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Autore: BNikki_    15/03/2012    8 recensioni
"...stava correndo all’inseguimento di un terrorista iraniano - cellula dormiente di una pericolosa organizzazione pronta a scatenare l’inferno atomico negli Stati Uniti, piano diabolico che lui aveva appena contribuito a sventare decrittando le comunicazioni cifrate tra i membri della cellula, in barba ai più potenti supercomputer della CIA". -Hey, ma è una storia di azione? -No, è solo una storia di amore e calzini.
Genere: Romantico, Sentimentale, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Kate Beckett, Richard Castle
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Quarta stagione, Nel futuro
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Disclaimer: Castle non è mio, lo è qualcun altro...




Dove è andato a finire il tuo amore
quando si è perso lontano dal mio?
Dove è andato a finire nessuno lo sa,
ma di certo si troverà là.
Nel paradiso dei calzini.




Calzini

La coscienza scivolò dolcemente dall’onirico vicolo di lower Manhattan lungo il quale fino a pochi istanti prima stava correndo all’inseguimento di un terrorista iraniano - cellula dormiente di una pericolosa organizzazione pronta a scatenare l’inferno atomico negli Stati Uniti, piano diabolico che lui aveva appena contribuito a sventare decrittando le comunicazioni cifrate tra i membri della cellula, in barba ai più potenti supercomputer della CIA - fino al torpore umido della sua stanza, la penombra che incupiva i colori e i profili dell’arredamento sofisticato e la lama di luce gialla e calda che filtrava dalla porta socchiusa del bagno.
In un attimo ogni residuo di sonno scomparve dai suoi occhi. Dalla posizione in cui si trovava, la testa ancora sul cuscino e il corpo vigoroso pigramente avvolto nel lenzuolo stropicciato, il suo sguardo poteva cogliere l’immagine che rifletteva lo specchio del bagno e, in quel riflesso, parte del viso di lei.
Lo spiraglio della porta era non più grande di quattro dita, ma la luce potente sopra lo specchio illuminava Kate come il riflettore di un palcoscenico, il cui unico spettatore restava nella penombra, non visto. E con il cuore in gola.
Lei aveva raccolto i lunghi capelli castani in modo che scendessero lungo il lato destro del collo, lasciando che la luce schiarisse ogni ombra della spalla sinistra, della sua clavicola e del profilo della mandibola. Si osservava allo specchio, nuda - almeno per quanto riusciva a vedere - sorreggendosi al bordo del lavabo di ceramica, stringendolo con forza con le sue belle mani dalle dita affusolate, le nocche bianche per lo sforzo.
Riusciva a vedere solo uno dei suoi grandi e bellissimi occhi, riflessi nello specchio. E un sopracciglio. Si sollevò leggermente e lentamente piantando un gomito nel materasso per poter cogliere qualche altro dettaglio.
Kate piangeva.
Immobile, in silenzio. Lunghi rigoli di lacrime le bagnavano le guance.
Il panico lo paralizzò completamente.
E d’un tratto, come se il terrore negli occhi di Rick avesse prodotto un rumore, un suono udibile, Kate si rianimò: si passò il dorso della mano sugli occhi, si chinò per raccogliere qualcosa da terra, si passò le mani tra i capelli in un tentativo poco convinto di domarli e infilò le braccia e poi la testa in un indumento, il maglioncino azzurro. Indossava già i jeans.
Una mano e l’anca destra fasciata di jeans fu l’ultima immagine che vide di lei. La luce si spense. L’altra porta del bagno, quella che dava sul salone, emise un cigolio e in un attimo, prima che Rick avesse anche solo il tempo di formare un pensiero, se n’era andata.

Fu un improvviso buon senso, figlio più della paura di affrontare la realtà che della saggezza dei suoi 40 anni passati, a impedirgli di correrle dietro senza mutande sul pianerottolo e magari fino in strada. Probabilmente non era il caso di panicare... e ‘la fuga’ non era in realtà una fuga. E le lacrime non erano lacrime. Doveva restare calmo. Ragionare.
Compose il codice di chiamata rapida sul cellulare, ma una voce stridula lo informò che l’utente Kate Beckett non era raggiungibile.
‘Detective Kate Beckett, per favore lasciate un messaggio dopo il beep.’ la sua voce, la sua adorabile voce, lo invitava a lasciare un messaggio.
Distese i muscoli delle spalle e portò in fuori il petto preparandosi. Niente panico. Niente panico!
Beep.
“Ehi... Ti ho sentita andare via... Mi dispiace non averti salutata come si deve [sorrisetto] ma hai fatto bene, domani sei di turno e a casa tua riuscirai a dormire un po’. Scusami, io mi sono addormentato come un bambino! [risatina imbarazzata]... Kate... [sospiro]...E’ stato bellissimo, Kate... [sospiro] Lo vedi? Sono uno scrittore senza parole. Ti chiamo domattina. Fai sogni bellissimi, buonanotte amore mio.”

