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Lista capitoli: Capitolo 1: *** [1] Mr. Hawthorne; Almeno uno dei Tre. *** Capitolo 2: *** [2] Vick Hawthorne; Adesso mi ricordo *** Capitolo 3: *** [3] Rory Hawthorne; Andiamo a casa *** Capitolo 4: *** [4] Gale Hawthorne; Nascere Tempesta ***
Capitolo 1 *** [1] Mr. Hawthorne; Almeno uno dei Tre. ***
Tutto ciò
che ho.
[Mr. Hawthorne, Vick, Rory, Gale]
______________________
Premessa. I protagonisti di questa
prima storia sono Mr. Hawthorne (Joel) e Hazelle, i genitori di Gale. La one-shot
è ambientata nel passato, quando i due sono ancora adolescenti.
[1]
Joel Hawthornesr.
Avrei voluto essere
un bravo studente,
un bravo figlio,
un bravo fidanzato,
o almeno uno dei tre.
Tutto ciò che ho.883
Il ragazzo dai capelli neri sbadigliò vistosamente e
distese le gambe sui gradini d’ingresso, intrecciando le dita dietro la nuca.
Il libro di testo dalle pagine spiegazzate che aveva sulle ginocchia minacciò
di scivolare a terra, ma il giovane lo bloccò con uno scatto della gamba. Si passò una mano fra i capelli arruffati,
mentre le dita dell’altra scendevano a tamburellare contro la copertina del volume.
Venne distratto da due ragazzini che rincorrevano un cerchio di metallo e, quando tornò a fissare la pagina, non ricordava nemmeno dove
fosse arrivato con la lettura. A stento conosceva l’argomento che stava
cercando di ripassare. Non era sorpreso: nei suoi sedici anni di vita non gli
era mai capitato di leggere una pagina dall’inizio alla fine senza
distrarsi almeno due o tre volte, figurarsi un intero capitolo. Non che gliene
fregasse più di tanto, in fondo. Per quelli del Giacimento come lui l’esame di
fine anno – l’unica prova scritta da dare in quel buco di Distretto – era inutile
quanto un piccone senza la sua parte d’acciaio. Tanto, una volta raggiunti i
diciotto anni, in miniera ci sarebbero andati tutti, perfino i fessi irrequieti
come lui. Le mezze seghe a scuola, quelli che trascorrevano più tempo fuori
dall’aula che non dentro, i ragazzetti che da piccoli venivano catalogati come
irrecuperabili, perché impossibili da gestire: svogliati, distratti e troppo
iperattivi. Ma per scavare e puntellare pareti di roccia dodici ore al giorno,
studiare e mantenere una buona condotta era pressappoco inutile. In miniera servivano
buon senso e spalle larghe, forza e ostinazione e JoelHawthorne, di quelle, ne aveva in generose quantità. Lo
chiamavano tutti “Testa calda”, per via del suo carattere impulsivo e ribelle e
il senso della giustizia esasperato che lo portavano spesso a perdere il
controllo alla minima provocazione. Perfino Margaret, la sua ragazza, stava
incominciando a stancarsi del modo in cui reagiva alle frecciatine e agli sguardi
canzonanti dei coetanei, quando volevano infastidirlo. Joel chiuse il libro e lo lasciò scivolare a terra, picchiettandosi
le ginocchia sulle mani. In momenti come quello faticava a stare fermo e i suoi
occhi frugavano il circondario di continuo, alla ricerca di distrazioni. Spesso
era costretto ad alzarsi in piedi e a camminare avanti e indietro, spinto da un
qualche motore invisibile che sembrava avere solo lui.
Scattò in piedi quando individuò suo padre Samuel all’inizio
della strada, con la sacca della selvaggina sulle spalle: doveva essere appena
tornato dal giro di scambi al Forno. Di solito Joel andava con lui, ma quel
giorno il padre gli aveva chiesto di restare a casa per studiare.
“Lascia, ragazzo, faccio da solo” lo tranquillizzò
Samuel, nel momento in cui il figlio lo raggiunse per farsi passare la sacca.
L'uomo gli posò una mano sulla spalla ed entrò in casa, non prima di aver scoccato un’occhiata
rassegnata al libro chiuso abbandonato sui gradini. Joel notò il gesto e sospirò,
dando un calcio a una pietra. Suo padre non l’aveva mai rimproverato più di
tanto, per via del suo scarso rendimento scolastico. C’erano cose più
importanti, gli diceva qualche volta, che un paio di nozioncine imparate a
regola d’arte e una schiera di insegnanti compiaciuti. Eppure, nel corso dell’ultimo
periodo, aveva sorpreso spesso lui e sua madre a rivolgergli occhiate
preoccupate, quasi deluse. Erano in pensiero per lui: sapevano che la sua
impulsività e il suo atteggiamento attaccabrighe avrebbero potuto fruttargli
dei guai, una volta che avrebbe incominciato a lavorare. Anche Margaret la
pensava così: spesso stringeva le labbra nella sua tipica espressione
contrariata, quando lo sorprendeva in giro per il distretto, sovrappensiero per
via dei motivi più disparati, invece che a casa con i libri di scuola aperti
sulle ginocchia.
“Torna a studiare,
testa calda!” lo spronava in un tono che avrebbe dovuto essere scherzoso, ma
che suonava più spazientito, prima di allontanarsi verso casa.
In quei momenti Joel si rifugiava nei boschi, abbandonandosi all’unica cosa che
riusciva a tenerlo concentrato per più di una manciata di minuti: cacciava a
lungo, mettendo da parte il pensiero di quelle cose che avrebbe dovuto ritenere importanti, ma che spesso gli sfuggivano, perchè troppo distratto da altro.
Margaret stava minacciando di diventare una di queste.
Sbuffando Joel raccolse il libro e incominciò a
bighellonare per la stradina, giocherellando con un angolo spiegazzato di una
pagina. Dopo qualche minuto si sentì addosso lo sguardo di un paio di ragazze
sedute sui gradini d’ingresso della casa di fronte. Una delle due aveva un
libro sulle ginocchia e stava probabilmente ripassando a sua volta per l’esame
finale. L’altra stava lavando dei panni in un catino di legno; quando incrociò lo sguardo di Joel, il ragazzo
la riconobbe: l’aveva vista qualche volta a scuola e doveva anche aver sentito
il suo nome, di tanto in tanto, ma in quel momento gli sfuggiva. Le due giovani
erano entrambe del Giacimento, lo si poteva intuire facilmente per via della
carnagione olivastra e dei capelli corvini, così simili a quelli di Margaret.
Quasi tutti i giovani originari del Giacimento li avevano neri e lisci. Quelli
di Joel, invece, erano mossi e spettinati, a tal punto da sembrare quasi ricci;
ribelli e ostinati, quasi volessero fare il verso al carattere del loro
proprietario. Rivolse alle due ragazze un sorriso sghembo e una delle due
ridacchiò, facendogli un piccolo cenno con la mano. L’attenzione di Joel,
tuttavia, si focalizzò sull’altra giovane, quella china sul catino per lavare.
I capelli leggermente ondulati le ricadevano morbidi sulle spalle,
incorniciando un viso dai lineamenti dolci. Il suo sorriso era meno vistoso di
quello della sua amica, ma i suoi occhi erano ancora occupati ad osservarlo,
più con curiosità che con interesse o sdegno – al contrario di come lo
fissavano spesso le sue coetanee.
“Che ti guardi, testa calda?” esclamò in quel momento un
ragazzo, uscendo dall’abitazione di fronte. Prese posto sui gradini di
fianco alla ragazza con il libro sule ginocchia. Cyron, il suo
vicino di casa, aveva l’aria giusta per uno che viveva da quelle parti: i suoi
capelli erano lisci, come era tipico per la gente del Giacimento e la sua aria fiera e controllata non veniva compromessa da
un’espressione spesso assente e distratta, o dagli scatti di impulsività che
erano tipici, invece, di Joel.
“La tua ragazza” rispose il giovane con un sorriso di
scherno, molleggiandosi sulle punte dei piedi. Nei momenti di nervosismo, il
motore invisibile che lo costringeva a muoversi di continuo accelerava. Cyron cinse le spalle della fidanzata con un braccio,
scoccando un’occhiata di sfida al coetaneo. Aprì la bocca per rispondere
qualcosa, ma la voce di Samuel Hawthorne si frappose
alla sua, mentre la testa dell’uomo spuntava dall’uscio della porta.
“Quattro vieni dentro, ho bisogno di una mano” ordinò al
figlio, fiutando il pericolo in arrivo. Cyron
inarcò un sopracciglio in direzione di Joel.
“Quattro?” esclamò, scuotendo il capo con espressione
divertita. “Cos’è, il voto più alto che hai preso a scuola?”
Joel scattò verso di lui senza riflettere, ma il padre lo
trattenne per il braccio.
“Vieni dentro, ragazzo” ribadì, indicando la porta con un
cenno del capo. Joel obbedì, pur liberandosi con uno strattone dalla presa di
Samuel.
“Come se tu prendessi voti molto più alti, Cyr…” esclamò in quel momento una delle due ragazze - quella
che stava lavorando - in tono di voce infastidito.
“Sta’ zitta, ‘Elle” fu la risposta brusca di Cyron. La ragazza gli rispose a tono, ma Joel era ormai
dentro e non riuscì a distinguere ciò che stava dicendo.
Qualche minuto più tardi, scostò le tendine della
finestra con uno strattone e sbirciò sui gradini d’ingresso dell'abitazione di fronte. Cyron e la sua ragazza erano ancora lì. La giovane col
catino, invece, se ne era andata.
