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Autore: Alkimia    21/03/2012    0 recensioni
"C'era stato il tempo del dubbio, poi era venuto il tempo della speranza, poi era stata la volta della delusione, della rabbia, e infine della follia.
Erik si chiese cosa rimaneva di un uomo, una volta trascorsa anche la stagione della pazzia."

Anno 1871: non è più Parigi, non è più l'Opera Populaire, niente più angeli o muse, eppure l'uomo che si cela dietro la maschera sa che deve andare avanti, anche se non sa più il perché. Anno 1892: un giovane straniero arriva in Francia, con un vecchio diario da leggere e una storia di cui scoprire i misteri.
E sulle loro vite aleggiano i medesimi fantasmi.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Capitolo decimo
Al buio


~ Parigi, 07 maggio 1892 ~

«E questa sarebbe la tua idea geniale per la serata?» borbottò Louis. «Ho detto di no a Magdeleine per venire con te e tu mi trascini qui?».
Gustave inclinò la testa di lato, fissando l'amico con aria attonita come se non capisse il motivo delle sue recriminazioni. Aveva una sacca in spalla che lasciò scivolare a terra,
«Cosa c'è che non va?» domandò innocentemente.
«Ma ti rendi conto che è un rudere?... Un rudere bellissimo, magari, ma pur sempre un rudere». Louis indicò con un gesto nervoso la facciata dell'Opera Populaire dove la luce dei lampioni creava un cupo gioco di chiaroscuri.
«Dici questo solo perché non sai cosa c'è dentro» replicò il giovane De Chagny con un sorriso, ostentando un'aria furba che non gli si confaceva.
«Ah, e cosa c'è dentro?»
«Non lo so»
«Gustave!».
Il ragazzo biondo si gettò nuovamente la sacca in spalla, il suo contenuto fece uno strano tintinnio metallico.
Louis cominciava a diventare inquieto: che cosa voleva fare quel pazzo con i capelli a fronda di salice? Che cosa sperava di trovare lì dentro?
«Ascolta, amico mio» disse Gustave con infinita, paziente dolcezza. «Forse ti sembrerà buffo, ma sono anni che sogno di esplorare l'interno dell'Opera Populaire. Soltanto che da solo non ho mai avuto il fegato di farlo, pensavo che anche tu fossi curioso».
Il ragazzo italiano sgranò gli occhi. Sì, essere curioso faceva parte del suo carattere, l'Opera Populaire aveva esercitato su di lui uno strano fascino fin dalla prima volta che l'aveva vista, ma introdursi di notte in un edificio pericolante gli sembrava veramente esagerato. Anche se quell'edificio era in qualche modo legato al passato di suo padre e anche a quello della madre del suo amico. Certo, ora poteva capire perché Gustave ne fosse attratto probabilmente più di lui: che tremenda tentazione doveva essere stata avere quel luogo davanti agli occhi e così a portata di mano senza avere il coraggio di entrare a curiosare.
«Non ti è mai venuto in mente che possa essere pericoloso?» domandò con una smorfia.
«No, mi sono informato. Il teatro è stato distrutto da un incendio ma non ci sono mai stati crolli o altre cose del genere»
«E perché l'hanno sigillato e nessuno ci entra mai allora?»
«Perché ci sono i fantasmi, o almeno questo è quello che dicono».
Louis inarcò il sopracciglio con aria scettica – quando faceva quell'espressione, sua madre gli diceva sempre quanto ricordasse suo padre. Fantasmi? A Parigi, sulla soglia del ventesimo secolo, la gente credeva ancora ai fantasmi?
«Non dico che non mi piacerebbe accompagnarti in questa piccola esplorazione, ma non riusciremo mai a entrare là dentro, è tutto chiuso da catene e travi» obiettò infine il ragazzo moro. «E io non voglio farmi arrestare solo perché tu sei curioso di scoprire cosa c'è in un vecchio teatro fatiscente».
Gustave scrollò le spalle,
«So come entrare» concluse come se fosse la cosa più ovvia del mondo, poi si tolse la sacca dalla spalle e l'aprì. «E ho lampade ad olio, torce, fiammiferi e corda!».
Louis quasi rise: il suo biondo amico aveva preparato tutto, stava davvero aspettando solo qualcuno abbastanza fuori di testa da accompagnarlo.   
«D'accordo, ma se mi succede qualcosa mentre siamo lì dentro ti raso a zero quei tuoi boccoli da puttino» concluse il giovane dondolando il capo.
«Cosa vuoi che succeda?».
Louis percorse la sagoma dell'edificio con lo sguardo, dal basso verso l'altro, indugiando nel fissare la statua di Apollo sulla sommità del tetto. Cosa voleva che succedesse?
Non lo so, ma ho i brividi.

