Hit-and-run
Nonostante le diverse primavere alle
spalle, gli inverni più freddi di Ikebukuro trascorsi a
osservare i fiocchi che
cadevano dal balcone, quei due marmocchietti che scorrazzavano per casa
e
diventavano ogni giorno più grandi e rumorosi, quando il
sole estivo cominciava
a impallidirsi e le foglie rotolavano giù dagli alberi,
Yamato Ishida si
apprestava a combattere la morsa di un gelo ancora più arido
della stagione
appena trascorsa.
E nonostante Sora si ostinasse,
s’impegnasse nel tenere chiuse le imposte con la scusa dei
primi mal di gola
lui lo sentiva arrivare, l’autunno. Lo sentiva insinuarsi
sottopelle tra i
viottoli alberati, all’ombra dei soliti cipressi, e
trapassarlo da parte a
parte, piantandosi in gola sottoforma di un groppo che spariva
misteriosamente quando la neve si posava.
A Yamato piaceva la neve. Perché piaceva
anche a lui. La stessa persona che
ritrovava in fondo ai suoi occhi quando si guardava allo specchio, o
quando
notava la stessa andatura riflettendosi nelle vetrine del centro o
semplicemente
sfiorandosi la solita ciocca bionda che gli ricadeva sempre sugli
occhi.
Ed era inutile fare finta di niente,
serrare la mascella e tirare dritto contraendo i muscoli fino a
raggiungere la
periferia, fino a quando qualcos’altro riempiva lo spazio
ormai vuoto. Era
inutile cercare di trovare un motivo, un significato nascosto di tutta
la
vicenda che forse a lui era sfuggito, che magari gli era passato sotto
gli
occhi e lui era andato dritto come al solito. Di notte, nel silenzio,
si
sentiva urlare dentro la testa: perché, perché, perché.
E quelle volte, molto spesso quando fuori
pioveva quasi gli sembrava che la sua figura si delineasse sul contorno
della
porta, appoggiata allo stipite con la solita aria rilassata e un
vocabolario
sottobraccio. Era ancora così che se lo ricordava, Takeru.
Ma Takeru era dappertutto. Era seduto
accanto a lui in macchina mentre andava a lavoro, di fronte mentre
ticchettava
sul suo portatile, lo sentiva talvolta ridere dalla cucina con una
tazza di
caffèlatte tra le dita.
E qualche volta era sembrato talmente
vivido, così vero che si
era
precipitato dall’altra parte della stanza sperando di
trovarlo lì, seduto,
pregando.
Non doveva piangere, Yamato. Si era
ripromesso tanti anni prima che per Takeru non l’avrebbe mai
fatto, anche prima
che se ne andasse per sempre. Era riuscito a infrangere anche quella di
promessa, un pomeriggio d’autunno mentre andava in onda una
replica di ER, la
sua puntata preferita. Chissà poi perché.
Yamato ancora se lo domandava, cosa
sarebbe successo se quel giorno, dopo aver litigato con metà
ufficio, non gli
fosse venuta la malsana voglia di un gelato al caffè.
La prima
volta
quasi non ci aveva fatto caso. Un bravo fratello maggiore
però dovrebbe
accorgersene di cose del genere, anche se Yamato non si era mai
reputato tale.
Un bravo fratello minore dovrebbe essere più bravo nel
nasconderle, ma Takeru
non si era mai considerato una persona abbastanza intelligente. Forse
lasciava
soltanto che le persone pensassero ciò.
Si erano
fissati
per una buona manciata di secondi, tra le corsie semivuote del
supermercato e
poi avevano abbassato lo sguardo sulle loro due mani, una sopra
all’altra
precisamente sopra l’ultima scatola di gelato. Al
caffè.
-
È l’ultima –
aveva sibilato Yamato, ma il fratello non aveva accennato minimamente a
voler
cambiare espressione. Con le sopracciglia aggrottate e
un’aria che non
prometteva nulla di buono, gli aveva risposto:
-
Appunto. Non
vorrai negare del misero gelato ad un povero ragazzo affamato, per di
più in
fase di crescita. –
- Forse
hai
ragione. A diciotto anni sei ancora così basso... Ma ai miei
tempi spettava al
fratello maggiore l’ultima fetta di torta. –
- Pensa
un po’,
ai miei tempi già si divideva equamente a metà.
–
Ai miei tempi non ce l’avevo mica, un
fratello.
