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Autore: rosie__posie    04/03/2012    8 recensioni
Cercò di andare con il pensiero all'ultima volta in cui aveva messo piede nel suo appartamento. All'ultima volta in cui si era girato e rigirato annoiato sul divano di casa, esaminato una goccia di sangue secco al microscopio o sparato alle pareti del salotto in piena notte.
Post-Reichenbach
Genere: Introspettivo, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson , Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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NOTE: Questa è la mia prima fanfic su Sherlock, quindi siate clementi nei giudizi! Una mia piccola fantasia su quello che potrebbe accadere dopo Reichenbach. Il titolo deriva da un lyrics prompt di 30_something. Grazie a Federica e a KillerQueen86 per avermi fatto da beta!


 
Infilò la mano nella tasca destra del cappotto, una volta poi un'altra ancora, per accertarsi che la chiave fosse sempre lì ed emanasse ancora quella sensazione di freddo metallico. La chiave. Quella di casa sua. Cercò di andare con il pensiero all'ultima volta in cui ci aveva messo piede. All'ultima volta in cui si era girato e rigirato annoiato sul divano di casa, esaminato una goccia di sangue secco al microscopio o sparato alle pareti del salotto in piena notte. Quanto era passato? Settimane? Mesi? A stento se lo ricordava.
Ma si ricordava bene i profumi. Oh, quelli sì che li ricordava bene! I profumi della cucina, che tutto assomigliava fuorché a una cucina, i profumi del salotto perennemente in disordine e quelli della sua camera, delle sue lenzuola. Ed era lì che avrebbe voluto essere, in quel momento, sdraiato nel suo letto, accarezzato dalle sue lenzuola beige chiaro.
L’ora era tarda e Londra apparentemente addormentata, avvolta nel bagliore argenteo di una sorridente luna piena che troneggiava in alto nel cielo. Così, si frugò di nuovo in tasca ed estrasse la chiave. Salì gli scalini con passo deciso, ma attento a non fare rumore. E con altrettanta rapidità aprì il portone del 221B e lo richiuse alle spalle.
Si fermò un attimo e chiuse gli occhi, richiamando a sé tutta la sua concentrazione. Nessun rumore, tutto era calmo e avvolto nella semioscurità. Si sedette sul primo gradino e si slacciò le scarpe. Il sesto gradino dei diciassette che conducevano al primo piano scricchiolava leggermente, e l’ultima cosa che voleva era attirare l’attenzione.
Mrs Hudson probabilmente era entrata nel mondo dei sogni già da un po’…
Si tolse una scarpa e l’appoggiò delicatamente accanto a sé.

E John…
Sì fermò un attimo.
Beh, lui semplicemente non era lì.
Si tolse anche la seconda scarpa, prese la prima e si alzò, con decisione, ma senza per questo smuovere quasi un filo d’aria.
Era giovedì. E di giovedì lui usciva con l’amico Stamford. Partita di freccette. Lo aveva tenuto d’occhio. Voleva essere sicuro che lui quella sera non ci fosse.

Iniziò a salire lentamente le scale.
In verità, avrebbe potuto scegliere qualsiasi sera, perché raramente John se ne stava in casa dopo il crepuscolo, da quando lui non c’era più.

Giunse al sesto gradino. Si fermò un attimo per essere sicuro di non far rumore. Sorrise. Trovava divertente come avesse iniziato a riferirsi davvero a se stesso come se fosse davvero morto. Aveva adottato quel comportamento principalmente per studiare gli altri, le loro reazioni, i loro comportamenti. Una cosa che, pensava, potesse sempre tornargli utile per il suo lavoro di detective, non appena fosse tornato ad averne ufficialmente, e non solo ufficiosamente, uno.

Riprese a salire le scale.

C’erano le freccette, il rugby, il cricket… Quando accidenti poi avesse iniziato a interessarsi al cricket davvero non era riuscito a scoprirlo. Ogni scusa era buona per stare il meno possibile nel loro appartamento. E questa cosa, inspiegabilmente, gli dava un po’ fastidio. Quasi quasi avrebbe preferito che passasse le giornate al cimitero, a parlare con lui. O meglio, con la sua tomba. John lo faceva sentire vulnerabile e sentirsi vulnerabili era un piacere del tutto nuovo.

