerca di terrorizzare qualcuno, è legittimo che lo faccia per bene. Infatti prima l’aveva fatta entrare nella sua oscura dimora, e adesso la prendeva a male parole. Mancava solo una pozione a bollire sul gas della stufa, e poi il felice quadretto da Halloween sarebbe stato completo.

Peccato che Halloween sia passato da una gran quantità di mesi e qui l’umore tardi a risalire.

- Signora Cox, a cosa devo l’onore? –

Ad esempio, vorrebbe solo farmi arrosto, o anche guarnirmi con delle patate? Perché in tal caso, mi spiace illuderla, ma quanto a ciccia andrebbe bene forse mia sorella. Io no di certo. Che ragazza pessima, stava vendendo sua sorella ad una strega, e nemmeno stava cercando di assicurarle una morte decente.

- In realtà, Alice, ho sempre sospettato che questo momento, prima o poi, sarebbe giunto. Ma chi avrebbe mai detto che il giorno designato sarebbe stato un innocuo 19 di agosto. – disse con tono asciutto l’altra. Erano ancora in piedi in anticamera. La ragazza sporse la testa verso la sala, incuriosita. A quel punto la Cox parve riscuotersi dal suo torpore casalingo e si fece da parte. – Prego. –

La fece accomodare su una poltrona: poi si sedette di fronte a lei, sul divano a tre posti color sabbia. Alice si guardò intorno. Sulle mensole due o tre foto del Signor Cox (o almeno così lei l’aveva sempre chiamato) sorridevano agli ospiti del salotto. Doveva essere un uomo felice, un uomo allegro: chissà come aveva mai potuto amare la Cox.

- Alice. – iniziò nuovamente la donna. – Ho sempre saputo che questo sarebbe successo. E tu oggi eri troppo agitata per essere una che non sa niente. –

Lei fece tanto d’occhi. – Che…? –

Lo sguardo della Cox s’incupì. Per un attimo parve essersi smarrita, poi recuperò la sua postura. – Watson, parlo di stamattina! –

- Ah. Io so… -

- Tu sai…? – l’incitò la Cox.

- No, non so niente. – fece spallucce e ricadde sulla poltrona. – Signora Cox, io non so niente perché non sto capendo niente. Prima vedo tutti troppo felici e poi una nana di un metro e venti quasi mi fa crepare d’infarto. Le sembra che io possa dire qualcosa? –

La donna fece un sorriso inquietante. NON ERA PROPRIO GIORNATA. – Sì, Pirkko me l’ha detto. –

Ecco, mancava giusto quello, in effetti. – Pirkko…? Lei conosce quella spostata? Quella pazza assatanata? La conosce? –

La Cox annuì brevemente. – E’ mia nipote. –

- Ah. – Santo cielo. Quanto a gaffe, non c’era proprio niente di peggio. – Sua nipote? –

- La figlia di mia sorella, Brigitta. E’ qui negli Stati Uniti da quando era piccola, dalla morte dei suoi genitori. – spiegò brevemente.

- Mi spiace. –

La donna scosse le spalle. – E’ successo. Comunque Alice, non è per questo che siamo qui. Noi siamo qui perché tu hai capito che qualcosa non va. Nella massa delle persone che si agitano attorno a te, felici e comprese, tu hai capito che qualcosa non girava nel verso giusto. –

- E questo cosa vuol dire? Cosa vuoi dire?! – si agitò.

La Cox si alzò e le si parò davanti. Le puntò un dito sul naso e poi, delicatamente, lo sollevò. – Sono quegli occhi. – disse, - Sono quelli che ti hanno permesso di vedere la verità. –

I suoi occhi scuri, che catturavano la luce e spesso la rendevano incapace di vedere. Scuri come quelli di Pirkko, svedese ma non svedese. Come quelli della Signora Cox.

- Come i suoi le hanno permesso di vedere ciò che è giusto. –

Annuì. – Dovevo contattarti. –

A quel punto, Alice prese il coraggio a quattro mani e sputò quella domanda che le premeva sulla lingua da troppo, troppo tempo.

- Insomma, Signora Cox, che cavolo succede là fuori? – La donna strinse le labbra in un’espressione di disappunto.

- Sciocca ragazzina, non l’hai ancora capito? –

Che erano tutti girati di cervello, questo sì: l’aveva capito eccome. Non esisteva mondo in cui Annie Stock poteva rivolgerle la parola senza avere (in ordine di apparizione) l’acidità di stomaco, la nausea e infine l’ulcera perforante.

- Qualcuno qui sta cercando di controllare il mondo. –

Ah. Niente di meno. – Ah! -, disse Alice. – E per fare che? –

Okay, adesso la Cox la stava guardando come fosse stata una larva di mosca: inutile dirlo, si sentì estremamente stupida.

- Per conquistarlo. –

Cinque secondi. Il tempo netto per percorrere il tratto di stava che separava la casa della Cox dalla porta della propria dimora. Non si voltò nemmeno per controllare se la donna l’aveva seguita fino all’uscita. Si sbatté la porta alla spalle, corse su per le scale come una matta e poi, finalmente, disperatamente, si gettò sul letto. Non c’era niente che potesse fare se non provare a nascondersi da tutto il resto del mondo.

Fu allora che sua madre fece capolino dalla porta e la fissò (o meglio, fissò un cumulo che, senza esserne troppo sicuri, doveva essere Alice). – Alice, e la spesa? –

Le rispose un grugnito, e poi il silenzio.

 

 

Il risvegliarsi (uccellini che cantano, ancora e ancora e ancora, senza alcuna interruzione, con soluzione di continuità) la spaventò. Gettò le lenzuola che la coprivano sui propri piedi e poi ricacciò un breve urlo dentro la gola. Dannazione. Dannazione a lei e ai suoi stupidi incubi. Si ficcò il viso tra le mani e poi strofinò con una certe intensità, fino a che la pelle non cominciò a farle male. Vide un po’ di trucco sbavato sulla mano e lo trasportò con dedizione su un lenzuolo. Non aveva troppa voglia di alzarsi per pulire la propria mano. Stava ancora sbadigliando (ed era appena il suo primo sbadiglio) quando una voce la scosse dal torpore in cui ancora vessava il suo corpo.  – Ciao, Alice! Dormito bene? Che capelli buffi che hai quando ti svegli! Perché non li leghi alla sera, prima di andare a letto? Terrebbero meglio la forma! Ma d’altra parte che sto dicendo, è ovvio che siano così strani, sono biondi! –

Era Pirkko. Doveva essere entrata accompagnata dalla brezza mattutina che l’estate aveva portato con sé. Alice fece un salto sul letto di almeno dieci centimetri. Non aveva nemmeno la forza per replicare qualcosa di veramente offensivo, quindi si lanciò sulla difesa. – Qualcosa contro i capelli biondi? Così, per sapere, nel caso improbabile che ci rincontrassimo di nuovo. –

Pirkko sorrise. – Io odio i capelli biondi. – L’altra fece spallucce. La mora continuò. – A dire il vero, odio le bionde. –

Alice la guardò, per niente impressionata. Appoggiò i piedi sul pavimenti e, di nuovo, ebbe impressione che tutto attorno a lei fosse troppo freddo. Dove diamine aveva lasciato la vestaglia? – Le bionde io proprio non le reggo. Insomma, pensano di avere sempre ragione perché sono, beh, bionde, e non capiscono di avere torto perché sono troppo stupide persino per rendersene conto. E’ come diceva Woody Allen, meglio essere intelligenti perché almeno in tal caso puoi fare finta di essere stupido. –

La bionda annuì. – A me pare che far finta di essere intelligente ti stia venendo comunque benissimo, non ti preoccupare. Al signor Allen la lettera la scrivo io, così non hai nemmeno il problema di essere troppo in imbarazzo. – Si schiarì la voce. – More! – aggiunse poi. – Pensano sempre di poter conquistare il mondo. –

Pirkko la stava guardando malissimo. Alice ebbe il terrore che, per un attimo, avesse avuto l’intenzione di far partire nuovamente il giochetto degli occhi rotanti e di fuoco, ma poi quella saltò giù dalla finestra (ecco perché faceva così freddo, santo cielo, quella cretina si era appollaiata sulla finestra aperta!) e si limitò a scuotere il capo. – Io le odio, le bionde. –

- Non ti preoccupare, per buona misura le odio pure io. – confermò Alice. – Quando non sono troppo occupata a pensare quanto siano stupide anche le altre ragazze, ovviamente. –

Questa volta la svedese l’ignorò a bella posta, sorpassandola in velocità ed andandosi a piazzare davanti alla porta, come a volerle impedire di passare. Alice si chiese se avesse veramente intenzione di passare alle maniere forti, nel caso fosse stato necessario. Difficile, pensò, visto che le arrivava (se andava bene ed era fortunata) alla spalla, e pesava la metà di lei.

- Ho sempre il giochetto degli occhi ruotanti. – suggerì Pirkko.

 - Ah, già. – disse desolata l’altra. Non la poteva soffrire, non la poteva soffrire, non la poteva soffrire. Perché nessuno aveva mai pensato ad una soppressione sistematica delle persone con tare mentali?, si chiese.

Perché altrimenti saresti finita male anche tu, precisò una vocina insistente nella sua testa. Alice sbuffò. La coscienza, che inutile quanto gravoso fardello. Avesse mai avuto occasione di incontrarne l’inventore, avrebbe dovuto fargli un bel discorsetto.

- Comunque mia zia non mi ha mandata qui per farti ammattire di nuovo, ma per parlare. – annunciò. – Quindi vedi di non scappare come hai fatto ieri, e per ben due volte aggiungerei. –

- Sfotti, sfotti, nana che non sei altro. – sibilò la bionda, furiosa.

- Comunque quello che fai nel tempo libero non sono cavoli miei, però ci sono un paio di questioni di cui dovremmo parlare. – guardò l’orologio che teneva al polso destro (ma faceva mai una cosa normale, quella?). – E devo anche andare ad aprire il negozio, quindi cercherò di essere breve, per quanto possibile. –

- Prego. – disse con acidità lei. – Fai pure come se io non avessi niente da fare per tutto il giorno, ti sembra? –

Pirkko ghignò. – Ma Alice, tu non hai mai niente da fare. Passi le tue giornate a disegnare cose inutili e a ciondolare per casa. E poi siamo in estate. Che mai avrai da fare, in questo giorno completamente inutile? –

Grugnito in risposta, nemmeno troppo amichevole.

