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Autore: margheritanikolaevna    18/03/2012    4 recensioni
Ecco il seguito di "If the dull substance of my flesh...", la storia della killer Miriam Greenberg e del suo amore impossibile. Non fatevi ingannare dal titolo (che appartiene ad una poesia dell'inglese W.H. Auden, quello della poesia "Funeral blues" del film Quattro matrimoni e un funerale): certo è anche una storia d'amore, ma stavolta ho cercato di scrivere qualcosa di differente. Se la prima voleva essere una specie di legal thriller, questa ha una trama che ricorda un po’ alcuni episodi di NCIS, almeno nelle intenzioni, sarà (spero) più movimentata e più ricca di colpi di scena.
Ci saranno: un cattivo perfido, un valzer, un temporale improvviso, qualcosa di disgustoso e qualcosa di meraviglioso e ... una poesia; chi ha ingannato sarà a sua volta ingannato, un uomo considerato buono si scoprirà cattivo e un altro rischierà seriamente di diventarlo.
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
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La storia è ambientata cinque anni dopo la prima parte, quindi tra la fine della sesta stagione e l'inizio della settima di CSI NY e si svolge nell'arco di circa sei mesi.
La parte finale l'ho immaginata come una sorta di episodio conclusivo della serie, in cui i nodi si sciolgono e ciascuno trova la sua collocazione, positiva o negativa che sia.
I nomi dei personaggi americani, per coerenza con la prima parte, provengono ancora da "La versione di Barney", mentre quelli degli stranieri appartengono al romanzo di Bulgakov "Il Maestro e Margherita".
Ancora una volta, grazie infinite a tutti coloro che leggeranno e - un po’ di più, ma è normale - a chi avrà voglia di lasciarmi un commento.   
Questi personaggi non mi appartengono, ma sono della CBS Broadcasting inc. Questa storia non è stata scritta a scopo di lucro. Buona lettura!
 
 
 “O TELL ME THE TRUTH ABOUT LOVE”

 

 

 LA VERITA’, VI PREGO, SULL’AMORE

 
 
CAPITOLO PRIMO
 

 

“Alla mia ritrosa amante”


New York City, un pomeriggio di fine settembre.
Era l’ora in cui sembra di non poter nemmeno più respirare, l’ora i cui, dopo avere arroventato la città, il sole inizia appena a sprofondare in una nebbiolina secca laggiù, oltre il mare, alle spalle di Liberty Island.

L’agente Norman Charnofsky, poco più che un ragazzo, aveva appena finito di fare il suo ultimo giro di controllo lungo una delle traverse di Crescent Street, una strada periferica dove, a ridosso dello specchio grigiastro del mare, anonimi palazzoni si allungavano, senza alcuna grazia, verso il cielo inondato di sole, alternandosi a cantieri di edifici ancora in costruzione.

Qualche piccolo negozietto qua e là, uffici; per il resto, una zona tranquilla.
Troppo tranquilla, forse, per Norman, il quale avrebbe desiderato che il suo primo giorno di lavoro in polizia - dove era riuscito ad entrare, coronando così un sogno che aveva fin da bambino e nonostante l’opposizione della madre, che aveva una paura folle di quel mestiere così rischioso - gli riservasse almeno un evento memorabile.
Qualcosa di eclatante, che gli desse la possibilità di dimostrare subito quanto valeva.

Invece, almeno per quel giorno le sue aspettative erano state deluse; non era accaduto nulla di particolare e lui non avrebbe avuto nessuna storia emozionante da raccontare, quella sera, agli amici al pub.

Però, pensò, almeno sua madre avrebbe tirato un sospiro di sollievo.
Sorrise a quel pensiero e si asciugò la fronte sotto il berretto blu.

A un tratto, una donna di mezz’età, tutta vestita di nero e con l’aria sciupata, gli si fermò davanti e, prima che lui potesse evitarlo, gli mise in mano uno dei volantini che stava distribuendo.

Gli parve maleducato, a quel punto, gettarlo subito via, prima che lei si fosse allontanata: in fondo sua madre, anche se l’aveva tirato su da sola, gli aveva pur sempre insegnato come comportarsi! Perciò, mentre camminava, diede un’occhiata distratta al foglietto vergato di nero; pubblicizzava una lettura di poesie.
“Una lettura di poesie!” ripeté mentalmente sorridendo. Certo, quella signora aveva proprio scelto la persona sbagliata ed aveva sprecato uno dei suoi volantini!

Andrew Marvell, lesse.

 “Mai sentito nominare…” pensò.

La poesia stampata sul foglio s’intitolava “Alla mia ritrosa amante”.

“Beh” disse tra se e se il giovane, allegramente “potrei farla leggere a Sara!”

Però, la frase che era scritta subito sotto era bella; inquietante ma bella.