Entrò nel salotto. Sbatté le palpebre un paio di volte per abituarsi all’oscurità della stanza, illuminata solamente da una fioca luce che faceva capolino dalla finestra. Sorrise, guardandosi intorno. Sentirsi a casa, pur celato agli occhi di tutto grazie alle tenebre notturne, gli scaldava il cuore e, per un attimo, ebbene l’impressione che niente fosse successo, che ogni cosa fosse normale, al suo posto. Con lo sguardo, accarezzò ogni cosa nel salotto: le finestre; il divano; la tappezzeria che aveva contribuito a ravvivare con innovativi fori di proiettile; i libri, ancora tutti quanti ordinatamente al loro posto; il suo prezioso violino appoggiato in bella vista sulla scrivania accanto alla finestra; la poltrona di John… Oh, quanto gli mancava osservarlo di nascosto mentre aggiornava il suo blog, sprofondato in quella morbida poltrona, mentre lui lo credeva preso a trastullarsi con i suoi gingilli scientifici.
A passi lenti, ma sempre decisi entrò in quella che era stata la sua camera, muovendosi al buio e facendo attenzione a non urtare nulla. Anche lì non era cambiato nulla; tutto era esattamente come l’aveva lasciato, poco prima che venisse arrestato. C’erano pochi dubbi sul fatto che Mrs Hudson continuasse regolarmente a rassettare la sua camera, inclusi i cambi di lenzuola settimanali. Si tolse sciarpa e cappotto e li appese alla porta, che richiuse dietro di sé.


Appoggiò le scarpe a terra, accanto al comodino, e si buttò sul letto, lasciandosi andare a un gemito di stanchezza ed estendendo braccia e gambe. Si sarebbe concesso solo un paio di ore di riposo, di distrazione, nulla di più. Slacciò i primi due bottoni della camicia. Prima di riprendere le sue indagini personali e clandestine, aveva davvero bisogno di qualche ora di sonno fatto bene, pur non volendo ammetterlo, come spesso accadeva. E non c’era niente di meglio che passarle a casa sua, nel suo letto, che erano stati lontani per mesi. Così lontani, ma al tempo stesso così vicini. Non solamente nel suo cuore, ma anche sotto i suoi occhi. In tutto quel tempo, ogni volta che poteva veniva in Baker Street, travestito una volta magari da fattorino, un’altra da poliziotto.

Per contemplare la sua casa.

Le palpebre iniziavano a farsi pesanti…

Per accertarsi che la vita quotidiana procedesse più o meno regolarmente, nei limiti di quanto era accaduto.

Socchiuse gli occhi…

Per osservare John e sincerarsi che, in un modo o nell’altro, riuscisse a venire ancora a patti con la vita nonostante ciò che era successo. Nonostante quello che gli aveva fatto. John, John, John…

E si lasciò andare tra le braccia di Morfeo…

Aprì di colpo gli occhi. Il polso accelerato, la gola secca. Stava sognando di correre, molto più probabilmente scappando. Forse da Jim… Guardò l’orologio. Segnava le 6.05. Le 6.05! Ma quanto aveva dormito? Gli sembrava di aver appena chiuso gli occhi. A fatica si tirò a sedere nel letto. Sapeva di dover andarsene, pur non volendolo. Tra meno di un’ora, John si sarebbe alzato. E non voleva di certo che lo trovasse lì. O, meglio, in verità voleva, ma non poteva.

Si tirò in piedi, dandosi una scrollatina ai capelli perennemente scompigliati. Rassettò in qualche modo il letto, infilò il cappotto, prese scarpe e sciarpa senza indossarli e uscì dalla camera da letto, richiudendosi la porta alle spalle. Procedette con passo felpato ma risoluto verso le scale, esattamente com’era arrivato, con più sicurezza grazie ai primi raggi di sole che rischiaravano il salotto. In un attimo fu di sotto. Si sedette sull’ultimo gradino e si infilò le scarpe.

Ancora pochi attimi e sarebbe stato fuori di lì, inghiottito dai primi cenni di frenesia di una Londra che stava per svegliarsi.

Si tirò in piedi e indossò il cappotto.

Ancora pochi attimi e sarebbe stato lontano dalla sua casa.

Si infilò una mano in tasca e fece un passo verso la porta.

Ancora pochi attimi e sarebbe stato lontano da John.

John, John, John…

Quanto avrebbe voluto poter essere libero di dirgli anche solo Ciao

Infilò l’altra mano nell’altra tasca. Frugò, prima nella tasca destra, poi in quella sinistra.

Dannazione, non trovava più la chiave! Se non era necessaria per uscire di lì, di sicuro lo era se voleva ritornarci. Doveva essergli scivolata fuori dal cappotto quando lo aveva appoggiato sul braccio. Guardò le scale, poi di nuovo la porta. Non poteva andarsene e lasciar lì la chiave, ovunque fosse finita. Chi l’avesse trovata si sarebbe fatto delle domande. Per non parlare del vedersi costretto a borseggiare Mrs Hudson per procurarsene un’altra copia.

