NdA:
Consiglio la lettura
di questo capitolo in due tempi, essendo uscito abbastanza lungo. Io
stessa ho
segnato il punto in cui consiglio fermarsi. Buona lettura!
Un
caloroso
ringraziamento a coloro che mi stanno seguendo!!
CAPITOLO
06
“Non
appena la vidi, fui
subito attratto da South Ashfield Heights, avvertendo come una sorta di
richiamo…”
(Henry
Townshend, nell’appartamento 302)
[APPARTAMENTO
302, South
Ashfield Heights]
Henry
Townshend lasciò
scorrere il dito sulle varie copertine dei libri mormorandone i titoli.
Stava
setacciando con lo sguardo la piccola libreria dalle mensole consumate.
Solo
quando incappò nelle
riviste dedicate alla città sulle rive del lago Toluca, le
prese lasciando
fuoriuscire notevoli quantità di polvere.
Effettivamente
non aveva
avuto molte occasioni di toccare quei libri negli ultimi tempi, ma
forse
avrebbe dovuto almeno pulire.
Era
un aspetto della sua
vita domestica con la quale avrebbe sicuramente saldato i conti, un
giorno. Quel
giorno, non era di certo quello, comunque.
Ripensò
a tutte le
telefonate che aveva effettuato in passato alla biblioteca di Ashfield.
Non
c’era stato verso di
reperire alcuna documentazione riguardo Silent Hill. Tuttavia era fin
troppo
ovvio che in quella città di collina ci fosse più
di qualcosa che non
quadrasse. Possibile che non vi fosse nessuna documentazione a riguardo?
Nessun
libro inerente al
culto, nessun libro riguardante le tradizioni. Nessun documento
riguardante i
tanti sacrilegi che venivano compiuti dalla Wish House e probabilmente
non solo
lì…
L’intera
città, nascosta
nella sua densa coltre di nebbia, celava qualcosa di oscuro, offuscato
da un
velo che lasciava intravedere appena quella dimensione della quale non
si
rinveniva nessuna traccia che ne confermasse l’esistenza.
Eppure
tutto era vero.
Quel mondo esisteva.
Walter
Sullivan, per
quanto potesse essere umanamente inconcepibile, era morto dieci anni
prima.
Tuttavia una traccia di lui era rimasta palpitante nella
realtà parallela.
Cosa
era accaduto per
davvero? Che fine aveva fatto Walter Sullivan? In che consisteva
effettivamente
il rituale dei ventuno sacramenti? Che cosa sarebbe accaduto allo
stesso Henry?
Quelle
erano tutte le
domande cui Henry sperava tanto di dare risposta.
Non
aveva con sé altro,
se non la sua esperienza personale e quella di Joseph Schreiber.
Anch’egli,
un tempo,
studiò il caso Silent Hill/Walter Sullivan e
offrì le sue conoscenze al
ragazzo, non potendosi sottrarre al suo destino.
Il
moro si diresse nella
sua stanza posizionandosi sulla scrivania e aprì
l’album pieno di appunti
cominciandoli a leggere.
Cercò
di confrontare le
documentazioni e le informazioni presenti sui libri che aveva in casa,
ma non
vi era nulla che confermasse tra quelle pagine le parole di Schreiber.
Quella
manciata di libri
risalivano grossomodo ai viaggi che fece Henry a Silent Hill prima di
trasferirsi a South Ashfield.
A
quei tempi era tutto
completamente diverso. Amava quella lieta cittadina e la trovava
così
rilassante e pacifica. Senza contare della profonda attrazione che lo
aveva
portato inspiegabilmente a visitarla spesso, con le spoglie di un avido
turista.
Aveva
avuto modo di
visitare e fotografare molteplici scorci, la chiesa, il faro…
Tutto
questo con il più
completo incanto, incapace di accorgersi che, invece, ci fosse qualcosa
di
inquietante nell’aria. Un’inquietudine che adesso
avvertiva vibrare in corpo
anche solo osservando quelle fotografie.
Alzò
fugacemente gli
occhi dai libri e osservò le fotografie appese sul muro. Le
aveva scattate lui
stesso, durante le sue visite. Le fissò quasi in maniera
ossessiva, chiedendosi
come potesse una città simile essere inquietante ed
affascinante allo stesso
tempo.
Lui…aveva
provato
entrambi quei sentimenti.
Si
chiese impulsivamente
se anche per quell’assassino fosse così.
Quali
erano i suoi
sentimenti in merito a quella cittadina in cui era cresciuto, e che
l’aveva al
contempo dannato?
Scosse
la testa e decise
di proseguire con le ricerche.
Diavolo,
aveva la testa
fin troppo piena di domande e tutte legate all’assassino
biondo, di certo non
aveva bisogno di preoccuparsi di altro.
Senza
contare lo stato di
allerta che Henry covava in corpo già da tempo. Sapeva bene
che un’altra
manifestazione avrebbe potuto presentarsi lì da un momento
all’altro
costringendolo a un ulteriore viaggio.
Doveva
dunque fare in
fretta se voleva reperire delle informazioni che lo aiutassero a capire
perché
la sua casa fosse ancora inglobata nella realtà parallela e
perché Walter
Sullivan continuasse a perseguitarlo con gli incubi.
“Per
qualche motivo,
Joseph non riuscì ad abbattere il muro. Ma tu hai potuto
farlo…”
Una
voce indefinita, dopo
un buon quarto d’ora, echeggiò improvvisamente.
Sembrava
quasi riuscire a
parlare a stento.
Il
bruno si alzò di
scatto dalla sedia girevole e guardò oltre la porta della
camera da letto,
affacciandosi nel corridoio dell’appartamento.
“Ma
che diav..!?”
“Che
diavolo, che
diavolo, che diavolo…cominci a diventare noioso con tutti
quei tuoi ‘che
diavolo’. Eppure sai bene che diavolo ti sta succedendo,
Henry.”
Henry
si risentì di
quella risposta, ma decise di non curarsene troppo. Al contrario, si
inoltrò
cautamente nel corridoio. Pochi passi lenti, ma non c’era
nessuno, nemmeno una
manifestazione, dinanzi a lui.
“Dove
sei?”
Henry
intimò a quella
voce di mostrarsi, ma ottenne solo un debole sibilo. Il ragazzo ebbe la
terribile sensazione che lo stesse deridendo.
“A
questo punto, avresti
dovuto già intuirlo. Sono esattamente dietro di te, nella
parte profonda che
Joseph Schreiber non ha potuto raggiungere per volere di Lui.”
Per
quanto si sforzasse
di riconoscere quella voce, quell’eco disturbante gli
impediva di capire chi
parlasse.
Si
voltò comunque verso
il muro alle sue spalle, come indicatogli dalla voce, e con gli occhi
spalancati notò che, oltre quella porzione di parete
sfondata in precedenza con
il piccone rosso, effettivamente era possibile scorgere
un’ombra.
Fece
per avvicinarsi, ma
una forza misteriosa gli impedì di proseguire.
Sentì i muscoli irrigidirsi e la
pelle farsi fredda, come se stesse nuotando contro corrente in un fiume
in
piena.
La
voce sogghignò
nuovamente.
Henry
non si sforzò di
avanzare oltre. Osservò invece l’ombra, con un
atteggiamento altamente
diffidente.
“Chi
sei?”
Dall’altro
lato del muro,
le labbra di quell’ uomo sorrisero. Si intravedevano, sul suo
volto oscurato
dal buio, dei violenti sfregi, ancora così lividi e profondi.
“Comincerà
presto.
Prestissimo. E l’unico modo per salvarsi è
raggiungere la parte profonda di
lui. Dove risiede sua madre. L’unico che per qualche bizzarra
ragione può farlo
sei solo tu, ricevitore di saggezza.”
A
quel punto Henry
sbottò. Non ne poteva più di discorsi simili. Non
ne poteva più di essere
chiamato in quel modo. Lui non era una vittima di Walter Sullivan. Non
era
riuscito, quel carnefice, a ucciderlo.
“T’ho
chiesto chi diavolo
sei! Rispondi. E cos’è che deve cominciare! I
ventuno sacramenti sono stati
scongiurati. Io l’ho ucciso. Io ho ucciso Sullivan!”
Con
una rara carica, il
ragazzo urlò e si poggiò sul muro adiacente con
gli occhi vitrei colmi di
rabbia e disperazione.
“La
senti no? Quella
profonda solitudine. Quella…rabbia che cresce ogni giorno di
più. Un qualcosa
che è stato sigillato nel profondo e che ha scaturito poi
tutto questo. Che
cos’è, dunque, che porta questa collera?
È il caos. Null’altro che il caos
informe nel quale ogni giorno vaghiamo. Com’è
possibile salvarsi da tutto ciò?
Chi permette che tutto questo abominio di rabbia e solitudine esista?
Secondo
quali regole? Quelle degli umani? Ma siamo poco più delle
bestie, mi sembra un
atteggiamento presuntuoso, questo, giusto..? Stravolgi appena le regole
ed
eccoti piombare nel caos. Infondo, il caos, quel che lo separa
dall’equilibrio,
non è altro che un sottile velo delicato.”
Lo
sgomento del ragazzo
salì fino a divenire irritazione e tutto d’un
tratto si ritrovò incapace di
ascoltare oltre. Quella voce tuttavia sembrò nuovamente
avere un atteggiamento
sarcastico nei suoi confronti, non lasciandosi minimamente turbare
dalla sanità
mentale di Henry che ogni giorno veniva sempre meno.
Quel
che era peggio, era
che lo stesso Henry si rendeva conto che la sua pazzia non sarebbe di
certo
finita lì ed era come se quella voce deridesse proprio il
fatto che egli stesse
già dando i numeri.
Joseph
come diavolo era
riuscito a lottare fino all’ultimo, alla ricerca della
verità?
Pur
sapendo di essere già
dannato. La disperazione, l’infausto destino serbatogli
dall’assassino
Sullivan.
In
quel momento Henry
sentì dentro di sé quella stessa
“disperazione”, ed era atroce, insopportabile,
violenta…
Il
sibilo per qualche
istante si fermò, poi riprese a parlare.
Gli
occhi di quel tipo
erano indistinguibili, eppure, nel buio di quello stanzino murato
nell’appartamento 302, si intravedevano appena due iridi
verde pallido.
“Tu
stesso vivi nel caos,
Henry. Tu stesso odi il caos informe.”
Sospirò,
poi tornò a
rivolgerglisi.
“
Dimmi, Henry…tu credi
in Dio?”
Henry
ci impiegò un po’
di tempo a rispondere.
“I-io…non
lo so.” asserì.
Dio.
Dio esisteva in
quelle mura? Esisteva nell’appartamento 302? Era da tempo
oramai che non
riponeva più speranze in qualcuno o in qualcosa.
Certo
che avrebbe voluto
tanto aggrapparsi ad una speranza, ma come poteva vigere qualcosa di
simile
nella sua mente ora vacillante verso l’oblio?
Dio
al momento era
lontano da lui, ovunque egli fosse. Qualunque cosa fosse.
Come
se la voce si
aspettasse una risposta simile, continuò a parlare.
“Che
tu ci creda o no,
Walter è Dio di quella porzione di universo. E tu ci sei
dentro come ricevitore
di saggezza, il che ti mette in prima linea in questo
inferno.”
“Lasciami
stare…”
La
voce a quel punto
assunse un tono differente.
“Capisco.” si
fermò. “Henry,
ho un lavoro per te. Un
piccolo affare. Che ne dici?”
Il
ragazzo chinò lo
sguardo e sembrò sorpreso da quelle parole. Come poteva
fidarsi di qualcuno,
lì?
Intanto
la voce
dall’altra parte sbuffò.
“Andiamo…!
Dimmi cos’hai
da perdere, infondo. Lo sai che se non lo fai tu, sarà lui
ad arrivare da te. O
no?”