*
Nonostante quel pomeriggio fosse riuscito a trattenersi,
lo stesso non si poté dire dei giorni successivi. Le provocazioni di Cyron continuarono e, un paio di pomeriggi più tardi, l’impulsività
di Joel ebbe la meglio sul buon senso, spingendolo ad avventarsi contro il
coetaneo. Lo colpì allo stomaco, ma ricevette a sua volta un pugno in pieno
volto, procurandosi un labbro ammaccato e un’aria furente che non lo abbandonò
nemmeno durante il ritorno a casa. Le sue dita tamburellavano con insistenza
sulla cinghia della sacca che usava per andare a caccia e, tanto era preso dal
rumore ritmico dei suoi polpastrelli contro la stoffa, quasi non si accorse che
qualcuno gli stava camminando a fianco. Istintivamente pensò a Margaret, ma nel
voltarsi riconobbe la ragazza che aveva attirato la sua attenzione di fronte a
casa di Cyron.
“Ehi, straniero!” lo appellò in tono di voce scherzoso la
giovane “Sembra un brutto taglio” commentò poi, analizzando con circospezione
il suo labbro.
Joel passò il dorso della mano della ferita per rimuovere
un po’ del sangue.
“Sto bene” minimizzò poi, in tono di voce un po' brusco. La ragazza inarcò appena un sopracciglio,
ma non ribatté. Non sembrava impressionata dai suoi modi di fare scontrosi. Joel cercò comunque di rimediare sorridendole, ma
sapeva che l’increspatura un po’ storta che arricciava le sue labbra quando lo
faceva risultava ammiccante, più che amichevole.
“Posso farti una domanda?” chiese a quel punto la
ragazza, attirando la sua attenzione. Joel diede una scrollata di spalle.
“Perché tuo padre ti chiama Quattro?”
Il giovane riprese a far tamburellare le dita sulla
bretella della sacca. Tentò di rimanere concentrato sulla domanda che gli aveva posto, ma continuava a distrarsi guardandola. C’era qualcosa di contraddittorio nel suo aspetto, che la rendeva particolarmente attraente ai suoi occhi. Forse era quell’aria ferma
e determinata che contrastava la dolcezza dei suoi lineamenti. O il modo
amichevole in cui gli sorrideva, nonostante i suoi occhi si ostinassero ancora
ad analizzarlo con attenzione, e una punta di circospezione tipica delle
persone del Giacimento.
“Mi piace il numero quattro” si limitò a rispondere, dando
un'altra scrollata di spalle. “Quando ero piccolo mio padre mi ricordava sempre di
contare fino a quattro prima di dire o fare qualcosa che avrebbe potuto
mettermi nei guai” aggiunse poi, nell’accorgersi che la giovane lo stava ancora
osservando incuriosita. "La gente, di solito, conta fino a cinque, ma per me
erano già troppi: mi distraevo prima. Così abbiamo scalato a quattro secondi.”
“E funzionava?”
chiese la ragazza. Joel le rivolse un sorrisetto malandrino.
“Non ha mai funzionato. Ma mio padre me lo ripeteva
talmente spesso che alla fine lui e mia madre hanno incominciato a chiamarmi
Quattro.”
La giovane si mise a ridere.
“È una bella storia, per un soprannome” ammise, tornando
a voltarsi verso di lui. “Forse il quattro è il tuo numero portafortuna.”
“Beh, il mio nome ha quattro lettere” rispose Joel,
passandosi una mano fra i capelli arruffati. “E un giorno avrò quattro figli”
aggiunse, sorridendo sghembo in direzione della sua interlocutrice. La giovane
rise di nuovo.
“Quattro, eh?” ripeté poi, scuotendo il capo con
espressione divertita. “Beh, buona fortuna a te e alla tua futura moglie,
allora!” proseguì, incominciando ad avviarsi verso una delle prime case sulla
sinistra: sulla soglia una donna seduta su una sedia era china su un asse di
legno, intenta a sfregare un panno con il sapone. Fece un cenno di saluto alla
ragazza e Joel intuì che dovesse trattarsi della madre. Avevano gli stessi
capelli lunghi e ondulati e la stessa aria ferma e determinata, mitigata dalla
dolcezza dei lineamenti del volto. Nell’osservarla all’opera, a Joel tornò in
mente il pomeriggio di due giorni prima, quando aveva sorriso alle due ragazze
sui gradini di fronte a casa di Cyron. Ricordò le provocazioni del suo vicino di casa e la
risposta a tono della ragazza che lavorava al catino. Cyron,
a quel punto, l’aveva chiamata ‘Elle. Fece mente locale per un po’, ma alla
fine riuscì a ricordare il suo nome completo.
“Ti
chiami Hazelle, vero?” chiese, rivolgendole un mezzo
sorriso compiaciuto. La giovane gli indirizzò un’occhiata sorpresa, prima di
ricambiare il sorriso.
“Allora
non sei così distratto come dicono!” osservò, incamminandosi verso la madre.
“Ci vediamo, straniero!”
Joel la osservò allontanarsi con espressione divertita,
passandosi una mano fra i capelli arruffati. Si sfiorò poi il labbro ammaccato
con il dorso della mano e sbuffò, riprendendo a camminare in direzione di casa
sua. Pensò ai suoi genitori, all’occhiata rassegnata che si sarebbero scambiati
nel vederlo tornare a casa conciato così, e anche a Margaret: a come aveva
stretto le labbra ancora una volta, dopo aver saputo della lite. Da quel
pomeriggio non gli aveva più rivolto la parola e probabilmente non l’avrebbe
fatto per un bel pezzo.
Scrollò poi le spalle, interrompendo bruscamente il
tragitto e si voltò, puntando verso il bosco. Il sorriso divertito di quella
ragazza, di Hazelle, stuzzicò più volte i suoi
pensieri, mentre controllava le trappole che aveva sistemato quel mattino.
Dovette fare il giro due volte, perché continuava a distrarsi e a
dimenticarsene qualcuna, ma quando alla fine contò la selvaggina, sorrise fra
sé, soddisfatto del ricavato. Erano scattate quattro trappole su sei: aveva
preso quattro conigli. Per la prima volta da quando aveva fatto a botte con Cyron mise completamente da parte il turbamento per quello
che non era, concentrandosi sul suo bottino di caccia. Avrebbe voluto essere
uno studente migliore, un figlio più diligente, un bravo fidanzato per Margaret… o
almeno uno dei tre. Tuttavia, forse, era stato proprio quel tre a fregarlo: il
suo numero era il quattro. Aveva fallito su tre fronti, ma prima o poi ne avrebbe dovuto affrontare un quarto e forse, su quello, se la sarebbe cavata meglio. Magari nel giro di qualche anno sarebbe diventato
un buon collega e un ottimo minatore, si disse. O un bravo marito. Forse un giorno sarebbe stato
un buon padre.
Rise fra sé e sé, dandosi mentalmente dell’idiota. Non
riuscì comunque ad evitare di sorridere, tornando a contare il numero delle sue
prede. Hazelle, Joel se lo sentiva, aveva avuto
ragione. Il quattro era decisamente il suo numero portafortuna.
Nota dell’autrice.
Nonostante abbia
già una raccolta sulla famiglia Hawthorne in corso e un
sacco di one-shot da concludere entro fine mese, ho
deciso comunque di lanciarmi in questa missione suicida. La canzone a cui è
ispirata questa raccolta, Tutto ciò che ho
degli 883 è una canzone che mi sta
particolarmente a cuore sin dall’infanzia e mi sono resa conto che i suoi versi
si associano piuttosto bene a come ho scelto di immaginare i maschietti della
famiglia Hawthorne (il babbo, Gale, Rory e Vick), così ho pensato di scrivere qualcosa per
ognuno di loro. Posy e Hazelle faranno comunque
comparsa nella maggior parte dei capitoli e nel penultimo, quello su Gale, c’è
anche Johanna Mason. Questo primo capitolo è dedicato a Mr. Hawthorne
da giovane. È piuttosto diverso dalla sua controparte adulta che mi è spesso
capitato di introdurre negli altri miei racconti incentrati sulla famiglia Hawthorne, ma io da ragazzo l’ho sempre immaginato un po’
una testa calda, soprattutto poiché nel
mio head!canon personale Joel era affetto da ADHD (Sindrome da deficit di attenzione
e iperattività) che ha come caratteristiche principali proprio iperattività,
impulsività e disattenzione. Il motivo di questa mia stramba decisione verrà
forse, un giorno, approfondito, quando troverò il coraggio e l’ispirazione per
scrivere su un certo personaggio che qualcuno già conosce. Mr. Hawthorne, comunque, ha conservato molte di queste
caratteristiche anche da adulto, in particolare l’impulsività, ma crescendo è
maturato molto e ha perso soprattutto molta dell’iperattività che lo
caratterizzava, per via del lavoro estenuante in miniera. Il soprannome, Quattro, mi è venuto in mente prima che
leggessi del caro Tobias in Divergent, ed è dovuto alle
questioni che avevo già accennato in E.Y.E.S. O.P.E.N.
e in FourChildren. FourNames. FourLetters. Mi ha sempre incuriosito il fatto
che i fratelli Hawthorne fossero quattro e tutti con
nomi da quattro lettere e mi è sempre piaciuto pensare che ci fosse una qualche
storia dietro a tutto questo. Penso di aver detto tutto. Il prossimo capitolo
sarà su Vick, anche se faranno
comparsa anche Posy, Hazelle e Gale. So che la
famiglia Hawthorne non è particolarmente popolare,
specialmente Vick e il babbo, ma non riesco proprio fare a meno di scrivere di
loro, ormai ci sono veramente tanto affezionata!
