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Autore: Jenny18    04/03/2012    1 recensioni
Dante. Eva. Elena.
Nomi d'altri tempi. Persone d'altri tempi. Ragazzi d'altri tempi. Italiani. Lontani dalla patria. Lontani tra loro.
New York. Parigi. Atene. Tre città. Tre modi di essere. Diversi. Lontani. Unici. Tre ragazzi. Tre storie. Un unico destino.
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E' la mia prima storia. Gradirei qualche recensione in modo da capire dove e in cosa migliorarmi. Spero che la storia sia di vostro gradimento. Non lasciatevi ingannare dal genere Romantico. Non sarò sdolcinata/patetica. Il tutto avrà il giusto equilibrio. Tremendi segreti vi aspettano ;)
Genere: Drammatico, Malinconico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Non-con, Tematiche delicate, Triangolo | Contesto: Scolastico, Universitario
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Niente è vero. Tutto è consentito. 

Dante guardò fuori dal finestrino del taxi, esaminando l’orizzonte alla ricerca di punti di riferimento- un palazzo, un albero, un ristorante- che potesse fargli capire dove si trovasse. Ed eccolo finalmente lì, svettava magnifico davanti ai suoi occhi, il segno che aveva tanto cercato.
L’Empire State Building di New York.
Manhattan.
Una ragazza, con i capelli corti, lo guardava dall’ altro lato della strada interessata, con la testa leggermente reclinata e gli occhi socchiusi, diffidenti. Non se ne curò. Era abituato a quegli sguardi, lo guardavano tutti così. Era bizzarro. Punto. Nessuna spiegazione, nessun chiarimento. Lui era Dante Hartford e questo bastava. Buttò cinquanta dollari sul sedile dell’autista senza capire la motivazione del suo gesto. “Non puoi permettertelo” sussurrò il suo cervello, ma non se ne curò e uscì dal taxi.
Si concesse uno sguardo a ciò che si era buttato addosso, non ricordava nulla, e rimase stupito da ciò che vide. Non il solito guazzabuglio indistinto di colori e disegni strambi, ma un completo- uno smoking pensò poco convinto, non sicuro del nome di quell’abito formale- e questo gli sembrò molto strano. Non possedeva abiti del genere, né un portafoglio così rigonfio constatò mettendosi una mano all’interno della giacca. Gli sembrava di soffocare. E non per la stranezza della situazione anche se iniziò a pensare di essersi drogato e di aver tentato un colpo a Wall Street, ma perché aveva qualcosa che gli cingeva fastidiosamente il collo; si sentiva come se avesse al collo uno di quei sbrilluccicanti collari di diamanti che Paris Hilton metteva ai suoi topi da compagnia. Si portò una mano al collo e tirò via quello che la New York bene soleva definire un papillon. Ma che diavolo ci faceva vestito così, a Manhattan. E quella ragazza cosa diavolo aveva da guardare. Iniziò a dirigersi verso di lei con passo deciso, ma prima che arrivasse abbastanza vicino a lei da parlarle il mondo intorno a lui iniziò a sbiadire e a scomparire.
Che avesse davvero esagerato con l’alcool? Prima che potesse capire si ritrovò a strizzare gli occhi alla luce abbagliante del sole che entrava da una finestra.
Una finestra al centro di Manhattan? Aveva davvero esagerato! Non si sarebbe mai più ubriacato. Dante scoprì di essere in grado di pregare. E pregò, pregò che qualcuno gli spiegasse cosa stesse succedendo. Poi aprì gli occhi e si trovò nella sua stanza a Brooklyn. Con la luce gialla e abbagliante che entrava dalla finestra. Dalla sua finestra.
Si rigirò tra le lenzuola e ripensò al suo sogno. Lui odiava Manhattan, odiava quel quartiere di New York e i suoi snob abitanti. Odiava tutto di lì, ma amava Carlotta. La amava, la voleva, ma non poteva averla. Lei era irraggiungibile esattamente come lo era stata Beatrice per il suo omonimo.
Adorava paragonarsi a lui. Se sua madre gli aveva dato quel nome doveva esserci un motivo e lui lo attribuiva ad un’illuminazione. Non credeva in forze soprannaturali, ma gli piaceva credere che un essere superiore lo avesse investito di una missione salvifica. Salvare Carlotta e insieme a lei New York. Rendere tutti i suoi abitanti bizzarri, colorati e felici come lui e non ubriachi, drogati, snob e intrattabili. Si alzò dal letto, carico di una felicità dirompente e si preparò un caffé bevendolo lentamente.
Guardò distrattamente l’orologio e si accorse di dover andare a scuola. Di essere in ritardo. In Fottuto ritardo. Niente divisa quel giorno. Avrebbe stupito tutti con il suo pigiama. Essere al centro dell’attenzione era la sua specialità e gli piaceva. Gli piaceva tremendamente. Sorrise rilassato, uscendo di casa e godendosi l’attenzione che tutti gli tributavano. Prese la metropolitana, un taxi non avrebbe mai potuto permetterselo. Lui era Dante Hartford, frequentava la più facoltosa scuola di Manhattan perché sua madre aveva voluto così. Odiava Manhattan. Odiava mescolarsi.
Era squattrinato. Era felice. Era libero.
Ed era in ritardo. In Fottuto ritardo. 

  
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