- Pensavo
dicessi
che spettasse invece al minore, sai? –
- Mica
sono
prepotente come te, io. Rivedo mio
fratello dopo mesi e mesi ed ho persino la decenza di invitarlo a
dividerci un
gelato e lui fa l’arrogante. –
Takeru si
era
aperto in un sorriso, un po’ stanco, e anche Yamato aveva
finito per abbozzarne
uno.
- Giusto
perché
sei tu. –
- Ma
quale onore.
–
Takeru lo
aveva
letteralmente trascinato a casa sua, con la busta del gelato tra le
dita che si
era passato da una mano all’altra per tutto il tragitto. Poi,
dopo aver aperto
la porta di casa, l’ultimo piano di una palazzina malandata
di periferia, aveva
gettato un occhio dentro e gli aveva sussurrato sorridendo:
- Non
c’è poi
così tanto casino. – e gli aveva scostato la porta
per farlo passare dopo di
lui.
Effettivamente,
rispetto agli alloggi malandati che riciclavano lui e Tai durante il
periodo di
esami, quella era una reggia. Forse dipendeva anche dal fatto che
Takeru si
adoperava per pulire, ogni tanto.
Si erano
mangiati
metà scatola a testa, con il chiacchiericcio della tv in
sottofondo,
abbandonati sul divano letto aperto al centro del piccolo soggiorno.
E avevano
parlato
di Sora, di Matt, di Tai, di tutti.
- E tu?
Come va
la scuola? – gli aveva chiesto poi il più grande
mentre l’altro chiudeva le
imposte per sfuggire al freddo della sera.
Se invece
di
spalle, lo avesse guardato negli occhi, avrebbe visto
l’espressione tirarsi e
gelare in un qualcosa di non ben definito.
- Tutto
bene.
Come al solito. – si era ripreso poco dopo.
- Hai
già
consegnato i moduli per il proseguimento degli studi? –
- Proprio
l’altro
giorno. Non avevo idea di cosa scriverci, quindi ho optato per
continuare
l’università affiliata al mio istituto. Approfitto
del fatto che non devo dare
l’esame d’ammissione per lavorare un po’
e racimolare qualcosa. -
- E dopo?
–
E
stavolta
l’aveva vista, quell’espressione, mentre giocava a
battere il cucchiaio sul
fondo del bicchiere per far sciogliere tutto il gelato rimasto sul
fondo, ma
era stata l’impressione di un momento, un battito di ciglia e
poi di nuovo
tutto era tornato come al solito.
- Chi lo
sa. –
Non aveva
più
rialzato gli occhi verso Yamato per tutto il resto della serata.
La
seconda volta,
qualcosa gli era parso di capire. Yamato era capitato sotto casa sua
dopo un
litigio con Sora e si era incamminato verso una meta qualunque per poi
finire
lì. E forse era stato il destino, chissà.
Aveva
suonato e
Takeru gli aveva aperto con le solite occhiaie e due borse da far
paura, il
naso rosso e uno sfogo appena sotto il collo, verso la spalla, spuntava
dallo
scollo del maglione di qualche taglia più grande.
Gli aveva
detto
ciao con la voce arrochita probabilmente dal sonno. A Yamato non era
assolutamente parso che avesse appena smesso di piangere, ma forse il
pensiero
per un attimo gli aveva attraversato il cervello per morire poi in un
angolo.
- Porti
gli
occhiali? –
- Come?
– Takeru
aveva abbassato lo sguardo – Ah, sì. La sera non
leggo bene. –
Si erano
finiti
un’altra scatola di gelato al caffè in
mezz’ora, e poi avevano giocato a carte
sul solito divano-letto, che probabilmente Takeru non chiudeva mai.
Quel
giorno non
avevano parlato molto, nessuno dei due sembrava avere molta voglia.
La terza
volta,
la situazione aveva cominciato a non quadrare.
Erano
passati due
mesi e Yamato era finito sotto casa sua di sua spontanea
volontà. Aveva salito
le scale di corsa ed era entrato col fiatone dalla porta semichiusa,
domandando
permesso. Ma nessuno gli aveva risposto.
Entrando
aveva
fatto fuori una pila di lettere accatastate lì vicino e
qualcuna era finita
sotto il letto.
Una era
di un
istituto superiore, probabilmente la scuola di Takeru.
Un’altra era di sua
madre, e la cosa lo stupì non poco, e una terza era di un
ospedale. L’ultima se
l’era rigirata tra le mani più volte, resistendo
alla tentazione di aprirla per
scoprirne il contenuto, poi l’aveva poggiata
dov’era prima assieme alle altre
ed era andato a cercare il fratello in bagno. E la lavatrice poteva
essere
senza problemi scambiata per la succursale della farmacia di quartiere.