Ma alle mie spalle sento sempre/Del tempo il cocchio che m’incalza”.
Ripiegò il volantino, ancora pensando a quel verso: certo, non l’aveva mai vista a quel modo…il tempo che incalza alle spalle gli uomini come un nemico mortale. Per lui, il tempo era un amico, un alleato. Anzi, meglio, era qualcosa di talmente scontato che non gli sembrava nemmeno importante averne tanto o poco davanti a sé
Sbuffò, deciso a gettare quel pezzetto di carta colorata.
Poi, senza alcuna ragione, ci ripensò e se lo infilò in tasca

“Mah” rifletté, guardando l’orologio che portava al polso “qui l’unico tempo che mi incalza è quello del turno!”. Ancora dieci minuti e poi … via! casa, doccia, amici e, se gli fosse andata bene, forse anche…Sara.

Sorrise di nuovo a quell’idea.

“Agente, agente…venga presto!” la voce concitata di un uomo sulla cinquantina, basso e grasso, scuro di capelli e con un completo grigio, che gli era corso incontro, lo strappò bruscamente da quelle piacevoli fantasticherie.

Sentì il cuore battergli all’improvviso più velocemente e l’adrenalina circolagli nelle vene, mentre a passo svelto - quasi di corsa - seguiva quel tipo verso l’auto parcheggiata nello spiazzo di un cantiere a qualche decina di metri di distanza.

Il tipo era molto agitato, ma riuscì a spiegare all’agente Charnofsky che era il contabile della ditta di costruzioni che gestiva il cantiere e che si era trattenuto per lavorare nel container adibito ad ufficio anche dopo che gli operai erano andati a casa. Poco prima, aveva sentito un’auto entrare nel cantiere e se ne era sorpreso; infatti, era rimasto da solo e non aspettava nessuno.

Aveva chiamato e, non avendo ottenuto risposta, era uscito a vedere chi fosse.

La macchina era lì - indicò al giovane una berlina scura piuttosto nuova - ferma nello spiazzo, apparentemente vuota.

“Agente…là dentro c’è un morto!” aggiunse il tale, con un’espressione talmente spaventata sul volto che il ragazzo gli credette all’istante.
In lui, ora, lottavano la curiosità, il timore di commettere uno sbaglio a causa della sua inesperienza ed il desiderio di dimostrare che era bravo, sebbene fosse al suo primo giorno.

E che occasione - pensò - gli era capitata!

Disse all’uomo di allontanarsi - cosa che quello fece più che volentieri e si avvicinò con cautela all’auto, la mano che sfiorava la fondina.

Si piegò e vide che, su sedile posteriore, c’era una massa scura che occupava tutto lo spazio disponibile.

Era immobile.

Norman aprì la portiera posteriore, guardò dentro ed ebbe subito la certezza di cosa avesse davanti; il corpo di un uomo, di circa quarant’anni. Indiscutibilmente morto.
Le sue pupille spente lo fissavano senza vederlo e il ragazzo sentì, per la prima volta nella sua vita, che il sangue gli si gelava nelle vene. Indietreggiò istintivamente di un passo.

Non aveva mai visto un cadavere e la sua baldanza di un attimo prima era divenuta solo un ricordo.

Prese un respiro profondo e cercò di ricomporsi.

“Prima o poi sarebbe dovuto accadere, no?” pensò. “Allora, meglio subito …”
Avvisò via radio la centrale, indicò il numero di targa e descrisse sommariamente la scena che aveva davanti.

Poi, attese accanto al veicolo che arrivassero i colleghi.

All’improvviso, ci fu un lampo, come quando lo sportello di un altoforno si spalanca, e un muggito, che incominciò bianco e divenne rosso e via via nello spostamento d’aria. Cercò di respirare, ma il respiro non volle venire e si sentì scagliare fuori di sé e fuori e fuori e sempre nel vento.

Poi galleggiò e, invece di procedere, si sentì scivolare indietro.
Aprì gli occhi. Intorno, il terreno era sconvolto e vicino alla sua testa c’era un brandello di lamiera contorta.

Nello stordimento, udì gridare e cercò di muoversi, ma non poté.

Prima di potere articolare un qualsiasi pensiero, l’oscurità lo avvolse e fu solo il corpo di un ragazzo vestito di blu scuro, steso nella polvere sotto un sole cocente che non avrebbe più potuto disturbarlo.

 
 

Sangue innocente.

 

Il calar del sole non aveva recato alcun sollievo. Le ombre di una sera ancora rovente si allungavano sul polveroso spiazzo di Crescent street disegnando bizzarre figure.
I pompieri erano appena andati via ed ora toccava alla Scientifica iniziare a fare il suo lavoro.

I flash delle macchine fotografiche degli agenti in servizio sul posto lottavano contro l’incipiente oscurità autunnale per riaffermare una volta di più il loro potere, la loro pretesa supremazia.

Luce su buio.

Scienza su umana crudeltà.

I detective Mac Taylor e Stella Bonasera oltrepassarono il nastro giallo e nero che delimitava il luogo ove, ancora una volta, era stato commesso un crimine di sangue.

“Cosa abbiamo?” chiese l’uomo al detective Don Flack che, per primo, era giunto con i suoi sulla scena.

Lui tirò fuori rapido il suo blocco appunti e rispose: “Un’esplosione molto violenta, la bomba era probabilmente nell’auto … ci sono due cadaveri …”

“Ci sono testimoni?” domandò il detective Bonasera.
Don Flack annuì ed indicò l’uomo grassoccio, vestito di grigio, che era poco distante e che sarebbe stato interrogato dai suoi uomini non appena avesse smesso di vomitare l’anima.

