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Autore: Fallin    17/03/2012    4 recensioni
Il legame di due fratelli alla luce di un segreto tenuto nascosto da fin troppo tempo.
- Quand'è che siamo diventati fratelli? -
- Probabilmente non lo siamo mai stati. -
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Takeru Takaishi/TK, Yamato Ishida/Matt
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Hit-and-run

 

Nonostante le diverse primavere alle spalle, gli inverni più freddi di Ikebukuro trascorsi a osservare i fiocchi che cadevano dal balcone, quei due marmocchietti che scorrazzavano per casa e diventavano ogni giorno più grandi e rumorosi, quando il sole estivo cominciava a impallidirsi e le foglie rotolavano giù dagli alberi, Yamato Ishida si apprestava a combattere la morsa di un gelo ancora più arido della stagione appena trascorsa.

E nonostante Sora si ostinasse, s’impegnasse nel tenere chiuse le imposte con la scusa dei primi mal di gola lui lo sentiva arrivare, l’autunno. Lo sentiva insinuarsi sottopelle tra i viottoli alberati, all’ombra dei soliti cipressi, e trapassarlo da parte a parte, piantandosi in gola sottoforma di un groppo che spariva misteriosamente quando la neve si posava.

A Yamato piaceva la neve. Perché piaceva anche a lui. La stessa persona che ritrovava in fondo ai suoi occhi quando si guardava allo specchio, o quando notava la stessa andatura riflettendosi nelle vetrine del centro o semplicemente sfiorandosi la solita ciocca bionda che gli ricadeva sempre sugli occhi.

Ed era inutile fare finta di niente, serrare la mascella e tirare dritto contraendo i muscoli fino a raggiungere la periferia, fino a quando qualcos’altro riempiva lo spazio ormai vuoto. Era inutile cercare di trovare un motivo, un significato nascosto di tutta la vicenda che forse a lui era sfuggito, che magari gli era passato sotto gli occhi e lui era andato dritto come al solito. Di notte, nel silenzio, si sentiva urlare dentro la testa: perché, perché, perché.

E quelle volte, molto spesso quando fuori pioveva quasi gli sembrava che la sua figura si delineasse sul contorno della porta, appoggiata allo stipite con la solita aria rilassata e un vocabolario sottobraccio. Era ancora così che se lo ricordava, Takeru.

Ma Takeru era dappertutto. Era seduto accanto a lui in macchina mentre andava a lavoro, di fronte mentre ticchettava sul suo portatile, lo sentiva talvolta ridere dalla cucina con una tazza di caffèlatte tra le dita.

E qualche volta era sembrato talmente vivido, così vero che si era precipitato dall’altra parte della stanza sperando di trovarlo lì, seduto, pregando.

Non doveva piangere, Yamato. Si era ripromesso tanti anni prima che per Takeru non l’avrebbe mai fatto, anche prima che se ne andasse per sempre. Era riuscito a infrangere anche quella di promessa, un pomeriggio d’autunno mentre andava in onda una replica di ER, la sua puntata preferita. Chissà poi perché.

Yamato ancora se lo domandava, cosa sarebbe successo se quel giorno, dopo aver litigato con metà ufficio, non gli fosse venuta la malsana voglia di un gelato al caffè.

 

La prima volta quasi non ci aveva fatto caso. Un bravo fratello maggiore però dovrebbe accorgersene di cose del genere, anche se Yamato non si era mai reputato tale. Un bravo fratello minore dovrebbe essere più bravo nel nasconderle, ma Takeru non si era mai considerato una persona abbastanza intelligente. Forse lasciava soltanto che le persone pensassero ciò.

Si erano fissati per una buona manciata di secondi, tra le corsie semivuote del supermercato e poi avevano abbassato lo sguardo sulle loro due mani, una sopra all’altra precisamente sopra l’ultima scatola di gelato. Al caffè.

- È l’ultima – aveva sibilato Yamato, ma il fratello non aveva accennato minimamente a voler cambiare espressione. Con le sopracciglia aggrottate e un’aria che non prometteva nulla di buono, gli aveva risposto:

- Appunto. Non vorrai negare del misero gelato ad un povero ragazzo affamato, per di più in fase di crescita. –

- Forse hai ragione. A diciotto anni sei ancora così basso... Ma ai miei tempi spettava al fratello maggiore l’ultima fetta di torta. –

- Pensa un po’, ai miei tempi già si divideva equamente a metà. –

Ai miei tempi non ce l’avevo mica, un fratello.