Capitolo 2 *** [2] Vick Hawthorne; Adesso mi ricordo ***
[2]
Vick Hawthorne
Avrei voluto
per un po'
non avere il
mio carattere,
il mio
corpo, la mia faccia
avrei voluto
anche se
poi ho
capito che ogni mattina
io c'ero
sempre,
ero sempre
con me
Tutto ciò che ho.883.
Vick mise la mano nel
secchio dell’acqua insaponata e la tirò fuori, creandoun cerchio con il pollice e l’indice. Ci
soffiò attraverso; il sottile strato trasparente intrappolato fra le sue dita
incominciò a lievitare, formando una piccola sfera. Il ragazzino ripeté l’operazione
più volte, sotto lo sguardo affascinato della sorella minore. Posy si mise a
ridere, quando una bolla di sapone incominciò a volteggiare lentamente verso di
lei. Tese la mano per afferrarla, ma esplose prima che riuscisse a toccarla.
“Anche io!” esclamò a quel
punto la bambina, immergendo a sua volta le mani nel secchio. Cercò di imitare
i movimenti di Vick e si soffiò con insistenza sulle mani, mentre la schiuma le
scivolava lungo i polsi. Il fratello la aiutò a formare un cerchio con le dita,
incoraggiandola a soffiarci attraverso. Assieme riuscirono a formare una terza
bolla, ma il maggiore dei due la fece scoppiare con un colpo di tosse. Posy
trovò la cosa divertente e si mise a ridere. Hazelle,
che stava lavando delle lenzuola, rivolse un’occhiata preoccupata al figlio:
Vick stava ancora tossendo.
“Non tenere le mani troppo
a lungo nell’acqua, va bene?” si raccomandò, sfregando la saponetta contro la
stoffa. Il bambino annuì e si asciugò le dita con uno strofinaccio. Quello era
il quinto giorno che passava a casa con l’influenza e, nonostante la febbre
fosse ormai quasi completamente scomparsa, lo stesso non si poteva dire della
sua tosse. Non era la prima volta che gli capitava di ammalarsi, quel mese.
Durante il periodo invernale Vick era spesso costretto a saltare la scuola per
motivi di salute. I suoi fratelli più grandi, al contrario, sembravano
ammalarsi piuttosto di rado e spesso lo sostituivano nelle piccole faccende che
gli spettavano, come il dover ritirare la biancheria sporca dai clienti della
madre. Quando stava male, di solito, Vick si teneva occupato aiutando la madre
in casa o con la sorellina. Gli piaceva badare a Posy, ma lo rattristava dover
trascorrere tutto quel tempo senza poter uscire, infiacchito dalla febbre.Avrebbe voluto poter accompagnare più spesso
i suoi fratelli nelle commissioni che spettavano loro, ora che era abbastanza
grande per poterlo fare. Rivolse un’occhiata titubante alla madre, mentre Posy
continuava a giocare con l’acqua delle bolle, seduta sul pavimento vicino a
lui.
“Più tardi posso portare i
vestiti puliti agli Undersee?” chiese, guardando poi
fuori dalla finestra. Individuò subito Gale, che si stava avvicinando alla casa
con dei ceppi di legna fra le braccia. Pochi secondi più tardi la porta della
cucina si aprì e il maggiore dei fratelli Hawthorne
fece comparsa sulla soglia. Posy gli trotterellò subito incontro, mostrandogli
con entusiasmo le mani insaponate.
“Questa settimana toccava a
me” proseguì Vick.
“Preferirei che tu ti
riprendessi del tutto, prima di uscire” rispose Hazelle,
spiegando un nuovo lenzuolo. “In questi giorni fa veramente molto freddo.”
“Posso farci un salto io,
dagli Undersee” si introdusse nel discorso Gale,
appoggiando i ceppi per terra, vicino al camino. Posy si aggrappò con le mani
ai suoi pantaloni e tirò, infastidita dalla mancanza di attenzioni nei suoi
confronti. Il maggiore la prese in braccio, appoggiando a terra con la mano
libera la borsa con il ricavato degli scambi fatti quel pomeriggio al Forno.
“Con la legna ho finito.”
Vick sospirò, appoggiando
la schiena al muro. Immerse lo sguardo nel secchio e si concentrò sulle bolle
di schiuma che scalfivano la superficie dell’acqua. Cercò di individuare il suo
riflesso, ma c’era troppo sapone perché potesse scorgere anche solo qualche
dettaglio del suo volto. Ad ogni modo sapeva già cosa avrebbe trovato,
specchiandosi. I suoi capelli neri e gli occhi grigi rendevano innegabili le
somiglianze con i suoi fratelli, nonostante lui avesse una corporatura più
gracile e mingherlina, rispetto a loro. Eppure nel suo aspetto fisico c’era
qualcosa che non lo convinceva, dettagli che non riusciva a far combaciare con
i volti dei suoi familiari. Anzitutto c’erano le lentiggini. Ne aveva poche,
appena una spruzzata sul naso e, nonostante le avesse anche sua madre, non era
sicuro che gli piacessero sul proprio volto. Stonavano un po’ con l’aria forte
e determinata tipica dei maschi della famiglia Hawthorne.
E poi c’era il suo sguardo, spesso assorto o distratto, al contrario di quello
fiero e attento – da Giacimento -dei
suoi familiari. Quando si guardava allo specchio erano quelle le prime cose che
notava: i piccoli dettagli di sé che lo rendevano diverso da Gale, da Rory o da suo padre.
“Vick?”
La voce di Hazelle lo distolse da quei pensieri: il ragazzino intuì
dalla sua espressione preoccupata che lo stava chiamando già da un po’. Posy,
che era tornata a sedersi di fianco a lui, lo stava tirando per la manica,
mentre con la mano libera giocava con la schiuma nel secchio.
“C’è qualcosa che non va,
amore?” chiese la madre, riconoscendo il turbamento nello sguardo del figlio
minore. Vickesitò, prima di scuotere la
testa. Si voltò verso Gale, che stava ravvivando il fuoco nel camino, e infine
tornò a rivolgersi alla donna.
“È solo che non capisco
perché mi ammalo sempre” rivelò infine, stringendosi le ginocchia al petto. “I
miei fratelli non si ammalano quasi mai.”
“Posy ha avuto la febbre
alta, la settimana scorsa” gli ricordò Hazelle. La
bambina annuì solennemente, come a voler confermare le sue parole.
“Sì, ma Posy ha due anni, è
ancora piccola” rispose, voltandosi verso la sorellina.Ed è
anche una femmina, avrebbe voluto aggiungere. Tuttavia si trattenne: anche
sua madre era una femmina, in fondo, ma
nemmeno lei si ammalava tanto spesso quanto lui. E poi era forte, molto più in
gamba di tanti uomini che conosceva. “Io ne ho già otto.”
“Non tutti siamo fatti allo
stesso modo, Vick” replicò con dolcezza la donna, “I tuoi fratelli si
ammaleranno anche meno, ma hanno altri difetti, così come tutti.”
Il bambino soppesò le sue
parole in silenzio, osservando Posy giocare con l’acqua insaponata.
“Però perché sono così diverso da loro?” concluse infine, rivelando il motivo
di tutte quelle domande. Era un pensiero, quello, che aveva incominciato a
punzecchiarlo già da qualche tempo, specialmente quando gli capitava di
guardarsi allo specchio.Ben nascosto
dietro a quell’aspetto da Hawthorne, seppur con
qualche piccolo errore intenzionale, riusciva a scorgere senza fatica il vero
Vick. Un ragazzino mite, gentile e riflessivo. Lui non era ribelle, né
orgoglioso, come suo padre o i suoi fratelli. Era determinatosenza essere impulsivo, spesso distratto e
immerso in fantasticherie tutte sue. “E da papà. Rory
e Gale gli assomigliano tanto, ma io no. Ho perfino le lentiggini!” aggiunse,
chinando il capo imbarazzato.
Gale distolse per un attimo
l’attenzione dal fuoco, per voltarsi verso di lui. Hazelle
si asciugò le mani nel grembiule e avvicinò la sedia ai due figli più piccoli.
“Quelle le hai prese da me”
rispose, indicandosi il volto con l’indice.“Anch’io ne ho un po’ sul naso, vedi? A tuo padre piacevano molto”
ricordò, sorridendogli con una punta di nostalgia nello sguardo. “Si divertiva
a cercare di contarcele.”
“Davvero?” chiese il
ragazzino, con espressione d’un tratto più ravvivata. Anche Gale abbozzò un
sorriso, mentre incominciava a sistemare la legna avanzata di fianco al camino.
Hazelle annuì.
“Aveva spesso la testa fra le nuvole, un po’ come te”
aggiunse poi con dolcezza, accarezzandogli i capelli. “Assomigli a lui e ai
tuoi fratelli molto più di quanto immagini.”
Vick le sorrise, rivolgendo
poi un’occhiata insospettita alla sorellina: Posy stava analizzando il
contenuto del secchio con espressione insolitamente seria. Improvvisamente
colpì l’acqua con entrambe le mani, per farla schizzare fuori dal secchio. Gli
spruzzi che si riversarono sul pavimento la fecero ridere divertita.
“Posy!” la ammonì Hazelle, allontanando il secchio dai due ragazzini. “Sei
una monella!”
Posy rise di nuovo,
nascondendo le mani dietro la schiena con espressione furbetta. Vick raccolse
la bambola della sorella da terra e la spostò di lato, per evitare che si
bagnasse.
“Solo che ogni tanto non
sembra” proseguì nel suo discorso il ragazzino, mentre Posy si riappropriava
del giocattolo. “Negli altri si vede di più. Gale è forte come papà. E Rory fa sempre ridere tutti come faceva lui. Perfino Posy…”
aggiunse, tornando a guardare la bambina. “…lei non sta ferma un attimo.