- Dunque, il succo del discorso è che sei una Conscia. Una persona capace di andare al di là delle emozioni umane più semplici. Tu sei in grado di leggere le sfumature. –

, pensò Alice, era una cosa che le dicevano spesso. Tu capisci bene le persone. – Okay. –

- Solo noi Consci, a quanto pare, ci siamo accorti che da ieri le emozioni delle persone attorno a noi sono cambiate. Sono diventate più meccaniche. –

- Come se tutti fossero felici. – concluse Alice, annuendo.

Pirkko sorrise. – E’ esatto. Come se tutti dovessero essere felici. Insomma, il succo della questione è che qui, e in tutto il mondo, c’è qualcosa di sbagliato. –

- Mhmh. E questi Consci, prima di capire che il mondo sta per essere distrutto o che so io, che cosa facevano? – chiese, curiosa. Pirkko si grattò una guancia, perplessa. – I Consci. – rispose.

Alice sospirò. – Sì, d’accordo, va bene, ma in che cosa consiste tutto ciò? –

- Nel capire le emozioni altrui e, se ben addestrati, nel saperle manipolare. –

- Addestrati da chi? –

- Dal nostro signore, ovviamente. – rispose Pirkko, come offesa dalla domanda troppo banale. Scosse i capelli per levarli dal viso e rimase un attimo a pensare. – Tu non sai proprio niente, non è vero? – allo scuotere della testa di Alice, sospirò. – E’ bene che tu vada da mia zia, per farti consigliare e spiegare tutto al meglio. –

- Okay. Ma chi è il padrone? –

- Il padrone è l’unico essere di sesso non femminile ad avere alti ranghi nella società dei Consci. E’ colui che ci ha creati, a suo modo. –

Alice sbatté gli occhi, perplessa. – Ma davvero? – Questa era veramente buffa, per non dire ridicola. Una società in cui governavano le donne? In effetti era una cosa sensata: chi, da sempre, non sosteneva che le donne fossero più sensibili, più attente alle mille sfaccettature delle emozioni? Tutto cominciava a girare e ad assumere un senso. C’era qualcosa di reale in quello che Pirkko le aveva raccontato, lo sentiva. Lo sapeva. – E quindi questo padrone sta anche lui nel quartiere? –

Pirkko rise sguaiatamente. Batté un piede per terra, sul pavimento. – Proprio qui. –

Alice fece tanto d’occhi. – Abita a casa mia?! –

- Giusto un paio di metri sotto. – Silenzio. – Adesso devo andare in negozio, perché non vieni ad aiutarmi? –

Alice rimase un attimo in silenzio, perplessa. Poi afferrò il pomello della porta e rivolse a Pirkko uno sguardo deciso. – Dammi due minuti che mi metto qualcosa addosso. –

Nel frattempo pensava: sarebbe definitivamente dovuta essere una giornata di primavera. Non quadra nulla.

 

Mentre percorrevano la strada in silenzio, Alice meditò sulla situazione. Aveva quasi paura delle parole che le erano state rivolte solo pochi minuti prima, perché le attribuivano un ruolo che non era usa ricoprire abitualmente. – Ma scusami. -, disse dopo qualche minuto. – Voi Consci avete dei poteri sovrannaturali, che so: volate? Diventate… pipistrelli? Lupi? –

Pirkko la fulminò con lo sguardo. – Sembra che tu sia uscita due secondi fa da un libro della Meyer. –

Alice arrossì. – Non dire cazzate. I vampiri della Meyer mica diventano pipistrelli. –

Seguirono brevi istanti d’imbarazzante silenzio, nei quali Alice considerò la possibilità di confessare che, sì, i quattro libri li aveva letti tutti fino all’ultima parola e Pirkko si concentrò con tutta se stessa per non scoppiare a ridere in faccia alla sua compagna. La prima considerò per un dignitoso silenzio, mentre la seconda esplose in una risata estremamente violenta.

- Comunque, per la cronaca, no. Non facciamo niente del genere. A dire il vero il nostro unico potere si basa sulla deformazione delle emozioni altrui. Non siamo in grado d’intervenire sull’ambiente esterno, o per lo meno, non che io sappia. –

Alice deglutì: Pirkko era bruscamente passata alla prima persona plurale (che lei aveva accuratamente evitato d’usare) ed aveva incluso anche lei nel giro degli Psicopatici PsicoConsci. Estate, smettila di essere così imprevedibile. Fecero altri due isolati prima che la bionda avesse modo di ricordarsi cosa voleva chiedere. – Ma scusa, allora quel giochetto degli occhi rotanti che m’hai fatto ieri? –

Pirkko sbuffò. – Ho comunicato alla tua mente una sensazione di paura. Ma non necessariamente tutti avrebbero visto quello. – risatina malvagia. – Hai visto La Mummia, di recente? Giusto per sapere. –

Ecco!, pensò Alice. Ecco perché nella sua mente Pirkko era diventata cenere e poi scheletro. Maledizione a lei e ai suoi stupidi film sull’antico Egitto. Culturalmente parlando, Pirkko doveva considerarla un’inetta di prima categoria. – Uhm. Sì, l’altra sera. –

- Bel film. Ho sempre riso un sacco, quando lo guardavo. – Pirkko annuì brevemente mentre parlava. Alice se ne stupì, perché la svedese non sembrava affatto persona da quel genere di film: piuttosto, ispirava pellicole sulla crisi economica (o al massimo, qualche horror movie di quint’ordine). – Anche se ormai sono tre anni che non guardo più la televisione. –

- Non vai al cinema? – chiese la bionda.

- Troppa gente. – fu la lapidaria risposta che ottenne. Si zittì, evitando di domandare altro. Quando un’altra persona che non ricordava di conoscere la salutò, ebbe un brevissimo sussulto e si spaventò. Voltò il capo per cercare di capire chi fosse la persona in questione, ma niente. La sua mente rimase una tabula rasa. – Andrà sempre peggio. – commentò la mora. – Andrà sempre peggio perché la gente sarà sempre più condizionata. Non c’è niente da fare, ormai. –

Alice fece una smorfia, preoccupata. Possibile che ormai non ci fosse niente da fare? – Che danni può comportare una situazione del genere? –

- Di tutto, ovviamente. Una volta che si è condizionata una persona, la si può obbligare alle peggio cose. Il bene di questa prima fase potrebbe essere solo una trappola, uno schema. Sanno benissimo che noi ci siamo. Sanno benissimo che presto, prima o poi, ci muoveremo contro di loro. –

Nel frattempo erano arrivate al negozio. Pirkko alzò la saracinesca dopo averla sbloccata, poi si dedicò alla porta in vetro che le separava dal locale interno. Sbatté contro la maniglia un paio di volte con il piede e poi, finalmente, riuscì a far scattare la serratura. Alice l’osservò per tutto il tempo, perplessa. Chi avrebbe mai detto che una persona così minuta fosse in grado di picchiare una porta con una simile intensità? La cosa la sconvolgeva.

- Loro chi, loro? –

Pirkko fece una smorfia. – A saperlo. Non c’è mai stato un contatto diretto tra noi e loro, solo scontri a distanza, minacce passate attraverso testimoni. – si voltò verso la porta. – Come adesso. –

- Eh? – fu tutto quello che Alice riuscì a balbettare prima che una gioiosa vecchina entrasse nel negozio. Pirkko aveva ancora le chiavi in mano, il che era veramente buffo. Gli occhi neri della ragazza, però, erano serissimi. L’anziana signore sorrise ad entrambe le ragazze, gli occhi più miti che Alice avesse mai visto. Impossibile pensarla nelle vesti di una temibile terrorista.

- Salve ragazze, posso chiedervi qualcosa? – in mano teneva dei fogli, quasi un questionario da compilare. Non si soffermò troppo sul particolare, tuttavia, perché la tensione che Pirkko emanava s’infrangeva ad onde contro la sua pelle, e quasi pareva che la facesse crepitare. Siccome l’altra pareva non alcuna intenzione di rispondere, Alice si risolse a fare qualcosa. – Sì, certo signora. Dica pure, come possiamo aiutarla? –

- Ecco, vedete, sto facendo un sondaggio per conto del negozio di una mia amica.- sorrise. – Se poteste rispondere a qualche domanda… - azzardò, incerta.

Alice sorrise compiaciuta (perché doveva ammettere che la signora le stava simpatica) e prima che Pirkko potesse fare una scenata, annuì vigorosamente. – Ma certo, ci dica. –

- Vi sentite felici, ultimamente? –

La bionda fece un salto sul posto tale che la pelle del viso tremò. Si voltò di scatto a fissare l’altra, ma quella pareva totalmente assorta nell’osservazione del pavimento. Il suo viso era una lastra di marmo. – Ehm. – disse, - sì, beh, per esempio ieri è stato il mio compleanno, quindi ero molto felice. Anche oggi, visto che sono con… con la mia amica al lavoro, ecco. –

Roba da pazzi, in men che non si dica quella era diventata sua amica. Pirkko fece una risatina volgare e sguaiata. Alice pensò di ammazzarla non appena la nonnina (portatrice dell’oscuro messaggio, adesso? Era confusa) se ne fosse andata. Non avrebbe mai voluto dare al nemico l’impressione che dalla parte dei buoni ci fossero dei conflitti interni. Delle lotte intestine. Feroci lotte intestine, sottolineò nel pensiero. La vecchina sorrise. – E qualcosa vi rende felici, adesso? Qualcosa di particolare? Sapreste indicarlo come un oggetto? –

Alice pensò alla domanda. C’era qualcosa che la rendeva veramente felice, adesso? Rispose di no. Era confusa e perplessa, ma non felice. – Non penso che potrei pensare a qualcosa del genere. Non riesco ad immaginarlo. –

- Ma stia sicura che lo troveremo presto. – ringhiò la mora. La donna la guardò un poco intimorita. – Sì, dunque… e pensate che –

- Sparisca. –

Alice si voltò verso di lei, terrorizzata. Il tono di voce di Pirkko era grottesco, così come la sua figura. Pareva che la paura stessa uscisse da lei, in rivoli. - …come? –

- Sparisca da questo posto. – un sibilo, un soffio di voce che però avrebbe potuto gelare anche l’inferno. Alice non si stupì quando la vecchietta, terrorizzata, si strinse il questionario al petto e corse via, disperata. Nessuno fiatò per un minuto; l’unico rumore percepibile nella stanza erano le lancette dell’orologio che scattavano, puntuali, e il fiato sconnesso e violento di Pirkko, le cui spalle si muovevano a scatti, a ritmo con il proprio respiro. Alice attese, indecisa se andare a conquistare una sedia due metri più indietro o se mantenere la sua posizione, immobile come una statua. Era semplicemente terrorizzata. Cos’era successo? Quella vecchina aveva veramente qualcosa a che fare con gli scompensi degli ultimi giorni?