Purtroppo
quelle parole
erano vere. Walter Sullivan lo avrebbe chiamato a sé ed
Henry lo sapeva
benissimo.
Corrucciò
le sopracciglia
e a malincuore prese l’amara decisione di fidarsi di quella
voce e di stare al
suo gioco.
“…tutto
questo mi
riporterà nelle profondità sempre più
remote di Sullivan, dico bene?” chiese.
“A
suo tempo, non avere
fretta. Ascolta bene, ora.”
La
voce prese a
cantilenare un curioso motivetto. Henry, sebbene inquietato, si
mostrò attento
a seguire ogni parola, sperando di coglierne gli elementi chiave.
«Quattro
sono gli strazi che segnarono i
mondi indistinti.
I
mondi del caos
informe.
L’assassino
ci scappa,
ma di lui mai nemmeno una traccia.
Ogni
scena pulita come
se questa non fosse mai esistita.
Il
primo è
sanguinolento.
L’altro
è violento.
Il
terzo è
irrazionale.
L’ultimo
è
inaspettato.
Il
primo, pover’uomo,
fu ridotto in un colabrodo.
E
di quei manti tanto
pregiati.
Ora
dimmi, che ne
rimane?
Il
secondo invece, un
brav’uomo.
Del
suo lavoro ne
faceva tesoro.
Ogni
cosa era sempre
al suo posto.
Le
mazze sul banco. Le
palle nel cesto.
Quando
un qualcosa lì
mancò veramente. Entrò un giovane che
parlò concitatamente.
E
da quel giorno la
luce degli occhi per sempre si spense.
Il
terzo, ahimé,
peggio dei due precedenti.
Sparì
un giorno dopo
sogni violenti.
Ossessivo,
frenetico,
e del tempo amante.
Di
egli non si conosce
altro se non il cuore rovente.
Al
quarto, alquanto
ironica e imprevedibile,
spettò
una sorte
davvero ignobile.
Il
giorno in cui le
candeline si spensero
si
rintanò nella casa
con l’assassino nel pensiero.
E
l’assassino, dopo
aver colpito le sponde con lanci da sbanco,
il
biliardo lasciò
solo con il pallino bianco.
E
di nuovo di lui
nemmeno una traccia.
Ogni
scena sempre
pulita.
Ogni
vittima
crudelmente punita.
Nel
caos informe
vagano ignari
gli
abitanti dei mondi
immorali.
Quando
l’orologio i
bei tempi restituì
Il
fantasma solo quel
giorno alla quiete ambì.»
Il
giovane ascoltò quelle parole, ma
gli fu davvero difficile ascoltarle senza alcun pregiudizio.
Nel
non sentire alcuna domanda, la
voce gli si rivolse.
“Devo
ripetere?”
“Io
cosa dovrei fare? Incastrare
l’assassino?”
Dalla
increspatura del muro cadde un
piccolo oggetto metallico che Henry prese fra le dita.
Era
visibilmente un proiettile usato,
ma si chiese a cosa diavolo gli potesse servire.
“E’
un piccolo indizio. Ti aspetto,
Colui che riceve la Saggezza. E ricorda. Ho bisogno che tu raggiunga il
luogo
del delitto e che mi porti una prova della sua esistenza.”
Henry
a quel punto si lasciò
incuriosire.
“Una
prova della sua esistenza?”
“Un
po’ di fantasia, no? Sei un
fotografo. Usa la tua macchina fotografica per la scena del crimine. Ti
chiedo
solo questo, in fondo. Non dovrebbe essere difficile per te.”
“Come
faccio a sapere se ho trovato
quello che cerchi?”
“Troverai
un telefono lì. Mi
telefonerai qui nell’appartamento e io ti fornirò
ulteriori indizi.”
Sospirò.
Poi aggiunse.
“Buona
fortuna. Il varco dovrebbe
essere oramai pronto.”
Il
volto di Henry si rivolse in
direzione del corridoio e il cuore prese a battere forte. Qualcosa lo
stava
legando sempre più forte al mondo di
quell’assassino e lui non poteva fare
altro che proseguire e in qualche modo sopravvivere.
Oppure…
Scosse
la testa. Già sapendo di non
avere nessuna via di scampo, si mise il proiettile in tasca.
Afferrò la
macchina fotografica per poi dirigersi nel ripostiglio, mentre
l’essere dietro
al muro cominciò a sibilare velocemente delle parole a denti
stretti, ma questa
volta non ne comprese il significato.
***
[IL
MONDO DEL PALAZZO. Sul terrazzo]
Quello
sì che era un ambiente
bizzarro. Del resto Henry ci aveva riflettuto già a quel
tempo.
Il
St. Jerome, la foresta, la
prigione cilindrica e la metropolitana di Ashfield…
Avevano
un filo rosso che le
collegava, un filo rosso di nome Walter Sullivan.
Invece
il mondo del palazzo? Che
significato aveva?
Senza
contare la sua essenza caotica.
Il suo essere completamente fuori il controllo delle leggi sociali,
naturali,
logiche e quant’altro.
Corridoi
assurdi, porte sfondate,
reticolati, rumori metallici e inquietanti, pareti crivellate, stanze
prive di
senso…
Che
accidenti di mondo era?
In
tutto questo, dal terrazzo, Henry
poteva intravedere tranquillamente gli appartamenti di South Ashfield
Heights.
Un
mostro dalla pelle rovinata e
dalle vaghe fattezze umane saltò all’improvviso
sul tetto e piombò di fronte ad
Henry. Era un nemico violento e iroso, ma per il ragazzo non fu
difficile
metterlo al tappeto.
Non
comprendeva il senso nemmeno di
quei mostri. Anzi, gli facevano persino schifo.
Allontanò
da sé il tubo di metallo
reperito in zona e si avvicinò al parapetto, rimanendo ad
osservare quel
panorama alla fine per nulla strano.
Peccato
si trovasse nella realtà
parallela, altrimenti avrebbe potuto perfino credere di essere
semplicemente
fuori casa.
Dalla
tasca poi estrasse il
proiettile e si domandò a che diavolo potesse essergli
utile. Non ricordava
molto bene quella sorta di filastrocca malsana, ma cercò
ugualmente di far
tesoro dei piccoli indizi offertogli.
“Il
primo tratta di un omicidio
violento.” sussurrò.
Riflettendoci,
un tempo, durante il
suo viaggio nei grandi magazzini di South Ashfield, Henry
trovò un vecchio
giornale insanguinato ai piedi della porta del negozio di animali.
A
quel punto, prese in mano il suo
album di ritagli e cominciò a sfogliarlo.
Effettivamente
ricordava bene.
Secondo
il giornale, diversi anni
prima, all’incirca dieci, un uomo fu ucciso violentemente da
un assassino
ignoto senza alcuna ragione.
L’uomo pareva non avere precedenti con qualcuno e la cosa
accadde senza alcuna
finalità.
Almeno
in apparenza, se la deduzione
di Henry non era errata.
Perché
ci poteva scommettere quel che
voleva, quell’uomo era stato assassinato da Sullivan.
Decise,
comunque, che valeva la pena
andare a controllare nel pet shop.
Un
uomo ucciso senza motivo
crivellato di colpi assieme a tutti i suoi animali…
Gli
sembrava una morte parecchio
violenta e…partorita degnamente dalla mente di Sullivan.
Si
chiedeva solo se per lui sarebbe
stato possibile coglierlo sul fatto nella realtà parallela.
Perché, nel mondo
reale, di quell’omicidio non vi era mai stata trovata alcuna
traccia.
Quella
voce, tuttavia, gli aveva
chiesto espressamente una prova. Chiuse l’album di ritagli e
si diresse
velocemente nel negozio.
Aveva
ancora la vecchia mappa con sé,
per cui riuscì a muoversi senza incombere in vicoli ciechi o
corridoi che gli
confondessero il tragitto da intraprendere.
Perché
sì, quel luogo era caotico in
tutto.
A
differenza degli altri ambienti
visitati in precedenza, fu costretto a portare con sé
molteplici armi di
fortuna, perché i mostri dalle vaghe fattezze umane erano
presenti pressoché
ovunque e lo costrinsero spesso ad agire offensivamente nei loro
confronti.
Fino
a quel momento, aveva avuto
raramente bisogno di un’arma. Si chiese se quella violenza e brutalità avessero
un senso, ma preferì inoltrarsi nell’ambiente
rugginoso e consumato, illuminato appena dalla notte profonda,
limitandosi a
spianare la strada.
Una
volta giunto di fronte il negozio
di animali, osservò la mappa un’ultima volta prima
di entrare. Strinse la
macchina fotografica fra le mani chiedendosi se avrebbe funzionato.
Girò
il pomello molto lentamente e
sbirciò appena in direzione del negozio. Con lo sguardo
cercò di stare ben
attento a cogliere qualsiasi presenza ostica presente lì
dentro, ma nulla gli
sembrava fuori posto, in verità.
Il
negozio aveva i suoi soliti
scaffali con articoli per animali, oggetti impolverati, ed era
completamente
deserto. Una volta inoltratosi, corrucciò il viso
infastidito.
Si
trovava lì per colpa di una voce
che non aveva nemmeno voluto mostrarsi a lui.
Egli
era il ricevitore di saggezza,
ma ne aveva le tasche piene di quell’assurdo rituale e di
quello snervante
appellativo.
Il
suo status lo costringeva a vivere
le esperienze determinanti di Sullivan, ma non era facile sostenere
psicologicamente la mente di un assassino.
Perché
Henry stesso stava cominciando
ad avere paura di non riuscire a pensare ad altro. Ma lui una vita sua
l’aveva
e…diavolo! La rivoleva!
Ma
era costretto a conoscere quel
mondo nel quale era rimasto bloccato assieme a lui, all’uomo
col cappotto.
Perché
era come se non fosse solo il
suo appartamento a subite tutte quelle manifestazioni, ma fosse la sua
mente
stessa a risentirne la forte influenza.
Tornò
a scrutare l’ambiente, convinto
che ci fosse un tranello o un inghippo, ma non trovò nulla
di strano, al che
cercò un telefono qualsiasi, che in teoria avrebbe dovuto
essere lì.
La
voce stessa glielo aveva
garantito, ma non trovò nulla che sembrò
rassomigliare ad un apparecchio
telefonico.
Così
uscì dalla porta secondaria
posta oltre il bancone con la vecchia cassa arrugginita.
Una
volta fuori, trovò, ai piedi del
ciglio della porta, di nuovo quel giornale sporco e datato. Lo prese
fra le
mani e lesse nuovamente quell’articolo riguardante una morte violenta.
Un
uomo, un tale Steve Garland, fu
brutalmente assassinato con furiosi colpi di mitragliatrice.
L’uomo venne
crivellato in tutto il corpo tranne che nel torace, nel quale, dopo
l’autopsia,
si venne a conoscenza mancasse il cuore.
“La
polizia di Ashfield sostiene che
alle 8e30 di ieri sera, testimoni nei pressi del negozio di animali,
Garland’s,
hanno detto di aver udito diversi colpi di arma da fuoco, possibilmente
sparati
da un’arma automatica. Quando la polizia è accorsa
sul posto, il colpevole era
già fuggito e il titolare del negozio, Steve Garland,
è stato trovato morto con
una ferita al capo, probabilmente causata da una mitragliatrice.
Tutti
gli animali del negozio erano
stati brutalmente massacrati ed il locale letteralmente devastato.
Inoltre,
secondo fonti attendibili,
il cuore di Garland era stato asportato, e cinque numeri sono stati
trovati
incisi sulla sua schiena…”
(Articolo
di
giornale trovato nel mondo del palazzo
ai
piedi della porta secondaria del negozio di animali
di Garland)
“!!!”