- Pensavo dicessi che spettasse invece al minore, sai? –

- Mica sono prepotente come te, io. Rivedo mio fratello dopo mesi e mesi ed ho persino la decenza di invitarlo a dividerci un gelato e lui fa l’arrogante. –

Takeru si era aperto in un sorriso, un po’ stanco, e anche Yamato aveva finito per abbozzarne uno.

- Giusto perché sei tu. –

- Ma quale onore. –

Takeru lo aveva letteralmente trascinato a casa sua, con la busta del gelato tra le dita che si era passato da una mano all’altra per tutto il tragitto. Poi, dopo aver aperto la porta di casa, l’ultimo piano di una palazzina malandata di periferia, aveva gettato un occhio dentro e gli aveva sussurrato sorridendo:

- Non c’è poi così tanto casino. – e gli aveva scostato la porta per farlo passare dopo di lui.

Effettivamente, rispetto agli alloggi malandati che riciclavano lui e Tai durante il periodo di esami, quella era una reggia. Forse dipendeva anche dal fatto che Takeru si adoperava per pulire, ogni tanto.

Si erano mangiati metà scatola a testa, con il chiacchiericcio della tv in sottofondo, abbandonati sul divano letto aperto al centro del piccolo soggiorno.

E avevano parlato di Sora, di Matt, di Tai, di tutti.

- E tu? Come va la scuola? – gli aveva chiesto poi il più grande mentre l’altro chiudeva le imposte per sfuggire al freddo della sera.

Se invece di spalle, lo avesse guardato negli occhi, avrebbe visto l’espressione tirarsi e gelare in un qualcosa di non ben definito.

- Tutto bene. Come al solito. – si era ripreso poco dopo.

- Hai già consegnato i moduli per il proseguimento degli studi? –

- Proprio l’altro giorno. Non avevo idea di cosa scriverci, quindi ho optato per continuare l’università affiliata al mio istituto. Approfitto del fatto che non devo dare l’esame d’ammissione per lavorare un po’ e racimolare qualcosa. -

- E dopo? –

E stavolta l’aveva vista, quell’espressione, mentre giocava a battere il cucchiaio sul fondo del bicchiere per far sciogliere tutto il gelato rimasto sul fondo, ma era stata l’impressione di un momento, un battito di ciglia e poi di nuovo tutto era tornato come al solito.

- Chi lo sa. –

Non aveva più rialzato gli occhi verso Yamato per tutto il resto della serata.

La seconda volta, qualcosa gli era parso di capire. Yamato era capitato sotto casa sua dopo un litigio con Sora e si era incamminato verso una meta qualunque per poi finire lì. E forse era stato il destino, chissà.

Aveva suonato e Takeru gli aveva aperto con le solite occhiaie e due borse da far paura, il naso rosso e uno sfogo appena sotto il collo, verso la spalla, spuntava dallo scollo del maglione di qualche taglia più grande.

Gli aveva detto ciao con la voce arrochita probabilmente dal sonno. A Yamato non era assolutamente parso che avesse appena smesso di piangere, ma forse il pensiero per un attimo gli aveva attraversato il cervello per morire poi in un angolo.

- Porti gli occhiali? –

- Come? – Takeru aveva abbassato lo sguardo – Ah, sì. La sera non leggo bene. –

Si erano finiti un’altra scatola di gelato al caffè in mezz’ora, e poi avevano giocato a carte sul solito divano-letto, che probabilmente Takeru non chiudeva mai.

Quel giorno non avevano parlato molto, nessuno dei due sembrava avere molta voglia.

 

La terza volta, la situazione aveva cominciato a non quadrare.

Erano passati due mesi e Yamato era finito sotto casa sua di sua spontanea volontà. Aveva salito le scale di corsa ed era entrato col fiatone dalla porta semichiusa, domandando permesso. Ma nessuno gli aveva risposto.

Entrando aveva fatto fuori una pila di lettere accatastate lì vicino e qualcuna era finita sotto il letto.

