2 Ottobre 1860, nei pressi di Capua
L’autunno
era cominciato ma non si sentiva: il sole era a picco e faceva un gran caldo.
Da quelle parti la bella stagione non finiva anche quando finiva: una terra
meravigliosa.
Sotto
il ponte, il fiume Volturno, dalle alberate rive, scorreva lento come sempre,
lavando via le ultime gocce di sangue versate in nome di uno stato neonato: per
chi ci aveva creduto era arrivato il momento di festeggiare, e chi invece no
doveva semplicemente star zitto e prendere atto.
La
storia aveva fatto la sua scelta.
Sopra
il ponte, un soldato dalla divisa lacera si trascinava con una mano al fianco,
e la spada nell’altra disegnava una striscia nella polvere.
Esausto per il calore, straziato dalla ferita e debole per il sangue perso
cascò pesantemente a sedere, riuscendo faticosamente ad appoggiarsi con la
schiena al parapetto di pietra del ponte, mentre gli squilli di tromba si
avvicinavano.
Eccoli
passare dinanzi a lui, tra mille grida entusiaste e coi fucili alti sopra la
testa, i suoi nemici, che correvano all’inseguimento dei resti sbandati della
sua ultima armata, felici come i contadini alla fine della lunga giornata di
lavoro, come i sognatori alla fine della lunga marcia verso la realtà, che da
Marsala li aveva condotti fin lì.
Nessuno
badava a lui. Quei giovanotti, idealisti dal gran cuore, illusi della prima
ora, lo oltrepassavano senza né schernirlo né soccorrerlo.
L’uomo
aveva molti nomi: Mezzogiorno, Due Sicilie, per qualcuno ancora, Napoli.
Si
stringeva il fianco, sentendosi sempre più debole, ma tutto sommato sorretto da
un’istintiva voglia di rialzarsi, di mettersi in salvo, anche se tutto era
perduto.
Da
quel ruscello di camice rosse zampillò una goccia che si diresse verso di lui.
Una
goccia del suo stesso sangue, che ora gli macchiava la mano al fianco.
Un
bel giovanotto, coi capelli castano scuri e un buffo ricciolo sul lato destro.
Non
appena lo vide, Due Sicilie lasciò che i talloni privi di forza rinunciassero a
quell’ultimo tentativo di sollevarlo; scivolando, lo riportarono giù.
Alle
trombe si unirono le grida.
“Viva!”
“Viva l’Italia!”
“Viva Garibaldi!”
“Evviva!”
Giubilo,
da un lato e dall’altro del ponte.
Romano
Vargas era come lui, sporco di polvere, sudato, sanguinante da una fasciatura intorno
al braccio, ma era vincitore, a testa alta come mai, colmo di speranze in un
momento glorioso che tanto aveva sognato.
Se lì per terra non ci fosse stato l’altro avrebbe anche potuto goderselo.
“Perché?”
-domandò l’uomo con le lacrime agli occhi.
Erano
simili loro due: contadini, uomini alla vecchia maniera, abituati a “tirare
avanti” dinanzi le difficoltà come pochi altri popoli. Poche cose non riuscivano
a sopportare, davanti le quali crollavano, e, tra queste l’ingratitudine,
specie quella di coloro che si era amato.
“Perché?”
–domandò di nuovo.
Romano
si morse un labbro.
“Ti
volevo bene comm’ a nu figlio! Ti ho dato da mangiare, ti ho fatto studiare, ti ho
dato la prima ferrovia d’Italia, il primo ponte di ferro d’Europa, una marina
di cui andare fiero, ti ho dato pure la costituzione… Ti volevo far diventare
bello, ricco e felice! Perché?”
Che
dolore, dopo averlo immaginato con una bella e pulita divisa, coi bottoni
dorati, i gradi sulle spalline e la sciabola al fianco, vedergli addosso quella
camicia. Così semplice, tessuta di promesse e tarmata dai dubbi, ma che aveva
preferito a tutto quello che aveva e avrebbe potuto dargli.
“Ti
voglio bene.” –gli rispose- “Mi sarebbe piaciuto tanto diventare finalmente
qualcuno importante insieme a te. Bello. Ricco. Felice.” –gustò ogni parola,
con un malinconico sorriso- “Davvero, mi sarebbe piaciuto. Ma io non voglio
essere bello, ricco e felice da solo. Io e mio fratello siamo sempre stati separati,
ora possiamo finalmente essere un’unica nazione, uniti, non divisi ad aspettare
il prossimo che venga da fuori a comandare a bacchetta. Io voglio stare con
lui, voglio essere bello, ricco e felice insieme a lui, vogliamo finalmente
essere una Italia e basta. Ti voglio bene, Napoli. Ma ho deciso. Vedremo come
andrà.”
Romano
si incamminò sulle orme delle altre camice rosse, oltre il ponte, verso nord, da
dove stava arrivando il suo amato fratello, per gioire insieme, prima di
rimboccarsi di nuovo le maniche.
Due Sicilie lo guardò andare via; la sensazione di dolore al fianco spariva,
come tutto il resto.
Malgrado
tutto, non riuscì a maledirlo. Tanto valeva augurargli buona fortuna, ma non
aveva la forza per far raggiungere le proprie parole a quelle orecchie già
distanti.
Sospirò
e prese un sorso d’aria, rinfrescando almeno un poco la gola chiusa dal pianto.
“I
figli so’ piezz’ e’ core…”
Senza
cuore non si vive, e il suo se n’era andato, verso un destino che avrebbe
finalmente condiviso con chi desiderava da tanto tempo.
Fu
così, tra il frinire delle cicale dalle rive e le grida di gioia degli italiani,
che spirò.
Angolo
dell’autore
Eccomi
qui! Mentre sono ancora all’opera con la mia fic sulla vita di Russia
(“Historia Russiae – Così divenni grande”, se non l’avete ancora beccata
correte a leggerla ^__°), ecco qui che torno alle mie prime brevi one-shot
hetaliane “serie”.
Questa
fic, il cui titolo è un popolare detto napoletano (il dialetto che parla
appunto Due Sicilie), mi riguarda molto da vicino perché sono di Santa Maria
Capua Vetere, una delle città presso cui si combatté la Battaglia del Volturno,
l’ultima della spedizione garibaldina, e, sebbene sia convinto del valore
dell’unità italiana, ho sempre visto con simpatia lo stato preunitario che qui
ho fatto morire.
Il
Regno delle Due Sicilie non era certo uno degli stati più democratici e felici
di allora, con larga analfabetizzazione e arretratezza in vari settori, ma in
altri campi era invece molto all’avanguardia e il cammino di rinnovamento e
riforme, anche se procedeva a rilento, era stato intrapreso. Tra i suoi
successi ci sono la citata prima linea ferroviaria della penisola e il primo
ponte sospeso in ferro d’Europa; era inoltre, al momento dell’Unità, lo stato
italiano più ricco (prima che i piemontesi rubassero la riserva aurea del banco
di Napoli lasciando il sud nella povertà, ma vabbé…).
Se
avesse voluto, forse in seguito avrebbe avuto lui, e non il Piemonte, le carte
in regola per riunificare l’Italia, ma ormai la storia era stata scritta, e, da
prima ancora che lo vedesse morire, Romano aveva fatto la sua scelta di riunirsi
al fratello, rivelatasi poi a tratti felice, a tratti rimpianta…
Commentate!
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