A
quel punto partirono dei furiosi
rumori metallici all’interno del negozio di animali. Henry
sgranò gli occhi
allontanandosi immediatamente e accovacciandosi sulle scale, pronto a
nascondersi da un eventuale Walter Sullivan.
Erano
dei colpi di mitragliatrice ed
Henry si sorprese di quanto fossero forti e numerosi. La porta, si rese
conto
solo allora, era crivellata completamente e al suo interno si sentivano
scrosci, oggetti che si andavano a frantumare, i versi doloranti di
svariati
animali domestici…
Il
ragazzo dai capelli castani
strinse gli occhi, incapace di rimanere indifferente a quei suoni che
lasciavano intuire quali orrori stessero accadendo lì dentro.
Non
appena i colpi si fermarono,
attese qualche attimo, poi, vedendo che non stava accadendo
assolutamente
nulla, decise di inoltrarsi nel locale nuovamente.
Se
prima aveva avuto l’impressione
che tutto fosse come al solito, adesso quel che vedevano i suoi occhi
era terribile
e nauseante anche solo sbirciando appena dalla fessura.
Un
odore organico riempiva il locale,
destando una terribile nausea al ragazzo, ma quello non era certo il
peggio.
Il
ragazzo estrasse dalla tasca il
proiettile e lo confrontò con i centinaia presenti nel pet
shop. Erano gli
stessi utilizzati dalla mitraglietta.
Alzando
gli occhi, le pareti, gli
scaffali, gli articoli, i banconi…tutto si era tinto di
rosso.
Henry
portò una mano alla bocca
disgustato, cominciando a tossire forte e a rigettare non sopportando
quell’odore fetido di morte.
Quello
che aveva dinanzi a sé era
terribile e sebbene i corpi degli animali e del signor Garland
mancassero, il
loro sangue fresco rimaneva, ricordandogli così la terribile
e violenta strage
che venne fatta in negozio.
Cercò
di controllarsi e una volta
recuperata la sanità mentale, con la manica della camicia
all’altezza della
bocca, cominciò a perlustrare il posto, sentendo il
terribile appiccicume sotto
le scarpe creato dal sangue.
Solo
quando giunse all’altezza di uno
degli scaffali si accorse della vecchia gabbia nella quale, un tempo,
sistemò
un vecchio gatto imbalsamato. Fu uno degli inghippi che gli servirono
per
scendere nella parte profonda di lui.
A
quel punto, Henry cominciò a
ragionare.
Gli
oggetti erano quattro e si
trattavano di un gatto
imbalsamato,
di un pallone da
pallavolo, di delle candeline per
una torta e di un pallino per
il biliardo.
Erano quattro,
come gli omicidi presenti
nella
filastrocca di quella voce.
Subito
estrasse la macchina
fotografica e cominciò a scattare delle fotografie
all’ambiente. Quello era il
posto descritto, non aveva dubbi. Aveva solo bisogno di un telefono,
adesso, ma
accidenti! Non lo vedeva da nessuna parte!
Cominciò
a camminare e
accidentalmente inciampò su qualcosa di solido che lo fece
cadere a terra sul
pavimento sporco di sangue, tingendo così una parte della
camicia bianca.
“Ah...”
disse e il suo sguardo andò
nella direzione dell’oggetto che lo aveva fatto cadere.
Sgranò
gli occhi quando vide quel
gatto nero imbalsamato, a terra. Lo prese e nell’osservarlo
gli vennero dei
terribili brividi nel vedere quanto sembrasse vivo.
“Sei
quello dell’altra volta…”
Sebbene
fosse u po’ sporco, vedeva
chiaramente il fiocco rosa attorno al collo e lo riconobbe. Si chiedeva
solo
che ci facesse a terra.
Nel
vederlo, tuttavia, comprese di
colpo il senso di quella filastrocca. Sebbene non la ricordasse affatto
bene,
ora comprendeva chiaramente che fosse riferita ai quattro
oggetti del
ricordo che
trovò durante il suo scorso viaggio. Tutti quegli
oggetti, allora, riguardavano un brutale omicidio. Un brutale omicidio
legato a
Sullivan.
Riposizionò
dunque il gatto nella
gabbia, proprio come fece a quel tempo. Si chiese se dovesse fare
così anche
per gli altri tre oggetti…
DRII..DRII...
Un
rumore telefonico echeggiò
all’improvviso ed Henry si girò attorno scorgendo
un telefono proprio sullo
scaffale alle sue spalle.
Sgranò
gli occhi, convinto che prima
non ci fosse, ma ugualmente alzò la cornetta e rispose.
“…esatto,
Henry.”
Henry
deglutì. Era proprio la voce
con cui aveva parlato in casa.
“L’uomo
che è morto qui è Steve
Garland..?”
“Hai
cominciato davvero bene. Vedo
che hai già compreso il significato del mio lavoretto per
te.”
Quelle
parole lo turbarono non poco.
Possibile che lo avesse sentito? Ma lui, quelle parole, le aveva solo
pensate…
“Hai
fatto le foto? Le hai viste?”
“No,
non le ho viste…”
Accese
la macchina fotografica e
dallo schermo digitale cominciò a guardare le fotografie
scattate. Qualcosa
tuttavia attirò la sua attenzione.
La
sua foto non ritraeva il locale
sporco di sangue e con i mobili sottosopra.
Il
negozio di animali invece era
integro e sullo sfondo poteva intravedere un ragazzino dai capelli
biondo scuro
venire rimproverato da un uomo dall’aria nervosa.
Il
ragazzino sembrava scosso, ma in
qualche modo il viso corrucciato trasmetteva anche rabbia.
L’uomo invece
sembrava parecchio adirato. Era alto e muscoloso e aveva fra le mani un
animale.
Nel
guardarla meglio, Henry sobbalzò
all’idea di aver fotografato un ricordo del Walter Sullivan
giovane.
“Ah!
Ma…” urlò, ma la voce lo
precedette.
“Ah,
povero bambino, eh? Un mondo
caotico per lui che voleva solo rivedere la madre.
Un
mondo caotico che non aveva fatto
altro che perseguitarlo, torturarlo, malmenarlo mentalmente e
fisicamente.
Leggi
tanta rabbia nei suoi occhi,
vero?
Si
accorse subito di quel piccolo
animale costoso e pregiato fra le braccia dell’uomo. E,
invece, la considerazione
che aveva di lui era nulla. Manco
fosse un cane randagio.
Per
lui non pesava nulla.
Non
costava nulla.
Era
solo feccia per lui.
Ah,
ma Walter dopo anni e anni si
vendicò e dei suoi animali preziosi ora nulla esiste
più.
Strana
la morale di questa storia,
no?”
Henry
aveva ancora gli occhi rivolti
verso la macchina fotografica. Ripensò ai rumori della
mitragliatrice sentiti
in precedenza. Quel sangue, quei lamenti…
Quel
brutale omicidio era il
possibile frutto di una vendetta covata nel profondo di un bambino
sentitosi
tutta la vita un “cane abbandonato”?
“Vuoi…l’altro
indizio? È nella
gabbia. Sentiti libero di agire quando vuoi.
Io
ti aspetto.
Ti
ricordi come faceva, vero?”
E
il telefono a quel punto si riattaccò. Henry posò
la
cornetta del telefono. Osservò nella gabbia dove aveva
posizionato il gatto e
vi trovò un mazzo di chiavi. Esaminandole vi lesse una
targhetta con su
scritto Albert’s sport. A quel
punto, Henry non poté far altro che
dirigersi lì e negli altri tre ambienti restanti.
[IL
MONDO DEL PALAZZO. Albert’s
sport]
Una
volta trovato il pallone, Henry
indugiò qualche attimo prima di posizionarlo nella cesta.
Non appena lo fece
subito scattò una fotografia del posto, chiedendosi chi
fosse l’uomo legato a
quel centro sportivo.
A
sua grande sorpresa la
manifestazione non avvenne tramite la macchina fotografica, ma un uomo
in carne
e ossa entrò, all’improvviso, dalla porta
d’ingresso.
Era
un uomo di circa un metro e
settanta e anche lui, come il precedente, aveva una corporatura
prestante.
Sembrava
pensieroso e non faceva
altro che frugare in giro mormorando il suo disperato tentativo di
cercare una
palla. Osservò il cesto e vide che tutto era in ordine.
Senza
accorgersene, Henry osservò
l’uomo con profonda attenzione, come se nella sua mente
cominciassero ad
echeggiare da soli dei ricordi riguardo quel tipo.
Era
il proprietario del negozio ed
era da sempre stato un avido sportivo. Entusiasta della forma fisica e
del suo
lavoro. Molto sensibile e amante dell’ordine, già
da quella mattina cercava
quella dannata palla che non si trovava da nessuna parte.
All’improvviso
un ragazzo giovane
entrò dalla porta, con uno sguardo elettrico e
dall’aria entusiasta.
Henry
l’osservò attentamente
accorgendosi che nemmeno lui riuscisse a vederlo.
“Rick.”
lo richiamò.
“Sei
già qui, Walter? Cosa vuoi?”
chiese l’uomo.
Un
momento…
Quel
ragazzo…era Walter Sullivan??
A
guardarlo meglio sembrava proprio
lui, anche se più giovane a dall’aria meno
trascurata. I capelli erano tagliati
e ordinati, non aveva quell’accenno di barba e nemmeno degli
abiti malridotti.
Ma
la corporatura era grossomodo
quella, così come i capelli biondi e gli occhi verde chiaro.
Henry
non era a conoscenza del fatto
che Walter, a quei tempi, fosse un dipendente
dell’Albert’s sport. La cosa lo
lasciò letteralmente senza parole. Eppure,
all’improvviso qualcosa quadrò nella
sua mente e comprese che anche la palla fosse un oggetto simbolo di
un’altra
sua vittima.
Il
ragazzo aveva un’aria quasi
eccitata e sembrava voler richiamare l’attenzione del proprio
datore di lavoro.
Parlò concitatamente, non appena questi gli si rivolse.
“E’
morto ieri sera quello giù al
negozio degli animali. Garland.”
Rick
si girò, con aria sgomentata.
“Steve
è m-morto? Dio mio, cosa
dici??” urlò scioccato.
Henry
sentì una fortissima
tachicardia. Perché sapeva benissimo che fosse stato proprio
Walter ad
assassinarlo. Invece era lì, tranquillo e persino con un
ghigno soddisfatto sul
viso.
Aveva,
fino a poche ore prima,
massacrato un uomo, degli animali e distrutto un negozio, e riusciva a
mantenere un sangue così fretto e addirittura compiaciuto?
Walter
era decisamente un uomo
inquietante. Se non ne fosse stato costretto, non avrebbe mai e poi mai
cercato
di avere a che fare con lui.
Il
biondo annuì infischiandosene
completamente del fatto che Rick sembrasse sinceramente sconvolto.
“Alle
20:30. L’omicidio è avvenuto
mentre Steve era sul posto di lavoro presso il Garland’s.
Stava appena
accertandosi che gli animali stessero bene, quando un uomo sconosciuto
è venuto
alle sue spalle con una mitraglietta semiautomatica crivellando
l’ambiente e
colpendo molteplici razze di animali pregiati tra cani, gatti,
roditori, pesci
o rettili. Steve è stato ferito gravemente su tutto il
corpo, ma il proiettile
che gli ha dato la morte è quello che lo ha colpito in
testa. Il cuore di Steve
è stato asportato via e sulla schiena vi è stato
inciso un marchio.”
Walter
aveva parlato in maniera così
competente che sia Rick che Henry lo stavano guardando allibiti. Rick
si
chiedeva come potesse conoscere tanti dettagli di un omicidio avvenuto
appena
la sera prima.
Walter
rise appena, poi fece per
andar via e gli si rivolse.
“Ti
vedo sconvolto, Rick. Dovresti
riposarti. Credimi, ne hai bisogno…”
A
quel punto il flashback terminò e i
due scomparvero.