Una era di un istituto superiore, probabilmente la scuola di Takeru. Un’altra era di sua madre, e la cosa lo stupì non poco, e una terza era di un ospedale. L’ultima se l’era rigirata tra le mani più volte, resistendo alla tentazione di aprirla per scoprirne il contenuto, poi l’aveva poggiata dov’era prima assieme alle altre ed era andato a cercare il fratello in bagno. E la lavatrice poteva essere senza problemi scambiata per la succursale della farmacia di quartiere. La fiera dei sedativi, letteralmente. Takeru in quel momento era rientrato e si era spaventato a morte nel trovarlo lì.

Era andato a buttare la spazzatura, in pieno maggio, imbacuccato da capo a piedi.

Gli aveva chiesto se era raffreddato, ma Takeru aveva sviato con un mezzo cenno del capo che poteva significare tutto.

I contorni degli occhi erano diventati viola, un misto di sonno e affezione che avrebbe messo in allerta i più, e il corpo diventato praticamente un sottile filo di ferro.

- Ma stai male? – Yamato gli aveva istintivamente appoggiato una mano sulla fronte ma non sembrava avere febbre. Takeru gliel’aveva scostata con sgarbo per poi abbassare lo sguardo, come ogni volta.

- Tutto a posto. Perché sei qui? –

- Non ci vedevamo da un po’... e volevo dirti una cosa. – Era la prima volta che Takeru sentiva una sorta di entusiasmo nel suo tono di voce, solitamente piatto e inespressivo.

- Cosa? –

- Mi sposo. –

Era calato il silenzio per un lungo minuto, in cui il minore aveva continuato a tenere gli occhi bassi.

- Tra quanto? –

- Sei mesi. –

Takeru aveva incassato ancora di più se possibile la testa nelle spalle, e Yamato si era dovuto chinare alla sua altezza per riuscire a scorgere una qualsiasi espressione. Poi l’altro si era sollevato di colpo per mostrare il più falso dei sorrisi.

- Sono davvero contento per te. –

Yamato non aveva risposto.

 

Dopo l’ennesima volta, c’era decisamente qualcosa che non andava.

- Takeru apri, sono io. –

Nessuna risposta.

- Takeru, guarda che vedo l’ombra sotto la porta. –

Un sonoro rumore metallico aveva seguito quell’affermazione e il viso sempre più incavato di Takeru era apparso dietro uno spiraglio confinato da una catenella.

- Che vuoi? –

- Sono giorni che ti chia...-

- Vattene. – Takeru si era appoggiato allo stipite stancamente, sembrava reggersi a malapena in piedi, ma il tono ricordava più una supplica, troppo per risultare sgarbato.

- Perché? –

- Vattene e basta, non ho voglia di vederti. Non hai un matrimonio da organizzare? –

Yamato l’aveva fissato negli occhi, bassi, per un po’ e dopo aveva sbattuto un pugno sulla porta, spaventandolo.

- Ma che cazzo di problema hai? Sono giorni che ti telefono e non mi rispondi o riattacchi, vengo a casa tua a qualsiasi ora del giorno e non ci sei mai e adesso che ti ho trovato mi dici di andarmene? Ma anche no! –

- Te lo direi volentieri il mio problema se almeno fingessi decentemente che t’importi qualcosa. –

La porta l’aveva aperta soltanto per rispondergli a tono per bene, e Yamato si era infilato come un gatto, spingendolo indietro.

- Che cosa vuol dire?! –

- Che cosa, vuol di... – s’era interrotto, di colpo, Takeru. Aveva sbarrato gli occhi e Yamato aveva pensato che sarebbe esploso da un momento all’altro. E invece aveva tentato di dire qualcosa ma era uscito un biascichio sconnesso.

Aveva tentato e ritentato di formulare una frase di senso compiuto sotto i suoi occhi sgomenti e poi era crollato a terra di colpo, imprecando debolmente.

Yamato lo aveva visto cominciare a dimenarsi convulsamente, in preda ad una crisi epilettica. Per un attimo non aveva visto più niente, non gli sembrava più di essere veramente lì, di partecipare alla scena, la mente si era spenta di botto e poi si era riaccesa di colpo, come un allarme antincendio che gli strizzava il cervello ad intervalli regolari.

Era corso in bagno, ricordandosi della parafarmacia portatile sulla lavatrice e si era scervellato per ricordarsi che diavolo di farmaco prendesse la zia, quello per le convulsioni, glielo ripeteva fino alla nausea.

