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Autore: Fusterya    14/03/2012    5 recensioni
Storia post-stagione 2. John è stato ferito ed è reduce da una lunga convalescenza. Sherlock è sempre lì con lui. E per John è solo una conferma di cosa è quel legame, di cosa è quel filo invisibile ma indistruttibile, perché “ci sono cose separate da linee più sottili di quanto possiamo immaginare, linee che non capiremo mai quando e se varcare”, e a volte questo non è neanche così importante.
IMPORTANTE: la storia non è proprio slash, credo sia un po' più sottintesa e complicata, ma non so quale definizione più pertinente selezionare. Enjoy!
Genere: Introspettivo, Romantico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson , Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Finalmente sono a casa. Dopo 25 giorni di ospedale è una bella cosa, anche se non riesco ad apprezzarla perché non mi sento ancora bene come vorrei.
Ho ancora un po’ di febbre, sono spossato. Sono stato per morire, direi: sono un dottore, certe cose le capisco.
E’ che quando immagini di prenderti una pallottola durante un inseguimento avventuroso, pensi sempre che sia come nei film: scene a rallentatore, proiettile che ti trapassa da una parte all’altra come se ti facessi un piccolo buco in più al lobo dell’orecchio, ferita pulita, capacità di rialzarsi subito dopo e combattere a mani nude come se niente fosse. Magari con qualche mossa di kung fu.
La realtà è ben diversa. L’ho visto in guerra, prima, e su me stesso poi. Ho visto teste esplose con un singolo colpo, ho visto corpi crivellati, contorti. Con le budella di fuori. Niente di romantico. Niente scene in slow motion.
Per quanto mi riguarda, ancora meno romantico: la pallottola l’ho presa alla coscia, verso l’esterno, nessun osso rotto, niente di grave, quindi. Ma il dolore mi ha lasciato a terra senza respiro finché non mi hanno imbottito di morfina in ospedale, dopodiché mi sono beccato una bella infezione.
Il problema vero è stata quella. A tre giorni di ricovero dall’incidente mi avevano perfino dimesso, ma poi ho cominciato ad avere la febbre alta qualche giorno dopo. Altissima.
Ricordo vagamente il volto sfocato di Sherlock che se ne è accorto in piena notte. Non so proprio come abbia fatto, immagino che mi controllasse di tanto in tanto, preoccupato. Forse mi lamentavo nel sonno.
Insomma, per farla breve, dicevo, sono stato in ospedale quasi 25 giorni, mi hanno fatto di tutto. Però ora sto bene. Beh, insomma, benino… non sono ancora saldo sulle gambe, devo stare a letto, dormo tutto il tempo.
Come sto sonnecchiando adesso, per esempio. Deve essere il tramonto, intravedo un riflesso violaceo filtrare dagli scuri, faccio fatica a tenere gli occhi socchiusi. Di là c’è silenzio assoluto, forse in casa non c’è nessuno. Non ricordo di avere visto Sherlock nell’ultima ora, o forse era ieri… non ricordo. I medicinali mi stordiscono, non ho molta fame e la debolezza mi prostra.
Mrs. Hudson oggi ha insistito per ore, ma non ce l’ho fatta mangiare più di mezza coppetta di porridge leggero. Meglio di una settimana fa, che non mangiavo per niente. Credo di aver perso almeno 5 chili.
Sherlock veniva in ospedale ogni pomeriggio. Entrava in silenzio, sedeva in silenzio sul mio letto, restava in silenzio, chiunque ci fosse. A  volte lo percepivo, a volte no.
Una volta che ero più sveglio ricordo che mi ha sorriso e io ho mosso la mano verso di lui, lui me l’ha presa.
Qualche sera fa mi ha portato lui a casa, aiutandomi a entrare nel taxi, sorreggendomi con una forza fisica impressionante mentre salivamo le scale e io facevo un gradino alla volta col braccio attorno al suo collo.
Paziente e docile come mai l’ho visto…  
Senza parlare mai troppo.
“Da oggi zoppicherò davvero “ gli ho detto mentre arrancavamo su per le scale.
“Non zoppicherai, il nervo è integro, i muscoli sono ben cicatrizzati, stai facendo la vittima”.
Il suo braccio mi cingeva la vita, leggero ma molto saldo. Sentivo il calore del suo palmo sul fianco, un calore benefico che si irradiava per tutto il corpo.
Ho pensato sempre a lui mentre stavo male. Per tutto, tutto il tempo in cui ero vagamente cosciente.  
1% confusione, 99% Sherlock.