La serata era mite, con una grande luna piena che svettava in un angolo del cielo trapuntato di stelle, come in un quadro o come nei versi stucchevoli di una banale poesia.
Gustave attraversò l'immenso piazzale incorniciato da ricche palazzine antiche, da bar di lusso e bistrò davanti a i quali si fermavano numerose carrozze che lasciavano scendere ricchi signori e dame in abiti da sera. I due giovani raggiunsero una viuzza laterale con l'insegna mezza sbiadita e corrosa dalla ruggine: Rue Scribe, lesse Louis.
Il vicolo era stretto e spoglio, costeggiava il lato destro del teatro che appariva ancora più maestoso e minaccioso visto in quello spazio angusto. La fiancata dell'edificio si alzava verso l'alto in un alternarsi di finestre, semicolonne e bassorilievi. Ogni apertura era cerchiata da solchi neri, laddove le fiamme si erano accanite esplodendo dall'interno e mandando in frantumi i vetri.
I due giovani si mossero cauti nel cono d'ombra proiettato dai muri. Sembrava che anche la luce si tenesse lontana da quel luogo.
Gustave cercò a tentoni qualcosa in basso, al margine della parete, e quando la trovò estrasse un bastone di legno dalla sacca che usò per fare leva su uno sportello chiuso, nascosto dalla polvere.
Louis si guardava nervosamente attorno, sperando che nessuno li sorprendesse, ma la luce non era l'unica a starsene alla larga da quel posto; il piccolo viale era vuoto e nell'aria c'era l'odore sgradevole dell'acqua stagnate e dell'urina di gatto.
Un forte cigolio metallico fece sobbalzare i ragazzi.
«Gustave, in nome di Dio! Vuoi fare più piano?!» sibilò Louis a denti stretti.
Il giovane De Chagny si tolse una ciocca di capelli dalla fronte e sorrise,
«Beh, ce l'ho fatta» disse piano, indicando con orgoglio un piccolo sportello aperto a livello della strada.
Come prima cosa, il ragazzo francese gettò la sacca attraverso l'apertura, poi si calò cautamente all'interno. Louis serrò i denti guardando il suo amico sparire in quella bocca di pietra dal fondo nero. Dopo qualche secondo sentì il suono di un fiammifero che veniva sfregato contro la parete e vide la fiammella accendersi in mezzo a quel buio pesto. Gustave era solo un metro più in basso,
«Scendi, avanti, non è alto» lo invitò.
Ma che cosa sto facendo? Si chiese il giovane. Uno strano pensiero gli balenò nella mente: suo padre avrebbe approvato. Non che Erik sarebbe stato contento di sapere suo figlio immischiato in qualcosa di pericoloso e sconsiderato, ma era da lui che Louis aveva ereditato la curiosità e quel briciolo di istintività e irruenza. Sorridendo tra sé e sé, si calò attraverso l'apertura.
I suoi piedi toccarono subito un pavimento di pietra. Richiuse con cautela lo sportello sopra la sua testa e cercò di orientarsi in quel buio quasi totale nel quale scorgeva a malapena il profilo di Gustave intento ad accendere la lampada.
Quando la fiammella tra le pareti di vetro illuminò l'ambiente attorno a loro, i ragazzi si resero conto di essere in una piccola stanza che immetteva in un cunicolo. Laddove le pareti non erano totalmente annerite dalle bruciature era possibile scorgere i resti di affreschi ormai sbiaditi, dove le linee dei disegni erano indistinguibili e non rivelavano altro che macchie di colore.
I giovani si incamminarono lungo il cunicolo, procedendo alla cieca arrivarono fino a quello che doveva essere stato il foyer. L'aria era densa di polvere e odore di umidità; più di una volta i due esploratori improvvisati si ritrovarono a tossicchiare o a starnutire. In quell'immenso salone l'incendio non aveva fatto troppi danni, sotto uno strato grigio di fuliggine si celavano marmi bellissimi e stucchi il cui riflesso dorato era ancora visibile dove lo sporco non si era depositato interamente.