- Signorina Pirkko? – la voce proveniva dall’ingresso e non prometteva nulla di buono.

La svedese chiuse gli occhi e buttò fuori tutta l’aria, all’improvviso. Fece ruotare la testa prima in senso antiorario e poi orario, lentamente, facendo scricchiolare tutte le ossa. Poi finalmente aprì gli occhi: erano due buchi.

- Andrew. Che c’è? –

Finalmente Alice si concesse il lusso di guardare verso il nuovo arrivato. Era un ragazzo giovane (non avrà avuto più di 23 anni, considerò) dai capelli biondissimi che parevano scintillare e mandare bagliori in ogni direzione. Alice lo amò all’istante. Aveva un sorriso bellissimo, dai denti bianchi, che comunicava conforto a prima vista. Ed era bello. La sua voce, quando parlò, le parve musica. – La signorina Cox dice d’averla sentita inquieta, e mi ha mandato a controllare. S’è di nuovo divertita a spaventare le vecchiette? – rise. – Lo sa che non deve farlo, signorina Pirkko. –

La ragazza sospirò. – Andrew, ti prego. Ho già abbastanza mal di testa anche senza che ti ci metta pure tu. Cuciti quella cazzo di bocca. –

Il sorriso del ragazzo si raffreddò appena, ma non si spense. Semplicemente, la piega delle labbra divenne più umile, più contenuta. Un angelo caduto da una nuvola, inciampato per sbaglio su un cumulo di nebbia e precipitato così, a testa in giù? Possibile, pensò Alice, più possibile di così si muore.

- Scusi, signorina. – il solo modo in cui riusciva a dire “signorina” era una perla di insolenza ed ironia.

- Va a dire alla zia che abbiamo avuto un contatto. – si rigirò un labbro tra i denti e annuì brevemente. – Un contatto fottutamente tenace, aggiungerei. Che diavolo sarà venuta a fare qui? –

Andrew si fece serio e Alice rimpianse la scomparsa del suo sorriso, che era la cosa più bella che avesse visto in tutta la giornata. – Un contatto. E’ il primo da ieri, giusto? –

Pirkko alzò le spalle. – Che io sappia. –

- D’accordo. Arrivederci signorina Pirkko, signorina Alice. – si srotolò in un inchino amorevole e poi, così com’era venuto, scomparve. Alice non ebbe nemmeno il tempo di salutarlo che già la chioma bionda era scomparsa dalla vetrina.

- ARRIVEDERCI ANDREW! – urlò, giusto per fare un tentativo. Due secondi dopo, la sua mente subiva un’intrusione dolcissima, e un sorriso le si dipingeva sulla retina. – Cavolo. – sospirò.

- Certo, certo. – borbottò Alice. – Quando hai smesso di farti conquistare da svenevoli trucchetti da adolescenti, dovresti seguirmi in magazzino. –

- Oh. – Alice mise il broncio. – Non erano svenevoli trucchetti. Era una cosa dolcissima! –

- Sì, come no. Andiamo, Andrew lo usava con le bambine all’asilo, molto probabilmente. Sei un po’ troppo cresciuta per queste cose, non credi? –

Alice corrucciò le sopracciglia, offesa. – Non dirmi come mi devo comportare, sai! Io il ragazzo non ce l’ho, e quindi faccio quello che mi pare. – Pirkko rise. Molto forte. Ad un certo punto si afferrò la pancia e si chinò verso il basso, continuando a ridere. Alice rimase all’oscuro della questione: si limitò, per buona misura, a piegare le sopracciglia in modo da assumere un’espressione a metà tra il confuso e lo stanco. – Beh? –

- No, niente. Ma forse è veramente meglio se vai dalla zia. Cielo! – agitò una mano per aria con fare sbrigativo e chiuse lì la questione. – Adesso, per favore, vuoi seguirmi in magazzino? –

La bionda mise il broncio. Poi s’incuriosì. – In magazzino? –

- Sì, santo dio, in magazzino. Cosa c’è di strano? –

- Boh, non so, fino a ieri nemmeno ti conoscevo. Fai tu. – sbottò Alice, sbattendo il piede destro per terra. Si guardarono in cagnesco. – Allora? –

Pirkko s’incupì. – Vogliamo andare? –

- Ha! Vuoi farmi credere che voi Consci non abbiate un centro segreto nevralgico? Deve essere il tuo magazzino. Che c’è la sotto? Che dobbiamo fare? –

La mora si era già voltata, le chiavi in mano, ma dopo che Alice chiuse la bocca si girò verso di lei e la fulminò. Poi sguainò un ghigno mostruoso, di quelli che avrebbero fatto rintanare anche il più santo dei santi dentro ad un caldo cantuccio. – Veramente è solo un magazzino merci, e dobbiamo portare su dieci scatoloni troppo pesanti. Pensi di poter sopravvivere alla sorpresa? –

Alice chiuse gli occhi e contò mentalmente fino a dieci. Ma porca miseria. Porca miseria veramente. Cinque, sei. Dannazione a Pirkko e alla sua pessima ironia. Le cadesse un pezzo di ferro sulla testa. Nove, dieci. Si risvegliò dal suo mantra e annuì.

- Okay, fai strada. –

Il magazzino, in effetti, era un magazzino qualunque. Un po’ di scatoloni immensi accatastati in un angolo, oggetti rovinati gettati sulla destra. Un ragno si dondolava pigro sulla propria tela, aspettando tempi migliori. Alice fece un paio di passi sul pavimento impolverato. Starnutì quando un batuffolo di polvere le si intrufolò in una narice: scosse la testa per buona misura e poi si ricompose.

Pirkko la stava fissando intensamente, gli occhi stranamente addolciti. – Che strana ragazza, che sei. – Le si avvicinò e le passò una mano tra i capelli. – A te non stanno così male, dopotutto. – Lasciò che la mano le scivolasse lentamente verso il basso e carezzasse a quel modo (dolcemente, pigramente, amaramente) la guancia di Alice, che ferma, inebetita, aspettava. Aspettava cosa?

Forse la rabbia, la sorpresa. Che però non giunse. Si limitò a sospirare piano, con leggerezza, e a socchiudere gli occhi. Quando la mano di Pirkko si staccò, Alice provò un istantaneo brivido di freddo. Si strofinò le braccia con le mani, rabbrividendo appena.

Quando Pirkko parlò, la sua voce era sottile e tagliente. – Forza, prendiamo queste scatole e torniamo di su. Potrebbero tornare dei clienti. –

Alice pensò che non sapeva niente di lei. Non sapeva nulla del motivo per cui i suoi occhi fossero diventati così bui e difficili, per cui il suo sorriso fosse sempre un ghigno arricciato sul volto. Però aveva il terrore di chiedere, perché Pirkko emanava rabbia da tutte le parti. Quindi accennò un sì con la testa e afferrò la prima scatola.

Mentre salivano e scendevano furono avvolte da un silenzio scomodo e spigoloso, che le costrinse a non guardarsi mai negli occhi, per evitare domande spinose e risposte dolorose. Ma anche il silenzio faceva male, così male che ad un certo Pirkko prese a calci una scatola e quando si raddrizzò la fissò dritto negli occhi. – Che c’è adesso? –

- Ah. – Alice abbassò gli occhi. – Scusami. –

- Non scusarti, stupida. Cosa non va? –

- E’ che… stavo pensando che non so niente di te, tutto qui. Tu sembri sapere tutto di me. – disse piano. – E quindi mi piacerebbe conoscerti un poco meglio, ma tu sembri così distante. – Tranne quando le aveva toccato la guancia e aveva lasciato lì la mano a riposare, come se l’unica quiete concessa fosse solo quella che si poteva ottenere con l’intimità.

Pirkko la guardò male. – Quanto sei sciocca. Perché per te è necessario queste cose inutili?! Sono qui, sono nel presente. In che modo il passato può influenzarlo? –

Alice corrucciò le labbra e chinò la testa. Poi però si arrabbiò, perché non era possibile che quella ragazza fosse capace solo di essere arrabbiata o ironica e mai semplicemente felice o triste, perché un’esistenza così non valeva la pena di essere vissuta, e basta. – Io dico che invece il passato conta, e molto. Se mia sorella mi fosse stata vicina nel passato, ora non mi stupirei di gesti piccoli e carini che da parte sua, ormai, giungono sempre come una novità. Niente da fare, Pirkko, la tua maschera ingannerà gli altri ma non me. Sai bene cosa voglio. Perché cerchi di negarmelo? –

Si fissarono. Pirkko aveva un incendio negli occhi, ed Alice, guardandosi allo specchio, vide un riflesso che, per una volta, non era quello di un fantasma, ma di una persona viva. Gli occhi che brillavano, e poi, la pelle colorata. Tutto quel bianco, quel marmo apatico che rimaneva e permaneva da anni, improvvisamente sostituito da colore, un rosso violento che la faceva sembrare accaldata e reale. Come se ci fosse qualcosa per cui valeva effettivamente la pena di vivere. Vita. Era stata vita quella che lei aveva precedentemente vissuto, accasciata su un letto o su una poltrona a fissare vecchi libri di veterinaria che aveva chiuso troppo presto e poi mai riaperto? Alice questo non lo sapeva, perché c’erano domande che anche lei difendeva con tutta la caparbietà che posseggono i ragazzi non ancora totalmente adulti. Non erano segreti di cui vergognarsi ma erano segreti dolorosi, segreti che pungevano e distruggevano soprattutto lei. Alice li teneva nascosti nel profondo della sua mente, quella mente che Pirkko aveva così facilmente violato per un giochetto di puro, sadico piacere. – Io devo sapere, Pirkko, perché la tua mente viola la mia ma io ancora non so fare il contrario. E allora devi darmi la possibilità di capire in un altro modo. –

Ancora silenzio, e silenzio. Lei che era così bassa pareva improvvisamente aver guadagnato almeno dieci centimetri di altezza, se non venti. I polmoni si espandevano con violenza che minacciava di lacerarli. I suoi seni scattavano a ritmo dei respiri. Eppure la sua faccia era come un ritratto, fermo ed immutabile, un mistero per il mondo (e forse anche per il pittore stesso, che contempla la sua creatura e improvvisamente non riconosce più la mano che tiene in mano il pennello). Pirkko era bellissima. La consapevolezza di questo fatto l’aveva già sfiorata, prima, eppure adesso capì cosa voleva dire l’aggettivo bella. L’aveva davanti, una persona che si sarebbe potuta definire bella, bellissima, dolorosamente magnifica. Perché c’era il dolore, sì. C’era e fioriva sotto la sua pelle come una rosa e si spandeva violentemente rendendola irascibile e crudele con tutti. Persino con chi era suo amico.