Kate si chiuse la porta alle spalle e girò il chiavistello nel disperato e vano tentativo di lasciare al di fuori il senso di confusione e angoscia che provava.
L’appartamento era gelido. O forse era il gelo del suo cuore?
Si diresse svelta verso il bagno, si liberò dei vestiti, che inzeppò senza complimenti nel cesto della lavanderia, incluse le scarpe da tennis, e si infilò sotto il getto bollente della doccia.
L’acqua, caldissima, evaporava sulle mattonelle bianche, sul piatto di ceramica e sulla sua pelle delicata, scottandola, arrossandola leggermente. Ma lei non lo sentiva: ogni sensazione tattile era stata annullata, sopraffatta, dal ricordo delle mani di Richard Castle che percorrevano la lunghezza delle sue gambe, accarezzavano ogni curva del suo corpo e scoprivano ogni punto soffice e sensibile. Sebbene il suo cuore fosse stretto in una morsa, la memoria fisica di quella notte era indelebile e impossibile da ignorare.
Rabbrividì sotto il getto bollente e vi si nascose lasciando che l’acqua le scorresse sulla testa, sul viso, nelle orecchie, attutendo ogni suono tranne lo scroscio che riecheggiava sulle sue ossa.
Poteva restare così per sempre, avvolta dall’acqua, con l’impressione di essere rannicchiata e protetta, come nel ventre materno. Al sicuro.
Ma ancora più forte del fragore dell’acqua era il ricordo della propria voce che gridava in estasi il nome di lui. Una voce che, sebbene in quel momento avesse un timbro che non riconosceva, non poteva che appartenerle.
Rabbrividì di nuovo, fino in fondo, fino nelle viscere, serrò le palpebre già chiuse e gridò ancora, lo stesso nome, con paura e disperazione.

Non aveva chiuso occhio per tutto il resto della notte.
Dopo un paio d’ore aveva rinunciato e si era alzato dal letto definitivamente, aveva fatto una rapida doccia e controllato se durante quei cinque minuti il telefono avesse squillato.
Aveva tolto le lenzuola dal letto per cambiarle e aveva cercato l’odore di lei tra il cotone pregiato.
In fondo al letto aveva trovato un calzino a righe: rosse, ocra, azzurre e marroni. Aveva sorriso come un bambino che trova una macchinetta di latta tra l’erba alta del parco; aveva inspirato il suo odore anche da lì e aveva cercato il ‘compagno rigato’ tra le lenzuola che aveva appena ammassato da un lato, e poi sotto al letto, e in bagno. Senza successo.
Quindi aveva steso il calzino sul piano del comò come se fosse una reliquia da adorare.
Mentre aspettava che il caffè fosse pronto controllò di nuovo il telefono: che si fosse perso una chiamata senza accorgersene?

Alle 8 si era deciso a chiamarla.
Ma l’utente Kate Beckett non era ancora raggiungibile. Strano in effetti, se era di turno doveva pur avere il telefono acceso. Lasciò un altro messaggio in segreteria:
“Ehi...buongiorno! Hai dormito bene? [sorriso gioioso al pensiero di lei tra le sue braccia] Ti raggiungo al distretto tra venti minuti, qualche richiesta per la colazione? [momento di esitazione, lo dico o non lo dico?] Ah, dimenticavo...ti ho già detto che sei straordinaria? [sorriso sornione] A tra pochissimo!”

Cercò di respingere l’orribile sensazione che lo colse quando Esposito lo salutò appena uscito dalla cabina dell’ascensore.
“Ehi, Castle, che fai qui? Beckett ha preso un giorno di ferie.”
A quelle parole era rimasto pietrificato per qualche secondo al centro del corridoio, entrambe le mani occupate dalla coppia di bicchieri di caffè sul vassoietto di cartone e dal sacchetto con due muffin al cioccolato.
Il detective ispanico pensò bene di non indagare oltre, gli rivolse un cenno di saluto e si avviò verso la sua scrivania.
Ma certo, è a casa, sono un cretino, sarà stanca...