Lo scalone centrale, che si dipartiva poi in due scale che si congiungevano ad altezza della balconata di primo ordine, aveva un corrimano di colonne con davanti due alti piedistalli sui quali si ergevano alte e slanciate due statue di figure femminili che reggevano candelabri a molte braccia. Le nappe dei tendaggi penzolavano come dita di cadaveri riversi sull'orlo di una fossa.
Un brivido più intenso percorse la schiena di Louis che allungò, come ipnotizzato, una mano verso il piede di una statua rimuovendo con i polpastrelli lo strato di polvere, facendo riemergere il dorato ancora intatto della vernice.
Che posto grandioso che doveva essere stata l'Opera Populaire!
«Toglie il fiato, eh?» mormorò Gustave come se gli avesse letto nel pensiero.
Il marmo coperto dalla polvere era scivoloso. I due ragazzi ebbero bisogno di molta cautela per salire le scale; si ressero al corrimano, incuranti degli abiti ormai lerci. Si incamminarono verso il breve corridoio che conduceva alla platea e man mano che si addentravano verso il cuore del teatro i segni della distruzione si facevano più evidenti.
Presto si trovarono in un immenso spazio che sembrava il ventre di un gigante morto. Sopra le loro teste si alzavano diversi ordini di balconate i cui parapetti, che un tempo dovevano essere stati ricoperti di velluti e stucchi, erano stati corrosi dal fuoco e ora i palchetti sembravano file di denti guasti e marci nella bocca di un morto. Solo alcuni spunzoni di metallo o legno incenerito si alzavano dal parterre dove un tempo dovevano esserci stati morbidi sedili di velluto. Mentre Gustave muoveva la lampada facendo spostare il cerchio di luce su tutto l'ambiente, emergevano dal buio resti di cariatidi dorate a forma di corpi femminili adagiati contro le pareti in una posa languida.
Una cornice riccamente decorata circondava il palco, e lì c'era il particolare più orribile e stupefacente. Si trattava di un enorme lampadario di cristallo, crollato e riverso per metà nella buca dell'orchestra e per metà sulle assi del palcoscenico. Doveva essere stato il crollo del lampadario a provocare l'incendio.
«Come diamine è possibile che un lampadario come quello crolli?» domandò Louis con un filo di voce, come se gli sembrasse blasfemo profanare il silenzio sepolcrale di ciò che rimaneva dell'Opera Populaire.
Gustave scosse il capo,
«Dicono che sia stato un brutto incidente, ma chi c'era ha raccontato strane storie... una volta si credeva che ci fosse un fantasma nel teatro. Si continua a credere, a dir la verità, ma allora il Fantasma dell'Opera, così lo chiamavano, pare facesse sentire in maniera piuttosto pressante la sua presenza» spiegò. «Non sono mai riuscito a saperne troppo, è una di quelle storie che Parigi ha cercato di dimenticare, come le tante leggende macabre su cose accadute dopo la Rivoluzione e altra roba simile... a questa città non piacciono i ricordi oscuri»
«Da dove vengo io è l'esatto opposto» scherzò Louis, per stemperare l'angoscia delle spiegazioni dell'amico. «A Napoli ci vanno a braccetto con le storie macabre e abbiamo un sacco di fantasmi dalle nostre parti...».
«Louis! Guarda!» Gustave aveva smesso di prestare attenzione alle parole del compagno ed era balzato su una trave caduta che faceva da ponte tra la platea e il palcoscenico.