 Poi era spuntato, il valproato, tra tutte le etichette, non aveva controllato nemmeno se avesse visto giusto e si era precipitato in soggiorno.

 

Takeru aveva poi riaperto gli occhi sul lampadario del soggiorno, con le gambe pesanti come piombo e un’ombra alla sua destra.

Era riuscito appena ad alzare il capo per vederlo sbirciare tra le migliaia di lettere all’ingresso che si ostinava a tenere da parte invece di buttare.

Era bianco, come un cadavere, forse più di lui in quel momento.

- Un tumore...cerebrale. –

Takeru aveva fatto per chiudere gli occhi ma le palpebre si erano fermate a metà per poi risalire, stancamente.

- Sì. – 

- E...quanto...cioè, per quanto... –

- Tre. –

- Ancora tre anni? –

- Tre mesi, Yama. - 

Yamato aveva alzato lo sguardo su di lui, e per la prima volta Takeru l’aveva sostenuto con lo stesso orgoglio.

- Non c’è un modo per... –

- No. –

- Impossibile. – il tono di voce andava man mano abbassandosi.

- Ho già tentato di curarlo. Mi avevano detto che era stato debellato ancor prima che peggiorasse. Poi ho avuto una ricaduta. –

- L’hai già avuto? Quanto tempo fa? –

- Più di un anno. –

- E perché non me l’hai detto, perlomeno dopo averlo curato? –

- Non sapevo di avere un fratello, all’epoca. –

Bum. Una cascata fredda in un giorno di agosto. Il tono più innocente del mondo.

Yamato non se l’era ripetuto due volte ed era corso verso di lui con uno scatto. Takeru aveva pensato che avesse voluto picchiarlo, in un momento di follia, e invece si era fermato a metà, indeciso se prendersi a pugni o sfogarsi su qualcos’altro. Poi aveva poggiato la testa sulla sua spalla. Il silenzio aveva fatto da sipario della scena.

 

Non c’era stato niente da fare. Takeru lo aveva risollevato da un temporaneo torpore che rischiava di trascinarlo giù e poi ce l’aveva ributtato dentro, con una spinta decisa.

- Mi dispiace... – gli aveva sussurrato, forse piangendo. - ...scusami, davvero. –

Ancora non era riuscito a capire perché gli avesse chiesto scusa, quel giorno, e per quale motivo Takeru lo avesse perdonato. Forse perché non c’era altro da fare.

 

A Sora non l’aveva mai detto quel segreto che gli rosicchiava le tempie nel buio della stanza, mentre lei dormiva lì accanto, il respiro regolare, l’unica cosa calma che vorticava nella stanza.

Da quel giorno aveva cominciato a passare tutti i pomeriggi da Takeru, tornava dopo pranzo dall’ufficio, lasciava la borsa a casa e correva da lui nel primo pomeriggio, dove ad accoglierlo trovava sempre una tazza di caffèlatte.

E di solito Takeru sorrideva, come mai l’aveva visto fare, come mai lui sarebbe stato capace di fare.

Un giorno avevano visto un episodio di ER dal cofanetto che gli aveva regalato qualche settimana prima e che lui aveva finito in pochi giorni e gli aveva indicato un medico stempiato.

- Lui ha la mia stessa malattia. –

Yamato aveva annuito tentando di concentrarsi sulla signora che stendeva i panni fuori la finestra alla sua destra, alla palazzina di fronte. Takeru aveva cominciato a nominare più spesso quell’argomento da lui definito tabù.

- Mi piace questa canzone. – aveva detto il maggiore quando Somewhere over the Rainbow aveva cominciato a suonare da colonna sonora della scena.

- Vero? Mi fa sempre piangere questo episodio. –

Yamato non aveva risposto.

- Yama. –

- Sì? –

- Tu sai qual è la mia canzone preferita? –

- ...sì. –

Takeru lo aveva guardato tra il sorpreso e il divertito, e aveva aggiunto:

- Bene. Non ti serve altro. –

 

Scene del genere erano state all’ordine del giorno per i due mesi e mezzo successivi, nei quali Yamato aveva dovuto fare di nascosto una copia delle chiavi di casa di Takeru. Lui si ostinava a dire di non voler andare in ospedale, aveva mollato la chemioterapia al terzo ciclo, e quasi non riusciva ad alzarsi dal letto.

