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Autore: AntheaMalec    23/03/2012    2 recensioni
- John Watson stava bene, ne era convinto, lui era sopravvissuto alla guerra, lui era stato sparato, lui aveva ucciso una persona, una morte in più non faceva differenza.
Pensava a questo genere di cose quando sentiva la nostalgia assorbirlo mentre passava davanti ad un’edicola e leggeva la cronaca nera.
A lui mancava Sherlock Holmes, ma non ne sentiva il bisogno.
Era di quello che cercava di convincersi. -
OS su vari periodi della vita di John Watson dopo la morte di Sherlock Holmes, fino al loro incontro, due mesi più tardi.
Definita una broslash.
Genere: Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: John Watson , Sherlock Holmes , Sig.ra Hudson
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Daydreamer

Avere l'impressione di restare sempre al punto di partenza
E chiudere la porta per lasciare il mondo fuori dalla stanza
Considerare che sei la ragione per cui io Vivo
Questo è o non è
Amore
.

E ora penso che il tempo che ho passato
Con
te
Ha cambiato per sempre ogni parte di
me

[Sono solo parole – Noemi]




Per John Watson il giorno della caduta era paragonabile allo sbattere la testa, una grossa, gigantesca, indimenticabile botta in fronte, con tanto di cicatrici.

Quando si batteva la testa, ne era certo, c’era un momento brevissimo in cui non si sentiva nulla, ma si era consapevoli che nel giro di pochi attimi saremmo stati investiti da un dolore lacerante.
Il momento in cui vide il suo corpo riverso a terra in un lago di sangue, fu per lui come sbattere la testa.
Accolse il breve momento di tranquilla incredulità, in attesa dell’immenso dolore.
E ne era tutt’oggi consapevole, con gli occhi troppo spenti per non dare nell’occhio in modo accecante.
C’erano momenti, ormai rari, perché lui stava bene, in cui il leggero velo lucido negli occhi della signora Hudson gli faceva stringere lo stomaco in un’incredibile morsa mortale.
“Tutto bene, John?” “Sì, mai stato meglio.” “Passerà.”
Il solito botta e risposta, la solita pacca sulla spalla, le solite strade diverse per tornare ognuno nei propri appartamenti.
Vuoti, perché non c’era più nessuno sulla quale fare affidamento, eccetto l’aria, che strideva nei polmoni come unghie sulla lavagna.
John Watson era convinto, ad una settimana dalla morte del suo migliore amico - la sua spalla, la sua colonna portante, che nulla sarebbe potuto andare peggio di così.
Eppure stava bene, nonostante la solitudine, nonostante il silenzio oppressante, nonostante tutto.
John credeva che le bugie potevano essere crudeli, ma a volte la verità, lo sapeva,  lo era molto di più, quindi faceva finta di niente, allontanava con un finto spensierato gesto il dolore e la rabbia, in modo tale da rendersi immune da ogni cosa ed ogni persona.

Erano passati solo pochi giorni, John ne era consapevole perché sentiva i secondi grattargli la pelle ad ogni rintocco, eppure sembrava fossero passati solo pochi attimi.
John portava dentro di sé cose che nessun altro poteva vedere ed esse lo tiravano giù come ancore, annegandolo nel mare dei ricordi.
Aveva provato per anni il significato di morte su di sé, se l’era sentito come un manto, come una seconda patina che ricopriva il suo corpo.
Ci era anche andato vicino, in Afghanistan, ma ora, ora che non l’aveva provata, ma l’aveva vista con i suoi occhi, ora comprendeva che la morte non era la più grande perdita della vita, ma lo era ciò che moriva dentro mentre si era in vita.
John si sentiva proprio così, mentre si lasciava trascinare da una parte all’altra della strada, non osservando realmente nessuno, un morto che aveva avuto il privilegio –o la punizione di restare in vita.
Ogni tanto guardava le facce delle altre persone, nel tragitto tra casa e lavoro, e sentiva che la sua era uguale alle altre: facce tirate, preoccupate, smarrite, facce sbiadite come fiori strappati alla radice e ficcati in un vaso*, e se ne rammaricava. 
John Watson, nonostante tutto, non si era lasciato andare al buco nero dal quale si sentiva attratto, ma continuava a lavorare sotto l’occhio vigile di Sarah, vecchia amica, e continuava a mangiare e respirare e dormire e a fare finta che ogni giorno non fosse vuoto o inutile.
John Watson stava bene, ne era convinto, lui era sopravvissuto alla guerra, lui era stato sparato, lui aveva ucciso una persona, una morte in più non faceva differenza.
Pensava a questo genere di cose quando sentiva la nostalgia assorbirlo mentre passava davanti ad un’edicola e leggeva la cronaca nera.
A lui mancava Sherlock Holmes, ma non ne sentiva il bisogno.
Era di quello che cercava di convincersi.