- Provaci allora. –

Sussultò. – Cosa? –

- Prova a leggere dentro la mia mente. Se ci riuscirai, allora risponderò a tutte le tue domande. Altrimenti, ti farai i fatti tuoi per sempre. Che ne dici, Alice, è una sfida abbastanza interessante da risvegliare i tuoi sensi? – sorrideva e ghignava e i suoi denti bianchi sembravano appuntiti. Come quelli di un pescecane. L’aria tiepida estiva filtrava fin dentro il magazzino, appiccicandole i vestiti alla pelle.

- Molte cose risvegliano i miei sensi. – ringhiò lei in risposta. – Fin troppe cose lo fanno. –

- Sì, ma sono lontane, non è vero? Così lontane che ormai non puoi fare altro che passare il tempo in poltrona a crogiolarti nel tuo nulla e respirare aria che hai appena respirato. Come sei patetica, Alice. E dovresti essere mia compagna di guerra? – fece segno di no con la testa. – La zia dovrà capire che io non morirò per mano di una patetica inetta di vent’anni. –

- Stai zitta. – le intimò Alice, avanzando di un passo. Poi si fermò. Senti la paura che emanava Pirkko e si quietò. – Non dire cose del genere. Io non ti lascerò morire. –

Perché era un essere umano come lei e lei non lasciava nessuno indietro, poco ma sicuro. Lei avrebbe sempre voluto salvare tutti, perché nel mondo ciascuno aveva un suo ruolo e chi era lei, misera e patetica umana, per negare a quel qualcuno la sua possibilità nel gioco dell’esistenza? Bisognava solo avere pazienza e sperare di arrivare presto alla meta, ed aiutare per essere aiutati. Poteva solo sperare, lei, che nel frattempo annegava nella solitudine.

- Pirkko, non puoi veramente credere che lo farei. Davvero, non puoi. – disse, crollando il capo.

L’altra non batté ciglio. L’osservava solo. – Pirkko, io non ti lascerei morire perché sei l’unica persona che da due anni a questa parte mi ha rivolto la parola. – aggiunse.

I tratti della mora non si addolcirono, ma ad Alice sembrò che i suoi tratti si fossero in qualche modo ammorbiditi. – Lo so. – sussurrò lei. – Ti ho osservato, Alice. So che eri sola. –

- E perché non sei venuta? – chiese Alice. – Perché non sei venuta prima, Pirkko? Perché mi hai lasciato lì a marcire nella mia solitudine, a piangere sotto le coperte una sorella ormai perduta? –

Silenzio.

- Perché mi HAI LASCIATA LI’? –

- Non potevo venire, Alice. Sai benissimo che non sarei potuta venire. Avrei interferito con l’ordine delle cose. – spiegò l’altra.

- FANCULO all’ordine naturale delle cose, tu modifichi la mente delle persone! – urlò Alice. – E adesso non vuoi nemmeno lasciarmi entrare nel tuo mondo, stupida capra! –

- Provaci, Alice. – disse piano Pirkko, quasi a contrastare l’urlo mostruoso della bionda che le stava di fronte. – Devi soltanto provare ad entrare, e poi sarà tutto più facile. – le tese una mano. Mancava solo un passo perché Alice potesse afferrarla e stringerla, disperatamente.

- Alice, non posso fare questo passo per te. Devi essere tu a muoverti. Forza, Alice. – continuò a dire. – Avanti. –

Decidere di muoversi, spostarsi e fare effettivamente quel passo per afferrare la mano bianca da cadavere che l’altra le porgeva collimarono e diventarono un tutt’uno.

Poi fu facile, improvviso, come se fosse stata capace di fare quella cosa da sempre, fin da quando era una bambina. La sua mente si riempì di ricordi non suoi, e lei ne fu quasi schiacciata.

Pirkko, togli le mani da lì, forza Pirkko, muoviti, non puoi stare sempre ferma lì… ma che bambina felice, Pirkko, batti ancora le mani per la mamma e il papà!, Pirkko, attenta a non sporgerti troppo! Pirkko, perché non sorridi più, Pirkko, che ti sta succedendo, perché non vuoi più parlare con i tuoi genitori…? Pirkko! PIRKKO!

Quando riaprì gli occhi aveva il culo per terra e non capiva più niente. La testa le girava vorticosamente e voleva vomitare con così tanta intensità che sentì le sue dita portarsi vicino alla bocca. Quanta gioia. E con essa, giungeva anche il dolore, immenso e violento. Una mano bloccò le sue dita e quando alzò il capo, Pirkko era su di lei, la schiena appena piegata per evitarle di farle male. Pirkko, che nonostante tutto aveva premura per gli altri.

- Lascia perdere, le prime volte è sempre così, poi ci si abitua a tutto. – disse, - Anche al dolore. –

Alice non seppe dire, in quel momento, di che dolore lei stesse parlando: se quello fisico o quello mentale che passava, inevitabilmente, da persona a persona e costringeva chi leggeva la mente a piegarsi sotto la forza delle emozioni. Stette zitta, semplicemente annuì con un cenno del capo, perché non le era possibile fare altro.

- Sono nata diciassette anni fa in Svezia, in una piccolissima cittadina di cui non t’importa il nome. C’era sempre la neve, tranne d’estate, quando faceva freddo ma il mondo assumeva all’improvviso un’intensa nota di verde. A me, comunque, piaceva di più l’inverno. Il freddo congelava le emozioni, le rendeva meno violente. Tranne quando i bambini andavano a giocare. Avevo sempre il mal di testa, in quei casi. – Non un sorriso perturbò i suoi tratti, nemmeno una crepa percorse la maschera che si portava addosso. – Solo la zia Adele sapeva. –

- La signora Cox. – disse Alice.

Pirkko annuì. – Sì. La zia sapeva benissimo cosa mi succedeva, a volte, perché era quello che capitava pure a lei. In un certo senso era un sollievo averla al fianco, ma quando si trasferì in America non ci vedemmo più. Si interruppero i contatti, e io persi la capacità di distinguere i miei pensieri da quelli degli altri. –

Una pausa giusto per prendere fiato e continuare a ricordare, dolorosamente. – La zia Adele aveva fatto sì che il sorriso non si perdesse mai. Ma poi… i miei genitori non hanno mai capito. In un certo senso sono stata lasciata sola. –

Alice annuì, ma pareva confusa. – Io non ho mai avuto di questi problemi, da piccola. Non ho mai sentito i pensieri di nessuno. –

Pirkko la fissò per un attimo e poi si mordicchiò un labbro. – E’ normale, non tutti hanno la stessa capacità. Tu sei più portata per altri tipi di lavoro mentale, probabilmente. Si tratta solo di capire quali. –

- Magari vi state sbagliando. Magari io non ho niente di particolare, sono semplicemente una pazza visionaria che si è accorta di qualcosa di strano, ma che non ha niente a che fare con quello che state organizzando voi. E’ possibile. Avete mai pensato a quest’eventualità? –

Sperava intensamente che la tranquillizzassero a riguardo, ma nutriva i suoi dubbi. Infondo, cos’aveva lei di speciale per meritarsi una simile posizione nell’improbabile salvataggio del mondo? Non che chiedesse una statua, per carità, nemmeno una medaglia.

- Però nella mia mente sei entrata, giusto? – Pirkko le sorrise, e le parve che quella fosse la prima volta che una persona le sorrideva davvero, con amore e sincerità. Ma doveva essere solo un’impressione, una forzatura dettata dall’ansia che provava – perché non avrebbe mai voluto litigare con la mora che adesso le stava davanti, le braccia che circondavano le ginocchia e i talloni ben piantati per terra.

- S-sì. Giusto. –

- Ecco, vedi, risolto il problema. Su forza sciocca, - si alzò. – Adesso in piedi. Dobbiamo finire di trasportare quelle scatole, o il negozio non va avanti. –

E scomparve nelle scale, lasciando ad Alice l’impressione di saperne ancora di meno, a riguardo.

 

 

Quando tornò a casa era così confusa che sentì l’esigenza di sedersi sulla poltrona e poi fermarsi, almeno un secondo, per riflettere. Che cosa pazzesca. Prima credeva di essere pazza, poi le confermavano la cosa (o almeno così aveva supposto), infine le veniva detto che no, lei aveva capito tutto alla perfezione, ed erano gli altri quelli fuori di testa. Ah, già. Lei era una sorta di predestinata senza poteri fighi e la possibilità di sembrare un cristallino di Natale alla luce di sole. Ma pazienza.

Da pazza a salvatrice della patria, era già un notevole passo in avanti.

- Sorellona? – Katherine si affacciò dalla porta della cucina e la fissò con aria confusa. – va tutto bene, Alice? Mi sembri confusa. –

- No, - disse lei. – Non fa niente, non ti devi preoccupare. Sono solo successe un po’ di cose strane che non ti saprei ben raccontare… - scosse la testa in segno di diniego e poi si strofinò il viso con le mani, più e più volte.

- Sorellona. – Katie le mise una mano sul capo e poi la fece scivolare lentamente sul collo. Esattamente come aveva fatto Pirkko con la sua guancia. Alice sentì del calore irradiarsi immediatamente dalla pelle. Con enorme vergogna si rese conto di essere arrossita. – Sorellona, ti strofini sempre il viso quando sei nervosa. Cosa c’è che non va? Posso fare qualcosa per aiutarti? –

- No, non lo so. Io… - ci pensò un attimo. – No, lascia stare. –

Per un attimo avrebbe voluto dirle un sacoc di cose, e ironicamente avrebbe voluto pregarla di tornare se stessa, quella stronza di sempre che veniva a toglierle le lenzuola dal letto quando ancora mancava un’ora alla sua sveglia e che era, in fin dei conti, la sua quotidianità.

