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Autore: Sylphs    13/03/2012    5 recensioni
Sei mesi dopo la notte del don Juan, una giovane pianista un po' inopportuna arriva al teatro dell'Opera per seguire delle lezioni...ma un misterioso e ambiguo incidente capitato durante una rappresentazione la porterà ben presto a indagare sull'esistenza del temibile Fantasma dell'Opera e una domanda opprime l'animo di tutta la compagnia: è realmente scomparso, oppure la loro era solo una speranza vana?
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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La strega

 
 
 
 
 
 
Erik aveva deciso di morire in grande stile, assecondando il suo carattere orgoglioso e la sua innata passione per la pompa e il fasto. Probabilmente il popolo si aspettava di vederlo abbattuto e patetico nella sua disperazione, ridotto ad un essere tremante e terrorizzato dal rogo imminente, più animale che uomo, ma li avrebbe delusi dal primo all’ultimo. Ora che aveva perduto ogni speranza di ricominciare daccapo, di meritarsi un futuro felice in cui c’era spazio per le risate, il sole, la gioia e persino il vero amore, non gli restava altro che la sua dignità, e nessuno gliel’avrebbe portata via. Considerava la condanna come l’ultimo appuntamento importante a cui si sarebbe recato, e di conseguenza, poco prima che lo preparassero al tragitto in carretta, era uscito dal suo stato di apatia e aveva chiesto, con franchezza e senza umiltà né sottomissione,  di poter fare un bagno.
Le guardie si erano scambiate sguardi straniti, ma non si rifiuta l’ultimo desiderio di un condannato a morte, per cui avevano acconsentito e l’avevano condotto in una putrida latrina dove era stata portata una tinozza piena di acqua gelida. Le ossa e i muscoli avevano protestato allorché si era immerso, ma aveva stretto i denti e serrato i pugni e il suo fisico temprato da sforzi e disavventure aveva sopportato quel freddo artico. Era stato un sollievo lavar via dalla pelle la sporcizia, il sudore e il sangue secco, restituire ai capelli la loro lucentezza e il loro volume. Se avesse potuto indossare una maschera, si sarebbe ritenuto l’uomo più soddisfatto del mondo, ma naturalmente quella era una cosa che non gli avrebbero mai concesso; per schernirlo e disprezzarlo a dovere, la folla aveva bisogno di vederlo in faccia, di additare con orrore la sua deformità, la reazione sarebbe stata furibonda se l’avesse tenuta nascosta. Non si sarebbe evitato schiamazzi e dileggi, insulti e maledizioni. Ma andava bene così. Non gli importava dell’opinione della gente. Non si erano mai intesi, nemmeno una volta nella sua vita. L’unica persona che per lui contava, poi, lo aveva tradito, gli aveva voltato le spalle, consegnandolo nelle mani del boia. Il fatto che non si fosse degnata di fargli nemmeno una visita quando la notizia della sua morte si era sparsa per tutta Parigi, avvalorava ancora di più la sua colpevolezza.
Era quello l’unico rimpianto rimastogli, l’unico dolore capace di incrinare il suo contegno impenetrabile. Amava Vivian e si sarebbe tenuto accanto il suo ricordo, traendo forza da esso, fino al momento del decesso, ma non essere ricambiato da lei, esser stato tradito per l’ennesima volta, rovinava tutto, lordava ogni cosa, ogni dolce rimembranza, ogni frammento di memoria. Credeva che l’esperienza di Christine l’avesse edotto a sufficienza sulla crudeltà delle donne, sulla loro natura tentatrice e serpentina, invece c’era cascato come un idiota, come un ragazzino imberbe, facendosi sedurre da una ragazza che aveva finto di amarlo e di volerlo salvare, per farsi la fama di colei che aveva messo nel sacco il Fantasma dell’Opera. Era stato tutto solo un immenso, inutile sbaglio. Si illudeva di saper decifrare l’animo delle persone, di cogliere menzogna e verità sui loro volti e nelle loro parole, ma in realtà ignorava tutto, gli erano estranei esattamente come era estraneo a loro, l’inganno più palese era capace di indurlo a deporre ogni difesa se era accompagnato da un sorriso gentile e da un bacio appassionato.
Sarebbe venuta all’esecuzione? Da una parte lo sperava disperatamente, per vederla un’ultima volta, per morire con l’immagine del suo volto stagliata nella mente, ma dall’altra si augurava con tutto il cuore di no, poiché la sua presenza, in quella delicatissima circostanza, avrebbe potuto mandare in fumo tutti i suoi propositi di dignità e orgoglio e fargli perdere quel contegno che tanto faticosamente aveva impostato. Non temeva affatto la morte, anzi, la bramava, poiché solo lei avrebbe potuto dargli l’oblio e la pace che cercava (non credeva alle stupide storie di inferno e di diavoli sussurrate dai preti e dai loro patetici adepti), dunque era sicuro di avere la forza di affrontarla con coraggio, ma se Vivian lo avesse dileggiato e maledetto con gli altri…se, nella moltitudine inferocita, avesse colto la sua indisciplinata capigliatura e il suo sguardo accusatorio…avrebbe continuato a mostrare impassibilità? Oppure i dannati sentimenti che seguitava a provare per lei si sarebbero messi in mezzo e lo avrebbero reso ridicolo perfino nei suoi ultimi istanti di vita?
