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Autore: FSanny    11/03/2012    4 recensioni
Cosa accade quando una diciassettenne curiosa e ficcanaso scopre che suo padre tiene un giovane misterioso prigioniero nelle segrete del castello?
Basta incrociare il suo sguardo, perdersi in quegli occhi di pozzo per lasciar perdere le paure, le convenzioni, per abbattere il muro che la separa dal mondo dell’uomo più affascinante e pericoloso che abbia mai conosciuto in vita sua.
Una storia ricca di lotte, di passione, di sangue. Un racconto semplice e allo stesso tempo contorto che spero riuscirà a catturare la vostra attenzione!
Genere: Mistero | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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From Hell

 
Ciao a tutti! Non mi dilungherò molto nelle “presentazioni” per non annoiarvi, e poi se volete potete anche saltare questa parte!
Volevo solo augurarvi una buona lettura di questo primo capitolo e assaggio di questa nuova storia che spero vi piacerà.
Ci vediamo alla fine per qualche chiarimento! ;)

 
 

Capitolo 1

Visite.

 
Novembre.
E’ mezzogiorno, papà è appena rientrato dalla sua battuta di caccia; l’ho visto attraversare il giardino in sella a Shay, con un ghigno stampato sul volto visibile dalla finestra del secondo piano. E’ un buon segno il fatto che sia rientrato sorridendo: vuol dire che la battuta di caccia è andata come sperava, e che la giornata –secondo il suo modo di pensare- andrà ancora meglio.
Conosco il modo di pensare di mio padre come se fosse il mio, e forse un po’ lo è. Una giornata iniziata male non può che finire peggio; al contrario, se un giorno si apre con una fruttuosa battuta di caccia vuol dire che il resto delle ore che lo separano dalla notte trascorreranno a meraviglia.
Detesto che mio padre vada a caccia. Detesto molte delle sue attività, quelle cose che lui chiama hobby, che per me sono date dalla lettura o dalla scrittura, o da una passeggiata al sole, mentre per lui s’identificano con l’ammazzare bestie indifese per puro divertimento. Mio padre non sa cosa vuol dire divertirsi, e a volte pretende persino di insegnarlo a me. O di insegnarlo a mia madre.
Neanche mia madre sa cosa vuol dire divertirsi; non va a caccia, non legge, non passeggia mai. Rimane ore e ore seduta in salotto ad aspettare che le altre damigelle la raggiungano qui a palazzo e si sistemino accanto a lei, per mangiare pasticcini e bere tè fino a sera sparlando delle famiglie dell’intero paese. Considero mia madre una perditempo, detesto il modo in cui spreca le ore restando chiusa in questo castello grande quanto inospitale, a svolgere attività frivole e senza avere alcun scopo se non quello di continuare a tessere la tela dei suoi rapporti d’interesse.
Secondo i miei calcoli papà dovrebbe essere appena entrato a palazzo. Nelly starà imbandendo la tavola da pranzo, tra un po’ mi manderanno a chiamare e ancor prima manderanno Bea ad occuparsi di me, ad agghindarmi come se dovessi andare ad una festa quando in realtà devo solo sedere a tavola con i miei genitori e passare sotto gli occhi di qualche domestico che tutto noterà tranne che i miei abiti costosissimi e la mia difficilissima acconciatura.
Stasera, invece, ci saranno ospiti a cena. L’ho sentito dire da mia madre mentre mettevo in ordine alcuni libri sugli scaffali della biblioteca, che si trova sullo stesso piano della sala dove mia madre riceve le sue “amiche”. Da quel che sono riuscita ad origliare, si tratta di un ufficiale importante, il braccio destro di mio padre, uno per cui tutte le donne presenti si sono improvvisamente messe a cinguettare.
Di sicuro, se per il pranzo vogliono che mi addobbi in un modo, per stasera dovrò sicuramente aspettarmi di peggio: manderanno Bea ad occuparsi di me tre o quattro ore prima dell’arrivo degli ospiti, ciò vuol dire che non avrò né il tempo per fare sbollire la rabbia che certe situazioni mi fanno salire, né il tempo per scrivere un’altra pagina di diario.
Eccola, sento i suoi passi pesanti avvicinarsi lungo il corridoio. Meglio nascondere anche questo quaderno, o mi spediranno dritta dritta in una scuola religiosa dove crederanno di avere a che fare con un’eretica o con una strega.

 
Spostai lo sgabello accanto all’armadio e mi ci arrampicai per nascondere il diario sul fondo, un attimo prima che Bea, allarmata come se fossero entrati i ladri in casa, spalancasse la porta e mi trovasse letteralmente appesa al bordo del mobile con l’aria da innocente più efficace che potessi sfoderare.