Doveva fare in fretta. Decise di non togliersi le scarpe, facendo ancora più attenzione al sesto gradino mentre saliva le scale. La luce che filtrava dalle finestre del salotto si stava facendo sempre più intensa. Ed eccola là, la sua chiave, proprio davanti all’ingresso della cucina, illuminata da un raggio di sole. Si chinò per raccoglierla e se la infilò in tasca. Sollevò la schiena, si girò e si diresse di nuovo verso le scale, lanciando uno sguardo al vecchio tavolo della cucina, per lui più un piccolo laboratorio che un luogo per incontrarsi e rifocillarsi.
Si bloccò di colpo. Fece un passo indietro e, con fare incerto, entrò con titubanza in cucina. I suoi occhi perennemente indagatori si posarono sul tavolo, apparecchiato per la colazione. Apparecchiato per due. Fece un altro passo in avanti. Due tovagliette, due piattini, due tazze, due cucchiaini da tè, due tovaglioli, una bottiglia di latte. Ma nessuna di quelle due tazze era la sua. Nessuna era quella di John. Per essere sincero, non riconosceva nessuno degli oggetti usati per apparecchiare la tavola, a eccezione per la marca del latte, che era rimasta la stessa. Due splendide tazze da tè Rosenthal in finissima porcellana bianca, con piattino e cucchiaino coordinati. Altro che le loro vecchie mug. Come quelle che, nei suoi ricordi, usava anni addietro sua madre e di cui aveva sempre avuto nostalgia. Come quelle che piacciono a una donna dai gusti raffinati.

Indietreggiò e uscì lentamente dalla cucina, tenendo gli occhi fissi sul tavolo. Si domandò chi potesse essere la nuova fidanzata di John. Non ne aveva idea. Non aveva visto nessuna donna nei giorni in cui lo aveva seguito. Come aveva potuto sfuggirgli una cosa del genere? Si rammaricò con se stesso per aver erroneamente giudicato il comportamento di John banale e ordinario come sempre.

Iniziò a scendere le scale a testa bassa, tenendo lo sguardo fisso sulle scarpe. Aveva già perso troppo tempo, avrebbe dovuto essere fuori di lì ore prima. Ma il suo pensiero era sempre lì…

Per spendere 80 sterline per una tazza da tè doveva essere qualcuno di nuovo, qualcuno di importante. Magari pure quella giusta. Se il pensiero che il suo amico non stesse mai a casa da quando, per così dire, aveva lasciato questa esistenza terrena lo aveva un poco infastidito, l’idea che avesse trovato consolazione in una nuova donna gli lasciava l’amaro in bocca. Per dirla tutta, ciò che lo urtava più di tutto era l’essere rimasto escluso dalla sua vita. Non poter più conoscere i suoi pensieri, sapere quale fosse l’ultimo libro che aveva letto, l’ultima canzone che aveva scaricato sul suo ipod, o l’ultimo film che aveva visto alla televisione.

In verità, avrebbe potuto benissimo scoprire da solo buona parte di queste cose, ma non sarebbe mai stata la stessa cosa…

Crack!

Il sesto gradino… Così totalmente assorto nei suoi pensieri, si era completamente dimenticato di quel maledetto gradino. Si lasciò insolitamente andare a un’imprecazione. Guardò in alto verso la cima delle scale e rimase in ascolto. Silenzio. Forse gli era andata bene. L’ultima cosa che voleva era un incontro ravvicinato con John e con la persona con cui, con tutta probabilità, era impegnato in uno scambio di fluidi corporei. Scese gli ultimi gradini e si allacciò la sciarpa attorno al collo.

-Sherlock…         

Il suo cuore si paralizzò e sussultò, non necessariamente in quest’ordine. Aspettò un attimo, poi prese coraggio e si voltò. John era in cima alle scale, con indosso il pigiama grigio, che lo stava guardando. E questa era per lo più una deduzione perché non se la sentiva di alzare troppo lo sguardo per evitare di incontrare il suo. La sua voce era risuonata atona, piatta e stranamente calma. Quasi come se stesse semplicemente facendo l’inventario di ciò che si trovava nell’ingresso: scala, tappeto, porta, Sherlock.

Ok, bene, era giunto il momento. Dopotutto, se si trovavano in quella situazione era tutta colpa sua, pertanto la palla era nelle sue mani e toccava a lui far gioco. Ma, per quanto si sforzasse, non gli veniva in mente nulla di appropriato da dire.