La
fiera dei sedativi, letteralmente. Takeru in quel momento era rientrato
e si
era spaventato a morte nel trovarlo lì.
Era
andato a
buttare la spazzatura, in pieno maggio, imbacuccato da capo a piedi.
Gli aveva
chiesto
se era raffreddato, ma Takeru aveva sviato con un mezzo cenno del capo
che
poteva significare tutto.
I
contorni degli
occhi erano diventati viola, un misto di sonno e affezione che avrebbe
messo in
allerta i più, e il corpo diventato praticamente un sottile
filo di ferro.
- Ma stai
male? –
Yamato gli aveva istintivamente appoggiato una mano sulla fronte ma non
sembrava avere febbre. Takeru gliel’aveva scostata con sgarbo
per poi abbassare
lo sguardo, come ogni volta.
- Tutto a
posto.
Perché sei qui? –
- Non ci
vedevamo
da un po’... e volevo dirti una cosa. – Era la
prima volta che Takeru sentiva
una sorta di entusiasmo nel suo tono di voce, solitamente piatto e
inespressivo.
- Cosa?
–
- Mi
sposo. –
Era
calato il
silenzio per un lungo minuto, in cui il minore aveva continuato a
tenere gli
occhi bassi.
- Tra
quanto? –
- Sei
mesi. –
Takeru
aveva
incassato ancora di più se possibile la testa nelle spalle,
e Yamato si era
dovuto chinare alla sua altezza per riuscire a scorgere una qualsiasi
espressione. Poi l’altro si era sollevato di colpo per
mostrare il più falso
dei sorrisi.
- Sono
davvero
contento per te. –
Yamato
non aveva
risposto.
Dopo
l’ennesima
volta, c’era decisamente qualcosa che non andava.
- Takeru
apri,
sono io. –
Nessuna
risposta.
- Takeru,
guarda
che vedo l’ombra sotto la porta. –
Un sonoro
rumore
metallico aveva seguito quell’affermazione e il viso sempre
più incavato di
Takeru era apparso dietro uno spiraglio confinato da una catenella.
- Che
vuoi? –
- Sono
giorni che
ti chia...-
-
Vattene. –
Takeru si era appoggiato allo stipite stancamente, sembrava reggersi a
malapena
in piedi, ma il tono ricordava più una supplica, troppo per
risultare sgarbato.
-
Perché? –
- Vattene
e
basta, non ho voglia di vederti. Non hai un matrimonio da organizzare?
–
Yamato
l’aveva
fissato negli occhi, bassi, per un po’ e dopo aveva sbattuto
un pugno sulla
porta, spaventandolo.
- Ma che
cazzo di
problema hai? Sono giorni che ti telefono e non mi rispondi o
riattacchi, vengo
a casa tua a qualsiasi ora del giorno e non ci sei mai e adesso che ti
ho
trovato mi dici di andarmene? Ma anche no! –
- Te lo
direi
volentieri il mio problema se almeno fingessi decentemente che
t’importi
qualcosa. –
La porta
l’aveva
aperta soltanto per rispondergli a tono per bene, e Yamato si era
infilato come
un gatto, spingendolo indietro.
- Che
cosa vuol
dire?! –
- Che
cosa, vuol
di... – s’era interrotto, di colpo, Takeru. Aveva
sbarrato gli occhi e Yamato aveva
pensato che sarebbe esploso da un momento all’altro. E invece
aveva tentato di
dire qualcosa ma era uscito un biascichio sconnesso.
Aveva
tentato e
ritentato di formulare una frase di senso compiuto sotto i suoi occhi
sgomenti
e poi era crollato a terra di colpo, imprecando debolmente.
Yamato lo
aveva
visto cominciare a dimenarsi convulsamente, in preda ad una crisi
epilettica. Per
un attimo non aveva visto più niente, non gli sembrava
più di essere veramente
lì, di partecipare alla scena, la mente si era spenta di
botto e poi si era
riaccesa di colpo, come un allarme antincendio che gli strizzava il
cervello ad
intervalli regolari.
Era corso
in
bagno, ricordandosi della parafarmacia portatile sulla lavatrice e si
era
scervellato per ricordarsi che diavolo di farmaco prendesse la zia,
quello per
le convulsioni, glielo ripeteva fino alla nausea.