“Signorina Antonia, per l’amor di Dio cosa sta facendo in piedi lì su? Le ho detto mille volte che spolverare è compito dei domestici. Scenda, coraggio, con molta cautela. Attenta a non farsi del male, santo cielo!”
Bea mi aiutò a scendere come se mi fossi arrampicata sul bordo di una montagna e rischiassi di spaccarmi le ossa finendo a terra, stringendomi la mano con misurata delicatezza, e sospirando quando finalmente le punte delle mie scarpette toccarono di nuovo terra. Sorrisi di nascosto di fronte al suo esagerato allarmismo, dopodiché mi sedetti sul bordo del letto ad aspettare che la bambinaia iniziasse il suo lavoro.
Riportò lo sgabello di fronte allo specchio e mi fece cenno di andarmi a sedere, impugnando la spazzola che avrebbe utilizzato come unica arma per infondermi l’aspetto di una bambola. O per sforzarsi di farlo.
Ogni volta che mi pettinava i capelli –riordinando con delicatezza ogni ciocca, come se tra le mani stringesse preziosissimi drappi di seta- notavo dipinta sul volto di Bea un’espressione di chiara sconfitta. Il suo sguardo cristallino si posava sui lineamenti del mio volto attraverso lo specchio e, certa che non la vedessi, emetteva sospiri sommessi continuando a spazzolare con tutta la diligenza per cui era pagata.
“Adesso deve togliersi i vestiti.”
“Faccio io. Puoi andare, ti chiamo quando ho finito.”
Erano circa sette anni che Bea non aveva più il permesso di assistermi mentre facevo il bagno, una piccola conquista che ero riuscita ad ottenere discutendo con mio padre e combattendo contro l’assurdo modo di pensare di mia madre, secondo cui una signorina degna di essere chiamata tale non è in grado neanche di farsi il bagno da sola.
Da quando avevo compiuto dieci anni avevo sviluppato un certo senso di pudore nei confronti di Bea, degli abitanti di quel palazzo e del resto del mondo, ragion per cui non volevo che ci fosse qualcuno presente mentre, completamente nuda, mi immergevo nell’acqua cristallina della vasca da bagno.
 
“Ho quasi finito signorina Antonia, un attimo di pazienza. Ecco, può guardarsi allo specchio.”
Quando ebbe terminato l’opera di vestizione mi girai ad osservare lo specchio, spostandomi dalla sua visuale appena due secondi dopo. Detestavo specchiarmi di fronte a quella bambinaia che mi osservava da dietro con espressione sconfitta, come se tutti i suoi sforzi per abbellirmi non fossero serviti a niente. E in realtà era proprio così.
“Non le piace il vestito? Se vuole possiamo sceglierne un altro, ha un armadio grande quanto il palazzo della Regina.”
“Non scomodarti ulteriormente Bea, non ce n’è alcun bisogno. Dubito che cambierebbe qualcosa se mi cambiassi d’abito, e poi, se lo facessi, non riuscirei a scendere a pranzo e mio padre andrebbe su tutte le furie. Il tuo lavoro è finito, puoi anche andare.”
Bea stava per fare come le avevo detto; dopo una leggera riverenza, girò i tacchi e si avviò verso l’uscita della mia camera grande quasi il triplo della sua, quando la chiamai e le chiesi gentilmente di rispondere a una domanda giurandomi di essere sincera.
“Tutto quello che lei chiede, signorina.”
“Tu mi trovi brutta, Bea?”
“Come? Temo di aver capito male…”
“Invece hai capito benissimo. Secondo te sono meno bella di mia madre, non è vero? E sono meno bella anche di te.”
Le dissi quella frase senza mostrarle rancore, proprio perché non si sentisse accusata o messa in difficoltà. Secondo il modo di pensare dei comuni domestici –e quindi anche del suo- una domanda del genere le veniva posta per farla cadere in inganno, per costringerla a darmi una risposta che mi avrebbe offesa e che, di conseguenza, l’avrebbe fatta licenziare seduta stante.
Ma non era quello il mio scopo. Per quanto gli occhi di Bea potessero essere crudelmente sinceri quando mi guardavano, io non volevo incolparla di nulla, né cacciarla via di casa. In fondo era l’unica persona che mi aveva accudita sin da bambina, e nonostante avesse molti difetti tra tutti gli abitanti della casa era quella per cui nutrivo maggiore affetto, e anche un briciolo di stima.