No, sicuramente non si sarebbe presentata, non era sadica e crudele fino a questo punto. Forse era troppo ingenuo per accorgersi di un piano diabolico celato da un’espressione dolce e tenera, ma si rifiutava di prendere in considerazione l’ipotesi che ella fosse totalmente diversa dalla ragazza che credeva di aver conosciuto in quei dieci giorni. Ovviamente gli aveva mentito, aveva tramato per vederlo morto…ma non era possibile che il tempo trascorso insieme e le vicissitudini che avevano affrontato non l’avessero sciolta neppure un po’. Fino a prova contraria, aveva rischiato la vita per salvare la sua, e aveva tentato di suicidarsi per indurlo ad avvedersi dell’amore che provava per lei…sempre che non facesse tutto parte del suo piano. Magari era così determinata a riuscire nei suoi intenti da mettere a repentaglio la sua stessa sicurezza per farlo, magari si era lasciata cadere dallo sgabello sapendo dal principio che lui l’avrebbe salvata, che si sarebbe strappato i capelli e piantato un pugnale nel petto, piuttosto che vederla morta. Magari adesso gongolava, compiacendosi della sua sconfitta, festeggiando con i suoi amici la buona riuscita dell’impresa, e si preparava ad assistere alla sua morte, a colpirlo e a disprezzarlo con gli altri parigini.
Perché aveva fatto in modo che si innamorasse di lei, che si concedesse il lusso di sperare in un futuro luminoso e felice? Perché non si era limitata a conquistarsi la sua fiducia e a consegnarlo alla giustizia con un qualsiasi pretesto? Chi era Vivian veramente? Cosa si celava dietro al suo viso volitivo e ai suoi franchi occhi ambrati? Ed era davvero così importante? L’immagine che lo avrebbe accompagnato sul rogo sarebbe stata quella che aveva scelto di mostrargli durante la loro convivenza, la sua maschera ingannevole, non aveva bisogno di altro, per morire come essere umano. Perché, dunque, continuava a porsi tutti quei maledetti interrogativi?!
La dignità era più importante di tutto, l’avrebbe conservata anche nella peggiore delle ipotesi, anche nel caso in cui la fanciulla si fosse posizionata in prima fila, abbigliata a festa, e lo avesse bersagliato con frutta marcia e parole di disprezzo. Avrebbe guardato da un’altra parte, rispettando la sua immagine di fantasma freddo e impassibile, e avrebbe tenuto bene a mente il sorriso di amore che gli aveva rivolto un attimo prima di incontrare le sue labbra. Non le avrebbe permesso di metterlo in ridicolo, di sporcare la perfezione dei ricordi che li vedevano come protagonisti. Mai e poi mai.
Non c’era un solo specchio nelle carceri del Palazzo di Giustizia, probabilmente temevano che un prigioniero potesse frantumarlo e utilizzarne i frammenti per uccidersi o per provare ad evadere. In ogni modo, era contento di non avere la possibilità di guardarsi. Era pulito e aveva un aspetto piuttosto adeguato, ma sarebbe uscito alla luce del sole senza niente a coprirgli le piaghe, e non voleva pensare alla reazione degli astanti. Si passò una mano trai capelli, lisciandoli con gesto nervoso, e si sistemò la modesta camicia bianca che gli avevano dato le guardie quella mattina, completata da sciupati pantaloni pieni di buchi. I piedi erano nudi.
“Monsieur Destler” la stessa guardia che alcuni giorni prima era venuta a scortarlo al processo comparve sulla soglia della sua cella. Tutti i suoi colleghi lo avevano trattato con un misto di disgusto e paura, picchiandolo con una buona dose di godimento personale e brutalizzandolo senza motivo, ma quell’uomo lo guardava con pietà, soffermandosi sul suo viso sfigurato con fare quasi rammaricato: “Monsieur Destler, è l’ora”.
“Oh” mormorò lui. Chiuse gli occhi, concentrandosi su se stesso, e si domandò se era pronto a morire. C’era qualcosa di innaturale, di sbagliato, in quella procedura: un uomo non dovrebbe mai prepararsi a svanire dal mondo a poco più di trentacinque anni, non dovrebbe raccogliersi in meditazione prima di bruciare su un rogo fino a divenire cenere. Le condanne a morte erano ancor più terribili degli omicidi di cui si era macchiato, perché la vittima sapeva fin dall’inizio cosa la aspettava, e non aveva alcuna speranza di sfuggire al supplizio. Era preparato ad affrontare la potenza distruttiva del fuoco? O, se la Bibbia e i religiosi dicevano il vero e se era lui ad essere in errore, a languire per l’eternità nelle caverne dell’Averno, ben più profonde e terribili di quelle in cui aveva vissuto fin da ragazzino? Un patetico prete grasso era sceso nella sua cella il giorno prima per “accogliere la sua confessione”. Tremava come una foglia nella sua tonaca marrone e i suoi occhietti spauriti guizzavano da un punto all’altro dell’ambiente angusto, pur di non incontrare il suo volto deturpato, come se la deformità si potesse trasmettere al pari di un morbo contagioso (era, questa, una delle tante superstizioni popolari). Aveva parlato di perdono, di purgatorio, di penitenza.