 

Sherlock Holmes sapeva che John Watson stava vivendo nell’inferno da quando lui era morto. Sherlock percepiva il suo dolore anche a chilometri di distanza, chilometri di sicurezza, ma che lo facevano sentire strano, quasi colpevole.
Non mostrava a nessuno quanto in realtà gli mancasse la sua vita, nemmeno nelle sporadiche visite di Molly; in alcuni momenti, però, quando il pallido sole di Londra scompariva dietro lo skyline fatto di case e natura ed il buio inghiottiva ogni cosa, Sherlock pensava a John senza più alcuna barriera.
Voleva prendere il suo posto, voleva fargli sapere che non era solo, che lui era lì.
L’attesa era la nemica più dura, il suo eco l’unico compagno fedele di quel viaggio solitario.

 

Era passato un mese preciso dal decesso, quando la chiamata della signora Hudson lo riportò al centro del baratro dal quale stava cercando di trascinarsi fuori.
“Sherlock è morto da un po’ di tempo, John caro, è tempo che qualcuno porti via le sue cose dall’appartamento ed io…non credo di…sai, quindi se potresti venire…” non l’aveva più ascoltata quando avevo compreso  in cosa consistesse quella telefonata mattiniera.
La signora Hudson voleva che ritornasse un’ultima volta al 221B di Baker Street, da solo, a mettere le mani negli oggetti personali di Sherlock Holmes.
John aveva creduto che bastasse solamente chiudere quella porta che conteneva ricordi troppo dolorosi da sopportare per lasciarsi tutto alle spalle, ma era rimasto a fissarla per tutto quel tempo, senza avere il coraggio di riaprirla.
Senza nemmeno accorgersene si era ritrovato davanti a quel portone così familiare e si era fermato lì davanti, le gambe immobili e cedevoli, il groppo in gola che non lo faceva respirare e lo sguardo offuscato di ricordi, impedendogli la vista della realtà circostante.
John pensava che gli facesse male la gola perché era lì che si fermavano le tristezze, ma venne distratto dalla presenza della signora Hudson comparsa al posto della porta, con un sorriso così gentile e premuroso da farlo leggermente irritare.
“Oh, John, sono così felice di vederti! Sei dimagrito?” “Sono felice anche io di rivederla, signora Hudson.”
Sviare qualunque tipo di domanda scomoda, era quella la sua missione per quel giorno, almeno finchè fosse uscito da quel maledetto appartamento sano e salvo.
“Forse è meglio che ti lasci un momento solo…con i tuoi pensieri.” “Grazie mille.”
Quando vide scomparire l’angolo del vestito colorato nel suo appartamento, fissò intensamente le scale, frastornato dalla moltitudine di dejà vu che essa faceva ritornare alla memoria.  
Si vergognava quasi, del fatto che qualcuno potesse essere così importante che senza di lui si sentiva inutile.
Ora che se n’era andato per non tornare mai più, desiderava quasi di riavere tutte le sensazioni brutte indietro, così da poter avere anche quelle belle.
Salì le scale con il familiare scricchiolio del legno vecchio in sottofondo, fino a raggiungere l’appartamento.
Camminò per le stanze disordinate e polverose, la luce entrava timida dalla finestra, mischiata all’odore di chiuso.
Chiuse gli occhi e provò a formulare un frase che avrebbe detto Sherlock se fosse stato lì, ma non ci riuscì.
Fu quello il momento in cui morì veramente.
Era rimasto lì, al centro della stanza, senza sapere più come muoversi, sentendo le lacrime premere con prepotenza e l’orgoglio che le ricacciava indietro.
John era arrivato alla conclusione che l’amore, perché ormai l’aveva capito che di semplice amicizia non poteva trattarsi, aveva i denti e che i denti mordevano ed i morsi, i morsi non guarivano.**
 Era osceno che avesse il terrore di toccare il suo violino, o di toccare i suoi attrezzi da lavoro, perché, rifletteva, quello era sempre stato il loro appartamento e distruggere tutto sarebbe stato come ritornare all’inizio di quell’avventura, da solo e in balia del vento.
“Esistono persone che ti fanno rimanere senza fiato per la loro determinazione. Sherlock era uno di quelli, non è vero?”
John si girò verso l’ingresso, dove era comparsa nuovamente la signora Hudson con un cipiglio triste che le deformava il viso.
“Lo era, sì. Ma ormai è morto, quindi non c’è più niente sulla quale rimuginare.”
Era stato capace di non far tremare la voce, aveva fatto dei miglioramenti, allora, nonostante tutto.
“John, passerà…” A quel punto la rabbia scoppiò con una fragorosa onda d’urto dentro di lui.
“No, non passerà ed è questo che fa male. Ciò che ci manca ce lo portiamo sempre appresso.”
John uscì velocemente dall’appartamento, ripromettendosi di non metterci piede mai più.
Era forse stato troppo duro con lei? Infondo, non era colpa sua e nemmeno di nessun altro.
Eppure non era riuscito a resistere all'impulso di trasmettere un po' di quell'angoscia che si dibatteva in lui come un pesce fuor d'acqua.
Egoistico? Magari, ma non gli sembrava corretto che solo lui patisse così intensamente quella mancanza improvvisa.
Troppi ricordi eJohn non poteva più vivere nel passato, non poteva stare legato a Sherlock Holmes per sempre, come un bimbo al suo primo peluche.
Che fosse o non fosse stato amore, lui doveva andare avanti.
La pagina di appunti scarabocchiati con la grafia di Sherlock appena rubata dal 221B che bruciava nella sua tasca del giubbotto.