«Gustave, dove diamine vai?! Torna indietro e non lasciarmi al buio!».
Louis fu costretto a seguirlo perché il giovane De Chagny aveva con sé la lampada e allontanandosi  gli stava portando via la luce.
Gustave percorse la trave con rapide falcate, il legno scricchiolò sotto i suoi passi. Il suo compagno lo fissò sconvolto,
«Io non sono sicuro che il palco regga» borbottò.
«Così pavido, Louis?».
Santi Numi! Riccioli d'oro meritava proprio che gli crollasse qualcosa il testa.
Suo malgrado Louis fu costretto a seguirlo e mosse i primi cauti passi sulla trave inclinata a mo' di passerella tra il parterre e il palco, sospesa sopra il vuoto della buca d'orchestra. Ma lui era più alto e più robusto di Gustave e il legno non resse il suo peso; la trave si spezzò quando lui era a metà strada, facendolo cadere e sollevando una densa nuvola di cenere, polvere e schegge.
Il ragazzo rovinò sul pavimento con un grido di stizza e dolore.
«Mannaggia 'a famme*» imprecò nel suo dialetto.
Gustave si precipitò, piegandosi sulle ginocchia ad altezza della ribalta e puntò la lampada verso il basso,
«Ti sei fatto male?!» chiese preoccupato.
«No! È stato un piacere!» strillò l'altro ragazzo con voce stridula.
Louis si rimise faticosamente in piedi. La caduta non era stata grave, ma si sentiva ancora un po' frastornato per la botta. Starnutì violentemente per lo sbuffo di polvere che aveva inalato, si aggrappò al bordo del palco e si diede una spinta con le braccia. Gli dolevano il gomito e il ginocchio destro, dal lato in cui aveva urtato contro il pavimento, ma con un piccolo sforzo riuscì a issarsi fino al palco.
«Dio mio, giuro che non mi intrufolerò mai più in un teatro in rovina» mormorò massaggiandosi le parti indolenzite. «E tu, che accidenti avevi visto da arrampicarti su travi pericolanti?».
«Mi dispiace che tu ti sia fatto male» mormorò Gustave, gli occhioni da ragazzina che assumevano un'espressione mortificata. «Comunque, guarda anche tu».
Il ragazzo puntò la lampada in direzione delle quinte. Sul lato sinistro l'incendio era divampato divorando ogni cosa, ma a destra sembrava che il fuoco fosse stato domato prima che avesse il tempo di distruggere tutto. Forse, al momento della tragedia, su quel lato del palco c'erano più persone che si erano subito impegnate a contenere i danni, oppure semplicemente, per un caso fortuito, le fiamme non si erano propagate in quella direzione. Su quel lato, il teatro doveva essere rimasto quasi intatto, qualsiasi cosa ci fosse.
«Oh, interessante. Però avrei preferito non rischiare di rompermi una gamba per scoprirlo» borbottò il ragazzo seguendo l'amico verso le quinte di sinistra, con andatura un po' zoppicante.
Mentre si lasciavano alle spalle il palco, Louis quasi inciampò in qualcosa che era per terra e sbatté goffamente contro la parete.
«Maledizione, questo posto sembra cospirare contro di me...» borbottò.
«Forse non sei simpatico ai fantasmi» esclamò Gustave.
«Smettila di dire idiozie e passami la lampada».
Louis illuminò il pavimento davanti a sé e scoprì che l'oggetto che gli aveva fatto perdere l'equilibrio era una maschera. C'era proprio una maschera di cuoio nero per terra, con i nastri per essere allacciata dietro la nuca, era sporca e ammaccata ma il ragazzo si chinò a raccoglierla e la sventolò per rimuovere il grosso della polvere; senza nemmeno sapere perché, la pulì alla meno peggio con le dita e la mise in tasca.
«Ti piacciono le maschere?» chiese Gustave ricominciando a camminare.