Lui, per tutta risposta, gli era scoppiato a ridere in faccia. Se un Dio esisteva, non l’avrebbe mai accolto tra gli eletti, poiché si era disinteressato di lui fin dalla sua nascita, condannandolo in ogni maniera umanamene possibile. Troppe volte si era rivolto ad un’entità superiore sperando in un poco di aiuto e compassione, in un sussurro gentile nell’oscurità e nel silenzio della solitudine, e troppe volte nessuno lo aveva ascoltato, le sue preghiere e le sue suppliche erano state ignorate. Non si sarebbe piegato al maledetto Dio cristiano implorandolo di evitargli l’inferno, non avrebbe più pregato nessuno. Allorché la sua risata era echeggiata nella cella, il pallore sul volto del prete si era intensificato ancor più ed egli si era fatto subito il segno della croce, volgendogli le spalle e ripetendo a guisa di una litania esorcizzante: “Figlio del Diavolo, figlio del Diavolo!”
Le guardie lo avevano guardato andar via annuendo come se le loro supposizioni si fossero rivelate fondate e una tra le più crudeli aveva commentato, prima che la pesante porta venisse richiusa: “Corrotto fino al midollo, nell’animo e nell’aspetto!”
Si girò lentamente verso l’uomo fermo sulla soglia della cella. I suoi occhi azzurro scuro luccicarono debolmente nel buio, come fari di segnalazione: “È lungo il tragitto fino a Place de Grève?”
Ora che il momento era arrivato, desiderava morire il più in fretta possibile, concludere quella storia assurda e senza senso nel giro di poco tempo, affinché la sua dipartita fosse indolore e non dovesse tollerare oltre il necessario il dileggio della folla. La guardia pietosa gli legò le mani dietro la schiena con una fune di canapa, stringendo poco il nodo per non fargli male, e curvò le ruvide labbra in un rapido sorriso: “Vi condurranno velocemente, monsieur, questo ve lo posso assicurare”.
Erik buttò i capelli in avanti, di modo che gli coprissero alla meno peggio la parte piagata del viso: “Bene, allora. Sono pronto”.
 
Tutto il popolo di Parigi era venuto ad assistere all’esecuzione del Fantasma dell’Opera.
Classi sociali che normalmente si sarebbero evitate a prima vista sostavano in tutta Place de Grève e in parecchi isolati vicini l’una accanto all’altra, mescolandosi in un arcobaleno di colori composto da uomini, donne, vecchi e bambini. Nobili abbigliati sontuosamente per l’occasione sedevano comodamente su palchi sistemati appositamente per consentire loro di seguire con agio le evoluzioni della condanna, popolani dalle misere sembianze tenevano i figli a cavalluccio e rumoreggiavano spintonandosi a vicenda per guadagnare i posti più vicini al rogo, borghesi dall’aria supponente accompagnati dai servi tirati a lucido commentavano il grande evento. C’erano, addirittura, alcuni venditori di arance e di focacce che passavano qua e là offrendo la loro mercanzia ed elogiando la qualità delle leccornie.
Uno spettacolo decisamente insolito per una società civile, onesta e discreta quale era quella del diciannovesimo secolo. Di norma, i parigini non coltivavano più l’usanza di recarsi alle esecuzioni come avveniva comunemente nel medioevo, sempre che il condannato non fosse un personaggio di gran rilievo, e il fantasma di certo lo era. Ma quel giorno nessuno era rimasto in casa, ogni singolo cittadino aveva avvertito il bisogno di assistere alla morte del figlio del Diavolo e di non perdersi neanche un attimo del suo supplizio. Il marchese Jean Roland Rappenau, accompagnato dalla moglie Angelique e dalla figlia Colette, si era guadagnato grazie al suo titolo i posti migliori e dardeggiava sguardi infastiditi in mezzo alla folla, domandandosi che fine avesse fatto il suo amato primogenito. Non si sarebbe mai perso lo spettacolo, era indiscutibile. Eppure il giovanotto non si vedeva da nessuna parte.
Vi erano persino Emma e la sua famiglia, spauriti nella fiumana rumoreggiante e sospinti, quasi per caso, accanto ad una pallida Madame Giry e ad una interdetta Meg. La giovane Boisson non riusciva a nascondere una certa dose di ansia che si era ritrovata addosso fin dal risveglio. Aveva cercato di vedere Vivian dopo che ella era miracolosamente tornata sana e salva, ma l’amica l’aveva fatta cacciare dalla casa di Madame Lefevre e si era rifiutata di parlare con lei. Non le era ben chiaro il motivo di un simile comportamento, ma sentiva che qualcosa non andava. Anche Louise Giry era in preda all’agitazione e all’angoscia: si era presa cura di Erik fin dalla giovinezza e lo aveva aiutato come poteva, le era quasi impossibile sopportare l’odio e il furore con cui la folla acclamava la sua disfatta. Rammentava l’unica altra occasione in cui aveva veduto lo sventurato così palesemente disprezzato dall’umanità, al circo degli zingari, quando il suo torturatore lo aveva gettato a terra a suon di bastonate, e il suo cuore era stretto in una morsa dolente e feroce. Non c’era nessuno, in quella moltitudine di facce accese di aspettativa, che provava compassione per lui, che si rammaricava per la sua sorte. Forse non sarebbe dovuta nemmeno venire, ma aveva ceduto ad uno strano istinto che le imponeva di esserci.