A casa non c’era.
Castle bussò più volte alla porta. Provò a chiamare il numero della linea fissa e ascoltò il telefono trillare posando un orecchio sul timpano di legno della porta mentre all’altro faceva echo lo squillo monotono e ancora più mesto nell’altoparlante dell’iphone.
La chiamò di nuovo sul cellulare.
...per favore, lasciate un messaggio...
“Kate... dove sei? Non riesco a contattarti, richiamami, per favore...”
C’era una nota di disperazione nelle ultime due parole.
Il caffè era diventato freddo.
Appena salito su un taxi chiamò al Distretto per saperne di più, ma Ryan e Esposito non avevano altre informazioni, solo che lei aveva chiamato Gates alle 6 di mattina per chiedere qualche giorno di ferie.
Qualche giorno? Non solo uno, quindi...
Il telefono di Lanie andava dritto sulla segreteria telefonica:
“Sto facendo un’autopsia, per cortesia, lasciate un messaggio dopo il segnale.”
Mentre la mente si soffermava per un attimo sul curioso accostamento tra ‘autopsia’ e ‘cortesia’, compose il numero di Jim Beckett. Ultima chance.
Al sesto squillo stava per chiudere la telefonata quando una voce sussurò:
“Sì?”
“...Kate?”
“Castle...”
“Stai bene? Dove sei? Mi stavo preoccupando...”
“Castle...io...non posso, scusami, non posso...devo andare.”
“Kate! Kate!”. Ma lei aveva già chiuso la comunicazione.

Non posso.
Ma esattamente cosa non poteva?
Castle camminava inquieto davanti alla grande libreria del suo studio. Avanti e indietro, come un leone in gabbia. La sua fantasia irrefrenabile costruiva scenari di ogni tipo, ma per la maggior parte apocalittici, dietro a quelle poche parole che lei aveva pronunciato al telefono.
Non posso... Non posso parlare, sono in ospedale, un cecchino mi ha sparato, sto per morire.
Non posso... Non posso stare con te, sei un uomo vuoto e arido e da quando ti conosco non hai fatto che ingrassare.
Non posso... Ho fatto l’amore con te ed è stato orribile, non voglio più vederti, non chiamare.

Ma non era stato affatto orribile. Era stato meraviglioso. Era stato qualcosa di molto vicino ad una rivelazione mistica, l’unione di due corpi e due anime. E ogni volta che chiudeva gli occhi il ricordo si impadroniva dei suoi sensi e i sapori, gli odori, i suoni della notte precedente diventavano potenti e quasi reali.
Strinse tra le mani il calzino a righe che da qualche ora aveva cominciato a portare sempre con sé nella tasca della giacca.
Non posso... Sono occupata a cercare l’altro calzino a righe, non riesco proprio a capire dove possa essere andato a finire.

