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Autore: taemotional    04/03/2012    2 recensioni
[JunDa]
"Salì i gradini per il piano superiore lentamente.
Nella mano destra solo un asciugamano bianco, nell’altra una borraccia colma d’acqua.
Ueda Tatsuya non aveva bisogno d’altro per allenarsi in quella palestra. Poteva anche evitare di portarsi dietro quei due oggetti, il proprio corpo sarebbe stato sufficiente."
Genere: Angst, Fluff, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Junnosuke, Tatsuya
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Commento: Eccomi, basta, la faccio finitaaaaaaaa!!!! *si asciuga il sudore* Ma perché questi blocchi e mi devo forzare per scrivere xD Fortuna che questa sera mi sentivo ispirata e forse è stato anche grazie ad Arisa. Grazie Saki che mi hai costretto a saltare l’Arakawa per vederla e mi hai incuriosito xD Grazie anche a Gioia, Koko e Silvia che l’hanno letta anche mentre era in fase di lavorazione e mi hanno incitato a continuarla ^^ Spero vi piaccia!! (soprattutto a te Sara, viva il fluff ogni tanto!! xD) Comunque vediamo un po’ se ora riesco a concludere il “Ciclo dei Pianeti” *dà nomi random alle proprie ficci Akame* ahahahah!
Comunque il titolo, se non si era capito, deriva dall'opening di Nana.... diciamo che me la sono ritrovata un po' ovunque, e, unita a qusta foto JunDa qui sotto mi ha dato l'ispirazione xD Ma basta, buona lettura!!!!!
ps. premetto, non l'ho mai riletta di seguito e spero di non aver fatto grossi errori o di aver cambiato un po' la caratterizzazione dei personaggi man mano >__< semmai fatemi sapere!

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«Ho bisogno del tuo amore, sono una rosa spezzata.
Oh, salvami da questo dolore che mi congela
Con il tuo sorriso, i tuoi occhi.
E canta, canta solo per me.»

 
Salì i gradini per il piano superiore lentamente.
Nella mano destra solo un asciugamano bianco, nell’altra una borraccia colma d’acqua.
Ueda Tatsuya non aveva bisogno d’altro per allenarsi in quella palestra. Poteva anche evitare di portarsi dietro quei due oggetti, il proprio corpo sarebbe stato sufficiente.
“Ueda-san, buongiorno!” lo salutò un suo kohai con un inchino e Tatsuya gli sorrise. Quel ragazzo lo conosceva da quando ancora praticava la boxe. Quanto tempo era passato? Gli sembrava un’infinità, e invece era solo un ricordo vecchio di tre mesi.
Arrivò di fronte al tapis roulant e poggiò asciugamano e borraccia a terra. Regolò la durezza del tappeto sul monitor digitale e si guardò un po’ intorno.
Quella palestra gli era ormai così familiare che conosceva la disposizione di tutte le sale e di ogni attrezzo. Piano terra: reception, spogliatoi e piscina. Primo piano: palestra, aule di danza e campo di squash. Terzo: bar e terrazzo. Tutto in mente.
Eppure si guardava intorno come se cercasse qualcosa. Ruotò il corpo di trecentosessanta gradi fino a tornare con lo sguardo sul monitor.
A quell’ora mattutina non c’era quasi nessuno agli attrezzi, solo alcuni culturisti fissati insieme ai loro istruttori e qualche ragazzino ai pesi. Una donna sulla quarantina correva poco più in là.
Quella ricognizione fortuita durò poco. Gli bastava poco per localizzare quel qualcosa, anzi, quel qualcuno. E il campo di squash alle sue spalle era vuoto.
Iniziò a camminare e il rullo sotto ai suoi piedi seguì il suo volere mettendosi in moto.
Perse di colpo la voglia di allenarsi. A che pro poi, quando non aveva una motivazione per continuare a boxare? Chissà cosa stavano pensando i suoi fans per quell’improvvisa scomparsa dalla scena.
Aumentò un po’ la velocità e i suoi capelli iniziarono a dargli fastidio agli occhi. Prese l’elastico blu che aveva al polso e si legò la frangia. Lasciò liberi i capelli sulla nuca, troppo corti per poter essere raccolti in una coda.
Ancora un po’ più veloce. Il respiro si fece mano a mano più pesante. Portare i muscoli fino al limite era stata da sempre la ragione per cui praticare la boxe. Essere esausto, sentire il sudore scivolare lungo la pelle, stremato, indebolito, svuotato da ogni pensiero. Sentirsi vivo.
La boxe, la corsa, o qualsiasi altra attività sarebbe andata bene per poter provare quelle sensazioni. Persino il sesso.
“Aaaah, allenarsi di prima mattina in una giornata di primavera non è il massimo?”
“Sì,” concordò una seconda voce, metallica, inconfondibile.
Tatsuya guardava davanti a sé, fuori dalle vetrate che costituivano l’intera parete del primo piano. Da lì si vedeva il parcheggio della palestra e, poco più in là le auto sfrecciavano sull’autostrada che collegava la periferia al raccordo di Tokyo.
I tendini delle gambe iniziarono a lamentarsi. Tatsuya sorrise e socchiuse gli occhi.
 