-John…-, iniziò. –Mi dispiace… di averti svegliato. Di aver svegliato te e la tua… gentile compagnia di sesso femminile. Ma è tutta colpa di quel sesto gradino!-, proseguì, indicandolo.

-Di sicuro li avrai visti spesso, questi gradini…

Per la prima volta in tutta la sua vita, Sherlock si sentiva un’idiota.

-Spessissimo.

La voce di John era ancora più piatta di prima, se mai fosse possibile.

-Quante volte?

-Centinaia di volte, direi.

-Quanti sono?

-Quanti? Non lo so.

La voce del dottore aveva finalmente cambiato intonazione e si capiva quanto fosse a un passo dallo spazientirsi.

-Sono diciassette. Diciassette, perché li ho guardati e osservati. E, tra tutti, questo è l’unico che scricchiola-, riprese Sherlock, parlando velocemente come era solito fare. Stavamo andando meglio, ammesso che il dottore riprendesse a considerarlo un rompiscatole e riuscisse a soprassedere sul fatto che avrebbe dovuto trovarsi un paio di metri sotto terra. Poi, tacque.

-Questo è quanto?-, chiese John, portandosi le braccia al petto, quasi come per fare il possibile per trattenere la sua rabbia.

-Sì, più o meno… Oltre a volerti dire ciao

Ecco, era tornato di nuovo a sentirsi un idiota, per la seconda volta nella vita e nel giro di pochi minuti. Ma, in fin dei conti, non era un codardo e decise di alzare lo sguardo, pensando che dovesse guardarlo negli occhi, che almeno glielo doveva. Nessuno di loro pronunciò parola per qualche minuto, rimanendo così, gli occhi dell’uno fissi in quelli dell’altro, osservandosi in modo così intenso quasi per capire se e cosa fosse cambiato dell’altro in tutto quel tempo.

Sherlock fu il primo a spezzare quel silenzio.

-Che vuoi che ti dica?-, disse, allargando le braccia e iniziando a salire lentamente le scale, per timore della reazione dell’altro. –Lo sai che chiedere scusa non è la mia area.

Continuava a guardare John negli occhi, che indietreggiò un pochino, anche lui con gli occhi fissi nelle iridi dell’amico. Erano solo a pochi gradini di distanza l’uno dall’altro.

-Tu dovresti-, iniziò il dottore, indicandolo con l’indice e parlando con un tono sempre più furibondo, -Essere morto.

Solo un paio di gradini li separavano .

-Questo mi sembra evidente-, Sherlock si sentiva un po’ a corto di parole, come gli era accaduto raramente nella sua vita.

Un solo gradino.

-Senti, ho fatto solo quello che ritenevo essere…

-E non voglio star qui ad ascoltare qualsiasi tua scusa-, sibilò John, puntando l’indice ancora più vicino al viso dell’altro.

Lo fece così rapidamente che Sherlock pensò lo stesse per colpire in volto e, ricordandosi di quanto fossero pericolosi i pugni del dottore quando era in “giornata no”, d’istinto bloccò entrambe le sue braccia e chiuse John nell’angolo tra le scale e la finesra sul pianerottolo. I loro visi erano così vicini quasi da sfiorarsi, i respiri quasi un tutt’uno. Sherlock poteva riuscire a sentire il battito accelerato di John e l’odore della sua pelle. Chinò il capo verso di lui, sfiorandogli la guancia con la sua, portando le labbra vicino al suo orecchio destro.

-E invece penso che dovrai farlo-, sussurrò.

Scivolò con le mani dagli avambracci ai polsi di John, per “verificare le sue condizioni cardiache sotto sforzo”, esattamente come aveva fatto con Irene. Il battito era sempre più accelerato, il respiro corto. Non si stupiva. Ciò che invece lo stupiva era che sentiva di trovarsi nelle medesime condizioni.

-Perché hai chiesto un miracolo e dovresti essere grato che qualcuno te l’abbia esaudito-, continuò, per fargli capire che, in realtà, lui non se ne era mai andato, che era rimasto sempre con lui per tutto il tempo.

-I miracoli non sono esattamente all’ordine del giorno, Sherl-, ribatté il dottore. Il tono della sua voce sembrava essere meno astioso di prima, ma non era ancora del tutto pronto a soccombere.

-Oh, ti stupiresti nel vedere invece quanti miracoli accadono ogni giorno! Quanti miracoli stanno accadendo e accadranno mentre noi due ce ne stiamo qui a parlare!

-Non direi che questa sia esattamente una conversazione-, puntualizzò John, che di lasciarla vinta a Sherlock non ci pensava proprio. Ma la sua voce ora era decisamente dolce e tranquilla. –Un litigio, piuttosto?