“Dove diavolo è finito quel buono a nulla di Antoine?” in quella lamentela la marchesina Colette aveva posto tutto il suo dispetto, e la sua voce acuta e tintinnante venne fuori come un fastidioso falsetto. Per festeggiare appieno l’occasione, aveva indossato un abito celeste dai morbidi sbuffi sulle spalle che le lasciava scoperto un collo bianco di latte e una buona porzione di torace e i voluminosi capelli biondi erano raccolti sotto uno spropositato cappello di moda, che le ombreggiava il visetto imbronciato: “Prima si compiace di quest’esecuzione, ci costringe ad assistere in mezzo a questa marmaglia di villani ignoranti, e poi nemmeno si presenta? Ho freddo, sono stanca, e mi fa orrore la sola idea di veder bruciare quell’uomo deforme. Se è davvero così ripugnante, perché dobbiamo guardarlo?”  
“Porta pazienza, mon petit fleur” la blandì il marchese, sfiorandole la guancia liscia in una carezza indulgente. Era difficile resistere alla bellezza ammaliante della fanciulla: “Non si perderebbe lo spettacolo per nulla al mondo. Verrà”.
Colette emise uno sbuffo di esasperazione, scoccando occhiate disgustate alla folla in visibilio: “Ma almeno urlerà? Cercherà di liberarsi? Il mostro, intendo. Ci sarà da divertirsi, insomma?”
“Non lo so. In molti lo fanno”.
“Beh, sarebbe di pessimo gusto da parte sua trascinar qui mezza Parigi e poi non farci la grazia neanche di un urlo!” l’espressione scolpita sul dolce volto della marchesina era quella di un laido e sanguinario nobile romano ansioso di osservare un combattimento tra gladiatori degno di questo nome: “Spero vivamente che non si dimostrerà così maleducato…oltre che brutto. Peraltro, non mi è mai capitato di scorgere un uomo sfigurato” un sorriso malevolo danzò sulle sue labbra piene e rosee: “Potrebbe essere interessante, in effetti”.
“Ma certo che lo sarà, papillon” intervenne con sussiego la marchesa Angelique: “Potrai schernirlo e dileggiarlo quanto vorrai”.
La fanciulla si risollevò un po’. I genitori sospirarono di sollievo. Ella era capace di divenire davvero pesante, quando s’annoiava. E s’annoiava quasi sempre. Adesso aveva l’aria d’una tigre indolente a cui è stato appena lanciato un pezzo di carne cruda.
Le campane di Notre Dame, bianca e altissima contro il limpido cielo, suonarono in quel momento, sonore e argentine, e annunciarono il mezzogiorno. Tra la folla raccolta intorno al palco sopraelevato dove era stata accatastata la legna da ardere incominciarono a serpeggiare mormorii, gomitate e richieste di silenzio. La condanna era stata fissata per quell’ora precisa, il prigioniero sarebbe giunto a momenti. Molti tra i parigini non lo avevano mai visto prima, ne avevano solo sentito parlare, e allungavano il collo, con curiosità feroce, nel tentativo di avvistarlo e di mettere a fuoco quella deformità che aborrivano ma che, in un certo senso, conquistava tutti quanti. Se egli fosse stato un uomo comune, un trentasettenne onesto o perfino bello, probabilmente non li avrebbe appagati allo stesso modo, non avrebbe corrisposto così perfettamente all’immagine di “figlio del Diavolo”. Essi lo disprezzavano, ma erano attratti dalla sua particolarità. I bambini perché avevano bisogno di un mostro che li perseguitasse nel sonno e che potessero combattere, gli adulti, come prima citato, per rassicurarsi pensando che qualcuno soffriva più di loro, che sarebbe potuta andargli peggio.
Puntuale come un orologio, una carretta si profilò all’orizzonte allorché le campane cessarono di suonare, avanzando in direzione del centro della piazza tra sobbalzi e scossoni. La folla, in preda ad un silenzio mistico e timoroso, alla quiete prima della tempesta, si aprì in due ali per far passare il traballante mezzo di trasporto, fissando ad occhi spalancati la figura curva rannicchiata al suo interno.