DRII…DRII…
Un
telefono all’improvviso squillò ed
Henry, da dietro il cesto pieno di palle da pallavolo, distinse un
telefono.
Quando alzò la cornetta udì nuovamente quella
voce.
“Il
secondo invece, un brav’uomo.
Del
suo lavoro ne faceva tesoro.
Ogni
cosa era sempre al suo posto.
Le
mazze sul banco. Le palle nel
cesto.
Quando
un qualcosa lì mancò
veramente. Entrò un giovane che parlò
concitatamente.
E
da quel giorno la luce degli occhi
per sempre si spense.
Lo
hai trovato?”
“R-Rick…”
guardò il mazzo di chiavi e
lesse il nome di Albert’s sport. “…Rick
Albert. Il proprietario del negozio
sportivo è la vittima.”
“Ricordato
gli altri due? Ti aspetto.
Non mi deludere. Conto su di te.”
E
il telefono si chiuse.
[IL
MONDO DEL PALAZZO, nei pressi del
bar]
Henry
aveva appena vissuto due
esperienze analoghe alle precedenti.
La
prima…
Un
uomo, un povero anziano, aveva
ricevuto una visita inquietante nel suo negozio di orologi. Era un tipo
vestito
di scuro e aveva un orologio che gli aveva affidato. Non era un oggetto
qualsiasi e l’uomo se ne accorse subito.
Da
quel giorno, tuttavia, cominciò a
fare un curioso sogno. Un sogno che riguardava tutti quei terribili
omicidi
ambientati nei grandi magazzini di South Ashfield. L’anziano
William Gregory
era costretto a vivere all’infinito quei sogni senza poterne
comprenderne il
senso.
Un
cesto pieno di palloni da
pallavolo...un gattino che continuava a miagolare... festoni ed una
torta su un
tavolo... una stanza alla rovescia... palle da biliardo che si
muovevano senza
che nessuno stesse giocando. Era come se il sogno cercasse di dirgli
qualcosa.
Henry
non aveva potuto far nulla per
lui. Così Walter Sullivan lo aveva ucciso con un cacciavite
a testa piatta.
Poi
l’ultima…
Aveva
ancora gli occhi fissi sulla
pallina da biliardo, che gli aveva mostrato la vita di un giovane
barista
longilineo che amava guidare e giocare al biliardo.
Era
stato l’ultimo della lista e il
giovane, seriamente preoccupato per tutti quegli omicidi, decise di
chiudere
prima il bar per dirigersi a casa.
Henry
aveva vissuto il flashback in
due tempi. Al bar, mentre il barista mostrava la sua preoccupazione per
l’inafferrabile killer, e a casa, dove si era ritirato per
festeggiare il suo
compleanno. I festoni erano già appesi così come
le candeline della torta. Tra
parentesi, l’altro oggetto del ricordo reperito da Henry sul
posto.
Tuttavia
la casa era vuota e il
giovane barista, di nome Eric Walsh, non trovò nessuno dei
suoi amici o
familiari. Lo vide aggirarsi per casa non sapendo di certo che avrebbe
trovato
tutt’altro che una festa.
Eric
morì di lì a poco con un mortale
colpo di arma da fuoco in testa.
Henry
non aveva avuto più la forza di
proseguire oltre, straziato dalle vite negate a quelle persone, e allo
stesso
tempo dalla rabbia che Walter Sullivan stesso aveva provato.
Non
comprendeva. Semplicemente non ce
la faceva più. Voleva solo che tutto finisse.
Vide
il buco posto nella stanza
stessa e decise di entrarvi, mentre un orologio cominciò a
ticchettare da
lontano, proprio come era accaduto a quei tempi.
E
se quelle vittime, Walter compreso,
avessero solo desiderato rivivere un po’ i vecchi tempi? I
tempi dove ancora la
vita sorrideva al futuro, ignara.
Prima
di solcare il passaggio per
l’appartamento 302, riportò alla mente un vecchio
quaderno che trovò nei
magazzini stessi.
Voglio
tornare a quei tempi...
Ero felice allora...
Il giorno del mio compleanno...
Il gattino nel negozio di animali...
Tutti quei palloni nella cesta...
E giocare a biliardo era bello...
Le porte del tempo erano spalancate...
Quando vedo queste quattro cose, non posso non ricordare quei tempi...
(diario
trovato
all’ingresso dei grandi magazzini)
«Nel
caos informe vagano ignari
gli
abitanti dei mondi
immorali.
Quando
l’orologio i
bei tempi restituì
Il
fantasma solo quel
giorno alla quiete ambì.»
[APPARTAMENTO
302, South Ashfield
Heights]
Henry
si risvegliò sul letto. La
testa gli doleva terribilmente e ci impiegò del tempo prima
di rialzarsi,
rigirandosi con la schiena e lasciando intravedere la camicia ancora
sporca di
sangue.
Sbirciò
la macchina fotografica e
vide che le fotografie erano sparite, segnando così la
memoria completamente
vuota. La cosa avrebbe dovuto sorprenderlo, ma alla fine si
ritrovò una tale
stanchezza e stress in corpo, che preferì buttare sul
comodino l’apparecchio e
non curarsene affatto.
Si
affacciò poi e rivolse lo sguardo
alla grande insegna che poteva intravedere perfettamente dalla sua
finestra.
DRII...
DRII...
Henry
sentì il suo telefono squillare
e rispose, questa volta con voce profonda e rassegnata.
“Sei
tu?”
“Già.
Perché non mi hai più risposto
dopo il negozio sportivo?”
Henry
respirò appena, poi parlò a
voce bassa. Per le ultime due vittime, non aveva risposto al telefono
che lo
chiamava ripetutamente. Non ce l’aveva fatta e non ne poteva
più di quel
viaggio che mostrava a lui solo e soltanto morte.
“Le
ho fatte le foto. I nomi sono
William Gregory e Eric Walsh. Non ho trovato Walter e le foto sono
sparite
dalla macchina fotografica.”
“Lo
credo bene. Lui qui non esiste.
Qui quegli omicidi non sono mai stati risolti.”
Henry
lo trovò logico lì per lì, e
poco si curò della sua mente che invece voleva andare in
subbuglio. Chissà,
magari si stava abituando a quel mondo fuori dalla realtà e
dalla razionalità.
“Non
so chi sei, ma…” la voce di
Henry si fece più bassa e strozzata.
“Perché? Perché io e Walter non
possiamo
riposare in pace?”
Henry
non ce la faceva più. La sua
mente voleva fuggire da lì, e anche lo stesso Sullivan.
Sentiva
infatti che l’ansia che gli
saliva in corpo non riguardasse soltanto lui, ma anche Walter,
torturato
anch’egli nel rivivere gli incubi degli omicidi commessi,
della sua infanzia e
della sua vita.
Entrambi
erano dannati in
quell’inferno.
La
voce ci impiegò un po’ per
rispondere, la sentiva mormorare e sospirare.
“Secondo
la concezione dantesca,
l’inferno altro non è che il varco attraversato
dalle anime le quali non hanno
raggiunto la pace eterna e hanno condotto una vita lontana dalla luce
di Dio.
L’anima viene rinchiusa in bolge e gironi ed è
destinata a rivivere le pene del
peccato. Dio non perdona queste anime che, sebbene morte, hanno ancora
gli
occhi rivolti alla vita, bramando ed invidiando i vivi. Il dolore, la
sofferenza, la rabbia…tutto è vivo lì
e sono i costanti compagni dell’anima
peccatrice. Henry…anche tu fai parte del peccato di Walter
Sullivan. Tu vivi
come lui le pene del suo inferno. L’inferno creato da lui
stesso. Sullivan…ha
deciso il suo destino da solo.”
Henry
a quelle parole sbottò. Rise
con una rara espressione beffarda che quasi lo rendeva irriconoscibile.
Gli
occhi verde pallido trasmettevano un forte disprezzo e arroganza.
“
‘Ha deciso’? Direi che è stato il
‘caos’ da
te nominato a
decidere! Non si può creare un mostro e poi cacciarlo via
incolpandone
l’esistenza. Quel mostro…” riflette e
parlò con voce rauca. “Quel mostro è
l’equivalente delle stesse pene subite
anch’egli!”
Anziché
sentirsi ancora una volta
prigioniero di quel mondo, questa volta era scattato in difesa del suo
nemico:
Walter Sullivan. Non ne aveva motivo, ma era stata l’ultima
frase a scaldarlo.
Una
gran rabbia era venuta su fin
dalle viscere. Questo perchè…
Ripensò
a Andrew De Salvo, che
l’aveva picchiato e abusato di lui. Ripensò alla
Wish House. Alla sua vita
completamente esente da ogni contatto umano o affetti.
E
sotto quel punto di vista, anche
lui oramai non conosceva più cos’era
l’affetto. Così tanto da temerlo oramai.
“…sta
arrivando.” disse
la voce
improvvisamente.
Anche
la voce sembrò cambiare tono.
Forse
era colpa della stanchezza, ma
gli parve quasi di riconoscere quel tono di voce.
Assomigliava
quasi a…
Ma
era impossibile. Irrazionale.
Quell’uomo,
intanto, chiuse gli
occhi, sparendo definitivamente nelle tenebre del ripostiglio murato,
conoscendo perfettamente le pene dell’inferno descritte prima.
Riprese
a mormorare silenzioso, muovendo
le labbra a una velocità assurda e pronunciando parole
incomprensibili.
Sul
suo corpo era possibile intravedere
terribili cicatrici e sfregi.
Di
cui, uno fra questi…rappresentava
un marchio ben preciso.
Ma
il buio lo pervase e la sua figura
sparì completamente.
Si
era del tutto eclissato, come se
non fosse mai esistito.
Henry
riavvicinò la cornetta del
telefono all’orecchio ma la linea era caduta già.
Lentamente riabbassò la
cornetta e attese. Attese perché Walter Sullivan era
arrivato.
Regnò,
per alcuni istanti, infiniti
istanti, il silenzio più totale. Henry era in allerta e
aspettava che
avvenisse.
La
porta poi bussò.
Henry
alzò lo sguardo e lo diresse
verso il corridoio.
Erano
dei colpi persistenti che
andavano a rimbombare per l’appartamento echeggiando in
maniera quasi
estenuante. Un colpo, un attimo di attesa e poi un altro e un altro
ancora…
Henry
si avvicinò sempre di più
deglutendo appena, finché non fu vicino alla porta
d’ingresso e lentamente tese
l’occhio verso lo spioncino.
***
FINE
PRIMA PARTE
***
“Contento
adesso, piccolo
scherzo della natura? Te lo sei meritato! Questi vestiti fanno schifo.
Non li
voglio vedere! Lo so… è perfetto per avvolgerci
il suo corpo. Aspetta, aspetta…quello
voglio tenerlo per me. Tu!! Ancora qui a ficcanasare?! Vattene via
prima che
m’incazzo davvero!”
(Cassetta
di Mike scuoiato. Trovata nell’appartamento 205)
[APPARTAMENTO
302, vicino
l’ingresso della porta incatenata]
Qualcuno
stava battendo
alla porta lasciando così rimbombare quel suono a tratti
malsano per il
corridoio. Henry Townshend si avvicinò lentamente, sapendo
bene che quello era
solo l’inizio della nuova manifestazione dei ricordi di
Walter Sullivan.
Fino
a qualche attimo prima
aveva persino preso le difese di quell’assassino e
effettivamente non riusciva
nemmeno a spiegarsene il motivo. Per lui un killer rimaneva tale
nonostante
tutto. Perché aveva provato quella rabbia
nell’udire simili parole?
Fece
per affacciarsi allo
spioncino della porta, ma delle urla attirarono la sua attenzione.
“Ma
chi c’è qui fuori?”
sussurrò perplesso.