 

Sherlock Holmes era stato battuto squallidamente da se stesso.
Stava provando sulla sua stessa pelle l’infido potere di vedere e non essere visti, il potere dell’ombra, di non vivere la vita ma esserne solo spettatore.
Aveva osservato molto, troppo in quel mese di solitudine forzata, ed era stato in silenzio ancora più a lungo.
Continuava a lavorare, in incognito, ma non aveva più alcun compagno con il quale confrontarsi, nessun pubblico che mettesse in una luce positiva la sua deduzione.
Noioso, squallido spettatore e lui odiava la noia.
 Sherlock aveva seguito John Watson per tutti quei giorni, lo teneva sott’occhio come un familiare premuroso, intuendo ogni suo pensiero e facendolo suo.
A Sherlock Holmes mancava John Watson più di quanto il suo cervello potesse aver preannunciato prima della recita.
Ed ora la mancanza pesava ed il silenzio opprimeva.
Attesa.  

 

A due mesi di distanza dalla morte di Sherlock Holmes, John Watson credeva di essere soggetto a filofobia.
Sapeva perfettamente di non poter passare un’intera vita nella debole speranza del ritorno di Sherlock, ma di ragazze non se ne parlava nemmeno.
Continuava ad allontanare le persone.
Paura di essere delusi? Paura di essere feriti? Autodifesa?
John non lo comprendeva, però era convinto che non sarebbe stata una buona idea incominciare una relazione finta, senza alcuno scopo se non quello di farlo sentire ancora più solo. 
John, pochi giorni prima, aveva avuto un colloquio con Sarah, preoccupata per il suo stato di salute notevolmente in discesa.
Dormiva ancora nel suo ufficio e non per le notti in bianco passate a risolvere casi, ma bensì per gli incubi, quelli amari, quelli che non si cancellano ma marchiano la retina a fuoco, facendoti passare ogni sintomo di sonnolenza.
Dopo due interi mesi, non era forse arrivato il momento dell’accettazione e del proseguimento della sua vita senza eventuali rimorsi o rimpianti? Eppure lui era ancora alla prima fase del lutto: il dolore.
John l’aveva rassicurata, le avevo detto che stava bene, che si era rassegnato ed aveva capito che era morto definitamente.
Sarah non ne era stata convinta e nemmeno lui.