E’ un locale piccolo, l’aria è rarefatta.

 
Avvertì la porta del campo da squash aprirsi. Il ragazzo dalla voce metallica rise.
“Però oggi ti batto!”
“Non credo,” disse l’altro ragazzo, sconosciuto.
“Guarda che l’ultima volta hai vinto perché ero stanco!”
“Come no!”
 

Finisco il liquido trasparente in un solo sorso. Chiudo gli occhi, la testa gira un poco.

 
Tatsuya smise di correre e poggiò i piedi ai lati del tapis roulant. Si voltò lentamente.
“Sì!” disse il ragazzo dalla voce metallica, “Ero andato a ballare, a differenza di te!”
 

Ti vedo subito. La tua presenza in mezzo alla pista non passa inosservata. Mi alzo.

 
I due si chiusero la porta trasparente alle spalle e si posizionarono sul campo. Tatsuya poteva vedere perfettamente l’interno della stanza attraverso la parete di vetro.
L’architetto che ha progettato questo posto deve proprio amare la luce del sole.
 

Ma forse non è un caso che ti abbia notato subito. Tu mi hai riconosciuto?

 
Iniziarono un breve riscaldamento. Tatsuya teneva fisso gli occhi sul ragazzo più alto. Guardava i suoi muscoli tendersi e rilassarsi come fosse sotto ipnosi.
 

Sono accanto a te, non passa molto tempo perché tu mi passi un braccio attorno al fianco.
Non sono bravo a ballare, ma quando voglio so come muovere il mio corpo per attirare l’attenzione.
La tua canotta attillata è già sudata, ma non mi importa, la stringo e porto il mio viso vicino al tuo.

 
L’altro ragazzo, quello dai capelli biondi, rise per una qualche ragione. Tatsuya storse la bocca. Cosa state dicendo?
Raccolse la borraccia da terra e bevve un sorso d’acqua.
 

Ti vedo sorridere a pochi centimetri da me. Forse sono il tuo tipo?
Decido di fare un po’ la puttana e mi allontano di colpo, sparendo tra la folla. Raggiungo il bagno.

 
I due ragazzi smettono di stirare i propri muscoli e si preparano a giocare. Il ragazzo dalla voce metallica prende la pallina scura in mano e batte.
 

Sono davanti allo specchio del bagno e osservo il mio aspetto. Ho la vista un po’ annebbiata.
Sistemo una ciocca di capelli dietro all’orecchio.