Rimase in silenzio per un lungo tempo, dopodiché scosse la testa e mi diede la risposta più ovvia, mentendomi spudoratamente.
“Io non potrei mai pensare di superare la sua bellezza, signorina Antonia.”
“Non si tratta di quello che pensi tu, Bea. Si tratta della realtà oggettiva, del fatto che tutti i vestiti più belli di questo mondo non riuscirebbero a donarmi neanche un quarto del fascino che possiedi tu pur indossando quattro stracci. Sono certa che se fossi nata al mio posto saresti stata una contessa splendida, degna dell’ammirazione delle nobildonne e degli uomini più importanti di tutta l’Inghilterra.”
“Signorina Antonia, lei sta delirando. Oddio, forse ha la febbre! Venga qua, mi faccia controllare…”
Bea si avvicinò con passo svelto allungandomi una mano sulla fronte, e affermando allarmata che quelli erano sicuramente i primi sintomi di un’imminente attacco di febbre alta.
“Si spogli e torni a letto che corro a chiamare il dottore. Ah, i suoi genitori saranno molto dispiaciuti di non poterla presentare agli ospiti, stasera. Ci tenevano tanto.”
Quella frase mi fece rabbrividire, ma allo stesso tempo suscitò in me una curiosità tale che mi spinse a fermare i deliri della bambinaia.
“Lascia stare il dottore, non c’è bisogno che lo chiami per cose così banali. Sto bene. Sono certa che basterà restare a riposo tutto il pomeriggio per essere di nuovo in forma in occasione di stasera. Di’ a mia madre e a mio padre che non mancherò, ma che per adesso preferisco restare in camera mia. Corri, vai!”
Avevo colto al balzo la scusa che Bea mi aveva inconsciamente offerto per scansarmi il pranzo con mamma e papà, e sfuggire così a quel centinaio di raccomandazioni che mi venivano ripetute ogni qual volta qualcuno di alta lega veniva a farci visita. Avendo l’occasione di trascorrere un paio d’ore in completa pace e serenità potevo sperare di arrivare fino a sera senza farmi saltare i nervi, e affrontare quella fatidica cena senza deludere i miei genitori né soffrire per la mia dignità che, quasi sicuramente, sarebbe stata calpestata.
 
Alle sette in punto mi venne detto di scendere in salotto, ad aspettare insieme ai miei genitori che gli ospiti arrivassero per dargli la giusta accoglienza. Mancavano pochi minuti all’ora dell’appuntamento, quando dal giardino cominciammo a udire lo scalpitio dei cavalli e il rumore della carrozza accostare di fronte all’ingresso.
“Finalmente! Temevo mi avrebbero fatto addormentare!”
Corsi alla finestra ignorando lo sguardo torvo di mia madre che soppesava ogni mio movimento, rigida e impassibile come una statua. Quando, guardando attraverso i vetri, vidi che dalla carrozza scendeva un solo uomo, i miei occhi si spostarono su mio padre in cerca di spiegazioni.
“Cosa ti aspettavi di trovare? E’ una cena formale, dobbiamo discutere di un affare importante. Corri a tavola e resta lì finché non arriviamo.”
Lasciai i miei genitori sulla porta di ingresso e feci come mi avevano detto, presenziando in sala da pranzo mentre Nelly e gli altri si curavano di sistemare meticolosamente i fiori a tavola.
“Come mai l’hanno spedita qui, signorina Antonia?” domandò Nelly, asciugandosi le mani su un grembiule lercio.
“E io che ne so? Ordini di mio padre, mi tratta come se fossi uno dei suoi soldati. Sono certa che dopo cena mi ordinerà di salire in camera mia, e quando l’ospite se ne sarà andato mia madre verrà a rimproverarmi per il mio comportamento, anche se sarà stato impeccabile ai limiti dell’eccesso. Sono nata in una famiglia di gente fuori di testa, Nelly.”
“Non è soltanto la sua famiglia a comportarsi in questo modo, signorina. Tutti gli uomini si comportano così, solo che lei non lo sa perché è confinata a palazzo da che è nata…”
Le parole di quella donna mi colpirono come una pugnalata, e le risposi subito e con tono di dispetto, come se sentissi il bisogno di proteggermi da un accusa o da una pesante offesa.
“Conosco il mondo e i suoi abitanti meglio di quanto pensiate di conoscerlo voi, l’ho letto nei libri e i libri non mentono mai. Leggo da quando sono nata, e non mi riferisco al momento in cui sono venuta alla luce ma a quello in cui mi sono state insegnate le lettere in modo che potessi aprirmi una finestra sul mondo.”