- Non ti vedevo così da Louis. Sicura che… -

- Ha. Louis. – pessimi ricordi le passarono velocemente sulle retine e lei, con un piccolo moto di speranza, si chiese se tra le sue facoltà di Conscio ci fosse anche l’abilità di cancellare tutto quello che non si desiderava più. – No davvero, Katie. Qui gli uomini non centrano proprio un cavolo, anzi. Cazzo, darei un braccio per far sì che ci fosse un uomo. –

E invece tra capo e collo le era capitata una fastidiosa ragazzina di diciotto anni che parlava con il tono ironico di un’adulta. Ironico ma non rassegnato, come se davanti a lei (nonostante tutto, nonostante il dolore e la guerra e solo dio sapeva cos’altro) ci fosse ancora un mondo da vivere e scoprire.

- Non ti gira intorno nessuno, allora? –

- Macché. Ho come l’impressione di avere addosso un fottuto repellente, credimi. Oh Katie. –, sospirò, il fiato corto e strozzato in gola. – Perché non posso essere come te? –

Cioè bella, simpatica, quasi perfetta. Perché non poteva essere come lei? Era la sua gemella. La sua dannata gemella.

E allora perché lei era venuta fuori così?, semplicemente al contrario?

- Ma Alice. Tu sei perfetta così e io ti voglio bene. –

Alice si strinse a lei e affondò nel suo petto, respirando il profumo dei vestiti di sua sorella (che era anche il suo) e sentendosi per un attimo a casa. Avrebbe voluto semplicemente chiudere gli occhi e sentirsi felice perché in fondo era un diritto di tutti, e invece la realtà la scosse con forza, pari ad un terremoto. Alzò il viso per squadrare il sorriso di sua sorella e improvvisamente si rese conto di quanto esse potesse sembrare finto. Marcio. Sano fuori, dipinto, colorato con colori vivaci del rossetto: corrotto e avariato dentro, dove vermi e bisce crescevano nell’oscurità, lontano dalla vista.

- Non è vero. –

- Alice! Credimi quando ti dico che tu sei –

- Non è vero NIENTE! – urlò Alice scattando in piedi e mandando sua sorella a gambe all’aria. Quella si agitò, l’ombra del sorriso artefatto ancora sul viso (perché in così poco tempo nemmeno la magia sarebbe riuscita a cancellarlo), e poi cadde. Alice la vide sbattere la testa contro il pavimento e poi non muoversi più.

Ansimò. Una, due, tre volte, aspettando che la rabbia scemasse. Quando vide che sua sorella non si rialzava, collassò su se stessa, tremando. – Katie? KATIE! – la scosse un paio di volte prima di rendersi conto (nella sua ceca pazzia) che ancora respirava. I seni si alzavano e abbassavano con tranquillità, ad intervalli regolari.

- Katie…? Dannazione, scema che non sei altro, svegliati! –

Desiderò quel sorriso che fino a pochi istanti prima aveva disprezzato. Lo bramò, sognò di cullarlo tra le sue braccia e d’accarezzarlo. Sua sorella rimase a terra, gli occhi chiusi. – Cazzo! – Alice si mordicchiò un’unghia della mano destra, seduta sui propri talloni. – Cazzo, e adesso che faccio? Fortuna che i miei sono usciti… porca puttana. –

Ancora prima che la sua testa formulasse un’idea, era già in piedi, la mano sulla porta di casa. Corse lungo il vialetto e si precipitò nel piccolo cimitero privato che era il giardino della Cox. Bussò con frenesia alla porta. – Signora Cox! Signora Cox! – chiamò. – Signora Cox mi apra, ho bisogno di lei. –

La porta si aprì dopo due minuti. La Cox indossava solo la biancheria intima. Alice si stupì di come la sua pelle, sotto i sempiterni vestiti grigi che indossava, fosse straordinariamente bianca e liscia, priva di rughe. La pancia era una linea dritta, priva di anche solo un grammo di grasso, eppure (nonostante la magrezza che pareva eccessiva) la Cox non sembrava deperita come le donne della sua età.

Che poi. Quanti cavolo di anni ha la Cox?

Dietro di lei fece capolino Pirkko che, per complicare la situazione, indossava un paio di mutande e, quanto al resto, forse confidava che la vestisse l’aria. Le venne un infarto. Era così bianca da sembrare irreale. Avrebbe voluto tendere una mano e provare a toccarla con un dito per vedere se era vera, se esisteva davvero. Non lo fece per dignità.

- Alice? ALICE! Cara, che c’è? Cosa ti preoccupa? –

Quella rimase un attimo ferma, la testa completamente vuota. Un paio di immagini le passarono per la testa e lei non seppe che dire perché era semplicemente paralizzata dal desiderio che le prendeva le viscere e le stringeva, con forza. Santo cielo, pregò, fa che non entrino nella mia mente ora. Concentrati, concentrati, pensa ad altro.

- ALICE! –

Poi ricordò. Tutto sparì come in un risucchio e lei ebbe l’assoluta certezza che qualcuno (o qualcosa) le avesse nascosto in qualche parte della mente quei pensieri. Adesso Pirkko esibiva un ghigno ferino e la smorfia della Cox avrebbe potuto distruggere il più felice uomo della terra. – Ah! Scusate, io… se ho interrotto qualcosa… -

Sperò di no. Perché il solo pensiero la faceva rabbrividire.

- Sciocca ragazzina, vuoi dirmi che c’è? –

- Mia sorella! – disse con fretta. – Mia sorella è caduta e non si muove e abbiamo discusso e non so cosa fare… la prego mi aiuti. –

La Cox la fissò come se sapesse benissimo di cosa Alice stesse parlando. Annuì con aria grave. – Dammi un attimo, metto la vestaglia. Pirkko, seguici. –

- Sì zia. – canticchiò l’altra. – Arrivo subito. –

Dopo che si fu vestita, la Cox veleggiò sui due vialetti. Si sedette di fianco alla ragazza svenuta e la considerò per alcuni, brevi istanti. – E’ solo svenuta, non dovrebbe esserci nulla di grave in ogni caso. Comunque adesso le cancellerò la memoria, Alice, così che non si ricordi nulla. D’accordo? –

Alice annuì, seria. – Va bene. –

- Quando ti chiederà cosa le è successo, tu risponderai che è svenuta. Un mancamento, qualunque cosa. E’ chiaro? –

- Mia sorella non soffre di mancamenti. – borbottò la ragazza tra sé e sé, il volto chino verso il pavimento.

- Mai dire mai. Dalle mie parti si dice che la neve cade sempre, anche ad inverno inoltrato. – la signora Cox scosse la testa. – Sa il Cielo i guai che potremmo passare se la ragazza si svegliasse e ricordasse tutto. Alla minima anomalia, chiamami immediatamente, Alice, sono stata chiara? La ragazza non deve ricordare niente di ciò che è successo. Niente. Sono stata chiara, Alice? Alice? –

Lei aveva lo sguardo insistentemente fisso sul corpo inerte della sorella, la quale aveva il capo chino verso la poltrona e gli occhi semi-chiusi. – SI chiama Katherine. –

- Sì, ad ogni modo. Chiamami se c’è bisogno. Pirkko, andiamo. – disse con una certa noncuranza. – Alice, fai in modo che questo non si ripeta mai più. Ti aspetto domattina a casa mia, per le otto in punto. Abbiamo decisamente bisogno di parlare. –

- Sì. D’accordo signora Cox. –

- E’ signorina. Grazie, Alice. – la redarguì la donna, lo sguardo grigio così tagliente da sembrare di puro acciaio. Dietro alla pelle appena brunita ed opaca si nascondeva un’anima forte e impiegabile, la cui forma era pienamente eretta. Alice deglutì, gli occhi chini sul pavimento ad osservare una macchia invisibile. – Scusi. –

- Ciao ciao Alice! – la salutò Pirkko, i piedi che letteralmente danzavano sulla terra e le belle gambe che sfuggivano al controllo della vestaglia e si denudavano da sole, piccolo miracolo della natura. E’ normale si disse la bionda, è normale che io le trovi delle belle gambe perché lo sono, non c’è niente di strano nel trovare attraente una ragazza. Succede.

Era la prima persona con cui aveva un contatto umano da più di due anni. Era più che probabile che la sua aspettativa crescesse a dismisura e proiettasse su quel legame ben più di quanto normalmente Alice si potesse aspettare da una ragazza. Nemmeno sua coetanea.

E’ persino più piccola, Alice. Che diamine ti fai venire in mente, razza di stupida. Forse è mglio se adesso porti su tua sorella e poi ti metti a letto anche tu.

-… Alice? – una voce la chiamò dal basso e lei si ritrovò a inginocchiarsi di fianco alla sorella gemella. Le afferrò la mano. – Katherine Mary Watson. – pronunciò con una certa enfasi drammatica. – Guai a te se mi fai prendere un altro spavento del genere. –

Sua sorella la guardava con aria smarrita. Fissò lo spazio attorno a lei e poi, finalmente, parve accorgersi del fatto che qualcosa non andava, o meglio: del fatto che l’altezza dei mobili non era quella a cui era abituata. – Eh…? –

- Cat, ti ricordi che cosa è successo? Ricordi qualcosa di quello che stavamo dicendo? – chiese con preoccupazione vera, ma di certo non dettata dal malore della sorella (anche perché era stata lei a buttarla giù, per terra, e quindi cosa sarebbero state le sue, se non lacrime di coccodrillo, inutili, non considerate? Al massimo avrebbe potuto vender cara la pelle. E l’avrebbe fatto.). – Cat, ricordi qualcosa? –

- … ma che è successo? – chiese la gemella scuotendo il capo. Poi, gemendo, se lo prese tra le mani, una smorfia di dolore dipinta sul viso. – Alice, che cavolo è successo? –

- Ah, lo sapessi! Ad un certo mi sei caduta come una pera sul pavimento e non sono riuscita mica a prenderti al volo, lo sai? Sono proprio un poco deboluccia. – commentò con stupore. – Hai mangiato, oggi? –

Katie scosse la testa ma poi rispose di sì. – Certo che ho mangiato, tutta la pizza e l’insalata… Alice, io non svengo mai. –

- Lo so. Però c’è sempre una prima volta. – O come aveva detto la Signora Cox (signorina!, bada bene!) la neve cadeva sempre, anche in inverno inoltrato.

Cadeva e andava a congelare il cuore, strozzandolo tra pareti invisibili, fatte per vedere ma non per poter toccare. Ed Alice, anche adesso, anche accanto al calorifero ben acceso, aveva freddo. Così tanto freddo che nulla la trattenne dal rabbrividire.