Proprio come papà.”
“Come papà!”
ripeté Posy con orgoglio, indicando con l’indice Gale, che stava ancora
trafficando con la legna per il fuoco. Era girato di spalle e non se ne
accorse, così Hazelle riuscì a correggerla senza che
il ragazzo lo notasse.
“Sì, il papà era
un po’ discolo come te” rispose alla piccola, incastrandole una ciocca di
capelli neri dietro l’orecchio. “E anche tuo fratello Gale non scherza!”
Gale abbozzò un sorrisetto divertito esi voltò nuovamente verso di loro. Allungò un
braccio per fare il solletico alla sorellina e Posy ridacchiò, rannicchiandosi
su se stessa per proteggersi dall’attacco.
“Monello!” esclamò
poi imitando il tono di voce fermo della madre, indicando di nuovo il fratello
con l’indice.Gale e Vick si misero a
ridere.Il maggiore la stuzzicò ancora
un po’ e poi tornò a controllare il fuoco.
“Anche
tu hai tanto di papà, Vick” aggiunse poi, rivolto al ragazzino.
“Tuo fratello ha ragione” aggiunse Hazelle,
sorridendogli con dolcezza. “Hai il suo buon cuore. Sei premuroso e faresti di
tutto pur di vedere felice la tua famiglia. Ti prendi cura di Posy e tu e Rory vi guardate le spalle a vicenda. Tuo padre, poi, era
un sognatore come te. E questa è una cosa che non si può dire di molte persone,
specie per chi vive al Giacimento.”
“Papà era anche un distrattone come te” lo prese in giro
suo fratello, arruffandogli giocosamente i capelli. “Quando sei concentrato su
qualcosa e non ci rispondi mentre ti parliamo, sembri proprio lui.”
Vick sorrise con
orgoglio.
“Non mi ricordavo che anche papà fosse così” mormorò
infine, guardando prima Gale e poi sua madre. “Ricordo solo che era forte e che
mi faceva sempre ridere. E che non era mai stanco, anche quando tornava a casa
dal lavoro. Ogni tanto, di sera, facevamo a braccio di ferro e mi lasciava
sempre vincere.”
“Papà era molto fiero di te” rivelò con dolcezza Hazelle, chinandosi per dare al figlio un bacio sui
capelli. Sollevò poi un lenzuolo dalla cesta dei panni sporchi e tornò a
lavorare. “Forse non te l’abbiamo mai raccontato, ma quando ero incinta di te
ci sono stati un po’ di problemi. Non stavo molto bene e, durante la
gravidanza, abbiamo rischiato grosso tutti e due.Ma alla fine l’abbiamo spuntata” aggiunse,
sorridendo complice al terzogenito. Vick le rivolse un’occhiata sorpresa.
Un’insolita fitta di orgoglio gli punzecchiò lo stomaco.
“Pensi di essere
da meno rispetto ai tuoi fratelli perché sei spesso malato. In realtà, forse, è
proprio per questo che sei così forte. Tu non ti arrendi mai, Vick. Sei un osso
duro,proprio come lo era vostro padre.
E come lo sono i tuoi fratelli.”
“Anche io!” si introdusse nel discorso Posy, alzando le
braccia. Hazelle si mise a ridere.
“Anche tu, sì” confermò, scoccandole un’occhiata
intenerita. Vick sorrise a sua volta e si chinò in avanti per dare un bacio
alla sorellina. Gale finì di sistemare la legna di fianco al camino e li
raggiunse.
“Stavo pensando che Vick potrebbe venire con me a caccia,
questo fine settimana” propose, arruffando i capelli del ragazzino. “Ho bisogno
di qualcuno in gamba che mi dia una mano con le trappole e tu, ormai, sei
abbastanza grande per farlo” aggiunse, rivolto al fratello. Il volto di Vick si
illuminò. Hazelle gli rivolse un’occhiata apprensiva.
“Ha ancora molta tosse…” osservò, titubante.
“Starà meglio per sabato” la rassicurò il figlio
maggiore.“La madre di Catnip mi ha dato un po’ di erbe che dovrebbero aiutare. E
poi gli farà bene uscire un po’: lo imbacuccheremo per bene, non preoccuparti”
aggiunse, sotto lo sguardo ancora dubbioso della madre. Vick era raggiante:
l’idea di cacciare con arco e frecce non lo attirava più di tanto – lo
intristiva il pensiero di uccidere degli animali, anche se sapeva che non
potevano evitarlo – ma gli piaceva aiutare e stava diventando piuttosto bravo a
fabbricare trappole.
“Non lo chiedi a Rory?” domandò
poi, sollevando il capo per incontrare lo sguardo di Gale. Il pensiero di
accompagnare lui e Katniss nei boschi lo faceva sentire orgoglioso, ma aveva
sempre pensato che quel compito spettasse più al secondogenito di casa Hawthorne che non a lui. Il maggiore dei due scosse il
capo.
“Rory ci ha accompagnato il
mese scorso, questa volta tocca a te. Te la caverai benissimo; sei più
silenzioso di lui e questo è un gran bel pregio, per un cacciatore” concluse,
dandogli una pacca sulla spalla. Uscì poi nuovamente dall’abitazione, per
andare a prendere altra legna.
Vick si alzò per svuotare il secchio dell’acqua con cui
avevano giocato lui e Posy. Quando tornò indietro per piegare la biancheria
lasciata asciugare vicino al camino stava ancora sorridendo.
“Davvero papà mi contava le lentiggini?” chiese poi alla
madre, tornando a sedersi di fianco a lei. Hazelle
rise.
“Oh,
sì. Ci provava, per lo meno” aggiunse, scuotendo poi il capo con espressione
divertita. “Di solito non andava mai oltre le prime dieci, perché si distraeva
prima.”
“Era
proprio come me!” esclamò il bambino, con un sorriso. Quello lo poteva capire
bene, si disse. Anche a lui capitava spesso di incominciare qualcosa, ma di
perdersi in qualche pensiero a punto tale da dimenticarsi di proseguire con ciò
che stava facendo. Hazelle annuì, serbandogli
un’occhiata intenerita.
“E
quando capiva di aver perso il conto, alzava le spalle, ti faceva il solletico
e diceva: sei troppo bello, mi fregherai
tutte le fidanzate,fra qualche annetto!
E tu ridevi.”
Vick intrecciò le dita dietro la nuca e sorrise, cercando
di ricordare il tono di voce bonario del padre. La sua mente evocò il sorriso
un po’ storto di Joel Hawthorne e la sicurezza che
emanava la sua presa quando sollevava il figlio per i fianchi, per sistemarselo
sulle spalle.Il ragazzino chiuse gli
occhi per un istante, concentrandosi solo su quell’immagine.
“Adesso
sì” mormorò infine, riaprendoli e sorridendo sereno alla madre.“Adesso me lo ricordo.”
*
Il sabato mattina Vick si svegliò molto prima rispetto al
resto della famiglia e si vestì in silenzio. Aveva ancora la tosse e si sentiva
un po’ fiacco,ma era già più in forze
rispetto ai giorni precedenti. Si mise il giubbotto, i guanti e la sciarpa, per
evitare di prendere troppo freddo. Qualche minuto più tardi, mentre anche Gale
si alzava per vestirsi, si diede un’occhiata allo specchio, lo stesso che un
tempo usava suo padre per farsi la barba la mattina presto. Esaminò con
attenzione il suo riflesso / e, per la prima volta da giorni, ignorò le guance
pallide e le labbra screpolate, concentrandosi sul resto. Quel mattino riuscì a
scorgere per la prima volta suo padre, nel proprio sguardo un po’ assorto. Si
soffermò anche sui piccoli dettagli del suo aspetto che appartenevano a lui e a
lui soltanto, ma si accorse di non trovarli poi così fastidiosi, come aveva
pensato qualche giorno prima.
“Sei pronto?” gli chiese Gale, avvicinandosi. Vick annuì;
scoccò al suo riflesso un’ultima occhiata impensierita e alzò la testa, per
poter guardare il fratello negli occhi.
“Mi piacciono le mie lentiggini” annunciò infine con
convinzione, abbozzando un sorriso. Gale ricambiò, osservandolo divertito.
“Non sono male, in effetti” rispose, recuperando la borsa
per la selvaggina. “Secondo me piaceranno anche alle ragazze” scherzò poi,
spettinandogli giocosamente i capelli. Vick arrossì sorridendo al suo riflesso
un’ultima volta, prima di seguire il fratello maggiore.
“Lo diceva anche
papà” ammise infine con espressione serena, concentrandosi sul ricordo di quei
momenti. E per un istante fu quasi convinto che, se solo avesse alzato lo
sguardo,avrebbe incrociato quello del
padre, intento a strizzargli l’occhio con orgoglio.
Nota dell’autrice.
Ed ecco qui la seconda storia di questa
raccolta! Questa volta il protagonista del racconto è Vick, anche se Gale
spunta sempre fuori come il prezzemolo, perché proprio non riesco a trattenermi
dall’inserirlo ovunque! Vick è probabilmente il membro della famiglia Hawthorne di cui sappiamo meno (a parte probabilmente il
babbo) però, per qualche strana ragione, ci sono particolarmente affezionata.