Sherlock che suonava il violino, Sherlock che volava giù dal tetto, Sherlock che sedeva nella sua poltrona un pomeriggio di Novembre, ventuno mesi dopo, come se niente fosse accaduto.
Oh, certo, Molly mi aveva preparato prima, è ovvio… altrimenti avrei avuto un infarto o gli avrei sparato, scambiandolo per un intruso.
Ma tant’è…
E’ da allora che, quando non lo vedo e non è in casa con me, penso a lui per tutto il tempo, ogni minuto di ogni giorno. Dov’è, cosa fa, se è in pericolo. Se c’è anche il minimo, impercettibile rischio che io possa vederlo di nuovo morto…
Sono diventato la sua ombra, anche quando non lo sa.
Oddio... non sono sicuro che non lo sappia. Ma chi se ne frega.
E’ per questo che mi sono preso una pallottola al posto suo, durante una colluttazione stupida.
No, non fraintendetemi, non è nulla di ciò che pensate, lo so che la gente parla di noi, lo so che è facile capire male... ma non è niente di tutto questo.
C’è qualcosa che va al di là.
Lui è la mia famiglia. L’unica che ho.
Da quando è rientrato nella mia vita, dopo una cosa come la morte, io ho stabilito che non dovrà più morire: non prima di me, almeno.
Odio ogni alba e ogni dannata ora del giorno che scorre, perché so che invecchierà e morirà. Se qualcuno non lo farà fuori prima.
E io non ci posso passare di nuovo. Semplicemente non posso.
E insomma, dicevo, questo killer un po’ idiota ci aveva teso un’imboscata, era un caso da 7 più o meno (Lestrade aveva insistito tanto!), ma lo avevamo individuato e accerchiato con tutta tranquillità.
Sherlock lo aveva rimbecillito di chiacchiere e non ci sarebbe neanche stato bisogno di sparare, ma poi il tizio ha fatto l’errore di infilarsi una mano nel giubbotto per prendere qualcosa, girandosi in direzione di Sherlock, e gli sono saltato addosso senza pensare. 
Eppure stavo andando bene, lui me lo diceva spesso: pensi meglio da un po’, John.
Certo, come no.
Era un tipo stupido ma non lento, e, mentre cadevamo, ha lasciato andare quello che aveva preso, cioè il telefono, e da bravo ex militare - evidentemente meglio addestrato di me- è riuscito a tirare fuori con l’altra mano una pistola e ha fatto fuoco alla bell’e meglio mentre ero sopra di lui e gli stavo massacrando la faccia a testate. Per fortuna mi ha preso male e di esterno.
“Non so chi di voi due sia più imbecille!” avevo sentito Sherlock ruggirmi quando mi aveva tirato via e soccorso.
Per un attimo ho intravisto l’immensità del buio nei suoi occhi, credo fino a quando non si è reso conto che non era una ferita grave. 
Ho saputo dopo che il tizio è in coma, gli ho sfondato il cranio, subito dietro gli occhi.
Oh... la mia rabbia repressa! Non mi sono nemmeno fatto male. Solo il buco della pallottola.
E se non fosse stato per quella infezione del cazzo, sarei stato in piedi 3 giorni dopo.
Sherlock.
La casa è davvero molto silenziosa. Mi sento un po’ meglio, il mal di testa si è attenuato, ma non riesco a capire né che ore sono né fra quanto arriverà Sarah per vedere come sto.
Cara, cara ragazza. Mi ha preso proprio a cuore.
Ogni giorno viene a farmi la medicazione e le iniezioni di antibiotico, opponendosi al fatto che me le potrei fare da solo in qualunque parte del mio corpo, come facevamo in Afghanistan. Dice che non vuol vedermi con buchi da drogato sulle braccia.
Sherlock è convinto che lei sia innamorata di me, moltissimo, per cui quando la vede, ringhia.
 E se lo dice lui, so che è vero.
Ma non capite male, non per quello che pensate voi: ha solo paura anche lui. Paura che io trovi qualcuna speciale e vada via.
 Io sono la sua famiglia.
Ma non potrei mai avere una normale vita di coppia in questa casa, con lui fra i piedi.
Nè ci ho mai pensato, a dire il vero. Con Sarah in realtà non c’è mai stato niente, voi lo sapete.
Per me è un’amica preziosa, come Molly, ma per il resto... spero si fidanzi con quel Malcolm dell’ambulatorio che le muore dietro e faccia tanti bambini.
Chissà che ore sono. Muovo il braccio nel buio violetto e raggiungo il comodino sulla mia destra, sento la mano che mi trema un po’, sarà la debolezza.