Si
sorprese di udire la
voce di un bambino e dei passi correre frettolosamente.
Quando
si affacciò alla
porta, ebbe davanti a sé una scena alquanto inaspettata.
Un
bambino biondo stava
correndo a perdifiato e passò proprio davanti alla porta
dell’appartamento 302
strillando e scappando.
“Mamma!
Mamma!”
A
seguirlo come un
persecutore, vi era un uomo dai capelli scuri e gli occhi azzurri.
Aveva una
corporatura massiccia e pur non essendo particolarmente alto, i suoi
occhi e
l’atteggiamento trasmettevano imponenza e arroganza. Aveva
uno sguardo capace
di penetrare nell’animo delle persone e di metterle in grande
soggezione.
Indossava
una camicia
celeste e una cravatta raffigurante una donna in stile arte classica.
Ad
ogni modo, sebbene
apparisse diverso da come lo ricordava, Henry lo riconobbe
immediatamente
nell’uomo che abitava di fronte al suo appartamento,
nell’ala opposta al
palazzo. Richard Braintree.
Non
aveva avuto molto
modo di avere a che fare con lui e, in ogni caso, nessuno gli aveva mai
consigliato di farlo, lì nel palazzo.
Stesso
lui ebbe modo di
confrontarsi con il suo carattere autorevole e altamente sicuro di
sé.
In
quel momento lo vide
davvero in uno stato di collera totale, mentre inseguiva quel bambino
che…un
momento, era Walter!
Che
cosa ci faceva lì?
“Mi
hai rotto, piccolo
bastardo! Piantala e gira a largo da qui!” urlò
Braintree brandendo un revolver.
Quello stesso revolver che egli possedeva a quel tempo, quando lo
incontrò nei
magazzini di South Ashfield nel mondo alternativo.
Alla
fine Braintree
riuscì a raggiungere il piccolo Sullivan, strattonandolo per un
braccio e tirandogli il maglioncino sgarbatamente.
Henry
fece fatica a
seguire la scena, non avendo un lungo raggio visivo che gli permettesse
di
scorgere i dettagli, ciononostante fu sufficiente per cogliere al volo
la
situazione.
Sebbene
fosse così
piccino rispetto all’uomo, vide Walter non proferire parola,
ma guardarlo
minacciosamente con i suoi occhi che, a insaputa di Braintree, avevano
già
visto gente violenta quanto e più di lui.
“Levati
di mezzo!” disse
tirandosi lontano da lui.
“Insolente!
Tu sei nella
MIA proprietà e le regole le stabilisco IO? Chiaro?! Oggi
è la buona volta in
cui ti ricordo perché non devi venire più a
ficcanasare qui!”
Intanto
un brusio si
cominciò ad avvertire lungo tutto il pianerottolo.
Nell’udire quelle urla,
degli inquilini si erano avvicinati cautamente.
Erano
già abituati al
loro vicino di casa Richard Braintree e alla sua insofferenza per i
ragazzini.
Specie per quello li.
Ma
quel giorno sembrava
più nervoso del solito, al che furono tutti lì, a
guardarlo. Senza avere,
comunque, il coraggio di dire o fare qualcosa.
Henry
sentì solamente i
loro mormorii.
“Quel
bambino è così
fastidioso. Sempre ad aggirarsi da queste parti…ma Richard
non ha alcuna
pietà!”
“Questa
è la volta buona
che lo picchia, ce l’avete una telecamera?”
“Ma
quella che ha in mano
è una pistola??”
“Non
si può stare fermi a
guardare! Io chiamo il custode!”
Alla
fine uno degli
inquilini, una donna giovane con addosso un corto camice da infermiera,
si
affrettò a chiamare il custode Sunderland. Di lì
a poco, infatti, la donna dai
capelli castano chiaro tornò con la figura di Frank
Sunderland alle spalle.
Anch’egli più giovane e con un’estetica
molto simile a quella che Henry gli
vide nell’ospedale St. Jerome.
Si
avvicinò a Braintree
e, sebbene mostrò un certo sangue freddo,
s’intravedeva persino nei suoi occhi
un leggero timore nei confronti del turbolento inquilino.
“Richard,
andiamo, è solo
un ragazzino. Posi quell’arma.” disse.
L’uomo
si voltò con gli
occhi ancora colmi di rabbia e Walter approfittò bene di
quel momento per
mordergli la mano e scappare via, passando fra gli altri inquilini che
non
fecero nulla per fermarlo.
“Ouch!
Brutto figlio
di…!”
“Ho
un figlio quasi della
stessa età. Abbia pazienza con quel bambino.”
sospirò, poi Frank aggiunse. “E’
fastidioso che venga sempre qui, tuttavia…”
Il
custode gli parlò in
modo pacato, proprio come era suo solito fare. Frank Sunderland aveva
sempre
avuto un atteggiamento molto paterno e cordiale con la gente ed Henry
lo
apprezzava molto.
“Tuttavia
un cazzo!” lo interruppe
Richard. “E’ tuo dovere evitare che i rompicoglioni
entrino nella palazzina!
Non fare il vecchio pappamolla e fa il tuo lavoro, custode!”
Così
Richard andò via e
il custode si allietò almeno del fatto che, per quel giorno,
nessuno si fosse
fatto male. Si avvicinò cortesemente agli altri inquilini
che ancora stavano a
mormorare fra loro e li invitò a riprendere le proprie
faccende personali.
A
quel punto Henry si
allontanò dallo spioncino, leggermente turbato.
Da
quel che ricordava,
Walter Sullivan prendeva spesso la metropolitana o l’autobus
per raggiungere
sua madre, ovvero l’appartamento 302. Spesso creava
malcontento dentro la
palazzina date le sue numerose visite.
Questo
poteva rendeva più
chiaro, dunque, perché anche il suo vicino di casa, Richard
Braintree, fosse
legato in qualche modo all’assassino.
Si
avvicinò
istintivamente al ripostiglio e aprì la porta. Si
ritrovò così ad osservare il
largo buco contornato dalle quattro placche della tentazione,
della fonte,
della vigilanza e
del caos.
Si
sedette lì rimanendo a
fissare le tenebre al suo interno non riuscendo a scorgere nulla.
Ascoltando
bene i brusii che venivano dal suo interno, ad Henry parve di udire il
tipico
caos presente negli ambienti affollati.
Sapeva
che lì avrebbe trovato
qualcosa e sapeva che solo lì avrebbe potuto trovare
Sullivan, al che entrò
nuovamente nella dimensione parallela.
[IL
MONDO DEL PALAZZO,
South Ashfield]
Delle
grosse tubature
pendevano dai palazzi che circondavano una stretta via isolata.
Henry
aprì debolmente gli
occhi e dinanzi a sé vide il cielo notturno. Girandosi
attorno, poteva scorgere
una tipica locazione urbana, tuttavia dall’aria molto
sinistra.
Delle
voci indefinite
echeggiavano nel vicoletto circondato dai palazzi. Sembravano voci
umane,
tuttavia non ne era del tutto sicuro. Assomigliavano anche a dei versi
bestiali
o a qualcosa del genere.
Attraversò
il lungo
corridoio e si ritrovò presto sul terrazzo del palazzo di
fronte gli
appartamenti di South Ashfield.
Si
sorprese di essere di
nuovo in quell’ambiente, non comprendendo per niente
cos’altro avesse da fare
in quel luogo assurdo. Pensava di aver chiuso con “il mondo
del palazzo”.
Prima
infatti aveva
seguito gli omicidi compiuti da Sullivan, che per certi versi avevano
chiarito
il significato di quel luogo…oppure no?
La
mente di Henry era
ancora molto confusa. Decise di seguire il suo istinto e di fare
l’unica cosa
che potesse fare ancora lì dentro: proseguire.
Scese
le scale e si
avvicinò alla porta rugginosa posta proprio sul terrazzino.
Fece per aprirla
quando un rumore di passi attirò la sua attenzione.
Qualcuno
aveva urtato un
sassolino o qualcosa di simile, e per il ragazzo fu sufficiente per
accorgersi
di una piccola figura rannicchiata dietro l’automobile fuori
uso, parcheggiata
assurdamente proprio sul terrazzo.
“C-chi
c’è..?” disse.
Dall’altro
lato
dell’automobile, un ragazzino si affacciò cercando
di scorgere Henry, ma quando
i loro occhi andarono ad incrociarsi, subito si ritrasse, muovendosi
cautamente
lungo gli sportelli dell’automobile.
Henry
si avvicinò
ulteriormente, poggiando una mano sul cofano e sporgendosi verso di
lui. Si
affacciò lentamente cercando di non spaventarlo, ma il
bambino, non
appena vide il ragazzo avvicinarsi a lui, gli corse violentemente
incontro.
“Uhmpf!”
Il
biondino gli calciò
improvvisamente lo stinco della gamba e scappò via
attraverso la porta
rugginosa, lasciando Henry colto alla sprovvista da quel dolore
lancinante.
“Ah!”
urlò, udendo la
porta dietro di sé chiudersi.
Quel
piccolo delinquente!
Non
ne aveva la certezza
assoluta per via del buio, ma non poteva che essere il piccolo Walter,
quel
ragazzino!
Con
quasi le lacrime agli
occhi, s’inginocchiò toccando la parte della gamba
lesa. Dopotutto, anche a lui
veniva un forte istinto di inseguirlo e fargliela pagare.
Già a quell’età,
Walter Sullivan aveva un caratterino incredibile.
Se
Henry in persona aveva
notato qualcosa del genere, non si sorprese dunque della poca, se non
nulla,
pazienza che aveva Braintree nei suoi confronti.
Dopo
qualche attimo si
rialzò e cercò di recuperare la
razionalità che lo contraddistingueva e decise
di proseguire avanti. Percorse velocemente la scalinata con le pareti
tinteggiate di quel rosso sangue, e si ritrovò nel corridoio
d’ingresso di
quella che doveva essere, con tutte le probabilità, la casa
di Eric Walsh.
Eric
Walsh era il barista
ucciso da Walter Sullivan in occasione del suo compleanno.
Le
candele che aveva
acceso sulla torta erano ancora lì, intatte, come se il
tempo non regnasse in
quella stanza. Come se il tempo si fosse fermato in
quell’istante ben preciso.
Osservando
le candeline,
queste erano accese e il fuoco si muoveva, lasciando un tenue bagliore
nella
stanza. Eppure la cera non si consumava, non ne vedeva colare alcuna
goccia.
Questo
creò turbamento
nel ragazzo che decise di proseguire oltre, testimone degli orrori che
fossero
accaduti in quella casa.
Fece
per aprire la porta
vicino il tavolo della cucina fino a raggiungere la nuova rampa di
scalinate.
Arrivò all’uscita e fece per attraversare il nuovo
vicolo di fronte a sé
quando, mettendo forza sul pomello della porta, vide che questi non
girava.
“Ma
cosa diavolo..?”
Henry
pressò con più
forza, sbattendo la mano cercando di far leva sulla porta, ma una forza
sconosciuta gli impediva di proseguire oltre.
Fu
in quel momento che
sentì la voce di Richard Braintree, dall’altro
lato della porta. Sembrava
piuttosto nervoso e adirato, e si sentivano dei sinistri rumori di
abiti che
venivano stracciati.
Un’altra
voce intervenne.
A Henry parve di riconoscerla in uno degli inquilini di South Ashfield
Heights,
ma il suo non aver mai legato troppo con nessuno di loro, gli rese
impossibile
stabilire altro.
"Ehi,
Richard è
impazzito di nuovo!" disse e, nonostante le sue parole, sembrava avere
un
tono eccitato.
"Ha
perso la testa
stavolta!" aggiunse un altro, anch’egli sembrava molto
interessato
all’argomento in questione.
"Scommetto che la prossima volta sarà ancora più
divertente!"
