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Autore: Ekerot    12/03/2012    3 recensioni
C'è un passo, nel XIX capitolo de "Il Silmarillion", in cui Tolkien ha lasciato una zona d'ombra: il terribile viaggio che Beren, unico tra tutti i figli di Iluvatar, affrontò e superò per raggiungere il Doriath.
Non fu certo la minore delle sue imprese. Eppure, non ne fece mai parola. Questo racconto narra una delle possibili versioni di quel viaggio. Dagli alti picchi dei Monti del Terrore, sino al funesto regno di Ungoliant, per comprendere cosa spinse l'eroe a tacere per sempre quegli oscuri eventi...
Genere: Fantasy | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altri
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Il Racconto Perduto di Beren

 

 

PROLOGO

«C'è una storia – forse non è la sola, ma io conosco questa – che è sfuggita alle memorie dei canti.

I protagonisti del mio racconto hanno abbandonato questo mondo molte ere fa. Dovrei dire: quasi tutti. Rimango io, nascosta e inaccessibile nelle viscere della Terra.

Ho pensato a lungo che sarei sopravvissuta, sino all'ultimo, sino alla Battaglia Finale dove qualcuno mi disse – non rammento né il quando né il come – che il mio amato sarebbe tornato.

Col passare dei millenni, questa speranza è svanita. Forse è colpa del buio eterno che regna quaggiù. Forse sono stanca. Forse (come a volte credo) la mia anima ha smesso di lottare.

Ormai sento la morte scendere ogni giorno a corteggiarmi. E allora, prima che la mia voce diventi un sussurro impercettibile, voglio tessere l'ultima trama. Anche se dovesse costarmi le energie residue.

 

Voi umani non potete ricordare. È un periodo appena accennato nelle historiae. Si dice anzi che l'eroe di tale vicenda, Bèren di Bàrahir, non sia mai riuscito a farne parola; troppo grande l'orrore da rievocare.

Quel silenzio fu il suo atto di rispetto verso di me. È giunta però l'ora di riscattare dall'oblio questa storia. Ora, se vorrete, prestate attenzione.



 

CAPITOLO I «Come Beren valicò i Monti del Terrore»

Non poteva ancora saperlo, ma era il viso di Mèlian quello che vedeva riflesso nel lago. Uno specchio d'acqua dove aveva sepolto le amare tragedie della sua vita precedente, compreso lo sterminio del padre e di tutti i suoi compagni ad opera degli Orchi di Sauron.

Erano trascorsi già quattro gelidi inverni dal massacro. Quattro anni di imboscamenti, nascondigli, continue fughe; con le frecce e le zanne del nemico sempre pronte a recidergli la gola. Ormai, non rammentava più l'ultima notte trascorsa in pace senza incubi.

Eppure, l'idea di abbandonare la sua dimora e la tomba di Barahir era stata intollerabile. Aveva continuato a vagabondare nella zona, pur di non separarsi, finché Melkor in persona non si era deciso a porre una taglia sulla sua testa.

A quel punto la sua sorte fu segnata.

Beren dovette chinare il capo e dire addio ai luoghi familiari. Quel lago, dove aveva trascorso più di una sera contando le stelle riflesse e mirando l'effigie ancestrale che lo ammaliava, fu l'ultimo ad essere salutato.

Baciò le acque limpide e ancora gelate, scorgendo per un istante il suo viso abbrutito dalla stanchezza. Sarebbe trascorso molto tempo, prima di poter rivedere il proprio sembiante – mentre il lago di Tarn Aelin ritornò davanti ai suoi occhi soltanto in sogno.

Raccolse la sacca riempita solo di qualche mantello più pesante e corse via, volgendo per sempre le spalle al Dorthonion.

Dove fuggire, fu una scelta obbligata. A Nord, l'intero territorio era stato bruciato e devastato dalle orde di Melkor. Ad est, si estendeva proprio la dimora del Valar rinnegato. Ad ovest, lo inseguiva il perfido Sauron.

Scendere in direzione del reame celato di Doriath apparve l'unica opzione. Eppure in molti avrebbero preferito arrendersi e farsi catturare, piuttosto che attraversare la catena dei Monti del Terrore, altresì detta Gorgoroth.

Difficile raccontare lo spettacolo agghiacciante che sorprese Beren nel momento in cui, sbucato improvvisamente fuori da una fitta area boscosa, vide davanti a sé ergersi quei colossali denti di roccia, completamente avvolti da neve e ghiaccio – si era allora nel mezzo dell'inverno, certo il periodo peggiore per avventurarsi in quella landa.

Forse furono gli ululati pressanti dei Lupi Mannari o forse fu l'ombra di Sauron sempre più vicina a convincerlo. Alla fine, Beren si addentrò tra quei terribili precipizi senza alcuna speranza di uscirne vivo.

Né una strada, né una rotta segnata. Sapeva soltanto di dover andare verso Sud. Imboccò un valico, scegliendo di puro istinto. E la mano del destino continuò a vegliare su di lui, poiché intraprese il passo più breve. Questo, sicuramente, gli salvò la vita.

Beren si coprì come poté, indossando una sopra l'altra tutte le vesti che aveva. L'inverno era rigidissimo e da settentrione soffiava un vento di morte: l'alito di Morgoth gli rammentava ad ogni istante la sua condizione di fuggitivo, e soprattutto di preda.

Unì due corde, l'unico dono del padre rimastogli, per formarne una terza, sufficientemente lunga per calarsi nei profondi strapiombi del Gorgoroth, là dove la scalata diventava impossibile.

Sopraggiunta la prima oscurità, Beren si fermò. Come aveva appreso nei lunghi anni trascorsi nelle terre selvagge, scavò una buca nella neve ed accese un fuoco con la legna raccolta più a valle, nonostante fosse molto umida. Quel calore fu ringraziato spesso durante la notte.

Beren non riuscì a dormire bene, tormentato da cupi pensieri. Per la prima volta in vita sua, capì di essere un esule. Un uomo in fuga verso qualsiasi direzione scelta dal caso. La solitudine, sua compagna da anni, divenne improvvisamente insopportabile: adesso era anche straniero in quella terra di nessuno. E aldilà di essa, sempre che un aldilà fosse possibile oltre il Gorgoroth, non esisteva luogo che avrebbe potuto chiamare casa.

A questo punto scivolò finalmente nel sonno. Poi finì il fuoco. E cominciò di nuovo la veglia.

Già gli arti si stavano congelando. Li frizionò in continuazione, e mangiò quel poco di cibo che gli restava. Urgeva muovere velocemente, e cercare di varcare il passo entro la fine della giornata.

Disperava di trovare cibo in quella landa inospitale – vegetazione non ve n'era, e da lungo tempo Beren aveva giurato di non uccidere nessuna delle creature di Ilùvatar.