 
Senza sapere il perché Tatsuya si ritrovò a pensare a quel sabato di una settimana prima, quando aveva deciso di seguire quel ragazzo alto che giocava a squash nella sua stessa palestra.
Come fosse una cosa normale, era entrato in macchina e lo aveva pedinato lungo l’autostrada fino a quel locale di Ni-chōme. Chi lo avrebbe detto che fosse gay.
Ma nemmeno Tatsuya credeva d’esserlo. Almeno finché non aveva incrociato quel giocatore di squash.
Taguchi Junnosuke era il suo nome. E si erano incontrati la stessa sera dell’ultimo match di boxe che Tatsuya aveva disputato. La sua prima sconfitta, dopo un inizio campionato perfetto.
Chissà... probabilmente i suoi fans pensavano che fosse scomparso per questo. Come dargli torto.
O forse Tatsuya poteva aver trovato un altro modo per sentirsi vivo? Qualcosa di più completo rispetto alla boxe.
 

Non mi ha seguito. Ma che pretendevo?
Magari ha pure un ragazzo. Forse quel biondino con cui gioca sempre a squash...
Guardo un’ultima volta lo specchio e scopro un me stesso diverso.

 
Tatsuya raccolse l’asciugamano da terra e se lo passò sul collo umido. Gli occhi fissi sul gioco, si avvicinò al vetro del campo. Sfiorò una mano sulla superficie fredda.
Un sorriso.
Il giocatore dalla voce metallica si voltò per caso. Lo vide, ma Tatsuya se ne stava già andando.
 
Si erano incontrati per caso.
Quel giorno del  suo ultimo match di pugilato. Tre mesi prima.
“Ueda-san, stai calmo,” gli aveva detto Junnosuke, tenendo ferma la caviglia. Tatsuya piangeva per il dolore. La rosa che aveva tatuata su quel lembo di pelle, quasi in rilievo a causa dell’osso a lato della caviglia, soffriva allo stesso modo.
“Come diavolo hai potuto continuare in una condizione simile.”
“Ho perso,” aveva mormorato semplicemente Tatsuya. Non vedeva più nulla, si asciugò gli occhi con un guantone e si morse un labbro per non gridare ancora.
Poi quel fisioterapista improvvisato lo aveva preso per le spalle e lo aveva guardato trafiggendolo con lo sguardo. Qualcosa dentro Tatsuya si era rotto in quello stesso momento.
Bara! Bara! Bara!” urlavano i suoi fans dal campo ma Tatsuya non poteva sentirli. Bara, la rosa, delicata all’apparenza ma letale sul ring, si era improvvisamente pietrificata. Paralizzata da un veleno simile a quello che le sue spine emanavano per inibire l’avversario.
Paradossale, no? Come un solo sguardo l’avesse potuta spezzare  in quel modo.
“Devi stare calmo o farà ancora più male,” aveva ripetuto il fisioterapista con la sua voce metallica, “Ho seguito un corso... ti fidi di me?”
Tatsuya annuì. Junnosuke sorrise e lasciò le spalle del boxeur per tornare a concentrarsi sulla caviglia.
Bara! Bara! Bara!
Tatsuya annaspò per tornare alla realtà con la stessa foga di chi cerca di uscire dall’acqua per carenza l’ossigeno. Un ultimo grido, poi si torna a respirare.
Junnosuke aveva iniziato a fasciare la caviglia.
“Per farla breve si sono stirati i tendini,” commentava rivolto al suo allenatore, “Ma si riprenderà in fretta, occorreranno uno o due mesi al massimo di riposo, non è niente di grave... ora però deve portalo all’ospedale per una radiografia.”
 
Tatsuya salì in macchina. Sospirò ripensando a quelle dita fredde premute sulla propria caviglia.
Sembro proprio uno stalker. Ma che ci poteva fare? Dopo che l’aveva spezzato in quel modo, ora aveva ancora bisogno delle sue dita per fasciare lo stelo e tornare a rivolgere la corolla verso il cielo.
 