L’ho sempre immaginato come il più tranquillo della famiglia, dolce e un po’
sognatore, specialmente da piccolo. In questa storia ha più o meno otto anni,
mentre nella prossima su Rory, che sarà ambientata
circa tre anni dopo, lo vedremo leggermente cambiato, più maturo e decisamente
meno insicuro. L’ho anche sempre immaginato come il più cagionevole dei
quattro, non so nemmeno perché. Nei libri viene accennato alla sua tosse solo
una volta, ma nel mio head-canon personale è fragile
e si ammala spesso, come viene accennato anche in The MinerSaw a Comet
e in altre mie storie sulla famiglia Hawthorne.
Sempre nel mio head-canonalla sua nascita ci sono state alcune
complicazioni, e lui è nato prematuro di un mese, ma questa è una cosa che
verrà poi approfondita nell’ultimo capitolo della raccolta. Nella storia ci
sono, tra l’altro, un paio di riferimenti a The winnerlosesitall, l’altra storia Vick!centric
che ho scritto, come il fatto che Vick e Joel giocassero spesso a braccio di
ferro, quando lui rincasava dal lavoro. Passando poi a Posy, devo dire che
immaginarla così nanerottola, appena duenne, è stato particolarmente
divertente xDHo sempre immaginato che vedesse in Gale una figura paterna, non avendo
conosciuto il suo vero padre, e questo si riflette nel suo comportamento. È per
questo che, come menziona Gale in Torna a Casa
e come si vede qui, ma anche in How to Catch a Comet, è capitato che chiamasse suo fratello papà. Gale, tra l’altro, era
particolarmente rilassato in questa storia, ma l’ho sempre immaginato
abbastanza giocoso con i suoi fratellini, specialmente nel periodo pre-Hunger Games. Bene, mi sa che ho detto tutto. La
prossima storia sarà su Rory e faranno comparsa anche
Posy e Vick. Spero davvero che questa
storia possa esservi piaciuta! So che Vick è un personaggio abbastanza
bistrattato e forse è proprio per questo che ci tenevo a scrivere qualcosa
incentrata sul suo punto di vista.
Grazie infinite alle persone che hanno lasciato una
recensione alla one-shot precedente, cercherò di
rispondere il prima possibile! Un abbraccio e a presto!
Laura
P. S. Se amate scrivere/leggere storie nel fandomHunger Games, venite a
fare un giro nel gruppo The Capitol!
Vi attendono persone pazzerelle, iniziative per chi scrive, giochini ad
eliminazione e un Gale e un Finnick già li pronti a
darvi il benvenuto u.u
Capitolo 3 *** [3] Rory Hawthorne; Andiamo a casa ***
[3]
Andiamo a Casa
E
avrei voluto andare via
quando
questa cittadina
l'ho
sentita stretta addosso
non
la credevo più mia,
avrei
voluto stare anch'io
in
un posto dove il mio destino
non
fosse già scritto.
Tutto ciò che ho.883.
I fili metallici aggrovigliati
vibrarono tra le mani del ragazzo, stuzzicati dal vento.
Rory sbuffò, tentando di
sistemare i ciuffi di capelli che gli ricadevano sulla fronte. In quel periodo
le correnti d’aria si erano fatte più insistenti, compensando l’ormai frequente
sole primaverile. In passato il giovane avrebbe provato indifferenza nei
confronti di quella brezza continua; tuttavia, da quando aveva fatto ritorno al
Distretto 12, il vento era solo una delle tante cose che lo irritavano. Gli
ricordava un passato in cui i boschi significavano solo caccia e libertà e non erano
un rifugio disperato per sfuggire ai bombardamenti. Gli ricordava Prim, le cui
guance spesso pallide si arrossavano per l’aria fredda, facendola sembrare
ancora più bella. E gli ricordava suo fratello, che portava il nome della
burrasca: quel fratello che se n’era andato portandosi dietro un po’ della
vitalità della sua famiglia. Come fa la brezza che scompare e che rende
apatiche le onde, il fogliame. Gli sguardi delle persone.
Forse era anche per quello, per
il vuoto che impregnava casa sua, che aveva incominciato a vagabondare sempre
più spesso per i boschi. Da quelle parti il silenzio risuonava sempre di
qualcosa: uno zampettare improvviso, lo scricchiolio delle foglie. Erano rumori
lievi, che sapevano tenergli compagnia senza mai essere troppo invadenti. Di
tanto in tanto si mescolavano ai passi di qualche persona; spesso mentre
cacciava Rory aveva incrociato Katniss, ma di rado i due si erano scambiati più
di un lieve cenno del capo. Qualche volta lei si era soffermata a guardarlo e
il ragazzo aveva ricambiato con espressione dura; sapeva che la ragazza stava
pensando a suo fratello e i primi tempi le aveva dato sue notizie, dicendole
che stava bene e che le portava i suoi saluti. Lo faceva più che altro per
provocarla; Katniss non gli aveva mai risposto con più di qualche cenno, ma
Rory sapeva che apprezzava quei brandelli di informazioni. Per questo, dopo
qualche tempo, smise di tenerla al corrente: non se lo meritava.
Sospirando, Rory sistemò l’ultima
trappola e percorse a ritroso il bosco. Si schermò gli occhi con la mano e
analizzò i profili delle case oltre il Prato, avvertendo un ormai familiare
senso di oppressione. Il filo spinato che separava gli abitanti del Distretto
dalla libertà era stato tolto da tempo; eppure, per certi versi, Rory lo vedeva
ancora. Se lo sentiva attorno al petto, con meno spine, ma legato stretto per
ancorarlo al posto in cui era nato e che non riconosceva più. Sapeva che non
avrebbe dovuto sentirsi così: dopotutto lui era un Hawthorne, un figlio del
Giacimento. Il suo passato e il suo futuro erano incisi nel Distretto Dodici,
ma da tempo quel posto non era più casa sua. Era cambiato tutto e troppa gente
se n’era andata. C’erano sua madre e i suoi fratelli minori, certo, ma le
responsabilità che sapeva di avere verso di loro erano solo un ulteriore filo
di recinzione che si sentiva stretto addosso. Se solo ci fosse stato qualcun
altro a coprirgli le spalle, ad aiutarlo a prendersi cura della sua famiglia,
forse sarebbe stato diverso.
Si chinò per prendere un sasso e
se lo passò da una mano all’altra, sforzandosi di ignorare la rabbia e
l’impotenza che premevano contro il suo petto.
“Mi manchi” borbottò infine,
scagliando la pietra in direzione del Prato; non sapeva a chi si stesse
riferendo. Forse a suo padre o a Gale; forse a Prim. Tutto ciò che sapeva era
che voleva andarsene in qualche posto che sapesse farlo sentire a suo agio. Un
luogo dove le case e i negozi e gli erano familiari e i posti in cui andava a
giocare da bambino, come il Prato, non erano diventati dei cimiteri. Voleva
soltanto andare a casa, ma ancora una volta non ne aveva una.
Tornò ad addentrarsi nel bosco, diretto
verso il lago. Dopo un paio di minuti lo raggiunse un rumore di passi; Rory roteò
gli occhi, infastidito da quella presenza. Ipotizzò che si trattasse di Maki,
la ragazza dai capelli rossi e la lingua lunga che sembrava sempre volersi fare
i fatti suoi. Non che le sue osservazioni vispe gli dessero poi così fastidio: Maki[1] gli piaceva,
era un bel tipo. Ma non le voleva bene quanto ne aveva voluto a Prim.
Nessuna gli sarebbe mai piaciuta
nel modo in cui gli era piaciuta Prim.
“Ehi…”
Il nuovo arrivato lo raggiunse e
si mise a camminare di fianco a lui; non era Maki, ma Vick.
“Tutto okay?” chiese il minore
dei due ragazzi, indirizzandogli un’occhiata attenta.
Rory si affrettò ad annuire,
ricambiando il suo sguardo; suo fratello era cresciuto molto nel corso degli
ultimi due mesi. Da quando erano tornati nel Distretto 12 si era irrobustito,
si ammalava meno ed era ormai quasi alto quanto lui. Uno sconosciuto avrebbe
incontrato qualche difficoltà nell’individuare fra loro due il maggiore.
Camminarono in silenzio fino al
lago, una delle sue mete preferite durante i vagabondaggi nei boschi. Vick non
ci passeggiava spesso, ma da un paio di settimane a quella parte aveva
incominciato a frequentarlo con maggiore assiduità. Non aveva detto perché, ma
Rory non aveva bisogno di parole per comprenderne il motivo: suo fratello era
preoccupato per lui. Bastavano il suo sguardo impensierito, i sorrisi
incoraggianti e le pacche sulla schiena a suggerirglielo. Era in pensiero per i
suoi silenzi, così inusuali nel ragazzo mattacchione che gli era cresciuto a
fianco per undici anni, a solo una spanna di altezza di distanza.
Rory era irritato e rincuorato al
tempo stesso dalle premure del fratellino. Da quando Gale si era trasferito
toccava a lui fare squadra con la madre per tenere d’occhio Vick e Posy e avrebbe
voluto essere in grado di fare tutto da solo, come faceva suo fratello. Per
questo si arrabbiava quando si rendeva conto di non esserne in grado. Al tempo
stesso, tuttavia, gli faceva bene poter condividere, di tanto in tanto, qualche
responsabilità con le spalle più magre, ma altrettanto resistenti, di Vick.
Cercava comunque di tenerle sulla propria schiena, ma lo confortava sapere che,
se solo fosse scivolato, suo fratello sarebbe stato lì, pronto a dargli una
mano. Proprio come lui, qualche volta, aveva cercato di fare con Gale.
“A cosa pensi?” chiese infine,
spezzando il silenzio e chinandosi a terra per raccogliere un altro sasso; Vick
lo imitò. A turno, scagliarono la propria pietra e contarono i rimbalzi
sull’acqua, per vedere chi ne faceva di più.