Erik era stato accorto e intelligente a farsi un bagno prima di apparire per il suo ultimo rendez vous. Se si fosse mostrato ai suoi torturatori con il volto gonfio e sanguinante, con i capelli sporchi e arruffati, con gli abiti a brandelli, si sarebbe probabilmente prestato senza condizioni al ruolo che gli avevano affibbiato. Ma con la sua camicia lisa e pulita, con i capelli lucenti e con le ferite asciugate e semi rimarginate, con quello sguardo fiero e orgoglioso e quell’espressione dura e impassibile, egli non assomigliava affatto al mostro che tutti attendevano, egli era un uomo, un uomo sventurato e maledetto dalla sorte che aveva avuto la sfortuna di nascere con metà faccia coperta di piaghe. E in quel momento aveva persino una sua bellezza, una sua nobiltà, malgrado l’abbigliamento misero, la magrezza del digiuno e la deformità visibile a tutti. Squadrava a testa alta la società che l’aveva sempre bandito, fulminava con occhiate di disprezzo tutti quegli individui belli, trepidanti e feroci che attorniavano la carretta, ed era lui ad aver orrore di loro, lui a schernire la massa patetica e insoddisfatta che affollava la Grève. Un sorriso amaro, profondamente scoraggiato, piegava le sue labbra divise a metà, un luccichio inestinguibile gli ardeva nelle iridi bluastre, la camicia male allacciata si apriva sui muscoli compatti del suo torace, e parecchi tra gli spettatori ammutolirono dinnanzi ad una miseria così orgogliosa e incrollabile. Si erano immaginati in molti modi lo stato del Fantasma dell’Opera il giorno della sua morte, ma certo non così.
L’uomo riluceva di un’aura di fierezza e potere ben più evidente di quella dei tanti nobili accorsi ad assistere all’esecuzione, e riusciva ad emanarla senza ostacoli con indosso una semplice camicia bianca e con quello sventurato volto marchiato dalla sorte. Se non fosse stato assassino, ma eroe, probabilmente sarebbero esplosi in acclamazioni e applausi, lo avrebbero osannato in ogni modo, e tutti, dai più poveri ai più ricchi, si sarebbero rivisti in lui, poiché la deformità, la sfortuna, suscita a seconda dei casi orrore e rivalsa, ma anche immedesimazione e benevolenza. Avrebbero pensato, con improvvisa rinnovata speranza: “Se lui ce l’ha fatta, anche io posso farcela!”
Sarebbe divenuto il loro simbolo, il loro beniamino, dopo aver rappresentato per tanti anni l’estrema miseria della società.
Ma non era stato condotto in quella piazza grazie alle sue imprese eroiche. Al contrario, aveva ucciso con freddezza esemplare decine di parigini innocenti, i cui parenti si trovavano adesso in mezzo alla folla, e aveva terrorizzato da tempo immemorabile il teatro dell’Opera e l’animo dei cittadini, sollecitando la nascita di leggende e superstizioni. Purtroppo per lui e per il suo aspetto fiero e formidabile, le sue azioni erano troppo efferate perché potessero mutare l’opinione dell’umanità nei suoi confronti.
Gli spettatori si ripresero dunque ben presto dalla meraviglia che li aveva colti alla sua comparsa e si prepararono a mettere in atto la tortura, un po’ più forzata di quel che voleva essere nelle intenzioni originali. In effetti, lo sguardo di Erik era talmente sprezzante e terribile che l’impulso dei più poveri sarebbe stato quello di chinare umilmente il capo, non di schernirlo. Ma lo superarono, traendo forza l’uno dall’altro. Egli era un condannato a morte, quindi il gradino più basso della società.
Si levarono intorno alla carretta mille grida furibonde, mille insulti e maledizioni pronunciati con ira incontrollata, mille sfoghi che andarono a scontrarsi, con un impatto tale da mozzargli il fiato, sulla sua durissima corazza:
“Mostro!”
“Maschera dell’Anticristo!”
“Assassino, spettro demoniaco! Ci hai perseguitati abbastanza con la tua crudeltà, brucia come il diavolo che sei!”
“Emissario di Satana!”
“Figlio del Diavolo! La tua faccia spaccata a metà corrisponde alla perfezione al tuo animo lacerato dal peccato!”
Erik tenne duro coraggiosamente sotto quella grandinata di grida e di maledizioni, che lo assaliva da ogni angolo di Place de Grève e lo sommergeva con intensità mostruosa, provocandogli un senso di soffocamento. Non era più abituato al furore di cui era capace una folla inferocita, a quell’orrendo mescolarsi di divertimento, sadismo, disgusto e odio, alla maniera in cui un insulto si sommava all’altro sino a formare un’onda impetuosa e cacofonica che gli si rovesciava nelle orecchie e strideva insopportabilmente, assordandolo, a quel mare di facce contorte e grottesche a circondarlo. Gli parve di esser tornato bambino, di non aver guadagnato nulla in tutti quegli anni, di riallacciare un discorso che non aveva mai chiuso. Era tutto esattamente come allora, anzi, peggio, poiché adesso sapeva cosa voleva dire avere orgoglio personale e dignità, non era più disposto a subire così tanto in un silenzio stolido e sottomesso. Era cresciuto, era maturato, e tutta l’indifferenza che si era sforzato di nutrire per i parigini nel corso della sua prigionia si mutò in una rabbia senza confini, in un dispetto e in un odio che lo corrosero nel profondo e gli fecero girare tutt’intorno uno sguardo carico di minaccia. Se non fosse stato legato e impotente, forse i suoi torturatori avrebbero tremato dinnanzi ad un’espressione di avviso così palese, ma egli era visibilmente incapace di nuocere a chicchessia e un riso convulso accolse quell’ostinata dimostrazione di orgoglio maschile, mettendola in ridicolo. L’intenso rossore che imporporò quel volto sfigurato accrebbe ancor più il divertimento della folla, poiché significava che egli era sensibile ai loro insulti e non era alieno all’onta e alla vergogna.