Dopo il loro primo incontro, Junnosuke aveva iniziato a frequentare assiduamente quella palestra. La stessa palestra di Tatsuya. Decisamente un altro avvenimento dettato dal caso.
Ma il ragazzo dalla voce metallica non andava da solo, si portava dietro un amico con cui giocava a squash da parecchio tempo.
Quando Tatsuya lo aveva visto oltre quei vetri trasparenti si era immobilizzato, e un’ombra di incredulità gli aveva velato gli occhi. Era davvero quel fisioterapista? Il tatuaggio alla caviglia gli aveva formicolato in maniera fastidiosa.
Ma non c’erano stati altri contatti.
Tatsuya era tornato una seconda volta in quel locale piccolo e caldo. Poi una terza e una quarta. Alla fine la gente aveva iniziato a riconoscerlo e più di un ragazzo aveva provato ad abbordarlo.
Sembrava che più ragazzi rifiutasse, più la fila aumentasse. E alla fine cedette. Logico, doveva lasciare la caviglia a riposo, e senza boxe come poteva sentirsi vivo altrimenti?
Quell’ennesimo ragazzo era davvero bello.
“Vieni a ballare?” era arrivato e gli aveva chiesto solo quello.
Tatsuya aveva alzato un sopracciglio.
“Okay,” aveva risposto poi senza pensarci, “Ma ho poca voglia di ballare qui, se capisci cosa intendo.”
E non passò troppo tempo che i due uscirono dal locale diretti al primo motel delle vicinanze.
Da quella volta, la boxe diventò un pensiero irrilevante nella sua mente e il sesso occasionale con persone sconosciute prese il suo posto.
Dai suoi amanti si faceva chiamare col nome di Broken Rose. Non era altro che una rosa spezzata in attesa del suo salvatore.
 
L’ennesima serata al pub.
 