Poi era spuntato, il
valproato, tra tutte le
etichette, non aveva controllato nemmeno se avesse visto giusto e si
era
precipitato in soggiorno.
Takeru
aveva poi
riaperto gli occhi sul lampadario del soggiorno, con le gambe pesanti
come
piombo e un’ombra alla sua destra.
Era
riuscito
appena ad alzare il capo per vederlo sbirciare tra le migliaia di
lettere
all’ingresso che si ostinava a tenere da parte invece di
buttare.
Era
bianco, come
un cadavere, forse più di lui in quel momento.
- Un
tumore...cerebrale. –
Takeru
aveva
fatto per chiudere gli occhi ma le palpebre si erano fermate a
metà per poi
risalire, stancamente.
-
Sì. –
-
E...quanto...cioè,
per quanto... –
- Tre.
–
- Ancora
tre
anni? –
- Tre
mesi, Yama.
-
Yamato
aveva
alzato lo sguardo su di lui, e per la prima volta Takeru
l’aveva sostenuto con
lo stesso orgoglio.
- Non
c’è un modo
per... –
- No.
–
-
Impossibile. –
il tono di voce andava man mano abbassandosi.
- Ho
già tentato
di curarlo. Mi avevano detto che era stato debellato ancor prima che
peggiorasse. Poi ho avuto una ricaduta. –
-
L’hai già
avuto? Quanto tempo fa? –
-
Più di un anno.
–
- E
perché non me
l’hai detto, perlomeno dopo averlo curato? –
- Non
sapevo di
avere un fratello, all’epoca. –
Bum.
Una cascata fredda in un giorno di agosto. Il tono più
innocente del
mondo.
Yamato
non se
l’era ripetuto due volte ed era corso verso di lui con uno
scatto. Takeru aveva
pensato che avesse voluto picchiarlo, in un momento di follia, e invece
si era
fermato a metà, indeciso se prendersi a pugni o sfogarsi su
qualcos’altro. Poi
aveva poggiato la testa sulla sua spalla. Il silenzio aveva fatto da
sipario
della scena.
Non
c’era stato
niente da fare. Takeru lo aveva risollevato da un temporaneo torpore
che
rischiava di trascinarlo giù e poi ce l’aveva
ributtato dentro, con una spinta
decisa.
- Mi
dispiace...
– gli aveva sussurrato, forse piangendo. - ...scusami,
davvero. –
Ancora
non era
riuscito a capire perché gli avesse chiesto scusa, quel
giorno, e per quale
motivo Takeru lo avesse perdonato. Forse perché non
c’era altro da fare.
A Sora
non
l’aveva mai detto quel segreto che gli rosicchiava le tempie
nel buio della
stanza, mentre lei dormiva lì accanto, il respiro regolare,
l’unica cosa calma
che vorticava nella stanza.
Da quel
giorno
aveva cominciato a passare tutti i pomeriggi da Takeru, tornava dopo
pranzo
dall’ufficio, lasciava la borsa a casa e correva da lui nel
primo pomeriggio,
dove ad accoglierlo trovava sempre una tazza di caffèlatte.
E di
solito
Takeru sorrideva, come mai l’aveva visto fare, come mai lui
sarebbe stato
capace di fare.
Un giorno
avevano
visto un episodio di ER dal cofanetto che gli aveva regalato qualche
settimana
prima e che lui aveva finito in pochi giorni e gli aveva indicato un
medico
stempiato.
- Lui ha
la mia
stessa malattia. –
Yamato
aveva
annuito tentando di concentrarsi sulla signora che stendeva i panni
fuori la
finestra alla sua destra, alla palazzina di fronte. Takeru aveva
cominciato a
nominare più spesso quell’argomento da lui
definito tabù.
- Mi
piace questa
canzone. – aveva detto il maggiore quando Somewhere
over the Rainbow aveva cominciato a suonare da colonna sonora
della scena.
- Vero?
Mi fa
sempre piangere questo episodio. –
Yamato
non aveva
risposto.
- Yama.
–
-
Sì? –
- Tu sai
qual è
la mia canzone preferita? –
-
...sì. –
Takeru lo
aveva
guardato tra il sorpreso e il divertito, e aveva aggiunto:
- Bene.
Non ti
serve altro. –
Scene del
genere
erano state all’ordine del giorno per i due mesi e mezzo
successivi, nei quali
Yamato aveva dovuto fare di nascosto una copia delle chiavi di casa di
Takeru.