«Le odio» mormorò il giovane italiano.
Percorsero un corridoio dove era ancora possibile scorgere la ricca carta da parati, staccata in più punti ma con le tinte e le decorazioni ancora intatte sotto lo strato di sporco – il fatto che non battesse il sole doveva aver preservato i colori laddove il fuoco non aveva distrutto ogni cosa.
Il corridoio si stringeva in un arco nella parete, sulla cui sommità era inchiodata un'insegna di legno con la scritta dipinta: Loges d'acteurs.
I due ragazzi si scambiarono uno sguardo entusiasta,
«I camerini!» esclamò Louis. «Dovrebbero essere intatti».
Si precipitarono oltre l'arco e percorsero qualche metro ritrovandosi su un corridoio più stretto sul quale affacciavano diverse porte di legno smaltato. La loro attenzione fu catturata da una porta divelta, l'unica che era stata letteralmente strappata dai cardini, mentre le altre erano chiuse e al loro posto. Sulla porta scardinata c'era ancora la targa sulla quale si leggeva: Primadonna.
I due giovani si fiondarono oltre la soglia. Louis pensò che quel luogo non era molto diverso dai camerini che aveva visto dietro le quinte del San Carlo, si trattava di una saletta quadrata con dei mobili barocchi sui quali erano posati molti vasi di porcellana e ninnoli di cristallo, in un angolo c'era un ricco mobile da toeletta con uno specchio incorniciato d'ottone, ragnatele spesse come fazzoletti penzolavano dagli spigoli... niente di strano. Almeno fino a quando Gustave non puntò la lampada verso la parete sul fondo.
«E quello cos'è?». I due ragazzi pronunciarono queste parole quasi all'unisono, rimanendo impalati a fissare lo strano spettacolo che avevano dinnanzi.
C'era uno specchio alto almeno due metri, incassato nella parete... o almeno avrebbe dovuto essere fissato al muro, ma era ruotato verso l'interno come una porta che girava attorno a un perno centrale; oltre l'apertura si stendeva un ampio corridoio di pietra.
«Tu pensi che potremmo...» azzardò Gustave, ma non sembrava troppo convinto.  
Louis sentì il sangue gelarsi nelle vene e qualcosa di freddo che gli solleticava la nuca. No, era una pessima idea, non avrebbero dovuto mettere piede in quel posto, non avrebbero dovuto essere lì... ma già che c'erano, che differenza avrebbe fatto?
«Perché no?» disse senza alcuna incertezza.
«Dove pensi che porterà quel cunicolo?»
«Probabilmente ai livelli del sottopalco. Nel San Carlo di Napoli ci sono diversi livelli dove si trovano le sartorie, le falegnamerie e i depositi, e poi...». Mentre stava parlando, Louis vide di nuovo la luce che si allontanava e capì che Gustave aveva smesso di ascoltarlo e si era spostato, si voltò per cercarlo con lo sguardo e lo vide immobile davanti a una grande locandina appoggiata contro la parete che aveva provveduto a ripulire dalla polvere.
Sul manifesto era raffigurata una ragazza in abiti dalla foggia tipica dei costumi tradizionali spagnoli, in piedi davanti a un grosso falò. Don Juan Triumphant diceva il titolo, in alto a grandi lettere dorate. Avec Christine Daae c'era scritto in basso.
«È mia madre» squittì Gustave sorpreso. «La ragazza sul disegno della locandina, è mia madre».
Louis guardò con più attenzione e constatò che, se il disegno era somigliante, la madre del suo amico doveva essere stata un vero gioiello,
«Era bella» ammise.
Il ragazzo biondo fece un sorriso ebete,
«Lo è ancora» dichiarò con un energico cenno di assenso.
«Certo, certo... andiamo a vedere cosa c'è in fondo al corridoio».