Ho sete, riesco ad accendere la luce. Mi devo muovere piano, ho i muscoli tutti indolenziti. Da domani devo sforzarmi di mangiare di più.
Prendo l’orologio sul ripiano e mi devo sforzare molto per mettere a fuoco. Le 5,34. Di mattina.
Allora questa impalpabile luce porpora che filtra dalla finestra è quella dell’alba... sto dormendo da ieri pomeriggio.
Riesco ad allungarmi verso il bicchiere di acqua e bevo un po’, ma questa piccola cosa mi ha stremato, allora ricado supino con un sospiro e volto la testa alla mia sinistra.
Sherlock è lì, sdraiato poco più in là.
E dorme silenzioso. E’ lì steso lungo sul letto, con le braccia incrociate sul petto. Mi soffermo a guardarlo, a malapena sembra che respiri.
Il suo profilo è immobile e sereno.
E’ in vestaglia, ma sdraiato sulle coperte, non sotto. Avrà freddo. Osservo il lievissimo movimento delle braccia sul torace che si alzano e abbassano impercettibilmente in sincronia con la respirazione.
E’ lì da non so quanto. Per me.
Non riesco a dire cosa sento, mi sento sopraffatto.  
Tendo una mano verso di lui e gli tocco la spalla delicatamente, la spingo un po’ con tutta la cautela di cui sono capace.
“Sherlock...”
Spalanca gli occhi di scatto e gira il viso verso di me.
“John....”
Si allunga verso di me, è preoccupato. Le sue cornee sono venate di rosso, dev’essere esausto.
“E’ tutto ok? Come ti senti?”
“Bene... si, è tutto ok... vai a dormire....” lo guardo come se lo vedessi solo ora. Lo vedessi REALMENTE  “da quanto sei qui?”
Lui si tira su e si mette a sedere sul letto. Si passa le mani tra i capelli, si stropiccia la faccia.
“Da ieri sera... John, hai ancora la febbre” si rigira a guardarmi con quegli occhi rossi e trasparenti.
“Niente che mi ammazzerà” sorrido, ma ho la gola strozzata dall’emozione “il peggio è passato”
Mi guarda storto, non si fida. Mi prende un polso e lo stringe per bene, puntando il pollice sulle vene, e resta un attimo assorto.
“Sei sfebbrato” sentenzia “ma non è ancora detto che sia tutto ok, dovresti sapere meglio di me che le  infezioni batteriche provocano ondate febbrili improvvise e convulsioni.”
“Non ho le convulsioni” insisto dolcemente “vai a dormire”
“Ma le hai avute” mi informa lui “ti ho portato in ospedale appena in tempo, non correremo questo rischio un’altra volta”
Ora capisco. Dormiva qui anche quella notte. Avevo la febbre già alta, non me lo ricordo.
E’ sempre stato qui.
Ci sarà sempre. Questo vale ogni pallottola del mondo.
Mi guarda rabbuiato, non lo vuole dire. Non lo costringerò, so quanto gli costa.
Lui è la mia ombra, anche quando io non lo so. Ma adesso lo so. Credo di averlo sempre saputo, come ho sempre saputo che ci doveva essere qualcosa di grave, davvero grave, per farlo volare giù da quel parapetto, e quel qualcosa ero io.
Non è certo una rivelazione, per me. E’ solo l’ennesima conferma. Qualora ce ne fosse mai stato bisogno.
“Fa freddo” gli dico “mettiti almeno comodo, vieni sotto”
Vedo che è perplesso.
“Mi molesterai?”
“Oh certo, cosa credi?”
Ci mettiamo a ridere insieme, lui si infila sotto le coperte, ben attento a non sfiorarmi nemmeno per sbaglio durante la manovra.
E va bene così. Non c’è niente che possa andare meglio di così. Capisco cosa gli stia passando per la mente e mi rendo conto che ci sono cose separate da linee più sottili di quanto possiamo immaginare, linee che non capiremo mai quando e se varcare.
Mi giro a spegnere la luce e per un istante, un istante solo, vedo me stesso su di lui, chino a baciarlo, come un’immagine limpida ma effimera, che evapora immediatamente dai miei occhi e dal buio della stanza, e non so se quello che provo è un attimo di desiderio o di repulsione.
Ma non è questo il momento. Cosa vado a pensare?
Lui è quello che ho, in qualunque forma egli sia.
E faremo sempre una bella gara a proteggerci l’un l’altro. Faremo una bella gara a provare ad allontanarci a vicenda dalla morte e dalla sofferenza, ad essere le nostre reciproche ombre.
Finché non toccherà a uno dei due, prima o poi.
Ma non adesso.
  
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