Vidi che Nelly scuoteva la testa con scetticismo, sorridendo e spostando piatti e posate da una parte all’altra, come se stesse ascoltando i deliri di una che ha completamente perso il lume della ragione.
“Tu non immagini neanche il vasto oceano di conoscenze che la mia mente è in grado di imparare da quei testi scritti, non sai cosa sia l’Irlanda perché non l’hai mai vista, proprio come me, eppure, io saprei descrivere ogni angolo di quell’isola grazie alle storie che ho letto” incalzai, vogliosa di spingere quell’ottusa serva a credermi e ad essere d’accordo con me. Ma lei non sembrava cedere.
“Ha una fantasia grande quanto l’intera Inghilterra” rispose allargando le braccia “e una curiosità fuori dal comune che la spinge a divorare pagine su pagine di uomini che godevano delle sue stesse risorse. Quello che legge nei libri è frutto di menti strambe come la sua signorina Antonia, per questo diffiderei dall’accettare come conoscenze certe tutto ciò che c’è scritto in quelle pagine. Sposi un buon partito che le permetta di viaggiare in Europa e nel resto del mondo, così potrà visitare l’Irlanda e dirmi se tutto quello che c’era scritto nei libri era vero. Dia retta a me, signorina: metta da parte il suo cervello e si comporti da vera contessa, permetta a vostra madre e vostro padre di trovarvi un marito, di occuparsi del vostro futuro. Non sta bene che una donna della sua famiglia si riempia la testa di inutili stupidaggini…”
Volevo replicare ulteriormente alla deludente risposta datami da quella donna ma fui costretta a rimandare la discussione, perché i miei genitori e il loro ospite avevano appena fatto il loro ingresso in sala da pranzo.
Aspettai che si fermassero e poi mi avvicinai, inchinandomi di fronte all’uomo in divisa che aveva attraversato la sala e che adesso mi scrutava con sguardo illeggibile.
Mia madre mi ripeteva spesso che non stava bene fissare le persone nel modo in cui lo facevo io, eppure, nonostante convenissi anch’io che era sbagliato non potevo farne a meno; osservavo le persone per coglierne i particolari, qualcosa che mi avrebbe aiutato a catalogarle come interessanti o perfettamente prive di fascino o degne della mia attenzione, proprio come quell’uomo che non m’ispirava alcuna simpatia.
Tanto per cominciare portava la stessa divisa di mio padre, il che mi faceva pensare che la loro amicizia fosse data da una notevole somiglianza di caratteri. In secondo luogo aveva un aspetto austero e i lineamenti del volto simili a quelli di un’aquila, con un naso irregolare e degli occhi privi di luce ed espressione.
Quando ci sedemmo a tavola la mia impressione non poté fare altro che essere confermata: il carattere di quell’uomo non era simile a quello di mio padre, era perfettamente uguale. Durante la durata di tutta la cena entrambi discussero di argomenti che io preferii ignorare, a differenza di mia madre che assisteva compiaciuta, arrossendo di fronte a una lusinga che quel soldato sborone gli volgeva di tanto in tanto per non farla annoiare.
“Sali in camera tua, Antonia. Dobbiamo discutere di un affare importantissimo.”
Come auspicato subito dopo cena mio padre mi ordinò di salire in camera mia, il che mi conferì non poco sollievo. Finalmente potevo liberarmi di tutti quegli oggetti sbrilluccicanti che mi facevano somigliare a un albero di natale, sedermi alla scrivania e impugnare matita e quaderno per mettermi a scrivere.
Dissi a Bea di ritirarsi in camera sua perché ero perfettamente in grado di togliermi i vestiti, chiusi la porta a chiave e mi arrampicai sull’armadio per tirare fuori il mio tesoro, l’unico capace di liberarmi del peso che mi portavo addosso tutta la giornata.
Dopo essermi liberata dei miei vestiti mi accomodai a tavolino e sfogliai le pagine scritte quella mattina alla luce di una candela che temevo non sarebbe durata molto a lungo.
“Meglio sbrigarsi” dissi parlando a me stessa, e ricominciando a scrivere da dove mi ero fermata in precedenza.
 
Dopo appena mezzora che avevo iniziato a liberarmi vidi la luce della candela cominciare ad affievolirsi, e la cera bianca sciogliersi sul fondo del bicchiere su cui era adagiata. Con la poca luce che mi rimaneva pensai di illuminare il tragitto di strada che mi separava dalla biblioteca giù al primo piano, dov’erano stipate le candele che dopo mezzanotte non mi era concesso accendere.