Mantenne la rotta verso sud, per quanto possibile. Attorno a sé non vide né percepì segnali di vita.

Il suo unico compagno di viaggio fu il vento, il cui soffio era più crudele di una frustata. Diverse volte fu costretto a scalare la parete rocciosa, e davvero si deve credere che il fato lo sostenesse se riuscì a superare l'ascesa senza gravi ferite.

Nei momenti più ardui, Beren riandava con la mente al lago stellato di Tarn Aelin e quel ricordo – pur se per pochi istanti – gli infondeva nuove forze.

Il sole sparì ben presto dietro le vette, senza che la via avesse accennato a farsi più agevole. Era certo che Beren dovesse apprestarsi a trascorrere un'altra terribile nottata in mezzo ai ghiacci. Dette uno sguardo disperato verso Sud, cercando un segno che spezzasse l'angoscia di quel bianco accecante. E gli parve di vedere a grandissima distanza, ma forse si ingannava, un barlume argenteo. Durò pochi istanti, eppure nel cuore – a sua insaputa – germogliò il desiderio di raggiungerlo.

Non c'era modo di accendere il fuoco. Cercò un angolo più riparato dal vento e si rannicchiò contro la parete. Sentì le membra irrigidirsi progressivamente, allora legò un capo della corda ad uno spunzone di roccia, l'altro attorno alla vita. Fu una mossa saggia.

Perse conoscenza prima che fosse ancora tutto buio attorno a lui. Il terreno su cui giaceva aveva una leggera pendenza, e il manto sotto si era completamente ghiacciato. Senza che se ne accorgesse il suo corpo cominciò a scivolare. Lentamente, ma senza trovare ostacoli.

Finché il vuoto fu attorno a lui.

Il nodo alla vita si strinse per la tensione, e il dolore fu così lancinante, che Beren riaprì gli occhi. Pur nel buio, si accorse di essere precipitato per una quindicina di metri prima che la corda avesse arrestato la caduta.

Sotto di sé non riusciva a scorgere la fine del baratro. Provò subito a far forza sulle braccia per risalire, ma si rivelò impossibile. Non poteva più contare sulle mani, che a stento riusciva a muovere. I guanti, assieme alla spada, si trovavano ormai in fondo al burrone. E presto le dita si sarebbero congelate.

Beren lottò disperatamente. Tentò in tutti i modi di disfare il nodo, anche coi denti, ma ora dopo ora diventava sempre più difficile.

Grande era la forza d'animo di Beren, eppure in quel momento, l'unico del suo terribile viaggio, vacillò. Solo, appeso nel vuoto, senza possibilità di salvarsi, pensò (e molti sarebbero stati d'accordo) che ormai sarebbe morto lassù, imprigionato per sempre in una delle gole del Gorgoroth.

Il primo raggio di sole che penetrò le montagne lo colse ancora vivo. Beren riaprì gli occhi, accogliendolo come l'ultimo saluto. Forse era sulle sue labbra un'ultima imprecazione, e invece disse soltanto: «È finita».

In quell'istante la corda si sciolse dalla roccia. Di propria volontà, lo salvò senza che lui la toccasse – e davvero scoprì nel momento migliore quale grande dono gli avesse fatto il padre, poiché quelle corde erano state create dagli Elfi secoli addietro e la loro magia vi era intrecciata.

Beren, mentre vedeva il versante della montagna allontanarsi, pensò di precipitare direttamente verso la morte. Non sapeva quanto fosse profondo quel baratro.

Centrò un sottile strato di neve, che attenuò la caduta, e finì dentro ad un crepaccio. Colpì il suolo malamente, rompendosi il polso destro contro la lastra di ghiaccio che ricopriva interamente la fenditura del terreno.

Beren cercò subito di tirarsi su; la caduta libera aveva allontanato il torpore della mente e dai sensi. E fu chiaro che le sue condizioni non erano buone: le gambe non si reggevano in piedi, diverse parti del suo corpo si stavano congelando – o forse lo erano già – e non mangiava né beveva da due giorni.

Pure, sentì il bisogno di ringraziare i Valar, perché era ancora vivo ed aveva ancora speranza di venirne fuori.

Approfittò della pendenza del percorso per lasciarsi trasportare giù. Impiegò tutta la giornata per uscire dal ghiacciaio, sapendo comunque di aver proceduto con estrema lentezza.

Ebbe modo di dissetarsi, perché la neve già andava sciogliendosi in piccoli rivi e nel sentire l'acqua scendergli in gola pensò che era un buon segno. Al tramonto trovò solo le forze per rannicchiarsi e dormire.

La mattina successiva continuò a scendere verso la valle, seguendo il percorso di una morena. Strisciava sulle gambe: non poteva più tirarsi in piedi. Il freddo era ancora pungente, ma non soffriva più.

Dentro di lui andava annidandosi il terribile sospetto che alla morte scampata sull'abisso stesse per seguirne una altrettanto atroce. In queste condizioni non sarebbe mai sopravvissuto. Non da solo, almeno.

Fermò la sua discesa al riparo di un arbusto di ginepro, la prima forma di vita che incontrava da giorni. Si appoggiò al tronco sottile, ed attese. Non aveva più energie per muoversi. Né sarebbero mai tornate.

Attese. Poi il sonno calò su di lui.

 

 

 

CAPITOLO II «La morte corre sul filo»

Beren rinvenne in una piccola radura. Sul suo corpo vide diversi bendaggi e medicamenti. A pochi passi dal letto di rami su cui era sdraiato, incontrò con lo sguardo un ragazzo, che aveva all'incirca la metà dei suoi anni. Stava cucendo alcuni lembi del suo mantello, laceratosi durante la traversata.

«Bentornato tra i vivi, signore», disse il ragazzo.

Beren non tentò neanche di alzarsi o solo muoversi dalla posizione supina in cui si trovava. Aveva paura di spezzarsi qualche altro osso, e il dolore al polso destro, anch'esso bendato, gli era sufficiente.

«Credo passeranno diversi giorni prima di potervi vedere di nuovo in piedi, signore», aggiunse l'altro con una leggera punta di ironia. Beren sentì la necessità di dire qualcosa.

«Sono Beren, figlio di Barahir, al tuo servizio».

Il ragazzo si volse, mettendo in mostra i lineamenti fini e i capelli tagliati cortissimi. E tacque.

«Posso sapere il tuo nome, giovane uomo, giacché penso di doverti la vita?», e stavolta la voce di Beren ebbe un leggero tremore.

Non giunse risposta, bensì una risata cristallina ed anche contagiosa, visto che persino il viso di Beren si increspò.

Quando Aël, tiratosi su, fece un leggiadro volteggio per aria e atterrò con un inchino, Beren comprese la verità. Chinò subito il capo per la vergogna.