Tatsuya si abbandonò sul bancone.
“Hey, Broken Rose, non avrai esagerato questa sera?” chiese il barista riempiendogli ancora una volta il bicchiere. “E sei arrivato da nemmeno un’ora...”
“Tranquillo... questa sera... voglio...” cercava di spiegare Tatsuya, ma i pensieri nella testa erano troppo sfocati per poterli afferrare. L’alcool stava facendo il suo dovere.
“Ahhh... ma guarda come sei ridotto già a quest’ora...” commentò un ragazzo sedendosi sullo sgabello alla destra di Tatsuya. Poi gli accarezzò una coscia.
Tatsuya alzò il viso dal bancone e lo guardò con gli occhi socchiusi. Qualcosa nella mente gli diceva che era già stato a letto con quel tizio.
“In queste condizioni,” continuò quel ragazzo, “Se ti portassi a letto, lo potresti chiamare stupro.”
“Eh...?” Tatsuya ondeggiò il capo. Perché? Va bene lo stesso, no...?
Quel tizio si mise a ridere. “Però... così non ci sarebbe gusto in effetti! L’ultima volta eri così attivo...!”
“Ueda-san?” una voce alle loro spalle incrinò il ritmo della canzone jazz appena iniziata.
Si voltarono entrambi. Tatsuya impiegò una frazione di secondo per mettere a fuoco. Lo stomaco si congelò all’istante. Ma la mente non riuscì a comprendere pienamente quella visione.
“Tagu-...” riuscì solo a mormorare.
“Ueda?” chiese quel tizio ritirando la mano, “E’ questo il tuo vero nome?”
“Il mio...?”
“Ancora non basta?” domandò Junnosuke afferrandolo per un polso. Tatsuya iniziò a riprendersi e oppose resistenza. Ma Junnosuke fu più convinto e lo trascinò in mezzo alla pista.
“Aspet-”
Non capiva. Non sapeva se era per effetto del gin o gli eventi avevano improvvisamente preso una piega inspiegabile. Eppure la presa sul suo polso sembrava così reale.
“Tu... cosa...”
Ma Junnosuke lo strinse a sé e le parole gli morirono per l’ennesima volta in gola.
“Oggi mi stavi guardando giocare... vero?” disse all’orecchio di Tatsuya. “Perché stai rinunciando alla boxe?”
“I-io...”
“Perché vieni in questo locale ogni sera ad ubriacarti e... tratti il tuo corpo così?”
Tatsuya chiuse un secondo gli occhi, doveva assorbire tutte quelle informazioni in maniera lucida, ma gli risultava impossibile. Continuavano a scivolare via.
“Taguchi...” iniziò Tatsuya alzando il capo verso l’altro. Quella sensazione come di stare per affogare si ripeté di nuovo. “E’ perché voglio fare l’amore con te,” concluse senza respiro.
Il viso del ragazzo dalla voce metallica rimase un secondo impassibile.
“Non ha senso...” disse poi quasi ridendo.  
“No, infatti...” concordò Tatsuya e la testa gli ondeggiò un secondo. Le onde erano alte e i sensi iniziavano ad essere sballati, ma non importava più ormai. La presa dell’altro sulla propria vita era forte, non sarebbe caduto. E si sentiva al sicuro. “Come va la caviglia?”
Lo stelo non si sarebbe spezzato ancora.
“Bene.”
“Potresti ricominciare con la boxe?”
“Non credo...” come poteva spiegargli tutto?
Il viso di Junnosuke si rattristò.
“Che peccato... avrei voluto vederti di nuovo sul ring. Ed aiutarti, se sarebbe stato di nuovo necessario.”
Anche quello di Tatsuya si incrinò un po’. Chissà, forse alla fine si era affezionato a quello sport. Alzò il viso per guardare quello dell’altro.
Broken rose...” mormorò ancora Junnosuke quasi a se stesso, “Perché...”
“Non lo vedi anche te? Non sono più quello di un tempo,” disse Tatsuya quasi sorridendo. Ormai non aveva più nulla da perdere, e anche la lucidità se n’era andata da tempo. Si alzò un po’ sulle punte e gli baciò le labbra. Intrappolò il suo labbro inferiore, poi ci giocò tirandolo a sé.
Pochi secondi, e Junnosuke lo osservò allontanarsi, le labbra ancora socchiuse.
Tatsuya si mise a ridere. Chissà cosa pensava di lui in quel momento. Come mi vedi? Mi va bene anche che tu mi veda come una prostituta. Se solo tu mi dicessi che...
“Cosa diventerei io per te?” chiese Junnosuke, il suo sguardo si era fatto improvvisamente impenetrabile. “Se dovessi accettare di fare l’amore con te... poi diventerei solo uno dei tanti?”
La risata di Tatsuya si dissolse, come un’onda sulla costa che ritorna velocemente all’oceano.
Alzò le braccia e circondò il collo del più alto. Gli intrappolò le labbra una seconda volta.
“Perché continuo ad incontrarti casualmente ovunque vada?” gli domandò poi. Junnosuke restò in silenzio.
Quel loro inaspettato incontro sembrava essere costituito da domande senza risposta e azioni incomprensibili. Ma forse tutto quello non era solo dato dal caso. Forse Junnosuke si era trovato al suo incontro di pugilato per una ragione, e forse si era iscritto a quella palestra per uno scopo preciso. Lo stesso per cui Tatsuya aveva deciso di seguirlo fino al pub?
“Mi sento soffocare,” disse Junnosuke dopo un paio di minuti in cui i due non avevano fatto altro che guardarsi senza dire nulla. I loro pensieri avevano lottato invano per tornare a galla.
“Anche tu?”
“Usciamo.”
 
Tatsuya non se lo ricordava, ma il loro primo incontro era avvenuto molto tempo prima del match di boxe.
 