Rick prese sonno a tarda notte. Scivolò nella fase REM quando era ormai l’alba e sognò di posare di nuovo le mani su quelle gambe da statua greca e le labbra su ogni singola vertebra di quella schiena sconvolgente. Si svegliò qualche minuto dopo. Avrebbe avuto bisogno di una doccia fredda, ma gli bastò ripensare a quella telefonata per spegnere ogni fuoco.
Non posso...
Disteso sul letto con lo sguardo sul soffitto ripensò a come erano andate le cose la notte prima, cercando di soffermarsi sui dettagli, illudendosi di poter analizzare i fatti con lo scrupolo e la distanza emotiva di un detective che indaga su un delitto.
Avevano chiuso l’ultimo caso intorno alle 5 del pomeriggio ed era rimasto a farle compagnia fino a che lei non aveva terminato di compilare moduli e scrivere rapporti. Era abbastanza insolito per lui restare al distretto per le scartoffie, non era un lavoro in cui poteva aiutarla e tutto ciò che poteva fare era restare sulla sedia accanto alla scrivania e guardarla lavorare, studiarne l’espressione concentrata e distogliere lo sguardo quando lei si girava, facendo finta di giocare con Angry Birds. In ogni caso non c’era nessuno a casa ad aspettarlo, Alexis e Martha erano fuori città, e a lui piaceva l’atmosfera intima del Distretto, semideserto in tarda serata, e ancora di più gli piaceva passare qualche ora accanto a lei, senza cadaveri o sangue in vista, senza l’occhio inquisitorio di Gates che lo teneva sotto controllo e senza che Kate si sentisse pressata da un invito a cena ufficiale.
Intorno alle 7 aveva ordinato del cibo cinese, avevano chiacchierato di sciocchezze prendendosi in giro a vicenda, lottando con le bacchette di legno per rubare un assaggio di pollo agrodolce o di maiale alle mandorle, l’uno dal contenitore dell’altra.
Per tutto il tempo non avevano mai smesso di sfiorarsi casualmente, di tenere le ginocchia a contatto, di lanciarsi sguardi teneri e sorrisetti ammiccanti.
Eppure non era niente di nuovo. Negli ultimi mesi questo era diventato il nuovo equilibrio tra di loro e quando lei aveva accettato di salire da lui per un drink - un caffè? una tisana? - non si era aspettato niente di più.
Ma improvvisamente, nell’atmosfera familiare del suo loft, la passione era esplosa per il semplice fatto che non era più possibile contenerla, non un minuto di più!
E sì, c’era qualcosa di incredibilmente poco romantico nel baciare Kate Beckett spingendo la sua schiena contro la porta del frigorifero, nel sentire le sue dita intrecciarsi sui capelli dietro la nuca mentre le calamite decorative cadevano a terra, nel sollevarla di peso e posizionarla sul gelido bancone della cucina per permettere alle sue gambe lunghe e snelle di allacciarsi dietro di lui, mentre le mordicchiava e baciava il collo.
Niente candele accese, niente ostriche o champagne. Solo il cesto di mele verdi che rotolavano scomposte a terra, colpite dal maglioncino azzurro che le aveva sfilato accarezzandole la vita, i seni, le scapole, le braccia.
Passione, pura e incontrollabile passione, scatenata quasi senza pretesto e senza che nessuno dei due avesse tentato minimamente di tenerla a freno.
Non ricordava come si erano spostati fisicamente dalla cucina alla stanza da letto, forse era successo quando avevano rovesciato il portamestoli dentro al lavabo di alluminio, generando un frastuono che ricordava il suono di un gong. L’inizio di un match di lotta, la più dolce che esiste.

Si era riaddormentato da circa un’ora quando la sveglia trillò, svegliandolo di soprassalto.
Controllò subito il telefono ma non vi erano messaggi né chiamate.
Si alzò per prepare il caffè portando con sé in cucina il calzino a righe di Kate che aveva tenuto tutta la notte accanto al letto, sul comodino.
Ma era lo stesso calzino? Quello che aveva trovato nel letto e tenuto nella tasca della giacca il giorno prima? O era il suo compagno, scomparso come Kate e finalmente ritrovato? Per scrupolo controllò il contenuto delle tasche della giacca, abbandonata sul bracciolo del divano.
Totale calzini: uno.
Mentre il caffè borbottava sgorgando dalla macchina, la chiamò di nuovo, prima a casa - nessuna risposta - e poi sul cellulare - l’utente non è raggiungibile.
Lasciò ancora un messaggio:
“Kate, che sta succedendo? Ti prego chiamami, fammi sapere che stai bene.”
Infine chiamò di nuovo il numero di Jim, che però squillò a vuoto.

Altro che ‘niente panico’! Trenta minuti dopo era di nuovo a bussare alla porta del suo appartamento. Ancora una volta invano.
Poco dopo riuscì finalmente a contattare Lanie, che aveva appena terminato un doppio turno all’obitorio ed era a dir poco isterica. Neanche lei aveva notizie di Kate, non si erano viste o sentite negli ultimi due giorni e non aveva idea del perché si fosse presa delle ferie all’improvviso. Ma conosceva l’indirizzo del padre di lei, nel New Jersey.
“Ehi scrittore, sicuro che sia una buona idea andare a bussare a quella porta? Se Kate non ti risponde al telefono forse ha una buona ragione...”
Castle esitò un secondo, soppesando ancora una volta i pro e i contro. Ma poi rispose con sicurezza:
“Lanie... No, questa volta non aspetterò, voglio almeno parlarle.”