D’altra parte, per quanto deforme, non si era mai arreso a capo chino ad un trattamento ignobile, fuorché nell’infanzia, ma anche allora, raggiunta l’ultima goccia, si era presto vendicato.
Per sfuggire alle grida che gli si infrangevano addosso lacerando la sua dignità e alla folle gioia che pervadeva le facce che attorniavano la carretta, lasciò spaziare uno sguardo disperato per tutto il perimetro di Place de Grève e lo fermò su un bizzarro particolare in netto contrasto con l’uniformità del paesaggio circostante. Un calesse con il telaio giallo limone e i cerchioni rossi, trainato da una robusta giumenta pezzata, era emerso da un vicolo laterale da pochi istanti e si era fermato a breve distanza dal punto in cui era collocata la pedana per le esecuzioni, tra le proteste di coloro che si erano visti costretti a farsi da parte per lasciargli spazio. Caricato su questo calesse c’era un fagotto avvolto da lenzuola bianche rifinite di pizzo, pressoché indistinguibile, e un solo passeggero sedeva in cassetta, nascosto dietro ad un cencioso mantello nero che lo copriva dalla testa ai piedi e che terminava in uno spesso cappuccio calato sul viso. Così infagottato nel mantello e con una postura decisamente curva, lo strano passeggero aveva l’aria di un mendicante anonimo a bordo di un mezzo di trasporto troppo lussuoso per lui.
Erik guardò il calesse e la figura incappucciata tanto per guardarli, perché quest’ultima era l’unica creatura animata nella piazza a non irriderlo o disprezzarlo. Gli parve, ma era impossibile dirlo in quel caos, che il “mantello” ricambiasse la sua occhiata, scrutandolo enigmaticamente con occhi invisibili dietro al cappuccio. In ogni modo, non parlò e non scese dal mezzo, e avendo le guardie scelto proprio quel momento per trascinarlo giù dalla carretta, distolse lo sguardo e lo volse all’alta catasta di legna raccolta intorno ad un unico palo, il suo letto di morte. Si domandò addirittura, sotto l’influenza della terribile atmosfera, se non fosse per caso la Morte, che gli aveva camminato a fianco per tanti anni e di cui lui si era fatto messaggero, dispensandola a questo o a quello, che adesso tornava per osservare pazientemente la sua fine e venirlo poi a prendere nel suo immenso mantello. Bene, se era così, se la figura a bordo del calesse era la personificazione dello scheletro con la falce (il fagotto poteva essere, per caso, la famosa arma?) non l’avrebbe delusa. Se ne sarebbe andato a testa alta, non gli si confaceva un destino migliore. Che quei maledetti omuncoli urlatori andassero al diavolo, non gli avrebbe permesso di incrinare il suo contegno.
Le due guardie che l’avevano tirato giù dalla carretta lo sospinsero su per la scala strattonandolo per le braccia. Erik le incenerì con uno sguardo incandescente. Perché non capivano che aveva gettato le armi? Che non avevano alcun bisogno di usare la forza, dal momento che era disposto con tutto se stesso a collaborare? Che le avversità, i tradimenti, le ingiustizie e i dolori l’avevano infine annientato, e che non desiderava altro che morire? Lo volevano terrorizzato e piagnucolante? Volevano un mostro patetico che si dibattesse e che ringhiasse alla folla per liberarsi? Non conoscevano Erik Destler. Forse il Fantasma dell’Opera li avrebbe stupiti, si sarebbe dilettato in una delle sue scene madri…ma non Erik Destler.
Fu spinto contro al ligneo palo, in mezzo ai ciocchi umidi e scortecciati, e lasciò fare. Passò addirittura le braccia dietro la schiena, abbracciando l’alta asta, di modo che potessero legarlo con più facilità. Funi ruvide e pungenti vennero avvolte intorno al torace muscoloso, al bacino e ai gomiti smagriti, nodi che egli avrebbe saputo fare cento volte meglio lo assicurarono alla pedana sopraelevata e gli uomini della guardia si allontanarono, cedendo il posto al loro capitano, un quarantenne avvenente e fiero, dall’elmo piumato, che reggeva nella mano destra una torcia accesa di un fuoco vivo e scoppiettante. Gli occhi di Erik ne furono immediatamente catturati e si sorprese a fissare con intensità le fiamme lingueggianti che presto gli avrebbero lambito la carne. Suo malgrado, rabbrividì al pensiero. Non temeva la morte, ma la sofferenza, sì. Ne aveva sopportati abbastanza, di patimenti, non intendeva subirne altri. Ce l’avrebbe fatta, a mantenere il silenzio perfino mentre il fuoco impietoso gli ustionava il corpo?