Al liceo Tatsuya era fidanzato con quella che al tempo si considerava come la più bella dell’istituto.
Tutti ne erano a conoscenza, eppure lui continuava a ricevere montagne di cioccolato per San Valentino e lei veniva continuamente corteggiata dai senpai.
Alla fine, senza nemmeno rendersene conto, si erano lasciati. Troppe scocciature e una gioventù da vivere fino all’ultimo.
“Eh!? E’ libera?” chiedevano i suoi amici.
“Sì, ci siamo lasciati,” rispondeva Tatsuya come un nastro registrato. Perché tanta voglia di mettersi con lei. Non è niente di che.
Anche il suo migliore amico del tempo sembrava interessato a lei.
“Ora potrai accettare il cioccolato che troverai nell’armadietto!” gli aveva detto in conclusione, prima di scappare.
Tatsuya aveva sbuffato. L’avrebbe buttato, come ogni anno.
Quando raggiunse l’armadietto lo trovò semi aperto e pieno di scatoline infiocchettate. Decise di farla finita con le finzioni. Lo aprì e iniziò a gettare a terra tutto il cioccolato, sotto gli occhi increduli di alcune ragazze.
“Dove sono le mie scarpe...” borbottò svuotandolo velocemente, poi si bloccò. Sul fondo, c’era qualcosa di diverso.
Una rosa rossa di carta velina era poggiata sopra una delle due scarpe. Sembrava stonare col resto, per quanto fosse bella.
Legato con un fiocco, c’era un biglietto:
« Mi dispiace di non essere capace in cucina. E mi dispiace anche non avere abbastanza soldi per comprarti un vero fiore. Ma ho voluto regalarti lo stesso qualcosa che gli somigliasse, perché tu mi ricordi tanto una rosa rossa. »
Ecco, quello era stato il loro vero primo incontro. Un avvenimento fra tanti, dimenticato, ma che gli aveva segnato il futuro in maniera irreversibile senza che lui se ne fosse mai accorto.
 
Entrarono nell’auto di Junnosuke. Tatsuya lo fissava senza distogliere lo sguardo mentre l’altro metteva in moto.
“Dove andiamo?”
L’ennesima domanda che veniva trascinata via dalla corrente.
L’odore - ora incontaminato - di Junnosuke lo rese improvvisamente nostalgico. Un flash gli attraversò la mente e rivide il proprio tatuaggio alla caviglia. Bara. Chissà poi perché si era scelto questo nome così femminile.
Socchiuse gli occhi e sbuffò per essere stato ignorato. Si abbandonò sul sedile e osservò distrattamente le luci della città che scorrevano oltre il finestrino come fulmini sopra un mare di notte.
 