Accostò l’auto di fronte a casa Beckett poco dopo le due del pomeriggio.
La strada era tranquilla e così appariva la casa. L’unica finestra del secondo piano era aperta a metà e le tendine bianche ricamate erano agitate dal vento. Decise che quella era la camera di Kate e fantasticò su un letto con la coperta a fiori, una piccola scrivania con sopra penna e carta da lettere, uno specchio ovale, libri ovunque, un tappeto peloso, un armadio pieno di vestiti che probabilmente, come era accaduto negli ultimi decenni, sarebbero tornati di moda da lì a 20 anni.
Mentre percorreva il vialetto di ghiaia fino al piccolo portico si sforzò di interpretare le tendine bianche svolazzanti come un segno di pace e accoglienza.
Bussò tre volte alla porta con il battente d’ottone.
Una voce lo raggiunse, un po’ attenuata dal vento:
“Sono già andati! E’ arrivato tardi!”
Proveniva dalla strada, ma quando Castle si girò non vide nessuno, né sul vialetto, né sul marciapiede.
“Signore, sono qui!”
Alzò lo sguardo e notò un ragazzetto magro e biondo, non più di 25 anni, appeso con ganci e imbracature al palo del telefono di fronte alla casa. In sosta, con gli scarponi chiodati puntati nel legno del palo e le corde a sorreggerlo per il bacino, fece un cenno con una mano in direzione di Castle.
Lo scrittore raggiunse la base del palo restituendo il cenno amichevole al tecnico della compagnia telefonica.
“Sono partiti almeno 20 minuti fa, può ancora raggiungerli...” disse il giovane.
Castle annuì senza convinzione.
“Grazie, molto gentile...”
“Si figuri!”
Partiti? Ma partiti per dove? Castle, preoccupato, si passò una mano sul viso mentre raggiungeva la sua auto.
Ricordava che Jim aveva un cottage da qualche parte in montagna, dove Kate aveva trascorso la convalescenza dopo essere stata ferita al funerale del Capitano Montgomery. Se era lì che erano diretti non aveva modo di raggiungerli, non sapeva dove fosse quel dannato cottage, aveva trascorso l’estate a cercarlo. Nemmeno Lanie o i ragazzi lo sapevano. In fondo Kate era una donna riservata.
Raggiunto lo sportello dell’auto infilò la mano in tasca in cerca delle chiavi, ma prima trovò il calzino.
Si fermò e lo strinse tra le dita. Un senso di amarezza e rassegnazione prese possesso di lui.
Questa non era una caccia al tesoro. Doveva smettere di seguire piste, fare ricerche, interrogare gli amici. Lei non voleva vederlo, non voleva rispondere al telefono ed era partita.
Il messaggio era chiaro.
La notte che avevano passato insieme aveva avuto il senso di un addio. Oppure per lei era stata una delusione, aveva capito che una volta bruciata la fiamma non le rimaneva nient’altro.
Oppure lui aveva detto o fatto qualcosa di sbagliato?
Se solo avesse potuto parlarle, chiarire, spiegarsi... Dirle ancora una volta che era pazzo di lei.
“Ehi! Amico...”
Ancora il tecnico del telefono. Castle gli lanciò un’occhiata distratta.
“...il cimitero è da quella parte!” continuò il ragazzo indicando la direzione con il cacciavite che teneva in mano.

Impiegò circa 30 minuti per raggiungere il cimitero. Il navigatore GPS aveva le idee confuse e lui continuava a maledire la voce metallica che lo invitava a fare inversione a U e se stesso per essere stato stupido, stupido, stupido.
Avrebbe dovuto intuire molto prima che era successo qualcosa di grave, conosceva Kate meglio di chiunque altro, sapeva capire i suoi pensieri da uno sguardo o dalle piccole rughe che a volte apparivano sulla sua fronte. Sapeva anticipare i suoi desideri, sapeva quando era il momento di tacere (ma raramente poi lo faceva).
Ma questa volta lui aveva ragionato con il cervello o con qualche altro organo? Aveva dato per scontato di essere la causa della sparizione di Kate, la causa del suo telefono muto. Un vero idiota. Un maledetto idiota egocentrico.
Povero Jim... Non riusciva nemmeno a pensarci. Tutto quello che voleva era raggiungere Kate e stringerla forte a sé. Sapeva che in questo momento niente avrebbe alleviato il suo dolore, ma sperava di farle capire che non doveva affrontarlo da sola.