“In realtà non lo so” ammise il
minore, prendendo un secondo sasso. “Ogni tanto penso a talmente tante cose che
si mescolano tutte e non riesco a capire quali siano. O se sono cose che mi
preoccupano.”
Scrollò le spalle e si sedette a
bordo del lago.
“Tu?”
Rory sospirò. Fissò lo specchio
d’acqua e rincorse i rimbalzi della sua pietra, ma quando arrivò alla fine
realizzò di non essere riuscito a tenerne il conto.
“Penso a questo posto” rispose
infine, dando un calcio al terreno per smuovere qualche sasso. Ci rinunciò, non
trovandone di abbastanza piatti, e si accovacciò di fianco al fratello. “Certe
volte vorrei essere da un’altra parte.”
Vick si scostò dagli occhi la
frangetta arruffata dal vento.
“Succede anche a me” ammise
infine, voltandosi verso il maggiore. “È solo che non so dove vorrei essere.”
Rory riprese a tormentare il
terriccio con un bastoncino e liberò un sasso. Annuì alle parole del ragazzino,
sentendosele risuonare dentro in un timbro arrabbiato che non aveva nulla a che
vedere con la voce pacata di Vick. Sbuffò e scagliò con forza la pietra in
acqua.
“Se solo quel cretino di nostro
fratello fosse qui…” mormorò infine con sguardo indurito.
Vick lo esaminò con attenzione,
prima di dargli un colpetto con la spalla.
“Andrà tutto bene” affermò, rivolgendogli
uno dei suoi sorrisi fiduciosi.
Rory lo squadrò con un sopracciglio inarcato.
“Certo che andrà tutto bene, mocciosetto”
replicò, arruffandogli i capelli. “Ma sono io che dovrei dirlo a te, non il
contrario.”
“E se lo dico io a tutti e due?”
Una voce esile li sorprese alle spalle.
Rory trasalì, ma da infastidita la sua espressione si fece incredula nel
momento in cui incrociò lo sguardo birichino della sorella minore.
“Buh!” esclamò Posy, aprendo
entrambe le mani e mostrandogliele.
“Come ci sei arrivata qui?” domandò un perplesso Vick,
mentre la bambina li spingeva entrambi da parte per sedersi in mezzo a loro.
“Chi ti ha dato il permesso di girare da sola per boschi,
nanerottola?” sbottò Rory, squadrando con nervosismo la sorella.
Posy fece spallucce e si mise a gambe incrociate.
“Cercavo della legna per la mia torre[2]” spiegò con
fare pratico. “Poi ho visto Vick e l’ho seguito; per questo vi ho trovato.”
“Non mi interessa, sei troppo piccola per andare in giro da
sola” sentenziò il maggiore dei tre, indicandola con un cenno brusco del capo.
Posy lo guardò storto.
“Guarda che le femmine sono più intelligenti dei maschi,
l’hanno detto a scuola. E io sono una femmina” ribatté, mettendosi a braccia
conserte.
Rory e Vick si scambiarono un’occhiata esasperata. Da quando
la piccola di casa Hawthorne aveva incominciato le elementari, giustificava
qualsiasi idea strana che le veniva in mente sostenendo di averla imparata a
scuola.
“Che stavate facendo?” chiese a quel punto la ragazzina,
agitando le ginocchia. Vick le fece una carezza sulla testa.
“Quattro chiacchiere” le rispose, mentre Rory sottolineava
il numero quattro facendole segno con la mano[3].
Posy si mise a ridere.
“In realtà dovrei andare a controllare le trappole” si
ricordò il maggiore dei tre, alzandosi in piedi. “Venite anche voi?”
Nel sentir parlare di caccia l’espressione della sorella si
fece tutto a un tratto più tesa. Acconsentì comunque, afferrando la mano di
Vick che l’aiutò a rimettersi in piedi.
“Quando torna Gale?” chiese poi la bambina, mentre i tre
fratelli s’incamminavano verso la radura più vicina. Ancora una volta, i due
maschi si scambiarono un’occhiata.
“Non lo so, sorellina” ammise infine Rory, arruffandole i
capelli. “Ma nel mentre ci siamo io e Vick con te. Il Vittorioso e il Re Rosso[4].”
“Il cavaliere e il buffone di corte” scherzò Vick, indicando
prima se stesso e poi il fratello. Il maggiore gli diede una spallata.
“Mr. Muscolo e l’Uomo Stecco, piuttosto” ribatté, gonfiando
i bicipiti e accennando poi con un cenno del capo al fisico magro, seppur più
robusto rispetto a un tempo, del fratellino.
Ridacchiando, i due ragazzi incominciarono a spintonarsi. Le
loro scaramucce riuscirono a strappare un sorriso a Posy, ma gli occhi della
bambina erano ancora velati dall’apprensione. Rory studiò la sua espressione
con fare pensoso, prima di riprendere a parlare.
“Senti un po’, Pos…” incominciò, circondandole le spalle con
un braccio. Tentennò, indeciso se proseguire con la frase o meno. “… Ti va di
imparare a giocare a scacchi?” propose infine.
Lo sguardo della ragazzina si illuminò all’istante. Persino
Vick sembrò sorpreso dalle parole del fratello. Rory non se ne stupì; erano
mesi che Posy lo supplicava di spiegarle le regole degli scacchi, ma lui si era
sempre rifiutato. L’ultima volta che ci aveva giocato erano ancora al Distretto
13 e la sua avversaria era stata Prim; da allora non aveva più nemmeno preso in
mano le pedine.
Forse, però, era giunto il momento di darsi una scrollata e
cercare di rimettersi in sesto. Lo doveva a Vick, che vegliava su di lui con
costanza, senza mai chiedere nulla in cambio. Lo doveva a sua madre, che sorprendeva
sempre più spesso a fissare il telefono sovrappensiero, come se sperasse
continuamente in una telefonata del suo primogenito. E soprattutto lo doveva
alla sua sorellina, che nel corso dell’ultimo periodo non aveva fatto altro che
cercare di tendergli la mano, di intercettare il suo sguardo, di pretendere da
lui attenzioni che non era stato in grado di darle.
Posy non aveva mai avuto un padre, eppure con la partenza di
Gale se ne era sentita portare via uno. Chi, se non Rory, avrebbe potuto
cercare di ridurre quel vuoto?
“Dici davvero?” esclamò la bambina, aggrappandosi alla sua
mano. “Mi insegnerai come papà ha insegnato a te e a Vick?”
L’adolescente annuì.
“Solo se prometti che cercherai di battermi, però” precisò
poi, facendole l’occhiolino. “Vick non ci è mai riuscito.”
“Io invece ti batterò!” replicò decisa Posy, tendendo le
dita libere per stringere quelle dell’altro fratello. “Io e Vick assieme.”
“Vedrai, lo stracceremo” intervenne a quel punto il mezzano
dei tre, sorridendole complice. “Io e te contro la principessa Rory.[5]”
“Tu oggi cerchi grane, Vittorioso” lo rimbeccò il maggiore
con un sorrisetto; spintonò entrambi i fratellini, che sbandarono verso destra.
Vick ricambiò la spinta e Posy, al centro della zuffa, si lasciò trascinare qua
e là ridacchiando, aggrappandosi alle mani dei due più grandi.
Rory rise a sua volta, osservando le espressioni allegre dei
suoi fratellini. Una sfumatura di orgoglio gli velò lo sguardo; avrebbe dato il
mondo per farli sorridere e quando riusciva a farlo anche il suo umore
migliorava. Certe volte gli capitava di pensare che gli sarebbe piaciuto essere
diverso; avrebbe voluto essere più temerario e sfrontato, lui che faceva lo
spaccone solo per finta. Avrebbe voluto essere più come suo fratello Gale e
meno come se stesso. Ma quando alla sua famiglia tornava il sorriso grazie a
lui riusciva a sentirsi meno scontento e un po’ più fiero di quello che era. I
modi scherzosi e l’aria da finto sbruffone, in fondo, erano tutto ciò che gli
rimaneva del Rory di una volta, quel ragazzino che non aveva molto, ma che
stava bene, perché il poco che aveva gli era famigliare. E anche se un giorno
avesse trovato il modo di andarsene da quel luogo che non gli calzava più,
probabilmente non sarebbe cambiato nulla. Perché era lui a non sentirsi più a
posto da nessuna parte; non era il resto a essere cambiato.
“Mi insegni adesso?”
Posy lo distolse da quei pensieri, facendo oscillare le loro
mani intrecciate.
“Andiamo a casa?” chiese ancora la bambina, guardando prima
lui, poi Vick.
Rory intercettò lo sguardo del mezzano e ricambiò il suo
sorriso d’intesa: gli venne facile intuire a cosa stesse pensando. I suoi
fratelli e sua madre – la sua famiglia – erano la prova che, per quanto il
Distretto 12 fosse cambiato, in fondo si trovavano ancora a casa. Perché con
Gale lontano e senza Prim, loro tre erano tutto ciò che aveva. Casa
erano gli spintoni e i capelli arruffati di Posy e Vick, che si stavano
sforzando in tutti i modi di fargli perdere l’equilibrio. Erano le mani
intrecciate dei tre fratelli, gli occhi grigi dal taglio simile, la
determinazione dei loro sguardi.
Casa era una parola da quattro lettere, come i loro nomi:
perché la casa, adesso, erano loro.
“Sì” acconsentì, camminando addosso alla sorellina per spingerla
ancora una volta verso destra. Posy ridacchiò, subito imitata dai fratelli
maggiori. “Andiamo.”
Note Finali.