Lui si ostinava a dire di non voler andare in ospedale, aveva mollato
la
chemioterapia al terzo ciclo, e quasi non riusciva ad alzarsi dal
letto.
Yamato in
quei
momenti aveva imparato a sorridere più spesso, cosa che si
addiceva di più al
fratello. Forse aveva capito il segreto, di quel sorriso.
L’ultima
volta,
non aveva fatto in tempo.
Era una
domenica
mattina d’autunno, quando Takeru gli aveva afferrato una
manica e gli aveva
chiesto di aiutarlo ad alzarsi. Era riuscito a tirare fuori tutta la
caparbietà
che il tumore sembrava aver assorbito per costringerlo alla fine.
Diceva
che voleva
fare un giro, voleva uscire fuori, o non ne avrebbe più
avuto l’occasione e a
Yamato si era stretto il cuore. Lo aveva portato in braccio lui
giù per le
scale. Non pesava quasi niente.
- Yama.
– Takeru
lo aveva chiamato, mentre gironzolavano coi finestrini aperti
nonostante il
vento freddo, con un’aria soddisfatta.
- Mh?
–
- Ce le
hai
ancora le chiavi di casa della mamma? –
La casa
di
Natsuko e Takeru, quella dove si erano trasferiti nel 2002, dove poi era
rimasto
solo Takeru quando la madre aveva cominciato a fare servizi in giro per
il
mondo. Era scomparsa qualche mese dopo.
Yamato si
era
illuminato a quella domanda, sorvolando sul fatto che sembrasse
l’ultimo
desiderio di un condannato. Cosa che effettivamente era.
- Aspetta
qui,
salgo su a casa, a prenderle. –
Takeru
era
rimasto in macchina, Yamato era sparito oltre il portone di casa sua,
l’auto
accostata con le quattro frecce lampeggianti, proprio lì
davanti.
Il minore
era
rimasto lì a sentire la macchina sobbalzare ogni qual volta
che un’altra le
sfrecciava accanto, sorridendo.
Era
squallido e
totalmente inutile, sarebbe successo comunque, davanti o lontano dai
suoi
occhi. Yamato quello non gliel’avrebbe mai perdonato.
Quando
Yamato era
risceso, pensò si fosse addormentato, la fronte appoggiata
al finestrino.
Solo
quando si
era richiuso la portiera dietro di se e l’aveva scosso per
svegliarlo, se n’era
accorto.
Takeru se
n’era
andato una mattina d’autunno, mentre gli spifferi gelidi
s’infiltravano dal
finestrino e le nuvole oscuravano il sole già debole.
Yamato se
n’era
reso conto veramente solo molto
tempo
dopo. Quando gli era tornato in mente quell’episodio che
avevano visto qualche
settimana prima.
Aveva aperto il cruscotto
e aveva tirato fuori il suo Ipod. Un’auricolare a testa,
come le metà della vaschetta
di gelato al caffè, sulle note di By the Way. Ma quella era
un’altra storia.
By the way I tried to say I’d be there...
Waiting for.
Se quel giorno non gli fosse venuta voglia
di un gelato al caffè, probabilmente non sarebbe andata
diversamente.
Probabilmente, erano diventati fratelli
per la prima volta, davvero.
-
Take – lo aveva chiamato
sfiorando le coperte del letto con un palmo, un giorno che pensava di
non
essere sentito.
– ma
quand’è che siamo diventati fratelli? –
- Probabilmente
non lo siamo mai
stati. -
Angolo autrice:
Ehm...bene...sì.
L'idea era completamente diversa e se siete arrivati a leggere fino a qui, mi dispiace per lo scempio che vi siete dovuti sorbire ^^
Mi vergogno di dover inserire in questa ff il mio primo angolo autrice *applaude da sola* e credo sarà anche l'ultimo perchè dopo questa mi ritiro ahahaha xD
Ovviamente, no scherzo, dovrete sopportarmi ancora v.v
non so se si è capito, ma sono stata ispirata da ER medici in prima linea, specialmente dall'episodio 8x10, di cui non ricordo il titolo :o
a parte questo, mi scuso per la poco approfondita psicologia dei personaggi e per l'immediatezza dei contenuti ^^
e che purtroppo ho tentato di scrivere su due personaggi che non capisco tutt'ora enon capirò mai, quindi mi sono tenuta sul generale, perciò spero perdonerete eventuali errori di grammatica, che magari mi sono sfuggiti o sono stati modificati in peggio dal mio pefido word D:
arrivederci e grazie per avermi scelto ^^ (ma sparati -.-)