L'aspetto della fanciulla avrebbe potuto trarre in inganno chiunque, tanto più Beren – vissuto più solo d'un eremita negli ultimi anni.

Dopo l'imbarazzo iniziale, ritrovò l'uso della parola. Da quattro anni non discorreva con un altro essere umano, e scoprì presto quanto fosse piacevole. Fece molte domande alla fanciulla, e lei rispose senza reticenze.

Aël aveva trovato il suo corpo esanime la sera prima, quando aveva raggiunto la zona con il padre. Era per loro il terzo giorno in cui si attardavano sul versante meridionale del Gorgoroth, indecisi su quale direzione prendere. Provenivano da una carovana di profughi dai Monti Occidentali, fuggiti in cerca di una landa più sicura a causa della minaccia di Melkor. Il viaggio si era rivelato un'impresa senza speranza. Tra gli attacchi dei mercenari di Sauron e gli stenti, da una cinquantina che erano partiti, si erano ridotti ben presto in pochi. L'inverno dei Monti del Terrore aveva completato la strage, lasciando vivi solo Aël e il padre.

A questo punto del racconto, un figuro alto e magro, piuttosto in là con gli anni si fece avanti presentandosi. Beren non si era minimamente accorto di lui, nascosto nell'ombra e nel silenzio in fondo alla radura.

«Il mio nome è Èidos il bardo, per servirvi». L'anziano si chinò e l'altro vide che i suoi occhi erano spenti. Ma grandi erano la dignità e il rispetto che emanava dal volto.

Beren si sentì in colpa quando i suoi salvatori spartirono il poco cibo restante per l'ultima cena. Èidos cantillò una breve preghiera ad Elbereth, la Dea sul cui viso splendeva la luce di Ilùvatar, e quella melodia riscaldò il cuore del figlio di Barahir. Con grande dolcezza lo accompagnava Aël, suonando la cetra.

 

Grande Madre del cielo stellato

luce infinita, o Elentàri,

amore ti doni tutto il creato

ché scacci il buio e il male rischiari

 

«Io vi ringrazio, amici, e vi sarò debitore per la vita» disse alfine Beren.

«Siamo noi che ringraziamo te, figlio di Barahir».

Fu stabilito che il terzetto restasse ancora un'altra settimana nella radura, dove il vento gelido del Nord faceva meno male. Aël avrebbe provveduto al cibo e alla legna.

Mentre Beren e il bardo discutevano su come proseguire il viaggio, e intanto si misero a parte di molte storie colme di dolore e patimento, la fanciulla dette prova di grande abilità.

Esplorò a fondo la vallata su cui si affacciavano i Monti del fronte meridionale, stemperati dal vento e assai meno minacciosi di quelli più a Nord. Il manto di neve era più sottile, ed Aël riuscì a procurarsi bacche e radici per sfamare il gruppo. L'aiutarono gli animali del luogo, impietositi dal canto e dalla sua gentilezza, ed ella per ricambiare non li cacciò.

Prima del tramonto ella tornava alla radura e suonava per Beren. Nel guardarlo si turbava, perché il suo corpo era ancora acerbo, ma il cuore celava sentimenti di donna. Difatti lo sventurato, pur scavato dal dolore e dalla fame, ancora mostrava i segni della fiera bellezza del proprio casato – e invero egli discendeva dal grande Bëor. Ma Beren nulla colse di quei turbamenti, né Aël riuscì a comprenderli (per il momento). E certo in questo fu complice la mano del fato, ché la sorte di Beren doveva sconvolgere il mondo e non poteva essere ostacolata.

All'alba del quarto giorno, la fanciulla si levò e andò come sempre in cerca di legna per ravvivare il fuoco. La salute di Beren migliorava ma ancora necessitava di riposo.

Montata su una roccia per salutare il sole nascente, Aël scorse a diversi giorni di cammino una grande massa informe e scura che si muoveva velocemente. Il cuore le disse che quelli erano Orchi. Corse alla radura e svegliò i due uomini. Beren li pregò di fuggire, dopo averlo nascosto. Ma Èidos non volle sentire ragioni. Raccolse i rami portati dalla figlia e con sorprendente abilità costruì una barella, su cui stese il proprio mantello e sopra vi adagiò Beren. Gli chiese in prestito le due corde elfiche, ne porse una ad Aël l'altra la tenne per sé, e con quelle cominciarono a trainarlo.

I battitori di Sauron presto trovarono le tracce nella radura e poi i segni della slitta. Si gettarono correndo come pazzi all'inseguimento, provando la loro famigerata resistenza.

Èidos e la figlia cercarono di trascinare la barella il più rapidamente possibile. Ma le loro forze vennero a mancare a metà del terzo giorno di fuga. A pochi chilometri di distanza cominciarono a sentire i terribili tamburi degli Orchi. Senza accorgersene attraversarono il breve tratto collinare che separava il Gorgoroth dalla landa del Nan Dungortheb. Il paesaggio attorno a loro cambiò repentinamente: il manto di neve divenne roccia, poi sabbia. La temperatura si alzò. Animali e piante sparirono. Ma, soprattutto, per Aël e suo padre trascinare Beren divenne quasi impossibile. Fecero una breve pausa, per respirare e rifocillarsi. Gli inseguitori non distavano più di qualche ora.

Ripresero la fuga, ormai convinti di essere catturati.

Le urla inquietanti dell'esercito di Sauron si fecero presto distinguibili l'una dall'altra. Invocavano continuamente la loro morte, e intanto accorciavano ancora il distacco. Sembrava che le loro energie si rigenerassero durante la corsa.

Già le prime balestre venivano caricate, pronte a colpire rapide e letali, che il bardo s'arrestò, sfinito, lasciando cadere la barella. Si inginocchiò sulla sabbia chiedendo scusa mentre si stringeva il petto.

E certamente lì sarebbero morti. Ma Beren, con uno sforzo imperioso, si alzò in piedi e cominciò a correre. Accompagnò la corsa con le sua urla di dolore; e tale fu l'impeto che riuscì anche a sollevare Èidos e a trascinarlo con sé. Aël restò attardata di qualche metro, giusto per recuperare le preziose corde. Tennero l'andatura per un paio di minuti.

Quando si accasciarono sulla sabbia, era chiaro che nulla potesse più salvarli. Beren avrebbe voluto pronunciare qualche parola, consapevole della fine imminente. Ma non riuscì a dire nulla. Vide Aël stringersi accanto ad Èidos per fargli scudo. Poi si voltò verso di lui, e Beren lesse negli occhi un estremo bisogno di speranza.

«Ce la caveremo», mentì. In quell'istante sibilò un dardo nell'aria; Beren non fece in tempo a spostarsi, ma il proiettile cadde a diversi piedi da lui. Era evidente che il tiro aveva mancato volontariamente il bersaglio.