Uscii dalla mia stanza a piedi nudi per non fare rumore, percorrendo a passi felpati il tragitto fino alle scale e scendendo in punta di piedi fino all’ultimo scalino; l’atrio del primo piano era immerso in una penombra silenziosa, squarciata dalla luce di una fascinosissima luna piena che vegliava sui miei silenziosi passi.
Lessi l’ora su uno degli orologi a pendolo e convenni con me stessa che era tardi abbastanza per essere sicuri che l’ospite aveva ormai imboccato il sentiero di casa sua, e che i miei genitori fossero già crollati dal sonno nel buio delle loro camere, il che mi dava la sensazione di sentirmi più tranquilla. Pensavo di dover stare attenta soltanto ai domestici –che avevano l’abitudine di dormire con un occhio chiuso e uno aperto, e erano dotati dell’udito vigile di un cane da guardia-, ma quando vidi la porta socchiudersi proprio di fronte a me dovetti ricredermi, e rifare a ritroso il percorso che mi aveva portata fin lì sperando che nessuno mi sentisse.
Tentai di correre in punta di piedi per provocare il meno rumore possibile e in parte ci riuscii, riuscendo a mettermi al riparo dai miei genitori giusto in tempo perché non mi vedessero. Mi ero nascosta in un angolo da cui potevo avere una completa panoramica dei due corridoi completamente vuoti che si aprivano alla mia destra e alla mia sinistra; a poco a poco, quando ritrovai un attimo di calma, mi accorsi di essere arrivata in una zona del castello in cui non avevo il coraggio di mettere piede neanche di giorno. L’ala più fredda e deserta di tutta la casa, quella in cui i domestici minacciavano di chiudermi quando da bambina disobbedivo agli ordini di mamma e papà. L’ala dov’erano situate le prigioni del castello.
Mi scostai dal muro su cui mi ero adagiata a poco a poco, osservando l’ambiente per cercare di capire il punto esatto in cui mi trovavo: se la memoria non mi tradiva, la porta alla mia destra dava sulla lunga scalinata di pietra che scendendo negli inferi del castello conduceva alla zona in cui non mi ero mai azzardata a entrare, quella a cui nessuno avrebbe mai osato fare visita.
Improvvisamente percepii come se un vento gelido penetrasse attraverso le fessure dei finestroni disseminati lungo il corridoio e s’insinuasse nel buco della serratura di quella maledetta porta, dietro cui erano sigillate decine e decine di celle che avevano ospitato decine e decine di uomini che non avevano più visto la luce del giorno. Prima che me rendessi conto e che potessi impedirlo, la mia mente cominciò a immaginare cose talmente spaventose da farmi salire il cuore in gola, da convincermi a pensare che tuttora, lì sotto, ci fosse ancora qualcuno a piangere lacrime di dolore e a pregare per essere liberato.
Stavo per correre via in preda al terrore più assoluto quando vidi una luce penetrare in corridoio proprio da sotto la porta, e un coro di voci familiari farsi sempre più fitto man mano che l’orologio a pendolo scandiva i minuti di quella lunga notte. L’istinto su cui potevo a fare affidamento in momenti come quello in cui ragionare non mi era concesso mi guidò in un nascondiglio a poca distanza, da dove potei visionare la scena che mi apparve di fronte agli occhi di lì a poco.
Dopo una manciata di secondi che mi ero nascosta, infatti, la porta delle prigioni si spalancò, e la luce del lume di mio padre si spanse lungo tutto il corridoio costringendomi ad arretrare nell’ombra per non rischiare di farmi scoprire. Dietro di lui, quello che speravo fosse già andato via guadagnò l’ingresso e sgusciò in corridoio, lasciando che mio padre richiudesse quella porta maledetta alle loro spalle.
Per quel che potevo vedere, possedevano entrambi un’espressione rilassata, il che non mi sorprendeva data l’abitudine di papà a scendere lì sotto a ogni ora del giorno. Per lui era come giocare in giardino, era un’altra delle sue improbabili occupazioni. Piuttosto cercai di origliare quello che si stavano dicendo, incuriosita dal fatto che papà mostrasse a un ospite gli angoli più nascosti di tutta la nostra casa; per quel che ne sapevo, gli abitanti di Moore’s house erano gli unici a conoscere il punto esatto in cui si trovavano le celle per i prigionieri.
“Proprio come avevo immaginato: non ti smentisci mai, amico mio” sentii dire all’ufficiale con tono fiero, puntando gli occhi in quelli di mio padre illuminati dalla luce del lume. Le sue pupille scintillavano di soddisfazione.