Rovesciò la testa all’indietro, contemplando l’uniforme limpidezza del cielo di mezzogiorno. Stormi di colombe bianche volavano nell’azzurro infinito e il sole baciava con calore gentile il suo volto deforme, quel sole che l’aveva sempre scacciato con sdegno. Voleva perire con il creato negli occhi, in essi non c’era neanche un briciolo di spazio per le facce disgustate raccolte intorno alla pedana. Si rammaricava che fossero troppo lontani dall’Opera perché gli fosse possibile ammirarne i tetti marmorei. Con la coda dell’occhio, colse il bagliore della torcia che s’avvicinava inesorabile alla legna sotto ai suoi piedi e contrasse istintivamente i muscoli, irrigidendosi. Era pronto. Non aveva paura. Che il fuoco venisse pure. Non ne aveva orrore. No. Aveva vissuto per anni tra le fiamme dell’inferno, erano in lui ed erano sue sorelle. Ma se solo avesse potuto…se gli avessero concesso un giorno in più, un solo giorno…se avessero scelto una morte meno…la ghigliottina…Christine…il lago…la maschera…il lampadario…Vivian…
“Fermi!”
Il tempo smise di scorrere.
La folla, protesa avidamente verso la fiamma ormai prossima al mucchio di legna, trasalì, attraversata da un unanime mormorio di stupore, e si girò come un’unica entità nella direzione da cui era venuta quell’esortazione, pronunciata con una forte voce femminile.
Il capitano delle guardie, pronto ad eseguire il suo compito, allontanò la torcia dal rogo e incespicò.
Madame Giry, che si era coperta il volto con un fazzoletto per non guardare, scostò precipitosamente il pezzo di stoffa e sbatté le palpebre umide di lacrime, incredula.
Erik, legato al palo, sudato, spezzato, delirante, ormai avvinto dalla più nera foga, aprì lentamente gli occhi e riprese colore. Conosceva quella voce. Il nome della sua proprietaria bruciava al solo ricordo, era lava fusa nelle sue vene e nel suo cuore, era la presenza che avrebbe potuto rovinare tutto, e che aveva interrotto il compimento del suo destino proprio quando raggiungeva il punto culminante. Levò lo sguardo frenetico e allucinato, più o meno insieme a tutti i parigini presenti in Place de Grève, e si ritrovò a fissare lo strano calesse che aveva esaminato in precedenza e la figura incappucciata che aveva scambiato per la Morte e che adesso era ritta sopra al mezzo, formidabile come una divinità, una mano tesa impetuosamente nella sua direzione. Quella figura, pressoché invisibile all’interno del pesante mantello, aveva gridato con un tono così concitato e tonante da bloccare tutto e tutti nella posizione in cui si trovavano in quel momento, da piegare ogni cosa al suo volere, da paralizzare le membra e gelare il sangue. Nel giro di pochi secondi, tutti gli occhi erano puntati su di lei, colmi di stupore e di incomprensione, ogni singolo individuo era voltato verso il calesse. Erik stesso, che di fronte all’immagine della torcia era stato preso da un tremito convulso, vantava adesso un’immobilità statuaria, un pallore inquietante.
Portandosi fulmineamente una mano alla testa, la donna in piedi sul calesse si tolse il cappuccio e una cascata di riccioli neri come ali di corvo si riversò selvaggiamente sulle spalle e sul petto, rivelando un volto duro e feroce, dominato da fiammeggianti occhi color miele.
Il brusio concitato crebbe di volume ed Emma, strabuzzando gli occhi, sussurrò: “Vivian!”
Era, infatti, la giovane pianista.
Lasciò scorrere sulla folla ammutolita uno sguardo selvaggio e vendicativo, le labbra serrate in una linea sottile, senza guardare in direzione di Erik neanche una volta, e parlò con lo stesso tono imperativo di prima, ogni parola che echeggiava nell’improvviso silenzio calato sulla Grève: “Avete preso la persona sbagliata, monsieurs. Non è lui” indicò il condannato, continuando a scrutare la moltitudine: “Il figlio del Diavolo che cercate. Sono io, la vera strega”.
Le rispose un mutismo denso e soffocante, centinaia di respiri trattenuti in gola. Qualcuno, probabilmente tra le file dei nobili, commentò con cautela: “È pazza”.
“Siete venuti qui per veder morire il Fantasma dell’Opera” continuò Vivian con sicurezza sconcertante, indifferente, o almeno così sembrava, alle reazioni stupefatte degli astanti: “Per compiacervi della dipartita di un demone, di uno spettro che tormentava le vostre notti e vi uccideva nel sonno. Ma siete in errore. Perché se ucciderete lui, vi farò morire uno dopo l’altro con le mie arti magiche, corroderò la vostra carne come voi avete corroso la sua e vi ridurrò ad un ammasso informe e patetico”.
“Che cosa sta dicendo?!” sgomenta, Emma afferrò il bordo della manica di una altrettanto sconvolta Madame Giry, strattonandola: “Cosa ha in mente?”
Erik fissò sulla ragazza uno sguardo attonito e inespressivo, il viso invaso da un pallore mortuario.
Lei dardeggiava occhiate fiammeggianti a destra e a manca, circondata dalla fluente capigliatura corvina, lambita dalle falde svolazzanti del mantello: “Proprio così, monsieurs. Sono io, la strega. Una donna. Come poteva essere diversamente?” scoppiò in una risata che grondava amarezza, alta e disperata, e più d’uno rabbrividì, facendosi il segno della croce: “Forse che gli uomini hanno abituale commercio con il Diavolo? Quel prigioniero, quel condannato, agiva per compiacermi. Ha ucciso i vostri parenti, i vostri amici, su mio ordine. Non è per caso vero che vi aveva lasciati in pace, che era scomparso dalla circolazione allorché la Daaé lo aveva lasciato? E che appena sono arrivata a Parigi ha ricominciato a seminare caos e distruzione? Sono io la causa di tutto. La straniera. La sgualdrina del demonio. La meretrice di Babilonia. È me che volete, non lui”.