Il corridoio proseguiva per metri e metri, terminando in una scala che si perdeva come un'infinita spirale verso il buio. Louis cominciò a scendere i primi gradini, ma Gustave lo trattenne per la manica della giacca.
«Non vorrai scendere? Sono certo che non c'è niente laggiù» disse.
Il suo compagno lo guardò con un mezzo sorriso canzonatorio,
«Ma come? L'idea è stata tua! Mi hai trascinato qui dentro, sono anche caduto...» protestò sarcastico.
Gustave scrollò le spalle in quel suo modo infantile,
«Lo so, ma ho la sensazione che non dovremmo andare» mormorò.
E perché mai? Louis sentiva uno strano magnetismo invece, qualcosa che lo spingeva a continuare in quell'assurda discesa,
«Così pavido, Gustave?» canzonò l'amico e gli diede una pacca sulla spalla per poi continuare a scendere i gradini.
Stavano scendendo già da molti minuti quando cominciarono a sentire l'odore dell'umidità e dell'acqua stagnante. Sopra le loro teste c'era la grande spirale di pietra delle scale già percorse.
«Io credo che sarà una faticaccia immane risalire»  osservò il giovane De Chagny con un sospiro.
«Coraggio, non capita mica tutti i giorni» lo rimbeccò il compagno.
La discesa terminava su quello che sembrava un piccolo molo, davanti a un canale con un corso d'acqua imprigionato tra spesse pareti di pietra chiazzata di muffa e umidità.
«Che peccato, non ci sono zattere, direi che possiamo andarcene» esclamò Gustave, forse sollevato dall'idea che quello strano viaggio fosse finito. «Louis, che stai facendo?».
Louis si era accovacciato a terra e aveva spiato l'acqua torbida cercando di scorgere il fondale.
«Non sembra profonda» osservò dopo qualche secondo.
«Ma la cosa non ci riguarda» replicò Gustave. Prima che riuscisse ad aggiungere altro, il ragazzo moro si era calato nell'acqua che gli arrivava alla vita; al suo compagno non restò che seguirlo.
«È gelida... se non altro ci stiamo ripulendo dalla polvere però» mormorò Gustave passando la lampada a Louis per tenere sollevata la sacca, in modo da non far bagnare le loro altre fonti di illuminazione: se fossero rimasti al buio non sarebbero mai più stati in grado di ritrovare la strada per l'uscita.
Il canale terminava in un'apertura dalla forma irregolare dove l'acqua si faceva un po' più profonda e, se possibile, ancora più gelida. Louis allungò il passo, muovendosi a fatica e sollevando grossi schizzi.
Sul fondo dell'apertura c'era una grata, oltre la grata c'era un'ampia distesa d'acqua, come un piccolo lago.
I ragazzi si avvicinarono il più possibile alla grata, Louis sollevò la lampada per cercare di guardare meglio all'interno. Non riusciva a vedere bene perché il buio vinceva quell'unica luce con troppa facilità, tuttavia riuscì a illuminare abbastanza ciò che aveva davanti da poter distinguere le forme, se di forme si poteva parlare. Davanti a lui si apriva una grotta dall'alto soffitto di pietra irregolare, sul fondo della grande insenatura c'era una riva piena di oggetti o di ciò che rimaneva di loro, molte cose erano state distrutte e fatte in pezzi, ma si riusciva a distinguere nettamente un materasso squarciato gettato in terra ai piedi di quello che doveva essere stato un letto con la testata intagliata ormai malandata. Gradini scolpiti direttamente nella roccia portavano ai vari rialzi, da un lato c'erano resti di mobili, ormai ridotti ad ammassi di schegge, e al centro, sul rialzo più sollevato, come su un altare, c'era quello che certamente doveva essere stato un organo. Le canne di metallo ancora svettavano verso l'alto, anche se erano ammaccate in più punti, come se qualcuno avesse tentato di frantumarle senza risultati e si era quindi abbattuto sulla tastiera dello strumento, mandando in pezzi le fiancate decorate con intarsi e dorature.
«Ci viveva qualcuno qui...» sussurrò Louis sentendo una strana angoscia prendergli lo stomaco. Chi mai avrebbe meritato un'esistenza così buia e infelice? E perché tutto era stato distrutto come per cancellare ogni traccia di quell'esistenza?
«È orribile» gli fece eco Gustave, fissando attonito lo spettacolo oltre la grata, rabbrividendo non solo per il gelo dell'acqua. «Louis, stai piangendo...».
No, non stava piangendo, maledizione! Era il freddo, era certamente solo il freddo. Almeno così volle pensare il ragazzo mentre una lacrima gli solcava lentamente la guancia.
«Se sto piangendo io, stai piangendo anche tu» disse con voce grave.
Le lacrime sul viso di Gustave erano due.