La sveglia suonò all’alba quel giorno mentre John Watson stava già stancamente trangugiando la sua tazza di caffè, osservando fuori dalla finestra le poche macchine che sfrecciavano svelte.

Aveva una dura giornata da affrontare, una marea di pazienti da visitare a causa di Sarah che era entrata in malattia il giorno precedente.
Si preparò velocemente e prese un taxi diretto all’ambulatorio. 
L’idea di pessima giornata stava già rovinando i suoi residui di buonumore insieme al bruciore alla lingua causato dall’espresso bollente.

 

Sherlock pensava intensamente, assorto in un’aura di elettricità che non provava da mesi.
Erano passati millenni, ma gli uomini non erano mai riusciti a capire l’amore. Quanto dipendeva dal corpo e quanto dalla mente? Quanto dal caso e quanto dal destino? Perché certe coppie perfette fallivano e altri abbinamenti, per quanto impossibili, prosperavano? Non lo capiva, Sherlock, e intanto osservava il sole sorgere. Aveva solo compreso che l’amore, semplicemente, era dove era.***
E finalmente, anche per lui, era l’ora di riprendere in mano il controllo.
Il buonumore che saliva ogni minuto che passava.
Sherlock Holmes aveva la giornata piena.

 

I dive in at the deep end
You become my best friend
I wanna love you but I don't know if I can
[X&Y – Coldplay]

 

 

 

Era passata da poco la metà mattinata, ma John si sentiva affaticato come non mai.
Probabilmente una delle cause principali stava nelle ombre sotto gli occhi che lo facevano somigliare ad uno spirito senza tempo né pace.
Quando i pazienti entravano nel grande stanzone bianco e arioso, infatti, poteva scorgere l’ondata di compassione nel vedere il suo volto, nemmeno fossero loro gli esperti di medicina e salute. Dannazione, nemmeno un po’ di educazione?, avrebbe voluto urlare, dando libero sfogo ai nervi tesi fino allo stremo e al cerchio alla testa che non smetteva di pulsare ferocemente.
Quando, finalmente, alla beneamata ora delle dodici e trenta entrò in pausa pranzo, per John fu come entrare in una sorta di paradiso terrestre, confortato dal silenzio e dall’assenza di sguardi accusatori.
Lui stava bene, non era lui il paziente, continuava a pensare infastidito, mentre finiva il suo panino recuperato alle macchinette.
Un panino orribile, di chissà quanto tempo prima.
Un bussare insistente alla porta lo fece ridestare dai suoi pensieri, facendogli togliere i piedi dalla scrivania e togliendo le varie briciole dal maglione logoro.
“E’ permesso, dottor Watson?” “Certo, vieni Elèna.” Disse, cercando di ingerire il boccone di sandwich senza strozzarsi.
La faccia grassoccia e professionale di una signora sui quarant’anni comparve all’ingresso, con un’espressione non molto rassicurante.
“Dottore, mi dispiace interrompere la sua pausa, ma c’è un paziente che è arrivato qui dieci minuti fa e dice di sentirsi molto male.”
Lo sguardo affranto di John sembrò farla sentire colpevole di un gravissimo reato.
“Ho provato a chiedere alla dottoressa della stanza dodici, ma non è nemmeno riuscita a fermarsi un momento e allora…” “Non si preoccupi, lo faccia entrare.”
John sperò per lo sventurato malcapitato che fosse davvero una questione di massima urgenza o avrebbe dovuto tirare fuori dalla custodia la sua Browning L9a1 e non sarebbe stato piacevole per nessuno.
Andò ad aprire una finestra, sperando che l’aria londinese lo facesse tranquillizzare.

 

Sherlock Holmes aveva imparato sin da piccolo l’autocontrollo, la gestione misurata delle proprie emozioni e l’osservazione dei minimi dettagli, talvolta i più importanti.
Sherlock, però, in quel momento si trovava in uno stato di agitazione mista a qualcos’altro –Confusione? Ansia? Incertezza? che gli faceva sudare le mani, stupido Sherlock!, e seccare la gola.
“Signore, si sente bene? Mi sembra molto pallido.” “Ho bisogno di un dottore, con urgenza.”