Sulla piazza continuò a imperversare un silenzio di tomba. Tutti erano immobili, pietrificati.
“Sono io, che ho ordito maledizioni e trame diaboliche contro di voi. Soltanto la mente di una donna poteva escogitare simili orrori, non è così? Lui era solo il mio adepto, il mio compagno. Senza l’influenza malefica di una ragazza, non farebbe del male a una mosca. E non è tutto…” un ghigno senza speranza contorse il volto ardente di Vivian: “Lui non è il solo ad aver subito la mia seduzione. Immagino che voi tutti conosciate il marchesino Antoine Baptiste Rappenau”.   
Il marchese e la sua famiglia, dalla loro agevole posizione sui palchi, si irrigidirono a quell’ultima uscita. Che cosa c’entrava adesso Antoine? E come mai persisteva a non farsi vedere? Il suo ritardo, che al principio avevano visto come una disattenzione, assumeva contorni molto più foschi adesso che Vivian lo aveva nominato, e non fu senza spavento che Jean Roland circondò la moglie e la figlia con un braccio, attirandole a sé.
La ragazza ritta sul calesse intanto proseguiva: “Era senz’altro un giovanotto degno di ogni ammirazione” il tono era impassibile, ma all’interno di quelle parole albergava un sarcasmo, uno scetticismo velato da falsa sincerità: “Un modello di onore e integrità. Eppure non ha potuto nulla contro al mio potere seduttivo. L’ho stregato, l’ho irretito, e infine l’ho ucciso” esclamazioni di orrore da ogni parte: “Sì, madames e monsieurs. Io ho ucciso il marchesino Antoine Baptiste Rappenau!”
Mentre annunciava l’assurda notizia, si chinò sul fagotto avvolto nelle lenzuola, gliele strappò di dosso con furia e lo rovesciò giù dal calesse con una spinta, facendolo atterrare in mezzo alla folla urlante. Gemiti inorriditi e grida risuonarono ovunque mentre i parigini indietreggiavano dal cadavere piovuto come una meteora sul selciato, orribile nelle sue tragiche condizioni. Malgrado avesse il volto, il petto e la testa ridotti ad una poltiglia, al medio scintillava, perfettamente riconoscibile, l’anello blasonato, il sigillo che lo identificava come membro della famiglia Rappenau. Il marchese, alzatosi freneticamente in piedi allorché Vivian aveva spinto a terra il corpo, riconobbe all’istante il gioiello e intravide gli amati lineamenti del figlio dietro alle orrende ferite che li avevano sepolti, trasformandoli in un ammasso simile a carne macinata. Sbiancò, colto da una fitta fortissima che quasi lo abbatté, e al suo fianco la moglie, che a sua volta aveva riconosciuto il giovane da quella distanza (l’amore di un genitore arriva a questi livelli) gettò un urlo acutissimo, uno di quei lamenti che non sembrano umani.
Colette si premette una mano sulla bocca, squassata da un tremito impressionante di sorpresa, repulsione e dolore, e crollò su se stessa come un fiore calpestato, perdendo i sensi.
Fu come un segnale. La folla, stravolta dalla vista del cadavere martoriato e dal significato delle parole di Vivian, si gettò su di lei con l’aggressività e il furore di una mandria di sciacalli e la strappò dal calesse ruggendo e gridando per tutta la Grève, dimenticando il condannato, il motivo che li aveva condotti lì, la leggenda del Fantasma dell’Opera, per dedicarsi solo e unicamente a quel linciaggio feroce e improvviso. La ragazza, da parte sua, non cercò neanche di difendersi. Si limitò ad accucciarsi sul selciato, coprendosi la testa con le braccia, un attimo prima che il mare di corpi la sommergesse, nascondendola alla vista e assalendola con cento mani e mille unghie. Era spacciata, condannata come un topo aggredito da migliaia di gatti affamati, destinata a cadere sotto quella gragnola di colpi e graffi, ad essere smembrata dalla violenza del popolo in rivolta contro la strega, e lo sapeva.
Era ovvio che lo sapeva. Era venuta a Place de Grève, aveva tenuto quel discorso, aveva mostrato il cadavere, al solo scopo di arrivare a quel punto. Aveva distratto i predatori trasformandosi in una nuova preda, aveva attirato su di sé lo sfogo della folla, ed aveva scelto di morire. Il modo rassegnato e docile con cui aveva lasciato che la travolgessero ne era la prova. Non la si scorgeva più, era sepolta nella moltitudine di linciatori, viva, morta, ferita, illesa…impossibile dirlo, nell’assoluto caos.
Ma in quel momento Erik, che tutti avevano dimenticato, che aveva assistito alla scena nel mutismo più totale, che nessuno calcolava più, diede in un grido terrificante: “LASCIATELA STARE!”
E con un movimento agile e inumano, un solo, rapidissimo movimento, sciolse le funi che lo vincolavano al palo.

 
  
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