Volgendo lo sguardo alle proprie spalle, i fuggitivi si accorsero che la schiera di Orchi era rimasta ferma, vicino ad un solido monolite di colore brunastro che incombeva inquietante sulla scena. Giungevano solo schiamazzi, grugniti, e urla di sarcasmo.

Beren tirò un sospiro di sollievo. Vide che la sua mano era rimasta impigliata in un filo. Un filo teso di cui non vedeva la fine.

Aël fu la prima ad alzarsi in piedi e rispose con la sua voce acuta agli Orchi. Poi si volse al padre con il trionfo sul viso:

«Abbiamo scampato la morte, credo». Ma Èidos scosse il capo:

«Abbiamo solo trovato una morte peggiore».

Mangiarono in silenzio le ultime scorte, e nei loro visi traspariva comunque la felicità di essere ancora riuniti. Il braccio destro di Beren pareva migliorato, ma era ancora inutilizzabile.

«Dovrò imparare a fare tutto con la sinistra», aggiunse con un sorriso.

 

 

 

CAPITOLO III «Nella morsa del ragno»

Come ben presto si resero conto, il Nan Dungortheb era una landa desertica, di cui non si scorgevano i confini. La sua posizione così a settentrione garantiva che la temperatura non raggiungesse picchi mortali, ma restava un deserto: dune di sabbia, dune di roccia, vento, nessuna forma di vita. E soprattutto, niente acqua in superficie.

Quando il sole cominciò la sua discesa, Beren si accorse che tutt'attorno calava la nebbia. In poco tempo non fu possibile vedere a più di venti metri. Sopraggiunse anche il freddo, e il terzetto decise di fermarsi e piantare il campo.

Avevano cercato, per quanto possibile, di continuare la rotta verso sud, verso il Brethil, la meta originaria della carovana di cui faceva parte Èidos con la figlia. Beren bramava di raggiungere quel barlume argentato che ogni tanto gli appariva, ma tenne per sé questo desiderio.

Accesero un fuoco, trovando almeno il piacere di un po' di calore. L'acqua finì e cominciò il loro digiuno. Erano tutti e tre abituati a saltare i pasti, e non vi prestarono particolare attenzione. Le stelle di Varda splendettero quella sera più luminose che mai, e così il nostro terzetto riuscì a scorgerle tra le coltri di nebbia. Beren raccontò le storie dei suoi avi, mentre il bardo lo accompagnava.

Per Aël fu un momento indimenticabile: assaporò ogni attimo di quel bivacco, e in cuor suo sentì di non aver bisogno di altro. Quando venne l'ora, si coricò affianco a Beren e lo abbracciò nel sonno per scaldarsi. Sognò il mare, che mai aveva visto, e nel sogno aveva i capelli lunghi.

L'alba strappò via le sue fantasie e cinse il cielo quasi di rosso.

Quando la fanciulla aprì gli occhi, scorse Beren già in piedi. Eccetto il braccio, sembrava stesse piuttosto bene. Le mandò un sorriso di incoraggiamento.

«Buongiorno dormigliona! Stavamo per lasciarti qui da sola nel deserto».

Aël, in pochi minuti, fu pronta a mettersi in cammino.

«Da che parte andremo?», domandò ai due uomini.

«Nell'unica direzione possibile: a sud. Sperando di trascorrere non più di un'altra notte qui, altrimenti...», Beren non terminò la frase.

«Altrimenti? Moriremo di sete?». L'altro annuì. Ma ebbe la percezione che Aël non desse molto rilievo a questo rischio. Anzi, pareva quasi raggiante.

Cominciarono subito la marcia, approfittando della momentanea frescura dell'aurora. Quel deserto aveva un'aria irreale, molto inquietante. Beren continuava a guardarsi attorno, abbracciando con lo sguardo tutto l'orizzonte possibile. Fu Èidos ad esprimere per primo ad alta voce i dubbi che lo attanagliavano.

«Tutto troppo tranquillo».

I loro dubbi diventarono realtà pochi minuti dopo. La nebbia stava iniziando a diradarsi quando Beren intimò ad Aël, che camminava pochi metri più avanti, di fermarsi. La fanciulla non comprese inizialmente il motivo di quell'arresto. Poi vide, e il terrore la annientò.

Il terzetto stava procedendo lungo un ampio tratto di deserto che pareva scavato tra due gigantesche dune di roccia brunastra. In mezzo ad esse era tesa un'immensa ragnatela, alta quanto le dune. La nebbia impediva di vederne le reali dimensioni, così che ad Aël apparve ancora più grande. Si gettò subito indietro, rimettendo quel poco che le era rimasto nello stomaco. Beren, mentre spiegava al bardo la situazione, la sollevò dolcemente e cercò di confortarla.

Non c'era modo di passare. Ponderò velocemente che, data l'enormità di quella tela, il ragno doveva essere colossale. E altrettanto rapidamente, suggerì di tornare indietro.

La loro visita, però, non era passata inosservata. Quattro paia di occhi rossi, grandi ciascuno più della testa di un uomo, avevano seguito l'intera scena. Nonostante la nebbia, erano perfettamente in grado di localizzare il terzetto.

Appena voltarono a destra, in cerca di un altro passaggio, la bestia immonda attaccò.

Fu Èidos a percepire un movimento nell'aria a pochi metri di distanza, e gridò di gettarsi a terra. Le fauci, difese da due enormi chele, mancarono di poco il bersaglio; e il ragno emise un rantolo di rabbia. Quel suono gelò il sangue nelle vene di Aël, che per poco non si sentì mancare.

Anche con la scarsa visibilità, Beren intuì che quella bestia dovesse superare la stazza di un destriero; non avrebbero avuto scampo dandosi alla fuga. L'unica alternativa era affrontarlo.

E gli si lanciò contro, completamente indifeso, cercando di concedere un po' di tempo ai suoi compagni per scappare e forse salvarsi. Ma Aël l'aveva preceduto. Vide la fanciulla scartare di lato e, destreggiandosi tra le enormi zampe, saltare sulla groppa del ragno. Era troppo tardi per fermarla.

In quella posizione risultò meno vulnerabile. Il mostro, sorpreso da quella mossa, non riuscì a reagire prontamente, permettendo ad Aël (quello era il suo piano) di afferrare una corda e passargliela attorno alla testa. Il contatto con la magia elfica fece indemoniare ancor di più il ragno, nel cui sangue scorreva il veleno di Melkor, e la sua pelle fumava tanto ne era il male racchiuso. Si impennò ed Aël cadde all'indietro, allentando la presa. La bestia si voltò, e sarebbe stata la fine per la fanciulla, se Beren – ripresosi dallo sconcerto – non avesse cominciato a tirare l'altro capo della corda.