Rimase in disparte fino alla fine della cerimonia.
Lei, con un lungo cappotto scuro e gli occhiali da sole era in piedi accanto alla bara. La vide stringere la mano al prete e congedare con un abbraccio tutte le persone che le vennero vicino per salutarla e rivolgerle qualche parola di conforto. Ma lui non si mosse. Voleva aspettare ancora qualche istante, concenderla un po’ agli altri, o darle respiro... Ma in realtà esitava terrorizzato dalla possibilità di un rifiuto.
Non posso...
Dopo qualche minuto Kate si lasciò prendere sottobraccio da una giovane donna con i capelli chiari e insieme si avviarono verso la macchina.
Rick le guardò entrambe passare a meno di 20 metri senza dire una parola. Sapeva che il suo posto avrebbe dovuto essere lì con lei, ma nello stesso tempo si sentiva improvvisamente un estraneo, catapultato in un universo parallelo dove Kate Beckett era una ragazza a cui era appena morto il padre e che non aveva mai nemmeno sentito nominare un certo Richard Castle, scrittore di libri gialli.
In quel momento Kate girò verso di lui lo sguardo, nascosto dagli occhiali scuri.
Non disse niente. Non fece alcun cenno, tantomeno sorrise.
Si infilò in macchina con la ragazza bionda alla guida e scomparve lungo il vialetto.

Castle rimase qualche minuto a osservare la strada deserta e i prati verdi punteggiati di lapidi. Il vento scuoteva i rami degli alberi con folate nervose, che annunciavano l’arrivo del cattivo tempo. Si sentiva svuotato, stanco, vecchio.
Risalì il leggero pendio che portava al luogo dove alcuni operai, sotto gli occhi vigili di un paio di signori distinti, in abito scuro, stavano completando il riempimento della fossa dove la bara di Jim Beckett era stata appena inumata.
Mancava la lapide. Tutto era successo così in fretta che non c’era stato il tempo per preparare la pietra con il nome e la foto di quell’uomo dall’aspetto severo, ma dall’animo fragile, che Kate aveva salvato, strappandolo dalla bottiglia in cui era caduto dopo la morte della moglie Johanna. Una vita persa, una vita salvata. E ora due vite perse.
La terra appena smossa era umida e odorosa. Rick ne raccolse una zolla sfuggita sull’erba e la sbriciolò sulla tomba, lasciando che l’acqua e la polvere scura gli intridessero le mani per suggellare una promessa silenziosa: andrò da lei, mi prenderò cura di lei. Non la lascerò rinchiudersi nel suo guscio Jim, te lo prometto.

“Castle?”
Si girò di scatto non tanto perché avesse riconosciuto la voce, ma perché in quel momento emotivo così intenso e sofferto era a malapena consapevole di quello che gli accadeva intorno.
Questa volta la sua reazione fu immediata, senza esitazioni: percorse in due passi quella breve distanza che li separava e la avvolse in un’abbraccio, stringendola così forte che a Kate mancò il respiro.
“Che ci fai qui? Come mi hai trovata?” disse mugulando contro il bavero della sua giacca.
Rick allentò un po’ la presa per poterla guardare negli occhi:
“Oddio, Kate, mi dispiace, mi dispiace così tanto...”
Lei abbassò lo sguardo sulla terra smossa, lasciandosi cullare da quelle braccia forti tra le quali appariva piccola, delicata, con la pelle bianca come una bambolina di porcellana.
Non portava più gli occhiali da sole e Rick poteva vedere le notti insonni e le lacrime versate testimoniate dalle occhiaie scure.
“Sì... lei...lei mi era molto cara...”

Non è una questione di intuizione, di capacità analitica... A volte le situazioni, le catene di eventi, si configurano in modo tale che è impossibile non rimanere schiacciati dagli ingranaggi messi in moto dalle nostre stesse paure e insicurezze. Semplicemente la logica viene meno. O viene distorta, piegata. E così la mente inganna se stessa.
“Ma io ti ho vista piangere, nel bagno...l’altra notte...”
“Papà mi ha chiamata intorno alle 4 per dirmi cosa era successo a Mary Ann... Davvero non l’hai sentito? Dormivi come un sasso. Sono corsa a casa, ho fatto una doccia e mi sono precipitata qui. Ero così sconvolta che ho anche dimenticato il telefono a casa.”
“Non rispondevi al cellulare, sembravi scomparsa. Stavo impazzendo! Avresti potuto chiamarmi...”
“Rick, è passato un giorno e mezzo. E non volevo...Io non...” Sospirò e cercò di mandar giù quel groppo in gola che in quel giorno e mezzo non l’aveva quasi mai abbandonata. “Lei era mia cugina, era giovane e bella... e si è andata a schiantare con la macchina contro un pilone di cemento. I suoi genitori sono fuori di testa dal dolore e per quanto mi sforzi l’unica cosa che posso fare per loro è essere presente, tener loro la mano e aiutarli con le pratiche burocratiche. Mi sei mancato tantissimo e volevo chiamarti ma...si tratta sempre di morte, di dolore... C’è morte ogni giorno nelle nostre vite, Castle... il mio lavoro, il tuo, l’omicidio di mia madre. Ma non voglio che sia questo a tenerci uniti, non voglio condividere la morte con te, ma la vita.”
Con una carezza leggera Rick le asciugò le guance e le sfiorò le labbra con un bacio.