I residenti dei South Ashfields Heights adoravano parlare di lui. Era
famoso
per il suo essere irascibile. Questo Henry lo sapeva ed effettivamente,
grazie
a quella reminiscenza vista dallo spioncino della porta di casa, si
rese conto
che era così anche da molto prima che Henry venisse ad
abitare lì.
“Ma Mike se la caverà dici?”
“Che
importa? Quello del
205 lo ha anche registrato su cassetta! Che cosa
pazzesca…”
Tramite
una vecchia
audiocassetta rinvenuta durante i suoi viaggi negli incubi, Henry aveva
scoperto
che Richard Braintree, un giorno, aveva per davvero dato di testa.
Nessuno
aveva mai parlato
di quell’incidente in maniera palese, eppure da allora
sembrava sempre che,
quando ci fosse quell’uomo, tutti si aspettassero sempre una
reazione incredibilmente
spettacolare.
L'incidente
peggiore
avvenne quando Mike, residente dell'appartamento 301, andò a
sbattere contro la
spalla di Braintree, casualmente, mentre camminava nel corridoio. Henry
lo
aveva saputo sempre tramite quell’audiocassetta.
A
quel tempo, Richard era
persino più calmo del solito. Nel vedere Mike,
già poco sopportato dall’intera
componente della palazzina, colse al volo quell’occasione
infelice per urlargli
contro.
"Chi credi io sia??"
Mike
abitava affianco ad
Henry, ma mai aveva avuto modo di conoscerlo. Tramite gli incubi, aveva
solo
conosciuto il suo ‘particolare’ hobby di
collezionare riviste pornografiche.
Questo
gli aveva dato un
appellativo infelice, specie quando si ritrovò a corteggiare
l’inquilina
Rachel. Un’infermiera che abitava al piano terra di South
Ashfield Heights.
Lo
chiamavano per questo ‘stalker’ .
Per via dei numerosi fastidi che
arrecava alla donna.
Richard
quel giorno
afferrò Mike per il colletto della maglia, e lo
trascinò fin dentro il suo appartamento,
il 207.
Di suo era un uomo che se ne infischiava della gente, meno ancora
quando era
nervoso. Difatti fece tutto davanti agli altri inquilini, che lo
guardarono con
gli occhi sgranati.
"Non
di nuovo."
commentarono alcuni dai loro appartamenti, per poi andare nella 207 per
assistere a ciò che stava succedendo.
Henry
da dietro la porta
del mondo del palazzo sentì chiaramente quei brusii. Non
poteva ovviamente
vedere nulla, ma le voci erano chiare e commentavano Richard uscire
dall’appartamento dopo una manciata di minuti, con in mano la
maglietta e il
jeans di Mike tinteggiati di sangue.
Lo
stesso Mike era uscito
dalla porta e corse via, completamente nudo, scappando dolorante.
Henry
sentì di nuovo
Braintree prender parola e sbraitare contro di lui.
"Com'è che ti piace, piccolo porco schifoso? Te la sei
andata a
cercare!" disse mentre Mike scappava via da lui. Richard
lanciò via gli
abiti di Mike dicendo "Questi abiti sono disgustosi. Portateli via
dalla
mia vista!"
A quel punto si udì la voce di una donna di mezza
età.
"Lo
so...Sarebbero perfetti per avvolgere il suo corpo."
Henry
si chiese che
diavolo stessero facendo, ma gli sembrò parlassero degli
abiti che Richard
aveva gettato a terra.
"Prendilo! Prendilo... Penso che questa la terrò per me
stesso."
disse un uomo dalla voce spossata. Un possibile ubriaco. Fatto sta che
anche
lui sembrava interessato agli abiti di Mike.
Ma
che erano quei vestiti
per quella gente? Una specie di trofeo? E dire che Henry si era sempre
creduto
quello strano…
Ad un tratto, la voce tuonante di Richard sorpassò tutte le
altre.
"TU!
Ancora in giro,
eh?! Fuori di qui, prima che m’incazzi sul serio!”
e si sentirono dei passi
correre via.
Henry
fissò la porta,
perplesso.
“Tu..?”
sussurrò.
Un
momento! E se quel ‘tu’ fosse
riferito al bambino?
Immediatamente
diede una
spallata alla porta cercando di sfondarla con la violenza. A quel
punto,
inspiegabilmente, la forza che impediva ad Henry di proseguire
svanì, così il
ragazzo si ritrovò a terra dolorante, avendo usato
un’energia per niente
necessaria per aprire realmente quella porta.
“Ah!”
La
pelle bruciava
terribilmente. Era finito su un pavimento completamente increspato e
sporco.
Guardò le mani e vide che erano graffiate e, sentendo anche
il viso pulsare e
bruciare, comprese di essersi lesionato anche lì.
Alzando
gli occhi verso
la stanza nella quale era appena entrato notò che, come
immaginava, non vi era
nessuno.
Era
una stanza scura,
piccola e grigia. Solo la luce d’emergenza sopra la porta
garantiva un minimo
d’illuminazione all’ambiente.
Vi
era una discreta
quantità di scaffali in giro. Tutti dall’aria
corrosa e decadente, comunque.
Su
questi vi erano appesi
degli strani stracci sporchi. Un terribile odore organico fuoriusciva
da
questi.
A
guardarli bene,
tuttavia, sembravano tutt’altro che stracci.
Sembravano
quasi una
traccia lasciata dal ricordo precedente.
“Mike…”
Henry
bisbigliò il nome
di quel tipo cercando di riflettere.
Le
uniche cose che conosceva
di Mike erano una vecchia audiocassetta che aveva rinvenuto nel mondo
alternativo, nella sua palazzina stessa. E poi la scena vista in
precedenza,
che tra l’altro sembrava essere proprio lo stesso episodio
registrato sulla
cassetta.
Riflettendoci,
essa…aveva
un’etichetta con su scritto ‘lo
scuoiamento di Mike’.
“Oh,
mio Dio…” disse,
inorridito, rendendosi conto che quegli strani stracci sembravano
decisamente
della pelle.
Ora
che ci faceva caso,
in tutto il mondo del palazzo vi erano di quei
‘cosi’ maleodoranti e…possibile
rappresentassero proprio lo scuoiamento di quel ragazzo?
Richard
era stato davvero
violento con quel tizio, e Walter doveva aver impresso nella sua mente
quell’episodio.
Una
visione del genere,
effettivamente, vista dagli occhi di un bambino, doveva essere un
qualcosa di
traumatico, terribile…
E
non solo dagli occhi di
un bambino.
Henry
avvertì un forte
senso di nausea. Quell’odore divenne tutto d’un
tratto insopportabile, così fu
costretto ad uscire fuori.
Aprì
la porta e sentì un
forte rumore alle sue spalle che lo fece trasalire.
“Ah!”
urlò.
Girandosi,
di colpo vide
lo scaffale dietro di lui che si era ribaltato, e un paio di mostri
dalle vaghe
sembianze umane apparvero.
“Di
nuovo?!” disse,
guardandosi intorno e sperando di trovare un’arma.
Non
solo non trovò nulla,
ma vide che uno dei due mostri, oltre che a strillare emettendo quei
versi
scimmieschi, brandiva un’arma da fuoco!
Sembrava
un revolver.
Henry
si sorprese perché
non aveva mai visto uno di quei mostri brandire un’arma tanto
potente.
Solitamente
si
impossessavano di mazze da golf, di tubi…
Doveva
essere calmo e
ragionare, o si sarebbe potuta mettere male per lui.
Violentemente
calciò
l’altro mostro, quello senza il revolver, lasciando che
questo cascasse a
terra.
Osservando
velocemente
gli scaffali, si rese conto che erano facilmente ribaltabili.
Così, poggiandosi
sul muro, riuscì con le gambe a ottenere la forza necessaria
per ribaltarlo sul
nemico.
Non
appena colpì
violentemente il mostro con il revolver, schiacciandolo sotto la
scaffalatura,
gli rubò prontamente l’arma, provando anche un
po’ di soddisfazione visto che
quei mostri, a quel tempo, non facevano altro che attaccarlo e
disarmarlo
quando ne avevano la possibilità.
Invece
era riuscito lui
stavolta a bloccarlo e disarmarlo. Dopotutto stava imparando qualcosa,
a furia
di rimanere bloccato in quell’incubo infernale,
pensò.
Premette
il grilletto e
sparò. Un colpo fu sufficiente. Li calciò
entrambi e attese che i corpi
cessassero di muoversi. Strillarono un’ultima volta,
emettendo nuovamente
quegli striduli versi, prima di fermarsi definitivamente.
Solo
allora sentì le
braccia leggermente tremare e avvertì il bisogno di
poggiarsi a terra qualche
attimo. Con un tonfo cadde sul pavimento polveroso e il suo respiro si
fece
affannato, stanco. Guardò quelle due figure sentendosi
davvero strano. Non solo
perché ora erano morti, ma c’era
dell’altro.
Erano
i mostri della
realtà parallela che più rassomigliavano a degli
esseri umani e la cosa lo
lasciava davvero con una bizzarra sensazione in corpo.
Lui…uccideva
per
sopravvivenza, vero?
E
allora perché provava
quel turbamento? In teoria, quei mostri non esistevano nemmeno.
I
suoi occhi in quel
momento andarono a posarsi sul revolver che aveva fra le mani. Lo
rigirò fra
queste più volte prima di avere sempre più la
certezza di averlo già visto.
Solo
dopo sgranò gli
occhi, accorgendosi di non sbagliarsi affatto.
Richard
Braintree
possedeva un modello simile a quello, ne era più che certo!
Inoltre, attraverso
lo spioncino dell’appartamento 302, proprio quella stessa
giornata aveva avuto
modo di vederlo brandire quell’arma contro Sullivan bambino.
Era
dunque certissimo che
non si trattasse solo di un modello simile, ma fosse proprio lo stesso
revolver.
Si
chiese solo…perché lo
tenesse in mano quel mostro
umanoide?
La
cosa lo lasciò davvero
perplesso.
Non
riusciva proprio a
capacitarsene. Ma molte cose appartenenti a quel mondo gli sembravano
fuori da
ogni logica.
Henry
corrucciò il viso
incapace di comprendere e si apprestò ad alzarsi ed uscire
dalla stanza buia.
Aprì
la porta e si
ritrovò immediatamente a solcare uno degli ingressi per
l’Albert’s sport.
Osservò
il cesto con le
palle per la pallavolo e per qualche attimo si fermò a
riflettere su quell’uomo
che, chissà per qualche motivo, fu una delle vittime di
Walter.
Era
il suo datore di
lavoro. Lui lavorava qui come un dipendente part-time.
Non
aveva alcun elemento
per poter indagare oltre, se Walter non gli avesse mai dato nessun
indizio,
ovviamente.
Si
chiese tuttavia, se
posizionare quella palla nel cesto avesse in qualche modo lenito
l’anima di
quel negoziante almeno un po’.
Chissà…poteva
anche
darsi.
Tuttavia
ciò non lo aiutò
affatto a stare meglio. Avrebbe voluto tanto anche lui trovare qualcosa
che gli
riaprisse le porte del tempo.
Invece
era lì, in quel mondo caotico nel
quale ci si muoveva a stento, solo ricorrendo alla violenza e
all’indifferenza.
Attraversò
la porta per
uscire dal negozio sportivo e si ritrovò
all’esterno. Sulla cima di una lunga
scalinata di ferro.
Alzò
gli occhi verso il
cielo e vide che la nebbia stava cominciando a scendere lentamente.
Nulla che
gli impedisse più di tanto la vista fortunatamente.
Il
vento, comunque,
continuava a soffiare ed Henry avvertì quella leggera brezza
sul viso che gli
faceva tanto ricordare il mondo reale.
Socchiuse
gli occhi e
solo allora notò che era davvero passato tanto tempo
dall’ultima volta che era
uscito dall’appartamento.