*******

~ Napoli, 13 aprile 1871 ~

La folla si mise lentamente in fila verso l'altare. Lucia guardò per un istante il sacerdote che stava per officiare il rito dell'Eucarestia e restò con le spalle appoggiate alla colonna, sentendo il freddo del marmo contro i palmi delle mani.
Credeva in Dio, ci credeva con tutta se stessa e il fatto che fosse arrabbiata con Lui non cambiava lo stato delle cose: la fede era sempre stata un dato di fatto oltre che una necessità.
Dalla sua prima notte come prostituta aveva deciso di tenersi alla larga dai confessionali: non voleva alcuna assoluzione. Non che non ne avesse bisogno, ma le sembrava davvero di chiedere troppo.
La ragazza attese pazientemente che la messa della mattina di Pasqua terminasse. Nella piccola processione che si dirigeva composta verso l'uscita, Lucia scorse diverse facce conosciute, tra le tante solo una persona indugiò un istante accanto a lei per salutarla: il duca Mariano Giusso, con al braccio sua figlia, la piccina che non parlava. Conosceva quell'uomo molto vagamente, si erano incrociati qualche volta a teatro, e in un'occasione lei aveva regalato alla ragazzina, che quella sera accompagnava il padre, il suo fermaglio, un dono di uno di quei corteggiatori assolutamente non degni di nota, che per un qualche strano motivo aveva colpito molto la piccola Luisa – era così che si chiamava la giovinetta, forse. Il duca era una persona a modo, non priva di una certa simpatia e di un certo spirito spesso estranei a quelli del suo rango.
Quando tutti furono andati via, nella chiesa non restò altro che silenzio e odore di incenso. E freddo, faceva sempre freddo dentro le chiese.
La porticina della sagrestia si aprì e la figura in nero camminò a grandi passi verso di lei.
«Suor Antonia» salutò la ragazza con un sorriso.
La suora si fermò di fronte a lei, la fissò per qualche secondo e poi le tese le braccia. Lucia ricordava che era sempre stata molto affettuosa con tutti loro, con tutti i bambini della scuola improvvisata nella sagrestia della chiesa del porto di Capri. Ed era sempre stata... giovane. Erano passati tanti anni da quando Lucia era una bambina che dimenticava sempre gli apostrofi e il volto di Suor Antonia non sembrava invecchiato di un giorno, solo la ruga in cima al naso si era fatta leggermente più accentuata. La ragazza immaginò che fosse quello che accadeva a chi ha il cuore in pace.
«Come stai, Lucia?» chiese la suora con dolcezza.
Suor Antonia veniva a Napoli quasi tutti i mesi, andava al convento di Santa Chiara dove le consorelle del suo ordine tenevano da parte delle offerte per le suore di Capri, per permettere loro di mandare avanti la piccola scuola per i figli dei pescatori e degli isolani meno abbienti. E tutti i mesi Lucia faceva in modo di riuscire a incontrarla, la buona sorella le portava notizie di sua nonna e accettava di buon grado di portare alla vecchia Maruzza qualsiasi cosa Lucia avesse bisogno di farle avere, da coperte, a lettere a somme di denaro nascoste dentro scatole di cioccolatini, perché l'anziana donna non si arrabbiasse nel vedersi consegnare dalle mani di una religiosa buste con dentro delle banconote.
Lucia non aveva mai detto a Suor Antonia cosa faceva a Napoli, ma era ovvio che lei lo sapesse. Tutte le volte che la ragazza aveva provato a lasciarle delle offerte per la chiesa la suora aveva sempre rifiutato, così un giorno, invece di provare a darle del denaro, la giovane le aveva fatto trovare un pacco con dentro quaderni, penne, inchiostro, matite e gessi per lavagna. Quelle cose proprio non potevano essere né rifiutate né buttate via. E da allora, ogni volta che doveva incontrarsi con Suor Antonia, Lucia si presentava con un grosso pacco di cartoleria.
E ogni volta che lei e la sorella si incontravano, a Lucia veniva rivolta la medesima domanda.
«Quando torni?» le chiese la suora, anche quella volta.
«Non lo so...» rispose la giovane con un mezzo sorriso, colmo di malinconia.
Cercò di guardare il lato positivo: dire non lo so prevedeva comunque che un giorno, prima o poi, sarebbe tornata.