Purtroppo sono veramente una frana con la costanza e questa
raccolta è rimasta ferma per quasi un anno, proprio come era successo con l’altra
sulla famiglia Hawthorne -\- Sono un disastro, ma siccome mi infastidisce
vederle incomplete, ogni tanto mi viene il pallino di provare a proseguire e
così ho cercato di scrivere il terzo capitolo. Questa volta toccava a Rory e il
risultato della one-shot, purtroppo, non mi soddisfa per niente. Credo che la
storia sia piuttosto piatta, ma avendola plottata ormai praticamente l’anno
scorso, non riuscivo a farmi venire in mente niente di diverso per lui su
quella strofa di canzone, così ho mantenuto la mia idea iniziale. Spero tanto
che non risulti troppo noiosa! La one-shot, ovviamente, è ambientata dopo il ritorno
della famiglia Hawthorne (Gale escluso) al Distretto 12, quindi dopo la
rivolta. Il prossimo capitolo, invece, sarà quello su Gale e dovrebbero fare
comparsa anche Johanna e un piccolissimo Joel Jr. (il figlioletto di Gale).
Non
so se qualcuno si ricorda di questa raccolta, purtroppo è passato veramente un
sacco di tempo dall’ultimo aggiornamento. Spero davvero che a qualcuno possa
piacere ugualmente, prometto che tenterò di scrivere qualcosa di un po’ più
decente per i prossimi due capitoli!
[2]Riferimento a “Il cielo non
crolla (ed io nemmeno)”, dove Posy, aiutata da alcuni abitanti del
Distretto 12, decide di costruire una torre di legno dietro casa sua.
[3]Rory ha una fissazione per le parole da quattro
lettere, ereditata dal padre Joel (come viene raccontatosoprattuttoin E.Y.E.S. O.P.E.N.
)
[4]Vick significa “vincitore,
conquistatore, vittorioso”. Rory significa “Re Rosso”. I due ragazzini giocano
spesso sul significato dei loro nomi, perché il loro papà, Joel, era molto
fissato con questa cosa, come viene mostrato raccontato in Hazel Proposal,
ma soprattutto nella raccolta sul significato dei nomi dei quattro fratelli
Hawthorne: Four
children. Four names. Four letters.
[5]Altro riferimento a “Il
cielo non crolla (ed io nemmeno)” in cui Posy decide inizialmente di essere una
principessa dai capelli rosa, ma cambia idea preferendo poi essere una fata. A
quel punto propone di far fare a Rory la principessa e da allora Prim e gli altri
fratelli Hawthorne lo prendono in giro per questa storia.
Capitolo 4 *** [4] Gale Hawthorne; Nascere Tempesta ***
Premessa. Questa storia è ambientata
circa otto anni dopo la Rivolta. Gale vive nel Distretto 2 assieme a suo
figlio, Joel Jr., avuto da una relazione con una donna di nome Sapheen. Da quasi un anno assieme a loro vive anche Johanna
Mason. Questa one-shot è stata scritta grazie al promptGale/Johanna – ‘Questo coso spara pappina come
una macchinetta’ ‘Non è un coso, Johanna. È un bambino’ lasciatomi daGiraffetta.
[4]
Gale Hawthorne
Avrei voluto essere
in passato meno innamorato di chi non ha avuto
alcun riguardo per me
e avrei voluto dare a te
tutto quel che ho dentro e che io troppe volte ti ho
negato
senza sapere perché.
Tutto ciò che ho.883.
Gale rientrò in casa sbattendo la
porta, la tensione incuneata in ogni suo movimento.
Stava vivendo una di quelle giornate in
cui il minimo fastidio sembra urtare eccessivamente i nervi, senza un motivo
apparente. Era inquieto perché non aveva dormito bene, nervoso per via di una
mezza discussione con uno dei suoi superiori, e preoccupato perché suo figlio
continuava ad ammalarsi di otite e il pediatra non era ancora riuscito a porvi
rimedio. Ma soprattutto non volava, non volava da giorni. Per lui, non
potersi intrufolare in qualche Hovercraft per farsi un giro equivaleva a non
poter gironzolare per i boschi. Il volo era diventato la sua nuova caccia:
restare a terra troppo a lungo lo frustrava quanto un tempo lo infastidiva
stare alla larga dalla foresta del Dodici.
Gale, tuttavia, sapeva che il suo
nervosismo era riconducibile a qualcosa in particolare: non ne era stato
pienamente conscio fino a quando non se l’era ritrovata di fronte sul tavolino
del soggiorno, spiegazzata e gettata a faccia in giù così come l’aveva
lasciata. Si trattava di una lettera di Rory che aveva letto quel mattino,
giusto pochi minuti prima di andare al lavoro.
“Non so se hai
voglia di saperlo…” incominciava suo fratello, nella stessa calligrafia
stretta e affilata di quando era ragazzino. “… Ma credo sia meglio che tu lo
sappia da me, piuttosto che da un conduttore televisivo a caso con i capelli in
technicolor tipo Flickerman. Katniss ha partorito
qualche mese fa: è una bambina. Mi pare che si chiami Haley…”
Rilesse più volte il frammento di
lettera legato a Katniss, scandagliandolo alla ricerca di informazioni
aggiuntive: non ce n’erano. Non che gli occorresse conoscere più di quello che
già sapeva. La sua migliore amica di un tempo, la ragazza che da giovane aveva
giurato che non avrebbe mai avuto figli, aveva cambiato idea. O forse aveva
solo trovato qualcuno con cui valesse la pena superare la sua paura più grande:
qualcuno che l’aveva spinta a fidarsi di se stessa a punto tale da convincerla
a compiere quel passo. Qualcuno più fortunato di lui, che aveva avuto successo
dove lui aveva fallito. Qualcuno che era rimasto al suo fianco, perché non
aveva colpe da espiare.
Qualcuno come il
pane, indispensabile alla sopravvivenza.
Il pilota accartocciò il foglio
lentamente, con gesti calcolati più che dettati dalla rabbia. La stanchezza del
lavoro gli si appoggiò addosso come una coperta pesante e la testa incominciò a
fargli male.
Non era incollerito, né triste: si
sentiva risentito, afflitto dal modo in cui aveva esposto il proprio cuore più
volte, ricevendo in cambio sempre e solo graffi. Con Katniss era andata così: i
sacrifici che aveva fatto per lei, il suo sentirsi vulnerabile erano sempre
stati a senso unico.
La seconda volta in cui aveva provato
un sentimento simile a quello che l’aveva legato a lei non era andata molto
meglio: sì, non era stato il solo a scottarsi, a mettere a rischio l’orgoglio,
ma anche Sapheen[1] alla fine aveva scelto se stessa e non
lui. Anche la madre di suo figlio se n’era andata, lasciando lui e Joel soli, a
leccarsi le ferite.
Gli sarebbe piaciuto poter eliminare
quei passi in avanti che aveva fatto per raggiungerle, ricucire i lembi
sdruciti del suo cuore senza farli sanguinare, senza lasciare cicatrici. Ma
ormai il danno era fatto. E nonostante il tempo continuasse a scorrere, il
dolore e il senso di inadeguatezza restavano.
Forse non era fatto per quel genere di
sentimento, si disse, passandosi una mano fra i capelli. Forse era
semplicemente destinato a tenersi certe cose per sé, a inibirle col tempo fino
a farle scomparire.
Forse era un bene che restasse solo:
nel corso della sua vita ogni cosa a cui aveva esposto il suo cuore aveva fatto
una brutta fine o aveva concluso per complicarsi ulteriormente.
Non per altro, portava il nome della
tempesta. Aveva qualcosa di violento dentro, che scuoteva le persone fino a
spingerle lontane. Perfino gli alberi parevano agitarsi al suo tocco.
Chi era fatto di vento, come lui, non
poteva avere una dimora vera e propria. Entrava un po’ ovunque, ma nessuno si
era mai sentito sufficientemente matto o tenace da tentare di incatenarlo a sé.
Come si fa, in fondo, ad abbracciare una corrente d’aria? A convincerla ad
ammansirsi giusto il tempo necessario per farle capire che si è disposti ad
affrontare la tempesta, pur di viverci a fianco?
In quel momento la porta della cucina
si aprì, portandosi con sé i farfuglii di un bambino piccolo.
Gale sollevò distrattamente lo sguardo,
una mano ancora stretta attorno alla lettera appallottolata.
Johanna aveva una spalla appoggiata
allo stipite, lo sguardo seccato e palline di poltiglia di cibo appiccicati ai
capelli.
Reggeva schifata un vasetto di
omogenizzato di carne mezzo vuoto e, nell’altra mano, un cucchiaino sporco.
“Alla buon ora, Hawthorne” borbottò,
immergendo il cucchiaio nel barattolo. Indirizzò poi un’occhiata bieca alla
cucina, dove i gridolini del piccolo Joel avevano appena incominciato a farsi
più insistenti. “Questo coso sputa pappina come una macchinetta” aggiunse,
strofinandosi una guancia sulla spalla per pulirsela.
La tensione nel volto di Gale sfumò
leggermente.
“Non è un coso: è un bambino, Johanna”
replicò in tono di voce insolitamente inespressivo. Il suo sguardo era tornato
a rivolgersi alla lettera appallottolata fra le sue mani.
Johanna se ne accorse: la sua
espressione infastidita mutò, lasciando il posto a una maschera indecifrabile.
Seguì un silenzio insolito, diverso da
quelli che erano abituati ad avvertire fra di loro.
Johanna si avvicinò di qualche passo,
visibilmente indecisa se parlare o meno.
“Bah, probabilmente verrà su con qualche
piuma al posto dei capelli” commentò infine, appoggiando i gomiti allo
schienale del divano.
Gale gli rivolse un’occhiata
disorientata.