Guidò i due colleghi verso l’area dove si concentrava la maggior parte dei rottami. Lo spettacolo era raccapricciante, anche per chi, come loro, faceva quel mestiere da anni.
“Un corpo, quello che presumibilmente era, a giudicare dalle lesioni, all’interno dell’abitacolo” proseguì il poliziotto indicando agli altri una sorta di scheletro semi-carbonizzato e parzialmente disarticolato “… che non sarà facile identificare …”

Lo scavalcarono, facendo attenzione a non calpestare eventuali indizi e si allontanarono di qualche metro dalla carcassa ancora fumante della macchina.

“ E il secondo cadavere …” disse Flack.

Qui - la testa piegata con un’angolazione innaturale e le gambe tranciate all’altezza delle ginocchia - giaceva il corpo dell’agente Norman Charnofsky. Un’enorme quantità di sangue imporporava la sabbia circostante.
Il ragazzo aveva le braccia spalancate - come un crocefisso, pensò Mac - e, negli occhi aperti, sorpresa ed un inesprimibile terrore, che l’onta della morte non avevano ancora cancellato.

Non appena Stella gli si avvicinò e lo vide in faccia, impallidì, lanciò un breve grido, subito soffocato, e si portò le mani al viso in un gesto di disperazione.

“ Norman? Mio Dio …”

“Si chiamava proprio Norman Charnofsky…” confermò Flack, leggendo dal suo blocco.
I due uomini si guardarono, mentre la collega si chinava sul cadavere.

“Lo conoscevi?” le chiese Mac.

“Si…non ti ricordi?” rispose Stella “è … era … il figlio di Clara!”

“Mio Dio…” ripeté, sconvolta.

Già, rifletté il detective, una delle migliori amiche di Stella fin dall’epoca in cui avevano vissuto insieme in orfanotrofio. L’aveva conosciuta qualche mese prima a casa della collega, quando si erano riuniti per festeggiare il suo compleanno.

Mac frugò nella sua memoria: una donna gioviale, persino simpatica … se solo non avesse trascorso la serata a ripetergli quanto fosse meravigliosa la sua amica (come se lui, tra l’altro, non lo sapesse già …) e come fosse strano che ancora non avesse trovato un fidanzato! Lui ci aveva riso su, ma aveva capito che Stella era tremendamente in imbarazzo.

Ora, avrebbero dovuto dare a quella donna la notizia peggiore che una madre possa ricevere: le avrebbero spezzato il cuore, per sempre.

La detective, pallida ed ancora visibilmente scossa, era sempre china sul corpo. Gli aveva chiuso gli occhi e frugato nelle tasche con estrema delicatezza, senza spostarlo di un millimetro. Ne trasse fuori un volantino ripiegato, lo aprì e, subito dopo aver letto cosa c’era scritto sopra, sollevò su Mac uno sguardo velato di lacrime.

Alle mie spalle sento sempre/Del tempo il cocchio che m’incalza”
mormorò, porgendo, con la mano guantata di bianco, il foglietto al collega.
Flack rabbrividì e distolse lo sguardo. Era così giovane, solo un ragazzo …

“Vuoi che vada a parlare io con sua madre?” si offrì Mac.
“No …” rispose lei “tocca a me … non posso lasciare che lo faccia un altro …”
“Lascia almeno che ti accompagni” aggiunse l’uomo, guardandola negli occhi.
“OK, grazie” fece la poliziotta, ricambiando il suo sguardo “grazie … davvero …”
Rapidamente, il tenente impartì alla sua squadra le disposizioni necessarie a far sì che fossero raccolte tutte le potenziali prove; tutti i frammenti dell’auto - persino i più microscopici, dovevano essere individuati, fotografati, catalogati ed imbustati per essere successivamente analizzati in laboratorio.

E, poi, campioni del suolo, eventuali impronte digitali ed orme di scarpe, campioni di sangue e tutto ciò che potesse consentire una verosimile ricostruzione dei fatti.

Gli agenti di polizia si sarebbero occupati di rintracciare e sentire possibili testimoni oculari dell’accaduto.

Solo dopo i due corpi sarebbero stati rimossi con ogni cautela ed avrebbero trascorso alcune ore sul tavolo della camera mortuaria, affidati alle abili mani del patologo, il dottor Sid Hammerback.

Salendo in auto, Mac promise solennemente a Stella che sarebbero riusciti a capire chi era stato e che l’avrebbero preso. Quelle parole in altre circostanze l’avrebbero confortata, ma quella volta la poliziotta era emotivamente troppo coinvolta e - non appena la macchina lasciò il cantiere e cominciò a scivolare lungo le strade illuminate - l’uomo si accorse che la collega rimaneva in silenzio e teneva gli occhi fuori dal finestrino come se guardasse un punto preciso davanti a sé.

Tentava di nascondere il pianto che le serrava la gola, ma non ci riuscì ed una grossa lacrima sfuggì, rigandole la guancia.
 

 

  
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