- Katie, forse è meglio se ti porto a letto, che cosa ne dici? Non conviene stare qui sul pavimento a prender freddo. Così ti lascio anche riposare un poco. –

- … sì. – la sorella non sembrava affatto convinta, ma la confusione nella sua testa prevaleva su qualunque senso logico. Così non fece ulteriori domande sulla stranezza dell’avvenimento e si fece accompagnare, sostenuta, dalla sorella. Quella stessa sorella che, appena quindici minuti prima, l’aveva scaraventata al suolo per la rabbia e il dolore. Alice si sentiva un vero cane, una traditrice del suo stesso sangue. E c’era così tanto dolore nella sua mente che, per un istante, di nuovo, desiderò che Pirkko la svuotasse del tutto. Tuttavia, era un desiderio assolutamente impossibile e lei se ne rendeva conto benissimo.

La stanza di Katie le era sempre sembrata un poco eccessiva. Al contrario della sua, che aveva i muri sulle tonalità dell’azzurro e solo alcuni contorni di un sobrio rosso mattone, quella della gemella sprizzava rosa da ogni angolo dei muri. Questi, dipinti di rosa, erano ornati con inquietanti poster di attori e cantanti (simili svenevolezze erano sempre parse ad Alice una vera dimostrazione di deficienza) pieni di glitter e stelline. Le coperte erano rosa, di un rosa diverso da quello delle pareti. Maialini ovunque, a completare quell’opera d’arte così complessa e contemporaneamente raccapricciante. Vi entrò insieme a sua sorella per la prima volta da mesi (forse, anni. Ma chi aveva tenuto il conto, ormai, chi riusciva a contare il dolore di un cuore infranto in numeri?) e poi l’adagiò con cura sul letto.

- Ecco qui. Adesso mettiti sotto le coperte che te le rimbocco per bene. Poi riposa solo, okay? – disse con un piccolissimo sorriso, quello tipico di chi si sente in colpa e fa di tutto per purificarsi senza confessare il proprio peccato.

La mano di sua sorella, questa volta, si poggiò sulla sua guancia sinistra. Quella opposta alla destra, che aveva goduto del tocco morbido di Pirkko. Ancora una volta, la mano scivolò, appena appena, e poi cadde sul lenzuolo, esausta. – Alice, cosa c’è che non mi stai dicendo? –

Ecco. Katie, ti ho fatto cadere per terra. E poi sono una prescelta per salvare il mondo. – Ma niente. –

- Non facevi una faccia del genere da quando ti eri lasciata con Louis. E’ successo qualcosa di grave? –

- Ma no Katie, non è successo proprio niente, non ti devi preoccupare. Va tutto bene. No c’è nessun ragazzo di mezzo, tranquilla. –

- Dovrebbe esserci, invece. – disse l’altra, gli occhi semichiusi per via della stanchezza. – Avrebbe sempre dovuto esserci. Tu te lo meritavi così tanto, Alice, un ragazzo che ti volesse bene e ti amasse e ti desiderasse per quello che eri, e non quello che saresti dovuta diventare. Oh, Alice. –

Alice aveva le lacrime agli occhi. – Katie, non fa niente. Arriverà. – concluse, ma sapeva benissimo che non era vero. Chinò il capo e lasciò dondolare lo sguardo su tutti gli oggetti della stanza. C’erano un paio di foto di loro due, da piccole.

- Le ho trovate ieri nello scatolone sull’armadio e le ho messe sulla scrivania. Eravamo quasi carine, non è vero? – sorrise appena.

Alice non poté fare a meno di restituire quel sorriso e per la prima volta da tempo, tempo immemore, si sentì un poco in pace. – Sono carine. –

- Però non ce n’è nessuna con noi da grandi. Davvero, Alice, che fine abbiamo fatto? – chiese con tono flebile. – Perché io proprio non riesco a ricordarmelo. –

Oh sì, Alice invece ricordava, distintamente. Con chiarezza. Annie Stock e i cattivi mostri che la portavano via da lei, e che pure la rendevano felice. Annie Stock e i silenzi di sua sorella quando lei non c’era.

- Non importa. Ne faremo una nuova, vedrai. Appena ti sarai ripresa dalla stanchezza, facciamo una foto noi due insieme e basta, che te ne pare? –

- Oh, Alice. Come sei buona. – Katie si strinse a lei e iniziò a piangere. – Cos’è successo, Alice? –

SI stava riferendo a prima, allo svenimento, o alla rottura? Questo Alice non lo sapeva e ne era devastata, perché sua sorella in queste condizioni aveva sempre una certa influenza sul suo umore.

- Io non lo so. – rispose. Ed era vero, non ne aveva la benché minima idea. Che ne sarebbe stato di lei? Dei suoi sogni nel cassetto, del suo principe azzurro senza cavallo e divisa (e per questo così difficile da riconoscere)? – Katie, non lo so. –

Era facile dire che lei avrebbe dovuto salvare il mondo. Così facile che riuscivano a dirglielo tutti, ma nessuno le spiegava niente. Come avrebbe potuto salvare il mondo? In che modo? E perché proprio lei, piuttosto che sua sorella?

Cosa c’entrava Pirkko con questo, e in che modo poteva affliggere il suo umore? Dolore, immenso dolore che le prendeva la gola e non mollava. Singhiozzò anche lei, perché fino a che si legge dei supereroi è tutto facile, ma poi all’improvviso la vita vera ti sbatte una porta in faccia e tu ti ritrovi solo. Aveva bisogno di qualcuno a cui appoggiarsi, qualcuno che non fosse pazzo. Andrew, forse, con quel sorriso bellissimo e ingannatore? Forse anche lui sarebbe potuto andare bene. Chiunque che potesse indicarle la via.

- Alice! – piangeva intanto la gemella, stringendosi a lei come se fosse stata un’ancora di salvezza (ed ironicamente lo era, ma anche per lei? E per se stessa?). – Alice, che succede? –

- Io non lo so! – urlò tra i singulti. – Katie, non lo so! –

Si strinsero ancora più forte. Alice pianse tutte le lacrime che le rimanevano dalla vita precedente, perché sua sorella gemella (che pure aveva creduto d’odiare per tutto questo tempo) era stata trasformata in un automa capace solo di sorridere ed essere felice. Per un istante pensò che avrebbe voluto essere lei, che ignara esisteva come bamboccio ma intanto non piangeva mai.

E così, per questo motivo, urlò ancora più forte.

 

Le otto di mattina erano sempre state un pessimo orario per svegliarsi, e su questo Alice non aveva alcun tipo di dubbio. In effetti, non c’era niente di peggio che svegliarsi alla mattina con ancora scampoli della notte appesi per il cielo. Lei odiava la notte, bramava disperatamente la luce, come una piccola pianta che, altrimenti, non saprebbe come vivere. In realtà, Alice era già sveglia per le sette e mezza. Aveva fatto una doccia veloce e aveva legato i capelli ancora umidi in una coda alta. Lasciò perdere il trucco perché, alle sette e cinquantasette, era ancora mutande. Corse disperatamente verso l’armadio e lì si studiò allo specchio per un brevissimo lasso di tempo. Aveva un aspetto a dir poco terribile. Un cadavere.

Le occhiaie parevano cadere disperatamente verso il basso ed erano di un rosso vivido. Gli occhi le parevano annebbiati e, quando provò un sorriso, il risultato che ottenne fu una smorfia.

Lasciamo perdere, si disse. E’ palese che oggi non è giornata. E di fatti, si era dovuta svegliare alle sette e mezza. Maledetta Signora Cox (signorina!, squillò la voce nella sua testa) e maledetti anche i suoi orari da zitella inacidita. Quando ebbe addosso anche le scarpe, aprì per un secondo la porta da letto della sorella per controllare che stesse bene.

Le sembrò che Katherine respirasse con profonda tranquillità e recuperò un poco la calma. La vide tutta rannicchiata su un fianco, e non poté far a meno di sentirsi un poco triste per lei.

Su tutta la casa regnava un silenzio inquietante. Strano, perché da quel che sapeva di solito i suoi genitori a quell’ora erano già svegli e pronti a fare colazione. Quando scese in cucina, invece, la trovò deserta.

La luce della segreteria elettronica lampeggiava ferocemente. Alice schiacciò il tasto, ben conscia del ritardo che s’accumulava.

“Ciao tesori, io e tuo padre siamo rimasti bloccati da una tempesta di neve a Chicago, forse torneremo oggi pomeriggio. Spero non siate uscite con questo freddo. Baci!”

Ecco spiegata l’assenza dei genitori. Non era stata una cosa eccessivamente difficile. A questo punto, l’orologio batteva le dannatissime otto e dieci. Scrisse di fretta e furia un bigliettino per la sorella e poi si precipitò fuori dal vialetto, di corsa. Vide la Cox sporgersi dalla finestra e scuotere la testa al suo indirizzo. Probabilmente la stava insultando in ogni lingua da lei conosciuta (ed Alice era convinta che fossero almeno due, quindi la cosa si faceva preoccupante) e maledicendo mentalmente. Si chiese se con i suoi strani poteri un accidente anche solo pensato potesse causare qualche effetto collaterale. Sperò vivamente di no, perché avrebbe tanto desiderato vivere per ancora dieci anni.

Brava Alice, pensò, fai ironia gratuita su cose che non ti competono, così quando ci rimetterai le penne in una battaglia di cinetico-guerra non potrai nemmeno dire che te lo stavi aspettando. Razza di deficiente, dovresti picchiarti da sola. La Cox la fissava, la fissava come se avesse voluto procurarle un buco in mezzo alla fronte e poi, per buona misura, inserirvi dentro un programmino che le facesse fare tutte le cose giuste.

Fortunatamente la testa di Alice era abbastanza dura per sopravvivere all’attacco mentale della donna. Alla fine giunse nel vialetto saltellando e con un bel sorriso sulla bocca, convinta che nulla, nemmeno l’odio della Cox, avrebbe potuto distruggere il suo buonumore.

Non che fosse di umore ottimo, era chiaro, però la notte, seppure disastrosa, aveva portato consiglio. Alice si sentiva più risoluta, più convita, come se tutta la confusione della sera precedente si fosse diradata in un baleno, rivelando solo fatti ed azioni.

Quando sporse il dito per suonare il campanello, si accorse che la porta era già aperta. Che donna inquietante.