Yamato in quei momenti aveva imparato a sorridere più spesso, cosa che si addiceva di più al fratello. Forse aveva capito il segreto, di quel sorriso.

L’ultima volta, non aveva fatto in tempo.

Era una domenica mattina d’autunno, quando Takeru gli aveva afferrato una manica e gli aveva chiesto di aiutarlo ad alzarsi. Era riuscito a tirare fuori tutta la caparbietà che il tumore sembrava aver assorbito per costringerlo alla fine.

Diceva che voleva fare un giro, voleva uscire fuori, o non ne avrebbe più avuto l’occasione e a Yamato si era stretto il cuore. Lo aveva portato in braccio lui giù per le scale. Non pesava quasi niente.

- Yama. – Takeru lo aveva chiamato, mentre gironzolavano coi finestrini aperti nonostante il vento freddo, con un’aria soddisfatta.

- Mh? –

- Ce le hai ancora le chiavi di casa della mamma? –

La casa di Natsuko e Takeru, quella dove si erano trasferiti nel 2002, dove poi era rimasto solo Takeru quando la madre aveva cominciato a fare servizi in giro per il mondo. Era scomparsa qualche mese dopo.

Yamato si era illuminato a quella domanda, sorvolando sul fatto che sembrasse l’ultimo desiderio di un condannato. Cosa che effettivamente era.

- Aspetta qui, salgo su a casa, a prenderle. –

Takeru era rimasto in macchina, Yamato era sparito oltre il portone di casa sua, l’auto accostata con le quattro frecce lampeggianti, proprio lì davanti.

Il minore era rimasto lì a sentire la macchina sobbalzare ogni qual volta che un’altra le sfrecciava accanto, sorridendo.

Era squallido e totalmente inutile, sarebbe successo comunque, davanti o lontano dai suoi occhi. Yamato quello non gliel’avrebbe mai perdonato.

Quando Yamato era risceso, pensò si fosse addormentato, la fronte appoggiata al finestrino.

Solo quando si era richiuso la portiera dietro di se e l’aveva scosso per svegliarlo, se n’era accorto.

Takeru se n’era andato una mattina d’autunno, mentre gli spifferi gelidi s’infiltravano dal finestrino e le nuvole oscuravano il sole già debole.

Yamato se n’era reso conto veramente solo molto tempo dopo. Quando gli era tornato in mente quell’episodio che avevano visto qualche settimana prima.

Aveva aperto il cruscotto e aveva tirato fuori il suo Ipod. Un’auricolare a testa, come le metà della vaschetta di gelato al caffè, sulle note di By the Way. Ma quella era un’altra storia.

 

By the way I tried to say I’d be there...

Waiting for.

 

Se quel giorno non gli fosse venuta voglia di un gelato al caffè, probabilmente non sarebbe andata diversamente.

Probabilmente, erano diventati fratelli per la prima volta, davvero.

 

- Take – lo aveva chiamato sfiorando le coperte del letto con un palmo, un giorno che pensava di non essere sentito.

 – ma quand’è che siamo diventati fratelli? –

- Probabilmente non lo siamo mai stati. -

 

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Angolo autrice:

Ehm...bene...sì.

L'idea era completamente diversa e se siete arrivati a leggere fino a qui, mi dispiace per lo scempio che vi siete dovuti sorbire ^^
Mi vergogno di dover inserire in questa ff il mio primo angolo autrice *applaude da sola* e credo sarà anche l'ultimo perchè dopo questa mi ritiro ahahaha xD
Ovviamente, no scherzo, dovrete sopportarmi ancora v.v

non so se si è capito, ma sono stata ispirata da ER medici in prima linea, specialmente dall'episodio 8x10, di cui non ricordo il titolo :o

a parte questo, mi scuso per la poco approfondita psicologia dei personaggi e per l'immediatezza dei contenuti ^^
e che purtroppo ho tentato di scrivere su due personaggi che non capisco tutt'ora enon capirò mai, quindi mi sono tenuta sul generale, perciò spero perdonerete eventuali errori di grammatica, che magari mi sono sfuggiti o sono stati modificati in peggio dal mio pefido word D:

arrivederci e grazie per avermi scelto ^^ (ma sparati -.-)
  
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