“Che cosa?”
“La mocciosa. Sua madre è la Ghiandaia
Imitatrice, no?”
Sorrise sarcastica, prima di grattare
il fondo del vasetto di omogenizzato con il cucchiaino, per poi infilarselo in
bocca.
“Che vuoi?” chiese poi a bocca piena,
ricambiando lo sguardo di Gale. “Se tuo figlio questo non lo mangia, cavoli
suoi. Me lo mangio io: devo ammettere che non è così male come sembra.”
Un abbozzo di sorriso eliminò
finalmente un po’ di ombra dallo sguardo stanco del pilota.
Tutto a un tratto, avvertì il bisogno
di alzarsi da quel divano e andare a prendere in braccio Joel.
“Come è andata oggi? Ha ancora mal di
orecchie?”
Johanna scosse la testa con fare
esasperato.
“E come diavolo faccio a saperlo? Non
fa altro che blaterare cose senza senso” replicò, guidandolo verso la cucina.
Trovarono Joel intento ad allungarsi sul seggiolone, gli occhi grigi spalancati
per lo smarrimento: il suo peluche preferito era caduto per terra e stava
cercando di liberarsi per recuperarlo.
Sia il bambino che il pupazzo – così
come il tavolo e il pavimento – erano puntellati di grumi di pappetta.
“Se proprio vuoi saperlo, credo che
abbia qualche rotella fuori posto…” aggiunse Johanna, mentre Gale tirava fuori
il bimbo dal seggiolone per evitare che cadesse. “Ha chiamato il suo amico
peloso come me”.
Afferrò la volpe di peluche e la porse
al piccolo. Joel, che era occupato a festeggiare il ritorno del padre
accoccolato al suo petto, sorrise e strinse l’animaletto a sé.
“Jo!” esclamò
allegro, appoggiando la fronte contro il suo muso peloso.
Johanna indirizzò un’occhiata eloquente
a Gale, che sorrise divertito.
“Johanna… Guarda” esordì, rubandole di
mano il cucchiaio. “Joel, che cos’è questo?” chiese poi, mostrandolo al
piccolo.
Joel gli rivolse un sorriso furbetto.
“Jo!” ripeté,
cercando di afferrarlo.
“E quello?” chiese ancora il padre,
indicandogli il frigorifero.
“Jo!”
Il sorriso di Gale si allargò; baciò il
bimbetto sui capelli e aggrottò le sopracciglia, nell’accorgersi che erano
appiccicaticci per via della pappetta.
“È l’unica parola che sente dire di continuo in
questa casa” spiegò poi a Johanna, facendosi passare un tovagliolo per
ripulirlo. “L’ha imparata bene.”
Johanna alzò gli occhi al cielo, per nulla impressionata
dal fatto che il suo nome fosse stato scelto dal piccolo come parola universale
per indicare tutto.
“E questo povero idiota chi è?” domandò poi, cercando
l’attenzione di Joel e indicandogli Gale.
Il visetto del bimbo si fece raggiante.
“Papà!” esclamò, tornando ad appoggiare la testa contro
il petto del padre.
Gale rinsaldò l’abbraccio, adagiando il mento sui suoi
capelli. Il calore emanato dal corpicino del piccolo era una delle poche cose
in grado di allentare il nervosismo che avvertiva in giornate come quella.
Joel era il motivo per cui non rinnegava il suo essere
nato vento e tempesta. Essere quello che era gli aveva inferto molte ferite,
ma aveva anche contribuito a portare al mondo suo figlio.
“I-dio-ta!” scandì ancora
Johanna, appoggiandosi a Gale con il gomito. Guardava Joel, che stava
ricambiando con gli occhi sgranati e la volpe ancora ben stretta al corpicino.
“Jo!” replicò dopo qualche
istante, suscitando l’irritazione della donna.
“Se non impara almeno a dire idiota continuerà ad essere
un moccioso inutile” osservò a quel punto, tirando giocosamente i capelli di
Gale. “Ho bisogno di qualcuno con cui poterti insultare.”
“E a me serve qualcuno che ti insegni a mangiare come si
deve” ribatté lui, grattando via un po’ della pappetta di Joel dal mento di
Johanna. “Magari fra un paio d’anni potrà farlo lui. Che ne dici, ometto?”
Il bimbo gli sorrise, prima di incominciare a
mordicchiare un’orecchia della sua volpe.
Johanna roteò gli occhi e gli diede una gomitata.
“Tuo padre è un vero stronzo, lo sai, Hawthorne?”
borbottò poi, rivolta a Joel.
Gale sorrise divertito: in quel momento
avrebbe volentieri attirato a sé il volto di Johanna per baciarla, noncurante
dei grumi di pappetta e della bava di Joel. Erano in momenti come quelli,
quando tornava a casa in un fascio di nervi e trovava ad attenderlo le premure
ruvide, ma sentite, di Johanna, che ricordava di aver trovato qualcuno in grado
di accettare di vivere nel mezzo della tempesta.
In giornate simili gli capitava anche
di sentirsi in difetto per il poco peso a cui dava, sebbene solo in apparenza,
alla presenza di Johanna: per la gratitudine che avvertiva pulsante in
ogni vecchia ferita, ma che non sempre riusciva ad esprimere. Per le parole e i
gesti di affetto che gli ronzavano dentro e che teneva da parte per loro – per
lei e per Joel – ma che non era ancora riuscito a far emergere.
Perché in situazioni come quella si rendeva
conto, più che mai, che loro due erano tutto ciò che aveva . Joel e Johanna
erano gli unici che avevano il diritto di appropriarsi delle cose che si
portava dentro. E presto, o almeno così sperava, avrebbe imparato a dirglielo.
“Questo stronzo è tutto vostro” esclamò stringendosi nelle spalle. Sollevò Joel
per fargli fare l’aeroplano e gli venne da sorridere, nell’ascoltare la sua
risata. “Dovrete tenervelo, mi sa.”
Johanna finse una smorfia di sufficienza, mentre lo
esaminava con le mani sui fianchi. La maschera indossata, tuttavia, lasciava
gli occhi scoperti e da essi emergeva una sfumatura insolitamente affettuosa,
che per Gale ebbe un che di rassicurante.
“Faremo lo sforzo” concluse Johanna, afferrandogli il
mento un po’ bruscamente. Lo baciò all’angolo della bocca, là dove le manine
appiccicose di Joel avevano sparso un miscuglio di pappina e saliva.
E, grazie a quel bacio, Gale decise che poteva anche
arrischiarsi a crederle.
Note Finali.
*Balle di fieno rotolano qua e là per
il Distretto 2*
Buonasera!
Ogni tanto mi sveglio con il pallino di riprendere qualche storia lasciata
indietro da anni e questa mattina è toccato a questa raccolta dedicata ai
maschietti di casa Hawthorne. Mi vergogno tanto quando realizzo che sono
passati non solo mesi, ma addirittura anni, tra i vari aggiornamenti delle mie
storie e sono consapevole del fatto che ormai questa raccolta sia morta e
sepolta e che nessuno la leggerà. Tuttavia, mi dà davvero fastidio lasciare le
vecchie storie incomplete. Per questo, ho deciso di cercare di ultimarla. Ed è
così che è spuntato fuori questo capitolo – il penultimo – dedicato al
maschietto più conosciuto (e amato/odiato c.c) della
famiglia Hawthorne. La strofa che ho scelto per aprire questa one-shot non poteva che essere associata al nostro friendzonato per eccellenza. Ci tenevo ad inserirla
in un momento in cui Gale è già più grande e ha una vita avviata e una propria
famiglia, un po’ per mostrare che le ferito del passato comunque restano e ogni
tanto tornano a far male, ma un po’ anche per incominciare a tirare le fila
della raccolta (e della canzone in sé). Anche Gale, come i suoi fratelli e
babbo Hawthorne prima di lui, sta incominciando ad apprezzare se stesso un po’
di più e ad aprirsi con chi ha a fianco. Il rapporto fra Gale e Johanna nel
periodo incluso in questa one-shot è abbastanza
particolare. Non sono ancora una vera e propria coppia, sono vicini sul lato
fisico ma non ancora del tutto per quanto riguarda quello emotivo, ma ci stanno
arrivando. E Joel, che inizialmente sembrava essere la cosa che li avrebbe
separati fin da subito (visto l’odio di Johanna per i bambini) sta finendo per
essere un po’ uno dei collanti principali che li lega assieme.
E niente! Ringrazio davvero tanto chiunque avrà il
coraggio di fare una visitina qui. Nonostante abbia brutalmente ignorato questa
raccolta per mesi, ci sono davvero affezionata, un po’ per il tema trattato e
un po’ perché la canzone che mi ha ispirato è una di quelle in cui mi
rispecchio di più. Il prossimo capitolo sarà l’ultimo e ci sarà un gran bel
salto indietro nel tempo, perché si parlerà della nascita di Vick! A fare
comparsa sarà tutta la famiglia Hawthorne (meno Posy, patatroccola,
perché ovviamente non era ancora nata!)
Un abbraccio e a presto!
Laura
[1]Sapheen è la mamma di Joel. Ha avuto una
storia di diversi anni con Gale, ma per una lunga serie di ragioni, quando è
rimasta incinta ha deciso che avrebbe tenuto il bambino solo se ne sarebbe
preso carico lui; in un certo senso ha scelto la carriera alla famiglia (è un
soldato, nel periodo in cui è ambientata questa storia occupa un posto di
rilievo nella neonata Accademia di Aeronautica Militare del Distretto 5).
[2]Questo
scambio di battute fra Gale e Katniss è tratto dalle primissimo capitolo di Hunger Games.