Il ragno lottò disperatamente per sciogliersi da quel cappio micidiale. Ma il suo potere non bastò per resistere a quei fili intrecciati secoli addietro alla luce di Arda. Poi si accasciò, senza vita.
Aël piangeva riversa per terra quando Beren accorse per controllare le sue condizioni.

«È finita, Aël, puoi alzarti adesso: non c'è più pericolo». Appena fu di nuovo in piedi, le si avvicinò. Con la mano le scosse via la sabbia dal viso.

«Magari la prossima volta avvertimi prima!». La fanciulla accennò un sorriso in risposta, senza molta convinzione. Quando raggiunse il padre, lo abbracciò con forza sciogliendo la tensione. Non capì dove fosse riuscita a trovare la forza per reagire all'orrore che le aveva bloccato le gambe. Soprattutto, non aveva alcuna intenzione di fare ciò che aveva compiuto.

E invero a smuoverla era stata la visione di Beren ad un passo dall'essere ucciso.

Si riposarono per qualche minuto, ma fu presto chiaro che urgesse allontanarsi il prima possibile da quel luogo.

Attorno a loro la nebbia era svanita. Giunse il caldo opprimente, eppure continuarono a marciare. Fu un grave errore, perché il calore fece loro aumentare la sete e il bisogno assoluto d'acqua. Tale era la fatica che neanche una parola venne pronunciata durante il viaggio. Poche ore dopo, crollarono. Si ripararono all'ombra di una gigantesca duna, coprendosi coi mantelli e sperando di sfuggire alla vista dei ragni.

Quando Aël riaprì gli occhi, il sole stava calando. Per poco non si mise ad urlare, quando vide a non molta distanza un altro di quei ragni, anche più grande del precedente. Ma qualcosa non tornava. La bestia pareva inerte, tutta china su un fianco, con le otto zampe completamente immobili.

Come le fosse tornato il coraggio, si alzò e senza far rumore provò ad avvicinarsi cogliendolo di spalle. Osservò con attenzione la sabbia in cerca di orme e si mise in ascolto. Eccetto il vento leggero, non si udiva rumore.

Fece per muovere un ulteriore passo, quando scorse una lunghissima processione di piccoli ragni che si allontanava dalla bestia. Fu colta dal panico, ma si costrinse a respirare. Non si erano accorti di lei, e presto diventarono invisibili puntini tra le dune.

Si accorse ben presto che davanti a lei giaceva soltanto la carcassa vuota di un ragno – come se avesse cambiato pelle. Pensò allora che lì dentro potessero entrarci tutti e tre.

Così, pochi minuti dopo, il ragno disteso si alzò e cominciò a muoversi, pur con gran difficoltà. E certo, una sorella della sua razza si sarebbe subito resa conto dell'inganno. Ma Varda ancora protesse i suoi beneamati, celandoli agli occhi e al potente olfatto di quelle creature. Finché poté.

Attraversarono, nascosti nella muta del ragno, quasi tutto il deserto del Nan Dungortheb. Beren guidava il cammino, evitando con grande prontezza le immani tele che si stendevano tra le dune. E vide bestie ancor più spaventose di quella che avevano ucciso.

Ogni tanto alle loro orecchie giungevano delle grida così strazianti da far credere che alcuni esseri fossero stati catturati. Dunque vi erano altri sventurati, chissà come finiti lì.

Beren concluse che tra le truppe di Sauron e quei ragni dovesse esserci una sorta di tacito accordo.

Volgeva al termine anche il secondo giorno nel deserto. Non potevano scorgerli, ma dinnanzi a loro iniziavano ad essere visibili i primi contorni del reame celato. Èidos spezzò finalmente il silenzio dopo ore.

«Se riusciremo a resistere sino all'alba, saremo salvi. Ne sono certo». Donde gli derivasse tale certezza non lo disse. Ma Èidos svelò soltanto parte del suo presentimento: sapeva infatti, con altrettanta certezza, che non avrebbero mai raggiunto i boschi del Brethil.

Pochi istanti dopo udirono lo scrosciare dell'acqua.

L'immagine di quel ruscello avrebbe tormentato gli incubi di Beren molte volte negli anni a venire, svanendo sempre prima di poter essere afferrata. Altrettante volte, nella piena consapevole sofferenza, si sarebbe domandato come fosse mai potuto cadere in una simile trappola.

Il motivo fu, invero, assai semplice: stavano morendo di sete. Il loro ritmo di marcia era diventato lentissimo, e disperavano di poter continuare in quelle condizioni. Nessuno, con eccezionale forza d'animo, aveva pronunciato una sola parola di lamento; neanche Aël, che pure era giovanissima. Ella guardava la sua guida e spingeva giù per la gola ogni ringhio di dolore. La fatica, la fame, la sete. Riuscì a domare tutto.

Ma quando quel lieve scrosciare del ruscello li raggiunse, fu impossibile non accorrere.

E lì, covava da ore, la vendetta di Ungoliant per la figlia uccisa. Beren ed Èidos vennero immediatamente catturati. Non si accorsero di nulla. Mentre erano chini per assaggiare l'acqua inesistente, qualcosa li colpì alla schiena facendoli stramazzare.

Aël, purtroppo, riuscì a scansarsi in tempo, e vide l'orrore.

Non conosceva la storia di Ungoliant, né la sua figura. Fu annientata dall'enormità di quell'essere che già aveva terrorizzato i Valar, e distrutto il primo mondo conosciuto. Nei suoi occhi rimase impresso soltanto un frammento di Ungoliant. Il male puro. Persino Melkor ne aveva avuto timore, nei giorni antichi. Le gambe di Aël si mossero rapidamente, e davvero corse fino a stramazzare. Ma a nulla poterono le sue forze.

Quel mostro abnorme, nelle cui vene scorreva il veleno più letale del mondo, era già su di lei. La sventurata percepì solo un gran dolore e poi calò il buio sulle sue iridi spalancate.

Quando Beren riaprì gli occhi venne sommerso da un tremendo fetore di carogna. Scoprì di essere stato legato con centinaia di fili spessi e resistenti. E che era sospeso nel vuoto. Sulla schiena sentiva ancora un atroce tormento.

«Beren, sei tu?» la voce di Èidos lo raggiunse da molto vicino.

Scoprirono di essere entrambi appesi, senza traccia alcuna di Aël.

«Vecchio, dobbiamo assolutamente uscire da questa trappola il prima possibile. Qualunque sia il ragno che ci ha aggrediti, tornerà presto a finire il pranzo». Poi si rese conto di cosa significavano davvero quelle parole.

«Scusami. Non intende-».

«Sono d'accordo. Pensiamo a liberarci». Il bardo aveva ripreso coscienza già da tempo, ed era certo che sua figlia non si trovasse in quella cava. Molto più di Beren percepiva l'oscurità e la disperazione che covavano lì dentro; sentiva il male che tentava continuamente di abbatterlo, e tentò di resistere con tutte le forze: il suo destino si sarebbe compiuto ben presto, ma prima doveva salvare Aël, ovunque fosse finita.