“Sono certo che qui potrete servirgli il giusto trattamento, così da fargli passare la voglia di fare la rivoluzione e convincerlo invece ad aprire quella maledetta boccaccia per scopi utili. Sapevo che potevamo contare sul tuo aiuto.”
“Dovresti imparare a fidarti di me più facilmente, Conrad. Sai bene quello di cui sono capace e anzi, ora che ci penso, trovo che tutto questo sia un po’ troppo per un giovanotto di bassa lega come quello che mi hai presentato pochi giorni fa. Secondo me potremmo tentare di farlo parlare con un diversivo, qualcosa di meno doloroso…”
Dopo aver recepito quelle parole il mio udito si acuì ulteriormente; ero intenzionata a cogliere ogni sfumatura di quella conversazione, terribilmente incuriosita dalla piega che stava prendendo.
Se mia madre avesse saputo che spiavo con tanto interesse i discorsi di mio padre avrebbe sbattuto me sul fondo gelido di una cella, eppure nessuna minaccia in quel momento sarebbe riuscita a mandarmi via di lì. Volevo arrivare al fondo della questione.
“Sei tu che non ti fidi di me, mio caro Hector. Non esagero se ti dico che la volontà di quel ragazzo è forte come il ferro, se la sua forza d’animo è imbattibile quanto la forza fisica di mille soldati. Se fossi stato in grado di piegarlo utilizzando metodi meno dolorosi, stai pure certo che non ti avrei scomodato inutilmente. Non sono una macchina priva di sentimenti, credi che non mi costi nulla infondere a un uomo delle torture?
Improvvisamente mio padre sollevò il palmo della sua mano facendo segno all’ufficiale di zittire un attimo, piegando la testa in mia direzione per cercare di indovinare il punto esatto da cui proveniva il rumore: senza rendermene conto avevo fatto scivolare il bicchiere con la candela sul pavimento spaccandolo in mille pezzi, e provocando un tonfo rumorosissimo che attirò l’attenzione di ambe due i soldati.
Per fortuna prima ancora che mio padre potesse raggiungere il mio nascondiglio io me ne ero già andata, ero sgattaiolata in camera mia correndo a perdifiato fino a raggiungere la porta e a sbarrarla alle mie spalle; riposi il quaderno sul fondo dell’armadio divincolandomi al buio tra i mobili che affollavano la mia stanza, fino a scivolare a letto e a insabbiarmi sotto le coperte con gli occhi sbarrati e il respiro affannoso. Un attimo dopo riconobbi i passi di mio padre risalire le scale e allora socchiusi gli occhi e pregai, per lo spavento, che né lui né il suo compagno mi avessero vista. Quando ormai il cuore stava per balzarmi fuori dal petto sentii il rumore dei passi cessare e la presenza di mio padre oltre la porta. Un minuto dopo, quando ormai temevo di dovermi preparare a trascorrere il resto dei miei giorni in prigione o in collegio, il rumore dei passi riprese, e il cuore e il resto degli organi andati in subbuglio dentro il mio corpo scivolarono di nuovo ognuno al proprio posto.
 
Il mattino dopo Bea venne a svegliarmi e a vestirmi per fare colazione in giardino, il che avveniva soltanto in occasione di una qualche festività o del mio compleanno. Quel giorno era domenica, e se la memoria non mi tradiva non avevamo un bel niente da festeggiare, a parte forse una splendida giornata di sole dopo settimane di freddo e piogge insistenti.
“Mio padre non ti ha detto perché vuole che facciamo colazione fuori?”
“No signorina, mi ha pregato soltanto di farla preparare il più velocemente possibile.”
Mi feci guidare dai movimenti di Bea che quel giorno mi concesse di farmi indossare un abito semplice e relativamente comodo, di un grigio luminoso ed elegante, perfetto per sedere al tavolo in giardino in compagnia dei miei genitori. Ero troppo assonnata per pensare al motivo per cui quel giorno fossero andati contro la normale consuetudine di farmi servire la colazione in camera mia, e avevo i sensi ancora ovattati dal sonno per ripensare a ciò che era accaduto quella notte, soltanto poche ore prima, e collegare inevitabilmente i due eventi.
Il giardino era immerso in un clima tiepido, illuminato completamente da un sole quasi primaverile, immerso in un’atmosfera fiabesca messa a repentaglio soltanto dall’espressione del volto contratto di mio padre che mi guardava da sopra il giornale. Mia madre sedeva poco lontano immobile come una statua, con le pupille fisse sul fondo di una delle preziose tazze del servizio con cui facevamo colazione.