- E’ permesso? – chiese, entrando. L’odore di chiuso che colpì le sue narici era talmente forte da darle il voltastomaco, ma d’altra parte non era casa sua e la cosa non la riguardava. – Sto entrando, signora Cox. –

- Signorina, Alice. Quante volte dovrò ripeterlo? Entra pure. –

- Ah, sì. E’ in sala? –

- Sì, Alice. Sulla sinistra, la prima porta, ricordi? –

Alice socchiuse gli occhi e vagò con la memoria a due giorni prima, quando per la prima volta aveva valicato la porta del nemico (che era amico, in realtà) ed esso era riuscito ad entrare nella sua vita. Quanto era cambiato, in due giorni? Troppo. E adesso la signorina Cox l’aspettava sul divano, ferma, ritta come un fuso (quasi come se avesse avuto una scopa infilata su per il… ) –

- Alice, ti prego! –

- Dannazione. Scusi. – Cazzo. Maledizione a lei e ai suoi pensieri inopportuni.

- Siediti. Santo cielo, in che mani… -

- Mi scusi, mi scusi, sono mortificata. Io non saprei come… -

Stava ancora parlando quando due mani le afferrarono con violenza le spalle e poi la spinsero verso il basso. Due gambe le strinsero alla vita e poi serrarono forte, comprimendole i polmoni. – OUFF! – Due braccia di un bianco marmoreo comparvero nel suo campo visivo e lei comprese che era lei, lei giunta a devastarle la giornata, e con ogni probabilità anche tutto l’anno a venire.

- Ciao, Ali! Ali, come stai? – la voce di Pirkko alla mattina era roca e vibrante, con una sfumatura di tenerezza che faceva ripensare ai bimbi ancora addormentati. Non c’era modo in cui avrebbe potuto ignorare la vampa di calore che le scuoteva le gambe e minacciava di farla cadere (e sopra di lei, sopra di lei!) assieme alla svedese.

Roba da pazzi. Prendi in giro i maschi perché si prendono le scalmane per le bionde svedesi, e poi lei cosa finiva a fare? A prendersi una scalmana per una dannata svedese, che oltretutto non era nemmeno bionda. Santo cielo, quanta complicazione poteva aggiungersi alla già complicata situazione in cui si trovava? Probabilmente doveva esserci un tetto massimo di schifo a cui si poteva giungere. Il classico soffitto della stanza.

- Pirkko! Scendi immediatamente dalla mia schiena, mi fai male! – gridacchiò scrollando la schiena prima a destra e poi a sinistra.

- Ma nemmeno per sogno, sto benissimo così! – chiocciò l’altra, stringendosi molto di più a lei e risalendo un pochino sul suo collo. Le soffiò del fiato caldo sulla guancia e poi poggiò il capo sulla sua spalla, mugugnando qualcosa.

- Che?! – Alice si stava agitando fin troppo. Si rendeva conto di essere alquanto ridicola (e infatti la Cox ridacchiava con tono garrulo – Signorina! – commentò lei, di nuovo), ma si sentiva veramente in imbarazzo. Così non si poteva assolutamente andare avanti, anche perché, per quanto poteva vedere, le gambe di Pirkko erano nude (e lei ormai sperava solo nel potere della camicia da notte).

Pirkko si strusciava contro la sua spalla e persino la terza spettatrice cominciava a trovarla un poco inopportuna (si vedeva da come ridacchiava e contemporaneamente scuoteva la testa, piegando appena le sopracciglia). – Sei comoda, sai? Tanto comoda. –

- Pirkko hai diciott’anni, non cinque!, scendi immediatamente dalla mia schiena. PIRKKO! –

Lei alla fine scese, e quando lo fece, Alice sentì immediatamente la mancanza del calore che lei emavanava. SI passò una mano sulla schiena e grattò appena il punto più dolente. – Cavolo. –

- Scusami Alice, ma avevo proprio voglia di saltarti addosso. –

Bene. Si andava proprio bene. Nel senso, quale migliore posizione per dire quella frase, se si era appena scesi dalla schiena di una ragazzina (apparentemente adolescente nel midollo) messa in piena difficoltà fino al momento precedente? Che roba, non c’era nemmeno più gusto a sentirsi in imbarazzo. Ormai teneva gli occhi chiusi e puntati verso il basso da sotto le palpebre, la testa china per evitare che il rossore sulle guance risultasse fin troppo evidente.

- Pirkko, credo che tu ci abbia messo in imbarazzo abbastanza, per questa mattina. Pensi di poterti calmare e poi sedere sul divano? Per piacere? –

Pirkko sguainò un sorrisetto malvagio e poi saltellò sul divano, accomodandosi. – Scusa zia, non lo faccio più. – E poi si sistemò meglio, a gambe aperte.

O Santo Cielo, pensò Alice. Rinchiudetemi adesso perché così non posso andare avanti, così non posso palesemente vivere. Il mio cuore smetterà di battere e io morirò d’infarto ancora prima di aver salvato il mondo (e così alla fine moriremo tutti e saremo felici e contenti e MORTI).

- Pirkko. – la redarguì nuovamente la signorina Cox. – Te ne prego, Pirkk, vai in cucina a fare la colazione. Per quando avremo finito ci sarà bisogno di mangiare. –

Addirittura. Detta così sembrava minacciosa.

-Sì zia. – si alzò e nel passarle affianco le fece ondeggiare un bordo della camicia da notte contro la gamba dei pantaloni. – Cosa volete per colazione? –

- Pancakes…? – azzardò Alice, vedendo che l’altra donna stava zitta.

- Perché no. – commentò quella. – Sì Pirkko, dovremmo avere tutto l’occorrente nella credenza. Ce la fai da sola? –

- Certo, certo. Anche se, cibo americano. Che noia. Quando faremo un po’ di pesce affumicato alla vecchia maniera? –

La signorina Cox piegò un labbro in un’ombra di sorriso. – Quando avremo intenzione di uccidere qualche vicino, tesoro. E al momento ci servono tutti vivi. –

Al momento? Si era infilata in un covo di pazzi e ancora non l’aveva capito. Lo stava realizzando adesso. Inquietante.

- Capisco. Bene, vado a cucinare, buona discussione. –

Così rimasero solo loro due, a guardarsi in faccia. Il tremito delle mani di Alice era paragonabile solo all’ansia nascosta nel viso della signorina Cox, che cercava disperatamente di guardare da tutte le parti tranne che verso di lei. Pareva che dovessero discutere della fine del mondo e forse, in effetti, era proprio così.

- Forse è meglio che tu ti sieda, Alice, dobbiamo parlare di cose complicate e bisogna stare comodi. Avanti. – le fece un cenno col capo e di nuovo, come due giorni fa, lei si accomodò sulla poltrona rossiccia dall’odore di fumo stantio. S’immaginava abbastanza bene la donna come fumatrice, anzi: in effetti era proprio uno dei gesti che più le si addicevano.

- Okay, mi dica. –

- Prima di tutto volevo scusarmi per ieri sera. Come te, alla fine, mi sono fatta prendere dal panico e ho agito in maniera sconsiderata. Spero che tua sorella stia meglio e che non abbia riportato danni nella caduta. – disse, la voce piatta e monotona. Pareva stesse cercando di nascondere qualcosa. Alice piegò le labbra e sprofondò meglio nella poltrona, annuendo. Risistemò alcune frange che pendevano ribelli e poi parlò.

- Non fa niente, è successo e capisco in qualche modo la vostra esigenza di nascondere la vostra esistenza agli occhi del mondo. D’altra parte sono stata io a colpire mia sorella presa dall’ansia. –

Ed è una cosa che non mi perdonerò mai. Non me lo perdonerò mai perché le ho fatto del male per una cosa che non dipende da lei, e sono stata immensamente cattiva. Ci sono cose che il mondo non dovrebbe far accadere, che Dio non dovrebbe lasciare impunite. E invece. A quanto pareva Dio si era clamorosamente dimenticato di lei, di quel piccolo pertugio di NY in cui viveva e cercava disperatamente di sopravvivere, struggendosi tra dilemmi stupidi e contemporaneamente significativi. Dio. Non aveva voglia di fare un discorso su Dio, perché le crisi di fede ormai erano una cosa vecchia e lei aveva ben altro a cui pensare. Ad esempio, al fatto che aveva spinto sua sorella sul pavimento. C’era così tanta sofferenza in quell’ammissione che non poteva fare a meno di chinare il capo ancora di più e stringere forte gli occhi per evitare che questi si riempissero di lacrime. Perché andava proprio così. Aveva le lacrime agli occhi al solo, misero pensiero.

- Alice, devi capire che ti sono successe troppe cose perché tu potessi capirle tutte. E’ normale reagire così nei momenti di crisi, non c’è nulla di cui tu debba incolparti. –

Ma era sua sorella e lei l’aveva spinta, presa da una follia generale che non poteva perdonarsi. Presa da false megalomanie alimentate da altrettante false speranze. – No, è colpa mia, davvero. Tutte queste cose che mi sono state dette a tratti, senza che io capissi come stavano le cose veramente, ecco, questa cosa mi ha mandato in crisi. Lei capisce che dall’estate uno non si aspetta nulla di tutto ciò, vero? Perché un momento prima sono una pazza che s’immagina una congiura contro di lei e poi, improvvisamente, come se fossi una cazzo di miracolata del destino che non aspetta niente altro dal mondo, una cara signora mi annuncia che sono la salvatrice del mondo. O meglio. Mi dice che i miei occhi possono riconoscere cose che agli altri sono negate. Non è strana, questa cosa? A me ha fatto impazzire. Poi quella strana di sua nipote si presenta in camera mia, al mattino, e mi parla di un curioso supremo signore che sarebbe il nostro capo, mettiamola così, e che abita niente di meno che tremila metri sotto terra. Okay. A questo punto ho già sopportato un filmino mentale pazzesco in cui una persona si scioglie come una mummia. Passiamo anche su questo, voglio dire, perché no. Poi alla fine capiamo che c’è una congiura contro il mondo, addirittura!, e che tutte le persone che conosco e che mi sono vicine sono dei piccoli robottini costretti a sorridere e ad essere sempre felici. E alla fine, arriva la vecchietta. Una piccola, povera vecchietta innocente che compare nel negozio di Pirkko per un piccolissimo, innocente sondaggio e viene presa letteralmente a pedate perché sospettata di essere un contatto! – prese fiato e poi si agitò nuovamente sulla sedia, una piaccola anima in pena che non riusciva a trovare alcun tipo di riposo.