Beren provò a dondolarsi, ma non poté muoversi molto. La tela di Ungoliant, cui erano appesi, li teneva bloccati e nessuno in quelle condizioni avrebbe potuto sganciarsi. L'unica possibilità era recidere i fili. Èidos, con le unghie e con i denti, cominciò a lacerarli dall'interno. E Beren ne seguì l'esempio, riuscendo ad aprire un varco sufficiente per far passare la testa.

Tutto questo agitarsi non passò inascoltato: una delle sentinelle – che vegliava lì nei pressi – si accorse che le due prede catturate avevano ripreso conoscenza.

Beren non riusciva a vedere niente, tanto era fitta l'oscurità in quella cava.

«Vecchio, dobbiamo saltare giù. Ma non so se sopravviveremo».

«Abbiamo un'alternativa?».

«Direi di no. Camminare lungo la tela di un ragno mostruoso non mi sembra una buona mossa! Comunque, salterò prima io. Ormai ci sono abituato». Prese un respiro. Poi si lanciò nel vuoto.

Fu un bene che non vedesse niente. Altrimenti le zanne del ragno, che sopraggiungeva percorrendo la tela verso l'alto, lo avrebbero fatto desistere. La belva non si attendeva un attacco del genere, e non fu lesta ad approfittare dell'occasione. Beren sentì invece l'impatto con la corazza dura e compatta, e subito cercò di aggrapparsi a qualcosa. Trovò una delle otto zampe, e per alcuni istanti scalciò nel vuoto, mentre il ragno si voltò repentinamente. A quel punto, l'arto si ruppe e Beren proseguì la caduta, fino a terra. Se la cavò con un po' di dolore, ma dovette subito guardarsi dal ragno che si era calato in un istante.

L'aracnide, rabbiosa per l'attacco inaspettato e per l'arto rotto, si agitava furiosamente. Con le zampe restanti tentò in tutti i modi di afferrare l'umano, mentre Beren colpiva provando a mirare alla testa con la sua arma improvvisata. Ma era troppo buio, e il duello ebbe vita breve. La preda venne immobilizzata, e spinta verso le fauci. A quel punto Beren, con uno sforzo sovrumano, riuscì a liberare un braccio e ad affondare il colpo nell'unica parte molle di quella corazza: gli occhi.

L'urlo del mostro fu acutissimo, poi si accasciò. Beren, non vedendo nulla, attese la sua reazione.

Giunsero solo delle parole in una lingua conosciuta.

«Tutto bene, ragazzo?».

«Salta pure, vecchio» rispose Beren deglutendo il sangue che gli riempiva la bocca.

Quando entrambi furono di nuovo vicini, si chiesero dove andare. Bisognava anche decidere in fretta. Non era certo che il ragno fosse rimasto ucciso dal colpo.

«Ci vuole luce» raccomandò il bardo. Allora Beren prese dalla tasca del mantello un acciarino. Avvolse la zampa del ragno con un lembo della veste. Èidos rimase in silenzio. Finalmente, apparve una scintilla e poi la fiamma.

Beren la levò verso l'alto, e vide – nel lieve chiarore della torcia – l'antro immenso, la cui volta svaniva nell'oscurità. La tela su cui erano stati appesi conteneva decine di prede, prive di coscienza, o della vita. Da dove provenissero, non lo seppe mai.

Sul pavimento roccioso, giacevano resti umani. Ossa, vestiti, qualche arma arrugginita. Beren avrebbe voluto fermarsi per raccogliere almeno una lama. Ma il bardo gli fece cenno di fuggire: qualcosa di assai pesante si stava avvicinando.

Non si accorsero che durante la caduta le corde elfiche erano rimaste impigliate nella ragnatela (e lì rimasero sino alla fine del Beleriand, perché nessuna della stirpe di Ungoliant ebbe il coraggio di strapparle via: grande era l'orrore che la magia dei figli di Ilùvatar incuteva loro).

Corsero senza fermarsi. Non avevano forze. Non bevevano acqua né toccavano cibo da due giorni. Ma l'alternativa era morire tra atroci sofferenze.

Beren teneva alta la fioca luce, ma fu piuttosto Èidos a guidarlo, perché fiutava l'aria avvelenata e soffocante e cercava di trovarne l'origine. Lì, ne era certo, avrebbe trovato Aël. Non ebbe bisogno di domandare consiglio all'altro, sapeva che Beren non aveva altro pensiero.

Corsero, attraversarono cunicoli, corridoi, caverne, tutte scavate nell'alba dei tempi, e che Ungoliant aveva infettato col proprio male. Mai si sarebbero purificati da tale veleno.

Corsero, ignorando le trappole, i mostri, e i mille occhi rossi che abitavano quelle rocce. Come riuscirono a scampare, la ragione non può dirlo. Nessuno prima né dopo compì la stessa impresa.

Comunque, Beren e il bardo giunsero finalmente in un ambiente diverso. La torcia da tempo si era spenta. Ma ad un certo punto, un'ombra di luce aveva cominciato a rischiarare il cammino. Si stavano avvicinando alla superficie, anche se, presi nella fuga, non vi fecero caso.

L'antro non aveva soffitto. Beren percepì il cielo sopra di sé, ma non poté distinguere il giorno dalla notte tanta era la foschia che aleggiava. Le reali dimensioni del luogo erano impercettibili.

A sinistra svettava un altissimo cumulo di oggetti: armi, tesori, resti umani e animali – anch'essi di grandezza impressionante. Tutto ammonticchiato, senza ordine. A destra la parete rocciosa si sporgeva verso l'interno della cava.

Al centro, disteso su un altare fatto d'ossa, c'era il corpo nudo di Aël. Pareva dormisse. E il suo incarnato era pallido come fosse morta.

Èidos si avvicinò a Beren. Beren rispose semplicemente con un «Sì», detto a bassissima voce.

«Non toccare niente, ragazzo. Qua dentro tutto esala malvagità». E bene consigliò, perché anche solo sfiorare qualche oggetto avrebbe significato la fine.

Beren, da solo, si avvicinò lentamente al letto di morte. Aveva le orecchie tese e i sensi in allerta. Sapeva che il padrone di casa si nascondeva lì vicino. La fanciulla respirava ancora, seppur a fatica.

Dopo una decina di passi la raggiunse e, sopprimendo la paura, le prese la mano. In quell'istante, Aël aprì gli occhi.

E Ungoliant attaccò.

La sporgenza di roccia si mosse con una rapidità eccezionale. Lo sguardo di terrore che Beren lesse nel viso della fanciulla gli salvò la vita. Saltò di lato, schivando di un soffio le chele micidiali.