Aveva
cominciato a
studiare così attentamente il caso Sullivan, che solo allora
avvertì la tanta
nostalgia che gli ricordò quanto si fosse estraniato dal
resto del mondo.
Un
suono poi, lo
costrinse ad allontanare da sé quei pensieri e lentamente
prese a scendere
quella serie di rampe di scale per vedere da dove provenisse.
Sembrava
un lieve suono
di uno strumento musicale. Un’armonica, forse.
Pur
girandosi attorno,
non riuscì a scorgere nessuno, al che decise di avanzare, ma
con grande
cautela.
Gli
rimaneva da
attraversare l’ultima serie di scalini rugginosi quando,
nella nebbia, distinse
diverse figure ai piedi della scalinata.
Erano
una manciata di
mostri di cui tre erano già a terra esamini. Un uomo con un
cappotto scuro
caricò l’arma che aveva in mano, una micidiale e
agghiacciante motosega, e
terminò l’ultimo nemico rimasto.
Il
rumore stridulo
dell’arma era penetrante e angustiante. Henry strinse gli
occhi mentre vide
tutto quel sangue grondare dal corpo morente del mostro.
A
quel punto Walter
Sullivan, compiaciuto, passò la lingua fra i denti e
dall’interno della giacca
estrasse una pistola scura, pronta a dare il colpo di grazia al nemico.
Abbassò
la sicura della
pistola e fece per premere il grilletto, quando alle sue spalle
partì un colpo
di arma da fuoco prima di lui, atterrendo così il mostro.
Walter
inarcò le
sopracciglia e si girò alle sue spalle, accorgendosi in quel
momento della
presenza del suo ospite.
Vide
la canna del
revolver di Henry ancora fumante e il suo sguardo serio. La cosa rese
soddisfatto Walter, al che riposizionò la pistola dentro la
giacca e riportò le
mani sulla motosega ancora in funzione.
“Ti
stai divertendo anche
tu, Henry?”
La
voce di Walter
Sullivan era calda e bassa, ma sufficiente per destare alterazione nel
ragazzo
sulla rampa di scale.
Egli
scese lentamente,
continuando a tenere la pistola puntata contro l’assassino,
brandendola con la
mano destra.
Assunse
un’espressione
seriosa, a dispetto di quell’altro uomo che invece sembrava
tranquillo ed
eccitato, con quell’aria malsana e quella motosega in mano
che contribuiva a
donargli un aspetto folle.
“Rispondi.”
Henry pronunciò
fermamente, terminando di percorrere la scalinata e fermandosi,
guardando di
fronte a sé in direzione di Sullivan. “Che cazzo
significa questo posto?!”
Ci
fu un attimo di
silenzio fra i due. Il vento soffiò leggiadro e
l’unico rumore presente era il
ronzio emesso dall’arma di Walter.
L’uomo
biondo poi…rise.
Rise in maniera soffusa, tuttavia irritante. Così irritante
che Henry fece
partire un colpo con il revolver, sfiorando così il biondo
che non venne
colpito per un soffio.
Walter
guardò nella
direzione dove era stato sfiorato dal proiettile con fare indifferente,
per poi
rivolgere il suo sguardo spettrale a Henry che cominciò a
perdere la
razionalità.
“Ah,
ah, ah!”
L’Assassino
Sullivan
prese nuovamente a ridere. Questa volta in maniera più
forte, più irritante,
più folle.
“RISPONDI!”
urlò Henry,
mentre Walter continuava a distruggerlo psicologicamente con quella
risata. “In
questo mondo è tutto sottosopra. Non vi è un
senso logico! Della gente è morta
per mano tua mentre svolgeva le sue normali attività!
Io…io ho visto la gente
del mio palazzo qui! Qui hai ucciso Braintree, il mio vicino di casa!
Che
diavolo significa?!”
Henry
parlò a raffica,
ansimando e tremando con il corpo. Mai prima di quel momento aveva
avuto il
coraggio di parlargli, di minacciare l’assassino con
un’arma.
Sapeva
che era inutile,
ma sapeva che poteva avere delle risposte da nessun altro se non lui.
Cominciò
a provare un
fortissimo mal di testa nell’incrociare quegli occhi che
sembravano leggere nel
profondo della sua anima. Che sembravano leggere, gustare, assaporare
il suo
sgomento fino a ridurlo alla pazzia più completa.
La
risata malsana di
Walter Sullivan echeggiò in quel mondo isolato fino a quando
egli stesso si
bloccò di colpo guardando fulmineo Henry dritto negli occhi.
Al
sorriso si sostituì
immediatamente uno sguardo rigido e penetrante che gelò il
sangue al giovane
Henry, il quale si ritrasse appena, indietreggiando di un paio di passi.
Walter
lo osservava senza
battere ciglio, con un’espressione che sembrava quasi
disprezzarlo.
Poi
l’uomo biondo schiuse
le labbra e, al di la di ogni aspettativa, gli parlò.
“Il
Terzo
Segno dell’ascesa della santa Madre. I ventuno
sacramenti.” alzò l’indice
verso l’alto e pronunciò le parole che seguirono
con voce profonda,
conoscendole a memoria. “E Dio disse, torna alla fonte attraverso
la tentazione del
peccato. Sotto l'occhio
vigile del
demonio, vaga solitario nel caos senza
forma. Solo allora le quattro
conciliazioni saranno in allineamento.” ritornò a
Henry. “Cosa non ti è
chiaro?”
Henry
alzò un
sopracciglio, adirato.
“Mi
è chiara solo la tua
schizofrenia!” inveì
e a quel punto persino uno come
Walter sembrò offendersi.
Sebbene
fosse un rituale
malsano, Walter credeva fortemente nelle parole da egli pronunciate.
Henry
non doveva
dimenticare che l’uomo di fronte a lui aveva passato la vita
intera nella
preparazione dei ventuno sacramenti.
Aveva
visto la sua vita
fin da quando era stato portato al St. Jerome, e sapeva adesso il
significato
profondo che il rituale aveva per lui.
Nonostante
ciò, si
chiedeva come potesse un uomo convincersi di simili idiozie, di
convincersi che
potesse esistere una Santa
Madre o
qualcosa del genere.
Non
ne sapeva molto a
riguardo, in giro non si reperivano informazioni esaustive riguardo
all’Ordine.
Riguardo quell’Ordine che aveva lo scopo di portare il mondo
nella pace. Ma
Henry non faceva che vedere prodotti atroci, terribili, scaturiti dai
rituali
malsani del culto.
A
quale tipo di pace ambivano?
Non
si trattava,
piuttosto, di un patto
con il Diavolo?
Era
imprevedibile e lo
stesso Walter alla fine era caduto vittima di quegli stessi ventuno
sacramenti.
A
perdere non erano state
solo le persone uccise dallo spietato carnefice. Il carnefice stesso
aveva
ricevuto la dannazione
eterna dal
suo Dio.
Walter
intanto riprese
parola.
“Vaghi
anche tu qui, no?
Nel caos informe.” disse il biondo, e indicò
l’ambiente dei grandi magazzini
con la sua motosega. “Non si tratta altro che di una
menzogna. Gli scimmioni moderni
non fanno che urlare, credere
in stereotipi inesistenti, e rimangono imprigionati in una trappola
mortale
senza alcuna via d’uscita. Senza la quale si sentono
sprovveduti, inadempienti,
sbagliati.”
Fissò
Henry penetrante.
“La violenza e l’indifferenza è
l’unica arma che hanno per sopravvivere alla trappola.
Trasformandosi
così…”
A
quel punto, aumentò la
potenza della motosega e la trafisse violentemente nel torace di uno
dei mostri
umanoidi.
“…in
fatiscenti e
violente facce
di gomma!
Pronti a sgomitare chiunque per
sopravvivere.”
Walter
sprofondò ancora
di più la motosega fino a dividere quasi a metà
quel corpo già esamine.
Henry
rimase lì a
fissarlo mentre il sangue schizzava sul cappotto e sul viso del biondo.
Aveva
ancora il revolver puntato contro di lui, ma gli occhi erano rivolti
sgomentati
verso il mostro dalla faccia
di gomma.
Per
la prima volta Henry
vide quei mostri con occhi diversi.
La
pelle di quel mostro
era cadente e il viso stesso scendeva all’altezza del collo.
Essi erano umani e
bestie allo stesso tempo.
Loro,
per Walter
Sullivan, rappresentavano l’uomo.
L’uomo dalla faccia
di gomma.
L’uomo violento e indifferente che
sopravvive a tutti i costi nel
mondo. Nel caos.
A
quel punto prese a
tremare e deglutì sentendo di perdere il controllo sui
nervi. Alzò anche la
mano sinistra per sorreggere più fermamente il revolver.
Walter
levò via la
motosega con un movimento veloce, lasciando schizzare via altro sangue
che andò
a colpire appena persino Henry.
Dalla
lama grondava molto
sangue e Walter attese qualche attimo prima di diminuire la
velocità di quella
lama letale.
Improvvisamente
sorrise.
Sembrò quasi divertito e la cosa preoccupò non
poco lo sventurato Henry.
“Il
tuo vicino di casa,
Henry. Lui stesso è l’emblema dell’uomo
che crede di non aver bisogno della Madre. Che
ignora dove Lei sia.
Che ignora chi Lei sia.
Ma egli ha perso la strada nel
caos dove ora vagherà in eterno. L’uomo condanna e grazia da
solo, senza aver bisogno di Dio.
Ma l’uomo ha bisogno di Dio.
L’uomo quando condanna,
condanna solo se stesso. Il tuo vicino, è stato giustiziato della
pena che la sua specie ha
creato. La condanna che
la sua stessa concezione di
giustizia ha
creato.”
Braintree
era morto con
l’elettrocuzione.
Secondo
la concezione
della “giustizia” umana.
E
Walter lo aveva
giustiziato così di proposito, meditando e analizzando
accuratamente la sua
vittima.
Era
stato lui stesso a
chiedergli delle risposte, ma Henry solo allora si rese conto del peso
che
avevano avuto le sue stesse parole.
Sullivan,
poi, riprese
parola, avvicinandosi lentamente al ragazzo dai capelli castani, con
gli occhi
che sembravano brillare nella nebbia come quelli di un violento
predatore.
“L’Ordine
insegna che, in
origine, gli uomini non avevano nulla. I
loro corpi dolevano e i loro cuori contenevano solamente odio.
Combattevano
senza sosta, ma la morte non giungeva mai. Si disperavano, bloccati in
questa
eterna sofferenza. Dio poi ascoltò le loro preghiere per la
salvezza. Dio creò
il tempo e lo divise in giorno e notte. ”
Walter
si avvicinava sempre di più, e
Henry non riuscì a fare altro se non indietreggiare a ogni
passo che avanzava
il biondo.
“Dio
tracciò la via per la salvezza e
diede agli uomini la gioia. E Dio tolse
agli uomini il dono
dell'eternità. Dio creò gli esseri viventi per
tenere gli uomini in obbedienza
a lei. Il Dio rosso, Xuchilbara; il Dio giallo, Lobsel Vith; molti dei
e
angeli. Infine, Dio iniziò a creare il Paradiso, dove
bastava entrare per dare
agli uomini la felicità.”
Il
volto dell’assassino si fece sempre più
maligno. Henry indietreggiò ancora, mentre egli continuava a
parlare del culto,
citando versi e nomi che lui mai aveva sentito prima di quel momento.
Walter
invece ci era nato e cresciuto.
“Ma
Dio esaurì le forze allora, e crollò a
terra. Tutti gli uomini del mondo piansero per questo sfortunato
evento, finché
Dio esalò il suo ultimo respiro. Ritornò polvere,
promettendo il suo ritorno.
Da quel giorno l’uomo speranzoso lo attende.”