I fari si spensero e i due scesero dall’auto. Tatsuya si bloccò ad osservare quell’edificio di vetro che di notte possedeva una strana corporeità. Quasi irriconoscibile.
“Perché siamo venuti in palestra?” domandò, ma poi quasi si mise a ridere. Niente domande, doveva averlo già capito.
Lo seguì sul retro. Junnosuke aprì la porta di servizio e precedette l’altro all’interno. Come aveva le chiavi della porta di servizio? Perché si stavano dirigendo verso la piscina?
Una volta dentro, Tatsuya osservò la superficie calma dell’acqua e gli fece paura. Il mare, seppure nero pece, non era mai immobile, e il moto regolare e prevedibile delle onde gli dava una certa sicurezza.
“Al liceo facevo parte del club di nuoto,” sentenziò Junnosuke con una punta di malinconia. “Avevo un certo feticismo per l’acqua.”
Tatsuya non capì perché gli stava dicendo quelle cose.
“E pensavo: vorrei proprio dare il mio primo bacio in acqua,” continuò Junnosuke. Poi sorrise e indicò con un dito un punto in fondo alla vasca.
“In quel lato,” commentò, “L’acqua è sempre più bassa e il fondo risale lentamente in superficie. Come la riva del mare. E sai, c’è pure un meccanismo che crea le onde.”
“Puoi attivarlo?”
“Non saprei come...” rispose Junnosuke. Una risposta sì, ma inutile. Tatsuya si avviò verso quel punto e si tolse le scarpe. Bagnò i piedi nudi nell’acqua che odorava di cloro.
Come poteva paragonare quella cosa al mare? Dov’era il sale, dov’erano le onde, le stelle? Tutto era silenzioso e irreale. Ma sapeva di artificiale. Come se si spacciasse un fiore di carta per un bocciolo che dovrebbe odorare di rugiada mattutina.
“Un fiore di carta...” e osservava i cerchi concentrici che si dilatavano dai suoi piedi fino a quasi metà vasca. Non sopportava più quella calma. Mosse qualche passo in avanti fino a quando il livello dell’acqua non gli arrivò alle cosce, poi si voltò.
Junnosuke era immobile e aveva l’espressione di chi è testimone di una apparizione soprannaturale.
“Vieni?” chiese Tatsuya con una espressione divertita. L’altro obbedì e immerse i piedi nell’acqua. Il contatto visivo dei due non si interruppe mai, ma, quando solo poco più di un metro li divideva, Tatsuya iniziò ad indietreggiare chiudendo gli occhi.
Junnosuke aumentò il passo e lo afferrò quando ormai l’acqua gli arrivava alla vita.
A quel punto Tatsuya riaprì gli occhi.
“Ci prenderemo una polmonite,” mormorò Junnosuke.
“Non mi hai portato qui per questo?”
“Per ammalarci?”
“No, per baciarmi in acqua,” rispose Tatsuya, poi gli prese il viso tra le dita e lo tirò a sé. Inizialmente le loro labbra aderirono perfettamente, poi Junnosuke schiuse la bocca e l’aria le separò per un breve istante. Ma tornarono di nuovo a incontrarsi, questa volta con più intensità e Tatsuya, dopo averlo afferrato per la  maglia, si lasciò andare, trascinando l’altro con sé in acqua.
Quando tornarono in superficie, erano bagnati fino alla punta dei capelli. Tatsuya scoppiò a ridere.
“Ma che ridi?!” esclamò Junnosuke togliendosi i capelli zuppi dagli occhi. “Che ti salta in mente?”
“Sono ubriaco, ricordi? Non so cosa faccio.”
“Ma che ubriaco? Sei più lucido di me! Ora ci tocca andare a casa mia in fretta ed asciugarci per bene.”
Tatsuya inclinò il capo.
“Eeeh, che peccato.”
Junnosuke si mise a ridere, poi lo prese per mano ed iniziò a tornare indietro. Tatsuya gli guardò la schiena e un altro flash dei tempi del liceo gli passò veloce davanti agli occhi. Vide una rosa rossa di carta velina. E si ricordò che odorava di cloro.
 
“Non sono mai stato a casa di uno dei miei amanti.”
Junnosuke uscì dal proprio bagno ed osservò Tatsuya seduto sul letto.
“Quindi questo mi rende in un certo senso... speciale?”
Tatsuya ci pensò un po’ su, poi passò l’asciugamano sui capelli ancora umidi.
“Tecnicamente, tu non sei un mio amante.”
“Io ti amo però.”
Tatsuya restò immobile con il braccio alzato a tenere l’asciugamano sui capelli. Poi, lentamente, tornò a strofinare.
“Non puoi dirlo con così tanta superficialità.”
“No, tu non capisci...”
“Infatti non capisco,” lo interruppe Tatsuya. “Perché sono finito a casa tua? Perché stai facendo di tutto per essere speciale? Perché continui ad entrare nella mia vita?”
Junnosuke stava per parlare ma Tatsuya non aveva ancora finito:
“Perché non riesco a smettere di pensare a te da quel giorno del match di boxe? Anche quando vado a letto con qualcun altro, perché non posso far a meno di chiudere gli occhi e pensare che sono le tue dita che mi toccano?”
Junnosuke allungò un braccio, lentamente, fino a sfiorargli una guancia con il palmo della mano. Poi si chinò su di lui e lasciò un bacio sulle sue labbra producendo solo un piccolo schiocco. Tatsuya sospirò.
A cosa era dovuta quella circospezione? Aveva forse paura di ferirsi con le spine? O forse temeva di poter spezzare quello stelo così bello e delicato?
Poggiando delicatamente il palmo della mano sul petto dell’altro, lo fece distendere sul letto. Tatsuya lasciò che l’altro gli sfilasse la maglia. Un brivido gli corse lungo la pelle delle braccia e, inaspettatamente, arrossì.
È proprio vero che una rosa ha bisogno delle sue spine per poter sentirsi al sicuro. Ma basta prendersi cura di quello stelo spoglio immergendolo in un po’ d’acqua perché la corolla continui a sbocciare ogni mattina.
E tra le braccia di Junnosuke, riempito di quel qualcosa che chiamano amore e che forse sarebbe riuscito a sciogliere il ghiaccio del suo cuore, Tatsuya sentì che sarebbe potuto sopravvivere ad ogni intemperie degli inverni futuri.
 