Ancora di spalle, cercò la sua corda, ma si accorse che non era più con lui. Nel brevissimo attimo in cui si voltò intuì di non avere alcuna speranza. Una fugace visione della bestia, che non poté cogliere interamente la sua mole, bastò a risucchiargli ogni energia rimasta. Tale era il coacervo di male, di crudeltà e, soprattutto, di disperazione concentrato in lei, da non lasciare scampo.

Quando Ungoliant lo assalì, Beren tentò l'unica mossa a sua disposizione: il bastone si decompose entrando in contatto con la pelle del ragno. In un attimo si trovò imprigionato in una morsa che neppure un Vala avrebbe potuto allentare.

Aël lo vide stretto nell'abbraccio mortale e smise di respirare. Al confronto di Ungoliant, l'umano pareva minuscolo: anche una sola delle sue numerose chele era più grande di lui.

Ma un attimo prima della fine, il bardo entrò in scena.

Mai armonia aveva risuonato nella tana di Ungoliant, e mai più risuonò. Pure, per pochi istanti, dalla cetra di Èidos si levarono note di struggente melodia, e Ungoliant, che da lunghissimo tempo non si accostava alla bellezza fu, per un attimo, sconvolta. E quell'attimo schiuse un'era.

Tornò alla sua memoria il ricordo di un'epoca spazzata via, quando ammirava la sua avvenenza in Aman e ancora il sibilo di Melkor non l'aveva sobillata. Forse nel più remoto angolo del suo spirito era sopravvissuto un frammento degli antichi giorni. Ungoliant lo scovò e lo distrusse, poi attaccò Beren con rinnovata furia.

Ma Beren aveva colto l'occasione.

L'immonda creatura, accecata dalla rabbia, non si accorse che la sua preda era riuscita a liberarsi un attimo prima. Colpì invece sé stessa, e il dolore che provò allora fu inenarrabile. Con le zanne staccò la chela ferita e la divorò, spargendo sangue e liquame fetido ovunque. Lesto fu Beren ad afferrare la fanciulla e a condurla via.

Ungoliant, per l'ira, caricò il fianco della cava e, sfracellando la roccia, aprì un varco verso l'uscita, verso il deserto del Nan Dungortheb.

Per anni si aggirò ancora attorno alla sua tana, sbranando qualsiasi cosa le capitasse davanti. Poi, la consapevolezza che quella ferita non si sarebbe mai rimarginata le tolse l'ultimo lume di volontà. E della sua fine non è dato conoscere.

Il terzetto si ricompose e fuggì seguendo la scia del ragno. Si abbracciarono nuovamente all'aperto e, pur nella tragedia di quell'ora, trovarono un barlume di gioia. Nulla domandarono alla fanciulla di quanto le fosse capitato, e comunque Aël non avrebbe potuto rispondere, poiché la sua memoria era offuscata. Coprì il corpo col mantello di Beren, e poi lo abbracciò.

Pianse tutte le lacrime che aveva dentro. Né poté proferir parola, come se la voce fosse sparita. Eppure il suo cuore avrebbe voluto pronunciare quel nome (perché adesso sapeva). Beren la strinse forte, e con la mano le asciugò il pianto. Ma con gli occhi interrogava il deserto alla ricerca del suo confine.

Fu a sud che vide gli alberi. E là, certo, era la salvezza.

Èidos sentì la figlia singhiozzare; un moto di tenerezza l'avrebbe spinto a confortarla, come sempre aveva fatto nei momenti difficili. Questa volta si trattenne, e strinse i pugni con violenza.

 

 

 

CAPITOLO IV «Solo l'usignolo canta al limitare del bosco»

Mentre procedevano, Èidos continuò a mantenere il silenzio. Presentiva che presto sarebbe successo qualcosa di terribile. Ma non volle angosciare ulteriormente i suoi compagni di viaggio.

Aël si sentì male poco dopo aver ripreso il cammino. Era debolissima e la fronte le bruciava. Neppure stavolta le uscì un lamento. Ad un certo punto, Beren vide che stava per perdere conoscenza. Così l'afferrò e la portò avanti stringendola tra le braccia.

La foresta del Doriath distava ancora mezza giornata di cammino: «Troppo», pensò Beren tra sé. Ormai anche lui cominciava a vacillare. Allora il vecchio si avvicinò a lui e gli porse la borraccia.

«Dividila per te e per lei. L'ho conservata per questo momento».

Beren non domandò neppure se avesse bevuto la sua parte. Sorseggiò lentamente. L'acqua purificò il suo corpo. Si sentì subito meglio, e ripartì con passo accelerato.

Frattanto era calata la notte. La coltre di nebbia improvvisamente velò prima il cielo, e poi le dune. Da sud saliva un vento tempestoso che a tratti squarciava il paesaggio, e il rumore dei mulinelli che sollevavano frammenti di roccia e sabbia diventò lugubre.

Là era il luogo in cui il potere di Ungoliant doveva arrendersi a quello di Melian. E terribile pareva lo strazio della terra.

Ma Beren continuava a fissare l'astro del sud e a seguirlo caparbiamente, convinto che l'avrebbe condotto alla meta. Non vide il bardo rimanere attardato e poi sparire inghiottito dal deserto. E certo si deve credere che Èidos di sua volontà non richiamò l'attenzione del giovane, una volta resosi conto di essere rimasto solo.

Aël cominciò a delirare. Si strinse ancor più forte al suo portatore. A Beren sembrava che stesse pregando, ma non ne era sicuro: le parole le morivano in gola.

D'improvviso lei gli fece voltare gli occhi verso i suoi. Beren dapprima fuggì quello sguardo, che gli procurava fitte di dolore più di una lama affilata, poi decise di farsi forza. E vide che negli occhi di Aël ancora viveva la fiamma della ragione.
Capì che la fanciulla non si sarebbe mai arresa. Irrigidì i muscoli delle braccia, sofferenti per la lunga fatica. Sentiva il corpo ossuto della fanciulla rannicchiato contro il suo petto. Sussultava ad ogni falcata. Ma non mollava.

«Varda, fa' che io possa arrivare sino alla fine», mormorò Beren.

Alta ora splendeva, trafiggendo la nebbia, la stella del Sud. La loro unica guida in quella nefasta notte.
Sulle braccia di Aël si aprirono dei tagli, dal nulla. E il suo sangue avvelenato cominciò a fuoriuscire, colorando la scura sabbia. Il figlio di Barahir non s'avvide di nulla.

Finché Aël urlo dal dolore.

Il flusso del sangue s'arrestò, poiché il male di Ungoliant nella deserta distesa del Nan Gurthondeb non poteva essere fermato da nessuno, neppure dalla regina dei Valar.

Beren sentì cedergli di schianto le ginocchia e cadde a terra. Aël rimase immobile a guardarlo, poi lottando con tutte le sue energie rimaste, gli disse: «Uccidimi».