A Sherlock piacevano i litigi, o scambi di idee, come preferiva chiamarli, perché riteneva che facessero crescere.

-E poi, come posso sapere con certezza che tu sia davvero tu e non un… un altro pazzo criminale che magari si è fatto la plastica per assomigliare a te per Dio solo sa quale motivo?

Sherlock sollevò leggermente il capo dalla guancia per osservare John bene negli occhi, che continuava a parlare a raffica versando un mare, secondo lui, di idiozie. Sorrise.

-Per non parlare del fatto che non ho ancora sentito una spiegazione né delle scuse decenti. Cosa che avevi promesso di fare. E, per inciso, mi stai facendo male ai pol…

In un attimo, Sherlock annullò la breve distanza tra i loro visi e appoggiò le labbra a quelle di John, sfiorandole appena come una farfalla, come se dovesse volare via da un momento all’altro. Non ci aveva pensato su troppo, la cosa gli era venuta spontanea e naturale, una conseguenza a tutto quel parlare senza senso. Fu avvolto da tutta una manciata di sensazioni e sapori diversi, che, per la prima volta, stava assaporando con la bocca e con il cuore, piuttosto che con i soliti occhi e cervello. Salato, umido, caldo (tanto caldo) e qualcosa che assomigliava probabilmente all’aloe e che non capiva bene cosa ci facesse lì.

Si sentiva un po’ impacciato; gli girava la testa. Si era addentrato in qualcosa per lui sconosciuto, ma al tempo stesso l’ultima cosa che voleva era staccarsi da John; il quale aveva sicuramente più esperienza di lui in quelli che Sherlock definiva “contatti intimi ravvicinati con il prossimo”, ma in quel momento appariva anche lui confuso e spiazzato come l’amico, se non peggio. Ma si sentiva al tempo stesso sicuro e protetto perché, se mai fosse esistito qualcuno di cui si fidasse ciecamente, spiritualmente e fisicamente, quello era John senza alcun dubbio.

Sherlock fece per allontanare leggermente le sue labbra da quelle di John, dovendo prendere fiato in quanto non era abituato a respirare troppo con il naso, ma il dottore lo sorprese, esattamente come aveva sorpreso lui pochi attimi prima, sfiorandogli la bocca con il labbro inferiore e accarezzandola dolcemente, in un ultimo saluto. Allora Sherlock lasciò la presa sui polsi e John indietreggiò leggermente. Tornarono a fissarsi negli occhi, quasi come volendo continuare silenziosamente ciò che avevano iniziato.

-Hai cambiato dopobarba. Ne usi uno all’aloe-, disse all’improvviso. Un po’ ricordandosi della (assurda) richiesta di provare la sua identità con le sue abilità deduttive, ma soprattutto per colmare quel silenzio imbarazzante. Quindi tacque e rimase lì a guardare John, sperando in un suo cenno di approvazione.

-È vero che non sei mai stato bravo a scusarti-, disse, prendendolo dolcemente per le spalle e abbassandolo verso di sé, in modo che il suo capo si appoggiasse alla sua spalla destra. Appoggiò una mano sui suoi riccioli neri e iniziò ad accarezzarli dolcemente, come se fosse un bambino. Sarebbe andato avanti a farlo, fino a quando Sherlock glielo avesse permesso.

-Suppongo sia un profumo gradito alla nuova signora. Mi riferisco al dopobarba…-, continuò Sherlock, chiudendo gli occhi per assaporare meglio il momento.

John chinò il capo leggermente verso destra, in modo da entrare in contatto con quello dell’amico, come ancora lo chiamava dentro di sé. Depose sui suoi capelli un bacio leggero, non smettendo di accarezzarli.

-E perché mai Mrs Hudson dovrebbe essere interessata al mio dopobarba?

-Non sto parlando di Mrs Hudson, ovviamente. Mi riferisco alla persona per la quale hai apparecchiato per la colazione. Splendide quelle tazze Rosenthal. Deve essere una persona speciale per farti spendere così tanti soldi per un po’ di porcellana…

Le sue parole tradivano gelosia, un altro sentimento, assieme alla vulnerabilità, che gli era sempre stato sconosciuto.
Sentì dalla labbra poggiate al suo capo che John stava sorridendo.

-Ho comprato quelle tazze per te, stupido. Sapevo che ti sarebbero piaciute se… quando fossi tornato. Tu guardi ma non osservi!

E per la terza volta in tutta la sua vita Sherlock Holmes si sentì di nuovo un idiota.
   
 
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