 

Macchine, persone, strade, negozi.
John non riusciva a vedere nulla se non calma, pace e noiosità.
Uno colpo di tosse arrivò da dietro le sue spalle, poco prima che la voce di Elèna interrompesse il silenzio.
“Dottor Watson, questo è il paziente, la lascio al suo lavoro.” “Allora, sente di avere dei sintomi parti…”
Appena si girò, John Watson rimpianse il suo vecchio bastone.
Lì, davanti a lui, come se non fosse mai sparita, c’era la figura netta e distinta del suo vecchio e speciale migliore amico, Sherlock Holmes, con quell’aria imperturbabile che ora ricordava aver visto così tante volte da perderne il conto e di esserne stato irritato altrettante.
Impossibile. Un sogno, una strana allucinazione? Sherlock Holmes era morto, ci erano voluti due lunghissimi mesi perché questa idea si radicasse in lui, quindi non poteva quel tizio, chiunque fosse stato, presentarsi nel suo ambulatorio e guardarlo così.
Con quegli occhi e quel cappotto così stravagante che faceva contrasto con l’intonaco bianco delle pareti.
“John.” “No, non…no.”
John strinse il termosifone dietro di sé, cercando un appiglio per non cadere.
“Lui non può essere qui, no. E’ morto.” Con l’altra mano si strofinò gli occhi, cercando di non scoppiare o perlomeno di non svenire. Era morto, aveva visto e pianto davanti alla sua tomba e lui non poteva essere lì, solo non poteva.
“John, se tu mi lasciassi il tempo di spiegare…”
Spiegare? Spiegare cosa, esattamente? Perché ci sarebbero un bel po’ di cose,da spiegare!”
“Sono stato costretto a uccidermi, avresti dovuto capirlo.”
“Avrei…oh, lasciamo perdere. Esci fuori di qui.”
“Come scusa?” Rispose Sherlock, accigliato. Aveva capito benissimo, John lo sapeva bene, anche accecato dalla rabbia repressa per mesi. Lui capiva sempre tutto, era il genio della situazione, quello che prendeva decisioni senza consultare il suo unico amico, quello che usava il cervello prima di qualunque altro organo.
“Ho detto che devi uscire da questa stanza. Non ho voglia di parlare con un morto.”
“John, ma io sono vivo.”
“Sì, ma il problema è che non saresti mai dovuto andartene e tu non puoi morire e resuscitare e tornare qui come se nulla fosse successo perché sono successe molte cose, Sherlock, da quando ti sei suicidato cadendo da quel maledetto tetto, quindi, se permetti, ho voglia di rimanere da solo.” A John sembrava di non respirare da secoli dopo quella frase e Sherlock sembrava aver compreso il suo stato d’animo visto che stava avanzando verso John con le mani alzate davanti al petto, come un povero ladro circondato da poliziotti armati.
Si sentiva minacciato, forse? Perché, per un’altra maledettissima volta, il suo intuito avrebbe visto giusto.
Doveva solo ricordarsi dove aveva lasciato la carica della pistola…
“John, senti, so che tutto questo è molto da assorbire per una…”
“…per una comune, del tutto ordinaria, noiosa persona come te. Forza Sherlock, so che lo stavi pensando.”
“Non è così.” “Tu devi uscire da qui, ora.” Disse John, scandendo bene le parole, in modo da rendere chiaro il concetto.
Le sue mani cominciavano a tremare, un cattivo segno, ed il suo cervello si stava finalmente abituando all'idea che Sherlock fosse veramente lì, con lui, in carne ed ossa e cappotto, altro pessimo, orribile segno.
John voleva rimanere arrabbiato con Sherlock per sempre, fargli pesare tutti quei giorni di solitudine a cui l’aveva sottoposto fino a farlo pregare in ginocchio che ritornasse da lui.
John sapeva perfettamente che non sarebbe mai successo, un Holmes che implora?, come non sarebbe mai successo che gli tenesse il broncio per più di un giorno.