“Cosa ti è preso?” gli aveva domandato il suo migliore amico del liceo. “Buttare tutta la cioccolata sotto gli occhi di tutti!”
Tatsuya aveva solo sorriso.
“Allora?”
“Eh?”
“Ma mi ascolti?”
“Sai, forse potrei iniziare la boxe.”
Il suo migliore amico era rimasto un momento interdetto. “Perché?”
“Non lo so bene nemmeno io... ma non credi anche tu che io sul ring potrei somigliare proprio ad una rosa rossa?”
“Tu...?”
“Beh, in effetti sarebbe ora che mi facessi crescere anche io un po’ di spine per affrontare il destino.”
Poi aveva sorriso di nuovo al proprio migliore amico.
“No?”
 
Al risveglio Tatsuya ci mise un po’ per uscire dalla dimensione del sogno. Cosa aveva sognato? Possibile ancora il liceo?
Si guardò intorno, quella stanza non era affatto la propria. Certo, sono da Junnosuke. Si guardò il corpo e notò qualche segno rosso sul petto.
“Ha esagerato...” mormorò sorridendo al ricordo. Poi si guardò intorno e qualcosa di rosso nella parte di letto dove aveva dormito Junnosuke attirò la sua attenzione. Allungò la mano e infilò la mano tra le lenzuola. Ma la ritirò di colpo e si osservò un dito. Si era punto e iniziava ad uscire un po’ di sangue. Con la fronte aggrottata scansò attentamente le lenzuola e scoprì una rosa rossa decorata da un solo fiocco rosso attorno allo stelo. Le spine, che pervadevano fittamente l’intera lunghezza del gambo, quasi riflettevano la debole luce di febbraio proveniente dalla finestra. C’era anche un biglietto. Di nuovo, pensò Tatsuya automaticamente senza sapere il perché.
« Nel mio giardino coltivo alcuni cespugli di rose rosse e ho pensato che non se la sarebbero presa se gli avessi rubato una rosa per donarla a te. Quando questa mattina sono uscito di casa per andare in palestra era ancora buio e non si vedeva molto, ma spero che questo bocciolo sia almeno un minimo paragonabile alla tua bellezza.
Sai, io non credo alle coincidenze, né al caso. Ieri sera mi hai chiesto perché continui ad entrare nella tua vita, ma la risposta è semplice. E’ perché questo è il nostro destino. Ti amo, e spero che un giorno mi crederai. »
Tatsuya, le mani tremanti, poggiò il biglietto e prese attentamente la rosa. Accarezzò i suoi petali e la avvicinò al naso.
Il liceo, quel giorno di febbraio, la carta velina, un biglietto anonimo, l’odore di piscina, l’ennesimo San Valentino che era stato dimenticato...?
Il cuore gli scoppiò a ridere.
“Buon San Valentino anche a te, Junno.”
 
«Non dimenticherò mai più, anche se scorrono i pensieri.
Voglio stringere tutto di te, anche quei tuoi capelli, quella tua pelle.
Voglio stringere tutto di te, anche quelle labbra, anche il tuo odore.
Ridi ancora una volta, mio amore, come quel giorno.»

   
 
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