Presi posto a tavola ignorando gli occhi inquisitori di mio padre che spiavano ogni mio movimento, e che mi fissarono fino a quando non incrociarono il mio sguardo; allora, dopo che avevo trascorso muta un abbondante quarto d’ora, decisi di chiedergli il motivo per cui quel giorno mangiavamo in giardino simulando l’atmosfera di una perfetta famiglia inglese.
“Perché è quello che siamo, tesoro mio” rispose mio padre scandendo con precisione le ultime due parole, come per mettermi al corrente che quella era la prima e l’ultima volta che uscivano dalla sua bocca, e che erano più false delle amicizie di mia madre.
Dopo aver fatto una pausa in cui sorseggiò con finta voglia una tazza di tè, ripiegò il giornale in due parti e si chinò in avanti, puntandomi il suo sguardo felino sul volto. Solo allora, notando lo scintillio pericoloso nei suoi occhi, capii di trovarmi in guai seri.
“Dimmi, Antonia, sei per caso uscita da camera tua dopo che ti avevo detto di andare a letto, ieri sera?” domandò, ed io sentii la colazione andare su e giù per lo stomaco. Dovevo contenere l’agitazione, mentire a mente fredda; purtroppo non ebbi neanche il tempo di rispondere.
“Perché è successo un fatto strano, un po’ di tempo dopo che tu hai lasciato la sala da pranzo. Tua madre è rimasta lì per circa mezzora, e quando è uscita ha rischiato di giocarsi la vita vedendo una sagoma vestita di bianco schizzare via nel corridoio buio in direzione dell’unico posto in tutto il palazzo in cui non ti è concesso entrare.”
Papà sembrava aver calcolato fino in fondo il modo in cui farmi morire di una morte lenta e dolorosa, che avrebbe strabuzzato i miei nervi già tesi e le interiora in subbuglio. Sapevo che non voleva che gli rispondessi, per questo mi limitavo ad ascoltare il suo monologo senza abbassare né lo sguardo né la guardia. Erano anni che non mi beccavo una punizione, e nessun libro mi aveva mai fornito informazioni sul modo in cui un uomo punisce una figlia diciassettenne troppo impicciona, in Inghilterra, a parte il collegio che a quell’età, appurai in quel preciso istante, sarebbe servito a poco.
“Come se non bastasse, mentre mi trovavo nel corridoio dell’ala ovest a discutere con il nostro ospite di un affare importante e segretissimo qualcuno ha rotto un bicchiere in mille pezzi e poi e corso via, sparendo dalla mia vista. Sai quanto odi i codardi che non hanno il coraggio di dichiarare le proprie colpe, non è vero Antonia?”
Annuii in risposta alla sua domanda; sapevo che una confessione falsamente sincera sarebbe stata inutile per quanto strappalacrime potesse essere la tragedia che avrei potuto mettere in scena. L’animo di mio padre era poco sensibile a simili scene, anzi, a dire il vero le ripudiava del tutto. Meglio attenersi al suo gioco, ad arrivare dove lui voleva condurmi; con gli anni avevo imparato a non contraddirlo, non quando questo poteva pesantemente giocare a mio sfavore.
“Detto questo, vorrei che mi aiutassi a scovare il colpevole. Potrebbe essere stata Bea, secondo te?”
Scossi la testa. “No, papà, non è stata lei. L’ho vista ritirarsi in camera sua con i miei occhi, e dopo averlo fatto non è più uscita.”
“Allora vuol dire che la colpa è di uno dei domestici. Stai accusando Nelly, per caso? Adesso la chiamiamo, così vediamo cosa ha da dirci.”
“Non è neanche colpa sua, papà.”
Il gioco di mio padre era crudele. Sapeva che ero stata io, eppure si divertiva a torturarmi lasciandomi sulle spine. Tirai un sospiro per cercare di ritrovare la calma.
“E allora chi può essere il colpevole? Chi si è permesso di mettere il naso in posti in cui non gli è concesso neanche mettere piede?... Allora?”
Abbassai lo sguardo. Sentivo che la sentenza sarebbe scattata di lì a poco.
“Eri tu, Antonia? Sei stata tu a spiarci? A nasconderti nel punto in cui sono stati trovati i pezzi di vetro?”
“Stavo cercando delle candele.”
“Per farne che cosa?”
“Leggere. Non credo si tratti di un crimine, e il fatto che mi sono persa…be’, non posso essere accusata per questo. Sono rimasta lì dietro perché temevo ti avrei fatto arrabbiare. Mi dispiace.”