“John, avevo calcolato che qualcuno ci sarebbe andato di mezzo durante il piano, ma andava fatto, per il bene di tuti. L’importante non è essere tornato?” Sherlock Holmes si rese conto troppo tardi delle parole appena dette, dandosi mentalmente dell’idiota per non essersi mai applicato con i fenomeni chimici chiamati sentimenti o con l’altruismo in generale.
“L’imp…Sherlock, ti rendi conto di quello che stai dicendo? Io non sono uno stupido giocattolino che puoi manovrare a tuo piacimento né una macchina senza sentimenti. Hai fatto finta di essere morto, lo comprendi? Abbiamo vissuto per diciotto mesi insieme, giorno per giorno, ma non ti sei fatto il minimo scrupolo a inscenare una stupida recita per chissà quale dannato piano con Moriarty! Io, Sherlock, io non riesco a credere di essere stato così ingenuo da farmi abbindolare da te. Ho detto di starmi lontano.” Disse, quando vide Sherlock davvero troppo vicino. Non gli avevano insegnato a non irrompere nello spazio personale di un’altra persona?
“John…”
“Ho detto fuori! Vattene, vattene e non tornare più. Io non ho bisogno di te!”
John non aveva molto chiaro il momento in cui si era accorto di averlo a pochi centimetri di distanza con le mani ancora alzate in posizione di difesa, ed era confuso l’istante in cui aveva semplicemente disteso le braccia e l’aveva abbracciato, senza pensieri e senza rimorsi.
Sentiva il corpo di Sherlock rigido sotto le sue dita e poteva anche capirne le motivazioni, tra sociopatia e solitudine.
Quando John si ricordò che aveva ancora una dignità da uomo virile, si staccò dall’abbraccio, schiarendosi la gola e guardando in tutte le direzioni meno che dalla parte nella quale stava un sorridente Sherlock.
“Credo che sia il momento di andare.” Disse tutto d’un tratto, stroncando il silenzio vibrante di imbarazzo e parole confuse.
Lo sguardo impaurito di John si scontrò contro quello di Sherlock. “Andare?” “Andare, certo, a casa. Credo non ci vorrà molto tempo a riportare i tuoi effetti personali al 221B, ma per il momento ho un sacco di casi a cui lavorare. Oh, devo ancora parlare con Mrs Hudson!”
Borbottava ancora tra sé, con quel suo modo di fare che a John era mancato come aria. Sorrise appena, continuandolo ad osservare.
Arrivato alla porta si girò nuovamente verso di lui.
“Avremo molte cose di cui parlare, stasera.” “Ne sono consapevole.” “Sono…”  Sono contento di essere tornato, non era poi così difficile, pensava Sherlock stizzito.
John aspettò che Sherlock finisse la frase, ma il continuo non arrivò. “Sei, cosa?” “Nulla, dimentica quello che ho detto. Ci vediamo stasera, prenoto da Angelo?” “Ovviamente.”
Sorrise ed uscì svelto dalla stanza. In un quarto d’ora quell’uomo aveva avuto il potere di rimescolare le carte in tavola per l’ennesima volta e John non ne era mai stato più entusiasta.
A chi importava se poi, andati al ristorante di Angelo, la gente li avrebbe scambiati per una coppietta che cenava al lume di candela? Quanto, questo, poi, andava oltre la verità?
E a chi importava se avrebbe dovuto rincominciare a fare le ore piccole e a sentire suonare il violino alle ore più improbabili della notte? A John andava bene così.
Uscì dal suo ufficio, andando verso la macchinetta dell’acqua. Troppe emozioni fanno disidratare il corpo? Doveva chiedere delucidazioni a Sherlock in merito.
“Buon paziente?” La voce di Elèna lo riscosse dai suoi pensieri. “Ottimo, direi.”

Ancora John Watson e Sherlock Holmes, ma con un qualcosa in più.

 

 


You are the hole in my head

You are the space in my bed
You are the silence in between
What I thought and what I said
You are the night-time fear
You are the morning when it’s clear
When it’s over your start
You’re my head
You’re my heart
[No light No light – Florence]



*Citazione di John Fante.
**Citazione di S. King
***Citazione di S. Meyer

Grazie a tutti per la lettura.
   
 
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