Pochi giorni dopo, per attenuare l’angoscia per la perdita della cugina Mary Ann, nonché per rasserenare Castle sulle condizioni di salute di Jim Beckett, era stata organizzata una cena, che Rick aveva definito - con un mal celato sorrisetto di soddisfazione - ‘di famiglia’.
Dopo il dessert, mentre Martha intratteneva Jim con l’ennesima replica del suo spettacolo autobiografico e Alexis sistemava la cucina pur di non assistervi, Rick portò Kate nello studio in cerca di un momento di pace e intimità.
“Ciao bellissima, ben tornata...” le disse stringendola a sé.
“Ciao a te...” rispose lei prima di catturare le labbra dello scrittore tra le sue, facendo scorrere il palmo delle mani sul cotone della camicia blu inchiostro che indossava, accarezzandogli il petto e raggiungendo le spalle e la nuca.
Inebriati dal sapore di quel bacio e dal calore dei loro corpi così uniti, così vicini, dovettero ben presto fermarsi e respirare a fondo, fronte contro fronte, perché la situazione non scivolasse loro di mano.
“Ho una cosa per te...” le sussurrò dolcemente.
Mentre Kate lo guardava incuriosita, lui si sciolse per un attimo da quel tenero abbraccio e frugò nelle tasche della giacca, estraendone...
Un paio di calzini a righe. Una coppia.
“Ah, i miei calzini... Grazie!” disse lei sorridente stampandogli un altro bacio sulle labbra. Ma lui sembrava perplesso, guardava le due calze, che teneva una nella mano destra e una nella sinistra, senza capire:
“Ma era uno solo! Lo avevo trovato tra le lenzuola la mattina dopo che...ehm...quella mattina... L’altro l’ho cercato dappertutto, ma niente. Ero convinto che lo avessi tu.”
Kate lo guardò inarcando un sopracciglio: “Castle, ma di che stai parlando? Questi sono due calzini uguali, un paio, e li hai tirati fuori adesso dalla tasca.” Glieli prese dalle mani, li piegò insieme arrotolando i bordi uno sull’altro per tenerli insieme e li infilò in una tasca dei jeans “Tra l’altro sono i miei preferiti.”
“Ne ho portato uno in tasca per due giorni. Ma uno, ti dico! L’altro si era perso!”
“Sì, certo Castle, si era perso...” fece Kate con tono accondiscendente alzando gli occhi al soffitto. Gli prese una mano e lo condusse verso il salone.
“Era scappato, ma poi è tornato dal suo compagno.” aggiunse con tono un po’ scherzoso e un po’ solenne, seguendola nell’altra stanza.
“Uh-uh... Certo Castle, certo...”



Note e crediti
Se ho scritto questa storia è tutta 'colpa' di Rebecca. :) Ho ritrovato uno dei miei calzini preferiti qualche giorno fa, riunendo il paio dopo mesi...ehm...forse anni. Uno girava per il cassetto, sconsolato, l'altro in fondo al cesto della biancheria da lavare, incastrato in qualche piega. Finalmente si sono ritrovati e Reb mi ha fatto notare quanto sia romantica questa cosa e... SBAM! Ecco l'ispirazione che mi folgora...
Ma parte della 'colpa' va anche a Vinicio Capossela, che ha scritto una canzone sui calzini smarriti che è sempre nel mio cuore.
Un enorme grazie alla mia Sister che mi revisiona, con la promessa che dopo Pasqua riprendiamo in mano SGaT.
Io sto facendo la vaga...ho una storia di Natale ancora incompleta...se sto buona e non do troppo nell'occhio forse non se ne accorge nessuno... :D
Laura

   
 
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