La Cox attendeva, stoica, e si sentiva riversare addosso tutta quella disperazione che in un solo, breve minuto le stava dimostrando quanto era stata incapace di gestire la situazione che le era capitata tra le mani. – E POI! Poi c’è quella sbandata di sua nipote che dice cose strane, fa la stronza in maniera incomprensibile e poi mi accarezza. E come se non bastasse, l’ha visto anche lei, lo so che lei l’ha visto!, - si mosse di nuovo, scattando in piedi, alla fine, incapace di contenere la sua ansia, - mi salta sulla schiena strusciandosi su di me. –

- Adesso, le pare onesto? Come crede che io mi sia sentita in questi due giorni? Ho pensato che avrei dovuto fottutamente salvare il mondo prima ancora che la catastrofe succedesse. E invece non l’ho fatto, e ho lasciato che il primo sorriso che mia sorella mi rivolgeva da anni fosse un sorriso falso, artefatto, completamente pilotato dai desideri altrui. E perché, poi? Per quale scopo andare a creare delle persone capaci solo di sorridere e si volersi bene, quali scopi se ne potrebbero ottenere? Io, signora, ah, signorina, mi perdoni! Cox, proprio questo non riesco a capirlo. – e si sedette di schianto, sollevando una piccola nuvoletta di polvere dal velluto della poltrona.

La Cox aveva un viso granitico, la linea delle labbra era semplicemente distruttiva. C’era così tanto sgomento nei suoi occhi che era impossibile quantificarlo. Quell’acciaio che prima le era parso tanto invincibile adesso era fumo facilmente muovibile dal vento, sabbia che aspettava solo di essere scalciata via da un piede umano, ansia e nebbia che si fondevano e poi, con il sole, sparivano tanto velocemente quanto erano venute. – Mi devi perdonare, ma sono un poco confusa. Capisco di aver gestito la situazione in maniera incresciosa, ma non credevo che la situazione fosse così complessa. –

Scosse il capo e si lisciò alcune pieghe del vestito. Dalla cucina, il rumore di stoviglie si era attutito da poco, e ora un dolce profumo di pane cotto si spandeva dalla porta scorrevole. Alice sorrise appena perché una simile scena faceva parte della sua quotidianità da troppo tempo per non riconoscerla come sua. Sorrise di cuore. – Spero che i pancake siano buoni. Sto morendo di fame. –

Annuì. – Ma tutto a tempo debito, signorina Cox, mi dica pure. –

L’altra cominciò. – Devi capire che non ci aspettavamo assolutamente nulla di tutto ciò. Pensavamo che a gestire la situazione con noi sarebbe arrivata un’altra adulta e, anche se sospettavo di te da un po’ di tempo, credevo che il tuo ruolo sarebbe stato di spalla a Pirkko, come semplice compagna. Invece non è comparso nessun’altro. Devi capire, Alice, che mi aspettavo una persona preparata, già al corrente della situazione, magari arruolata nelle nostre fila da un po’ e che improvvisamente rivelasse il suo potenziale. Ma non è stato così. Non è stato così e, dal momento in cui tu sei comparsa dalla porta della tua cucina, ho compreso di dover spiegare secoli e secoli di tradizioni, come fu insegnato a me, nel minor tempo possibile. E non ero sicura di come approciarmi al problema. –

Bevve un bicchier d’acqua pescato dal tavolino a fianco al divano e poi socchiuse gli occhi. – Certo Pirkko non mi ha reso il compito facile, ha cominciato a ronzarti attorno un po’ troppo per i miei gusti, e poi ha iniziato a dirti cose così, buttate là, tanto per il gusto di tenerti un poco sulle spine. Mia nipote è fastidiosa quanto un acaro della polvere recidivo. Quando decide di fare qualcosa, niente può farla desistere, suppongo che anche tu ti sia accorta della cosa. –

Alice alzò un sopracciglio con aria eloquente e poi scoppiò a ridere. Era più forte di lei, c’erano cose che proprio la coglievano alla sprovvista e poi la lasciavano incapace di respirare. Quindi rise, rise e rise ancora, tenendosi lo stomaco e asciugandosi poi le lacrime.

Pirkko sbucò dalla cucina, un’espressione curiosa sul viso. – Che c’è da ridere così tanto, posso saperlo, eh? Mi sembrava un discorso destinato a vertere sul drammatico, e poi scopro che ve la ridete di gusto. Non mi sembra onesto. Posso partecipare anche io alla discussione? – chiese.

Sua zia scosse la testa in fare negativo. – No Pirkko, non mi sembra una buona idea, affatto. Perché non torni in cucina a finire di fare i pancake, al posto che venire ad interrompere la nostra discussione? –

La ragazza gonfiò le guance. – Ma quale discussione, andiamo, chi cavolo volete prendere in giro. Se non altro, smettetela proprio di prendermi per i fondelli. Alice stava ridendo da quasi un minuto e non accennava minimamente a smettere. Quindi, o è una persona estremamente autoironica che pensa che se il mondo è in mano a lei, stiamo fritti, o semplicemente vi stavate raccontando le barzellette per passare il tempo. Allora, quale delle due è giusta? –

- Un’interessante via di mezzo. – disse Alice, una smorfia sul viso.

- Ci stavamo prendendo gioco di te, ma in un contesto abbastanza serio. Discutevamo su quanto fossi molesta, quando ti ficcavi qualcosa in quella zucca terribile. –

Pirkko alzò gli occhi al cielo e crollò le spalle, appoggiandosi allo stipite della porta e dondolando appena un piede. Mise il broncio come una bambina di cinque anni e si accigliò appena, perché in effetti sua zia aveva appena detto il vero e non c’era modo di scappare di fronte alla sincerità delle persone che meglio ti conoscono ed hanno accudito. – D’accordo, d’accordo, mi sembra che l’interrogatorio sia finito, o no? Molto simpatiche, davvero. Mi state commuovendo, eh. –

Fece retrofront e tornò ad armeggiare i fornelli.

Alice notò che i fianchi della donna di appoggiarono di nuovo ai braccioli del divano, e la schiena si sciolse appena, curvandosi sotto il peso dei suoi anni. Doveva essere estremamente nervosa. Forse addirittura preoccupata.

- Devi capire che siete così giovani, così indifese, che io mi preoccupo per voi. So che siete pronte, che avete grandi poteri, forse ancora da scoprire. – le scoccò un’occhiata quasi laterale, sospettosa, - Eppure tutto quello che vi gira attorno è cento volte, mille volte più grande di voi. E potrebbe rinchiudervi al suo interno. –

Alice piegò un sopracciglio. Era semplicemente stufa di annegare in quest’aria di mistero, e sinceramente stava solo aspettando di riemergere. Cosa c’era, oltre la coltre d’acqua che la ricopriva quasi interamente? – Signorina Cox, lei deve spiegarmi cosa ci attende. Lei deve farlo. –

 La donna annuì brevemente. – Lo so. Me ne rendo conto. –

- E allora parli. Per la miseria, ditemi qualcosa. Non ne posso più di rimanere in silenzio. –

Il silenzio ovattato fatto di falsità in cui pareva essere caduto l’intero quartiere e forse l’intera città, l’intero mondo. Un’umanità immersa in un silenzio creato da qualcuno che si nascondeva nell’ombra, che si era liquefatto nel nulla e dal nulla comandava un intero esercito di soldati armati di solo sorriso. Che male poteva esserci, che scopo?

- E’ presto detto, Alice Watson. –

Dette un breve colpo di tosse e poi socchiuse gli occhi. – Tutto iniziò con un desiderio mal concepito. –

La bocca della Cox si aprì, ma non emise alcun suono. I bordi delle labbra si arricciarono in maniera strana, amorfa, e Alice si ritrovò a chiudere gli occhi di scatto e a riaprirli per sincerarsi di quello che stava succedendo. I bordi delle pareti si annerirono. La Cox pareva non accorgersi di nulla: continuava a parlare. La poltrona sotto di lei divenne cenere, ma la donna non se ne curò. Improvvisamente Alice si accorse che vestiva un maglione pesantissimo, invernale. Eppure era estate.

Tutta la casa si stava sciogliendo attorno a loro. Alice balzò in piedi e cominciò a urlare. I boccioli delle rose che non sarebbero mai dovuti fiorire cominciarono a bruciare e a crescere di volume: spandevano nell’aria un profumo dolciastro e vomitevole. Una fiamma avvolse il viso della Cox e non ne lasciò altro che un mucchio di ossa che ancora si muovevano in una parodia inquietante di un discorso. E poi la casa esplose.

 

 

Si risvegliò in mezzo agli uccellini che cinguettavano. Il tempo di realizzare quello che era accaduto e scattò in piedi, buttando le lenzuola per terra. Un’occhiata veloce la calendario le suggerì che era il 23 di agosto. Il 23: dove aveva perso così tanti giorni? Si alzò e camminò fino ad affacciarsi dalla finestra. La Cox la vide e la salutò: come al solito, stava tagliando i boccioli delle rose.

Peccato che per terra ci fosse almeno mezzo metro di neve. Alice urlò.

E si svegliò. Era il 25 di agosto e tutti i bambini si mettevano in spalla le cartelle per il primo giorno di scuola. Ma non era ancora settembre.

E si svegliò ancora, ed era il 17 di luglio e fuori tutti avevano dei pesanti cappotti indosso. Il solo vedere una pelliccia le fece salire una vampata di caldo.

E si svegliò di nuovo, ed era il 1 di agosto. Alice poggiò gli occhi contro il cuscino e silenziosamente, quietamente, cominciò a piangere. Fu in quel momento che qualcuno bussò alla porta della sua finestra e poi, senza nemmeno attendere, entrò poco cerimoniosamente in camera sua. Era Pirkko.

Alice si asciugò le lacrime. – Pirkko… - disse.

Lei sorrise, gli occhi bruni straordinariamente brillanti. – Non ti preoccupare. Passerà. – E poi: - Ti sta piacendo l’estate? –

Alice la guardò, scosse il capo e cominciò a ridere, proprio quando fuori dalla finestra ricominciava a nevicare. Si guardò, riflessa nella finestra, e penso che insieme alla ragazza che aveva di fianco avrebbero conquistato il mondo. Neve o pioggia, sole o tempesta. In fondo era estate. Non c’era molto altro da fare.

 

 

 

 

 

   
 
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