Lui pensò di non aver capito. Pensò che il rumore del vento avesse confuso le parole. Ma le lacrime disperate di Aël lo ricondussero alla verità.

Gli tese il braccio ferito, e Beren si chinò verso di lei, stringendole la mano e cercando nei suoi occhi un indizio per capire. Le chiese cose stesse accadendo, e la domanda venne risucchiata via. Aël provò a tirar fuori le sue ultime parole. Uscì soltanto un verso che nulla aveva di umano; chiuse gli occhi, e in quell'istante comprese che non sarebbe sopraggiunta la morte.

Bensì l'orrore.

Subito dopo, le braccia e le gambe cominciarono ad allungarsi, la testa si gonfiò squarciando la pelle. Il viso di Aël fu inghiottito dai bulbi oculari, enormi e rossi. Il petto crebbe a dismisura.

Beren non poté far altro che guardare quel piccolo corpicino essere spazzato via dal male. L'espressione sul suo viso si pietrificò, e come nella notte infernale sul Gorgoroth, provò un devastante senso di impotenza; qui accresciuto, perché ad esso si aggiungeva la più completa incomprensione.

Arretrò barcollando, e ricordò d'improvviso le urla sprezzanti degli Orchi all'ingresso del deserto: Sauron senz'altro aveva previsto tutto.

Quel che restava di Aël nel cuore e nel corpo dell'immonda bestia tentò di resistere. Nulla poteva contro l'avanzare del tumore: ogni lacrima si portava via i resti della sua umanità, e anche questo faceva parte del crudele potere di Ungoliant.

La trasformazione si completò in pochi attimi.

E così venne generata la più spietata della progenie di Ungoliant, colei che fu in seguito maledetta come la donna-ragno.

Per un'unica volta la volontà di Aël riuscì a domarla. E questo fu un altro segno del grande destino che guidava i passi di Beren, perché venne risparmiato.

Il ragno lo scrutò a lungo, sbattendo le possenti chele, poi distolse gli occhi, distratto da un suono rauco e distante.

Solo quando lo vide sbucare dal muro di nebbia, Beren si accorse che il vecchio Èidos era stato assente a tutta la scena.

Il bardo avanzava lentamente, inciampando spesso sul terreno irregolare. Aveva percepito qualcosa nell'aria. E invocava a gran voce la figlia.

La bestia si voltò, riconobbe quella voce e lottò contro Aël. Rispose con un grido altissimo. Beren rimase immobile. Provò a cacciare via Èidos avvisandolo del pericolo: il vecchio non poté intenderlo. Aveva sì presentito una grave sciagura, ma quella tragedia andava oltre la sua comprensione.

Shelob ruggì e in un attimo gli fu sopra.

Beren fece un passo in avanti, d'istinto, per intervenire. Gli mancarono le forze, come se tutte le fatiche di quegli ultimi giorni lo avessero colpito nello stesso tempo. La sua mente fu portata via dal buio e cadde.

Quando riaprì gli occhi, la pioggia gli picchiettava sul volto. Attorno a lui il paesaggio era profondamente mutato: sedeva in una piccola radura erbosa, ai piedi di un gigantesco albero, e da qualche parte nell'immensa chioma sentì cantare un usignolo.

Beren si tirò su, e gli parve di aver dormito per una settimana. Era debole, assetato e affamato. Scorse in lontananza la furia del vento che mutava ad ogni istante la forma del deserto. Subito gli tornò la memoria. Si tastò il polso, e gli sembrò appena dolente.

Si chiese come fosse riuscito a salvarsi. Cercò negli abiti logori e stracciati un segno. Non trovò nulla.

Rivide per un attimo il volteggio di Aël al loro primo incontro, e il suo sorriso spensierato. Quando gli montarono le lacrime, non oppose resistenza.

Molte erano le domande che avrebbe voluto rivolgere al suo cuore, ma tacque, perché seppe da subito che nessuna risposta sarebbe mai giunta.

Ricordò l'ultimo sguardo al lago del Dorthonion. E capì che stavolta faceva ancora più male. Al proprio dolore aveva aggiunto quello altrui.

Si girò stancamente, e condusse i passi verso il suo destino.

Da giorni, ormai, la voce di Èidos e la lira di Aël più non cantavano per Varda Elentari, la Dea del cielo stellato. Eppure fu grazie al loro sacrificio che Beren poté superare vivo – primo e unico tra i figli di Ilùvatar – il maledetto regno di Ungoliant.




 

EPILOGO

«Questa dunque è la mia storia dimenticata. Così io nacqui, e sola tra le creature di Ilùvatar fui generata da due madri.

Molte ere, da allora, si sono avvicendate. Il mio odio e la mia rabbia contaminarono e resero ancora più infelice la Terra di Mezzo.

Il ricordo di Beren si celò da me. Covò sotto la cenere, in un angolo remoto del mio dolore.

Finché non incontrai il mezzouomo, che recava con sé la luce della stella di Eàrendil. E i suoi raggi mi trafissero, devastandomi e riportando alla memoria quei giorni perduti: perché da quella notte sul Nan Durthongeb non avevo più visto un astro nel cielo.

La vergogna prima, poi la disperazione mi colsero. E anche se voi non lo credereste mai, piansi a calde lacrime.

Mi nascosi, sempre più in profondità, sempre più al buio, mentre il volto del mondo mutava.

Adesso vorrei risalire alla luce a rivedere il mio sembiante. Perché la fine è vicina e non ho il cuore di morire qui, nel freddo abbraccio della terra.

Ché grandi mali ho compiuto, ma con più grande sofferenza ho pagato la mia sorte».

 

 

 

FINE

 

 

scritta da Ekerot

Roma-Torino

Autunno 2011

 

 

 

 

 

Breve Postilla

Lo spunto del racconto è nato da un passo del XIX capitolo de «Il Silmarillion» in cui si dice che il viaggio affrontato da Beren per raggiungere il Doriath fu tremendo al punto da essere taciuto per sempre.

Shelob, da «lob» una parola dell'inglese antico che significa «ragno», è una delle figlie di Ungoliant. Il fatto che sia nata nel deserto del Beleriand è una mia invenzione, ma sembra plausibile. Ancora di fantasia è il fatto che Ungoliant corrompesse fisicamente delle fanciulle per sovvertirle alla mostruosità aracneiforme.

Durante la lunga incubazione della storia sono state di grande supporto la lettura dei post di Wu Ming 4 sul sito «Giap» e di un capitolo del suo saggio «L'eroe imperfetto», dedicati appunto all'opera di Tolkien.

Infine, mi pare giusto citare i nomi di Toni Kurz e Joe Simpson, le cui drammatiche e appassionanti vicende di alpinismo hanno profondamente influenzato il capitolo «Come Beren valicò i Monti del Terrore».

  
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