*

Quella di andare a passare le festività a palazzo Giusso si stava rivelando una pessima scelta. O meglio, gli ultimi due giorni erano stati piuttosto tranquilli, quasi piacevoli: erano trascorsi con immensa calma e meravigliosamente vuoti, fatti di chiacchierate non troppo impegnative e partite di scacchi con il duca – che il buon uomo non era mai stato in grado di vincere. La sera suonava il violino per Luisa e si beava dei sorrisi della ragazzina – sì, cominciava vagamente ad abituarsi all'idea di essere in grado di far sorridere qualcuno. Poi però era arrivato il giorno di Pasqua. In quella santa domenica ci sarebbe stato un grande pranzo al palazzo, con un quantitativo di invitati intollerabile.
Erik sospirò guardando l'orologio dove le lancette si stavano pericolosamente avvicinando all'ora del pranzo.
Se le settimane trascorse a lavorare in teatro erano servite a dimostrare che, dopotutto, poteva guadagnarsi il suo posto nel mondo attraverso il proprio talento, le giornate a palazzo Giusso potevano servire a dimostrare che il Fantasma dell'Opera era in grado di essere una persona come tutti gli altri. Poteva fingere benissimo di essere una persona come tutti gli altri.
Non ne aveva alcuna voglia, ma mostrare gratitudine faceva parte delle regole del gioco. E lui, adesso, era davvero grato al duca e a sua figlia. Tutti i pensieri cupi di quei giorni gli erano serviti a creare un contrasto tra ciò che c'era di orribile in lui e ciò che di buono aveva trovato sulla propria strada. E qualcosa, nel profondo della sua anima distorta, aveva cominciato a smuoversi, come ingranaggi arrugginiti e induriti dal disuso che lentamente riprendevano a girare.
Da dietro la finestra, Erik vide il nobile con la ragazzina al braccio rientrare dalla messa mattutina. Non ci volle molto prima che qualcuno bussasse alla sua porta.
La piccola Luisa si era tolta in fretta i nastri dai capelli e le scarpine di vernice ed era corsa da lui. In mano reggeva un quaderno dalla copertina marrone.
Lo guardò arrossendo; per la prima volta sembrava in difficoltà.
«Cosa c'è?» le chiese Erik perplesso.
Lei abbassò lo sguardo sulla punta delle pantofole di feltro e quasi con riluttanza gli mise il quaderno tra le mani facendogli segno di aspettare ad aprirlo, poi prese un foglio dallo scrittoio, come faceva sempre quando doveva dire qualcosa di troppo complesso da esprimersi a gesti.
VUOI FARMI UN REGALO? Scrisse.
Erik la fissò stringendo le labbra,
«Posso provarci» rispose dopo qualche secondo.
Luisa gli indicò il quaderno e lui lo aprì. Mentre sollevava la copertina le guance della giovinetta si colorarono ancora più intensamente di rosso.
L'uomo sfogliò le pagine, erano piene di versi scritti con una calligrafia larga e spigolosa ma molto ordinata.
«Poesie? Le hai scritte tu?» domandò.
Lei annuì, facendo vagare lo sguardo in giro per la stanza. Sembrava davvero imbarazzata, doveva tenere molto al fatto che lui leggesse quei suoi componimenti e allo stesso tempo forse aveva paura del suo giudizio.
D'un tratto, Luisa posò una mano su quella di Erik, poi aggiunse alcune parole su foglio.
IL REGALO: LA TUA VOCE. VUOI LEGGERLE PER ME?
Quando la giovinetta sollevò di nuovo lo sguardo su di lui, l'uomo si accorse che aveva gli occhi lucidi.
«Con piacere» mormorò aprendo il quaderno alla prima pagina.


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Here, I have a note...

* mannaggia alla fame. Non so se sia molto “tradizionale” nel dialetto napoletano, ma conosco qualcuno che la usa come imprecazione.

Due piccole precisazioni sulla “gita scolastica” dei ragazzi (oh, quanto mi è piaciuto scriverla!):
Nel romanzo di Leroux, in Rue Scribe c'era uno degli accessi segreti al teatro usati dal Fantasma dell'Opera. Nella mia testa ho sempre supposto che nel film fosse quello da cui entra Erik bambino quando viene portato a teatro da Madame Giry (e a cui eventualmente porta il passaggio segreto che lui apre rompendo lo specchio alla fine del film). Nel film non si fa menzione di Rue Scribe e del passaggio, ma io ho sempre fatto questa associazione.
I pargoli in gita all'Opera arrivano ai sotterranei senza farsi male, già... il passaggio dietro lo specchio del camerino della primadonna in teoria dovrebbe essere quello attraverso il quale Meg guida la folla inferocita alla fine del film (perché la ragazza lo scopre nella scena dopo Music of the Night), se tutta quella marmaglia era arrivata intatta nei sotterranei da lì, non vedo perché non ci debbano arrivare anche i due rampolli.


A mercoledì prossimo ^^

I remain, gentlemen, your obidient servant.



   
 
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