Vidi papà sprofondare poggiato allo schienale della sua sedia, e respirare vittorioso. Sollevai le pupille docilmente, facendole ruotare da destra a sinistra; non era arrivato ancora nessun funzionario del collegio e papà non aveva ordinato a Victor e suo figlio di mettermi in gattabuia, il che mi lasciò sgomenta. Quando ebbi il coraggio di guardarlo negli occhi mio padre mi osservava con un ghigno soddisfatto sul volto e tamburellava con le dita sul tavolo.
“Sono felice di poter contare sulla tua sincerità, Antonia, nonostante certe volte metta il naso in cose che non ti riguardano. Quel che mi è difficile credere e, più che altro, sopportare è che tu trascorra tanto tempo a leggere, persino di notte. La notte è fatta per dormire, e ora comprendo il motivo per cui ultimamente non hai un bell’aspetto. Devi passare molte ore sveglia per avere quelle occhiaie, e se è colpa dei libri vorrà dire che d’ora in poi verrai punita ogni qual volta ne sfoglierai anche solo qualche pagina dopo che ti avrò mandata a letto. Intesi?”
Feci cenno di sì con la testa, mostrandomi d’accordo con quella cascata di stupidaggini appena uscite dalla bocca di quell’uomo. Sempre meglio di una qualsiasi altra punizione, pensai, e poi sarei riuscita a sfuggire al suo controllo e a leggere e scrivere ogni volta che ne avevo voglia, anche dopo essermi messa a letto.
Quando pensavo che la discussione fosse giunta al termine, tuttavia, mio padre riprese a parlare e mai come quel giorno sperai che stesse zitto e mi ordinasse di risalire in camera mia, o che mia madre mi chiamasse per tenerle compagnia in salotto ad attendere l’arrivo delle sue amiche. Il tono di voce che assunse –ancor più rigido di quello di prima-, suscitò in me uno strano senso di curiosità misto ad inquietudine, segno che stava per comunicarmi qualcosa di veramente serio ed importante.
“Già che hai origliato metà della nostra conversazione da perfetta maleducata” cominciò “voglio che tu sia messa al corrente di tutta la faccenda, in modo che d’ora in poi non ti venga la barbara idea di tornare a ficcare il naso in posti e in fatti che non ti riguardano. L’ufficiale Conrad è venuto a farci visita, ieri sera, per mettermi al corrente dell’arrivo di un ospite che arriverà a palazzo questo pomeriggio…”
“Ospite?” lo interruppi, sorpresa dal fatto che avessimo visite per due giorni di seguito.
“Esatto. Ma non si tratta di un ospite qualsiasi, Antonia. Si tratta di un prigioniero.
All’udire quelle parole strabuzzai gli occhi. In realtà il pensiero che quelle celle terrificanti ospitassero realmente qualcuno era sempre stato frutto della mia fantasia e adesso, vederlo come una certezza, faceva nascere in me una sensazione di insopportabile terrore e agitazione. Di quali colpe poteva essersi macchiato quell’uomo per essere imprigionato nelle segrete del nostro castello? E poi perché doveva toccare a noi, o meglio, a mio padre, il compito di occuparsi di lui? Avrei voluto porgli quelle domande ed altre ancora, ma lo sguardo che mi volse mia madre e, in seguito, anche quello di mio padre, furono più eloquenti che mai.
“Quindi io cosa devo fare?” mi limitai a chiedergli, e loro mi guardarono come se delusi dal fatto che non lo avessi intuito da sola.
“Stare il più lontana possibile da quella zona del castello, tenerti occupata come tutte le normali ragazze della tua età, Antonia. E non immischiarti in fatti che non ti riguardano.”

 
 
Ecco a voi un assaggio della storia che, dopo aver riflettuto a lungo, ho deciso di mettere “nero su bianco” e di pubblicare qui, sottoponendola ai vostri giudizi.
In questo capitolo è stata introdotta s0ltanto una parte dei personaggi che faranno da contorno alla storia dei protagonisti, e, più o meno, è stata delineata l’ambientazione e la tematica centrale su cui verterà il racconto.
Cosa ne dite, ce la farà Antonia a ubbidire agli ordini di suo padre e a restare lontana dalle segrete del castello?
E chi sarà il misterioso prigioniero di cui il signore Moore deve occuparsi? Tutto questo nel prossimo capitolo!
Spero di avervi incuriositi – o almeno di non avervi fatto completamente schifo :S.
Nel caso voleste, vi prego di lasciarmi un vostro parere, positivo o negativo che sia.
Baci.
Sanny. 
   
 
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