A
quel punto Henry non poté più
indietreggiare. Sulla schiena avvertì il parapetto di ferro
che gli impedì di
allontanarsi ulteriormente dall’uomo col cappotto. Buttando
lo sguardo alle sue
spalle, vide solo la fitta nebbia sotto di lui, avvertendo un leggero
stato di
vertigini.
Ritornò
poi velocemente a Walter che aveva
all’improvviso messo in moto la motosega, puntandola contro
di Henry.
Henry
minacciò nuovamente Sullivan con il
revolver.
“F-fermo!”
urlò, ma oramai egli era già
fuori controllo.
Walter,
con uno scatto repentino, fu
subito di fronte al ragazzo e lo ferì alla spalla destra con
quell’agghiacciante
lama rotante.
“A-AHRG..!!”
Henry
strillò dal dolore accecante
scaturito da quell’arma sporca e rugginosa. Sentiva la carne
lacerarsi,
strapparsi, avvertendo il bruciore indicibile che lo portò
quasi alla pazzia.
Urlò
ancora di dolore mentre Walter
scavava nella sua carne. Henry ebbe la terribile sensazione di sentire
il corpo
spaccarsi. Sentiva Walter ridere e quel forte ronzio lo tormentava
sempre più
forte.
Con
la mano libera cercò di bloccare il
braccio di Sullivan pressandolo violentemente via da lui.
Digrignò i denti
cercando di opporsi quanto più possibile, ma Walter era
dotato di un’indubbia
forza con la quale riusciva duramente a competere.
Walter
biasimò quasi quello sforzo inutile
da parte del ragazzo.
“Secondo
le sacre scritture, secondo il
culto di Valtiel, la Madre tornerà dopo aver restituito a
lei i tre segni. I
tre segni tracciati dai ventuno sacramenti.”
A
quel punto Henry sgranò gli occhi,
sentendo l’uomo col cappotto sottolineare i famosi ventuno
sacramenti.
Vide
gli occhi del biondo assassino
provare quasi odio nei suoi confronti. Perché lui era quello
che gli aveva
impedito di terminare il rituale.
Era
lui che gli aveva mostrato l’inganno
subito dal culto. Era lui che gli aveva mostrato chi era davvero
la Santa
Madre per Walter Sullivan. Era lui che, vagando nel
suo mondo, aveva mosso
dei suoi ricordi celati nel suo inconscio.
Perché
il peso di Colui Che Riceve
Saggezza non era sentito solo dal ventunesimo sacramento…ma
persino da lui
stesso, costretto a rivivere quelle esperienze.
Henry
sentì la rabbia di Sullivan, che
rese il suo colpo ancora più violento, mentre il sangue
caldo gli grondava su
gran parte della spalla e del braccio.
Poi
Walter, all’improvviso, disattivò la
motosega e guardò Henry che era oramai all’estremo
delle sue forze. Aveva
ancora la motosega incastrata sulla spalla e Henry dovette sforzare
enormemente
la vista per vedere il volto di Sullivan farsi sempre più
vicino al suo.
Provò
un profondo turbamento del vedere i
suoi occhi da assassino così nitidi, ma non aveva
più alcuna forza per opporsi.
“Henry,
dovresti avere fede o diverrai
schizofrenico.” gli
sussurrò Walter, sorridendogli beffardamente.
Con
un gesto violento estrasse la motosega
dalla sua spalla.
Henry
a quel punto, tremante e
disorientato, si poggiò sulla ringhiera dietro di lui. Vide
Walter Sullivan
chiudere gli occhi e fare un lieve cenno col capo, ma egli non aveva
più la
capacità di comprendere.
Lo
fissò inerme mentre questi si
allontanava da lui. All’improvviso, la ringhiera sulla quale
era poggiato
cedette, facendo cadere Henry giù, sparendo così
nella nebbia.
***
“Come
la mano, trema
tutta la vostra realtà. Vi si scopre fittizia e
inconsistente. Artificiale come
quella luce di candela. E tutti i vostri sensi vigilano tesi con
spasimo, nella
paura che sotto a questa realtà, di cui scoprite la vana
inconsistenza,
un'altra realtà non vi si riveli, oscura, orribile: la vera.
Noi
tutti siamo esseri
presi in trappola, staccati dal flusso che non s'arresta mai, e fissati
per la
morte. Dura ancora per un breve spazio di tempo il movimento di quel
flusso in
noi, nella nostra forma separata, staccata e fissata; ma ecco, a poco a
poco si
rallenta; il fuoco si raffredda; la forma si dissecca;
finché il movimento non
cessa del tutto nella forma irrigidita...”
(Luigi
Pirandello- La trappola)
***
[IL
MONDO DEL PALAZZO, il
bar]
TIC
– TAC
TIC
– TAC
TIC
– TAC
…
Il
ticchettio dell’orologio continuava a
battere incessantemente. La pelle di Henry bruciava e la camicia
all’altezza
della spalla destra era strappata e tinteggiata di rosso.
Il
ragazzo si alzò toccando la spalla
dolorante, sperando che, dopotutto non fosse nulla di grave.
“Ah!”
urlò, cercando di muovere il braccio.
Riusciva
a muovere la mano destra e parte
del braccio. Sebbene non avesse alcuna competenza medica, dedusse che,
dopotutto, Walter gli avesse risparmiato le ossa.
Si
era semplicemente divertito con lui.
Decise
di ignorare il bruciore terribile e
il mal di testa. Non appena la sua vista si fece meno offuscata, si
guardò
attorno.
Era
nel bar dei grandi magazzini. Nel bar
di Eric Walsh.
Alzando
gli occhi, vide un raggio di luna
colpire debolmente il locale vuoto.
In
cuor suo maledisse Walter Sullivan.
Ogni volta che lo incontrava finiva per cadere da qualche parte.
Si
avvicinò alla porta chiusa a chiave da
un codice da inserire e cominciò a premere la tastiera.
“…rotta?”
disse, non vedendo alcuna
reazione dall’apparecchiatura.
Girò
il pomello della porta e vide che
questa si aprì senza alcuna difficoltà.
Il
luogo che ritrovò dinanzi a sé fu
quella lunga, infinita o quasi, scalinata che percorse a quei tempi,
prima di
assistere alla terribile esecuzione di Richard Braintree.
Alzò
gli occhi scrutando quella
lunghissima scalinata, quel lungo percorso che segnava la fine
del mondo
del caos.
Solo
allora scorse, nelle vicinanze della
cima, un uomo con la camicia celeste aprire una porta cautamente. Era
il suo
vicino di casa Braintree.
Henry
abbassò il capo, rassegnato e in
parte persino impietosito.
La
vittima era giunta al carnefice. L’uomo
stava per ricevere la condanna creata dall’uomo stesso.
A
quel tempo non poté far nulla per
salvarlo.
Non
poté far altro che vedere il suo corpo
bruciarsi e ascoltare le sue parole e la sua mente che fino
all’ultimo rifiutò
di spegnersi.
Richard,
rifletté, era un uomo che aveva
vissuto proprio come aveva detto Sullivan. Era il Dio di se
stesso.
Lui
giudicava. Lui puniva. Lui graziava.
Giudice e boia allo stesso tempo.
Eppure
anche in punto di morte, aveva
avuto la razionalità di riconoscere Walter Sullivan e di
comprendere ciò che
gli stesse accadendo. Egli dimostrò ancora una volta
l’incredibile capacità di
vivere in un mondo dove lui era solo e aveva stretto i denti alla
violenza e
all’autodistruzione del caos.
In
quel senso, i mostri che Walter aveva
chiamato ‘facce di gomma’ in qualche modo lo
rappresentavano. Perché per
Walter, Richard aveva rappresentato l’uomo medio della
società moderna.
L’uomo
senza dio che vaga nel caos
informe. Nella trappola della vita. In un mondo dove solo la lotta
costante, la
violenza e l’indifferenza regnavano per affermare la
sopravvivenza.
Henry
percorse tutte le scale in silenzio,
da solo, fino a raggiungere la porta con su scritto #207.
L’appartamento del suo vicino di casa.
Quando
entrò, non si ritrovò nella casa di
Braintree. Si ritrovò all’esterno. Sul tetto
più alto del palazzo.
[IL
MONDO DEL PALAZZO,
sul tetto]
Il
buio regnava sovrano. Quella parte del
tetto della palazzina, di fronte gli appartamenti di South Ashfield
Heights,
sembrava superare persino la nebbia, che era appena sotto di lui
impedendogli
di vedere il panorama sottostante.
Henry
si avvicinò lentamente, con volto
serioso, all’uomo che era seduto sul ciglio del tetto. Aveva
una gamba piegata
all’altezza del petto e l’altra penzolava nel
vuoto. Sembrava sogghignare
appena, come se sapesse che Henry fosse dietro di lui. Suonò
appena con
un’armonica, poi si fermò.
“Richard
è morto. Sei arrabbiato?” disse
Walter con voce bassa e rauca. “Io ti avevo detto di stare
attento al tuo
vicino di casa, Henry…”
Detto
questo, il biondo si alzò e si
rivolse verso il ragazzo, cambiando completamente atteggiamento. Le
sopracciglia si distesero e il suo sguardo divenne più
apatico. Quasi spento.
Henry
prese parola.
“Quella
voce nel mio appartamento…eri tu?”
gli chiese, ma, vedendo che Walter non lo rispose, aggiunse, con una
voce
leggermente alterata. “Non cambierò mai idea sul
tuo conto. Tu rimani un killer
senza alcuna pietà. Lo sei e lo rimarrai per sempre,
Walter.”
Walter
chinò il capo di lato. La frangia
cresciuta gli cadde sul viso coprendone una buona parte.
Henry
trasalì appena quando intravide un
ghigno disegnarsi sul volto del biondo.
Il
suo sorriso si fece sempre più largo e
il ragazzo andò in uno stato di allerta sentendo
l’adrenalina crescere in lui.
Il
volto di Walter era divertito,
eccitato, e questo mandò in tilt Henry incapace di reggere
quegli occhi che lo
guardavano incessante.
L’uomo
mosse le labbra parlando
lentamente. A Henry sembrava che solo il suo tono di voce fosse in
grado di
torturarlo violentemente.
“Anche
tu, oramai, appartieni a questo
mondo, Henry.”
Henry
sbandò a quelle parole e la sua sicurezza
vacillò.
“Cosa
stai..?” disse, incapace di
comprendere quelle parole.
Che
diavolo diceva??
Walter
raccolse la motosega che aveva
affianco a lui e l’azionò muovendosi velocemente
verso il ragazzo. Sogghignò
aspramente, sotto lo sguardo sgomentato di Henry.
“…appartieni
a questo mondo. Appartieni a
me!”
Il
rumore martellante della motosega andò
ad incontrarsi con la voce di Walter mentre egli alzò
violentemente l’arma per
colpire il ragazzo.
Henry
ebbe la prontezza di spostarsi
repentinamente, aiutato dall’adrenalina in corpo.
Così
Walter andò a colpire il muro, dove
la motosega andò a sprofondare in un attimo.
L’uomo dai capelli lunghi fece per
estrarre l’arma, ma presto si rese conto che questa si era
incastrata a fondo,
così da essere completamente inutilizzabile.
Cercò di far forza con un piede,
ma il tentativo fu del tutto inutile.
Fu
allora che Henry caricò i colpi del
revolver e sparò. Colpì Walter in pieno ferendolo
su un fianco.
Walter
cadde a terra, essendo stato colpito
alla sprovvista, riuscendo a stento a poggiare le mani a terra,
digrignando i
denti.
Si
voltò lentamente, reggendosi sui gomiti
e rimanendo sdraiato a terra.
Osservò
la ferita toccandola con la mano.
Vedendo che essa prese a tinteggiarsi di rosso, concentrò
subito la sua
attenzione su Henry, rivolgendogli occhi adirati.
Walter
si fece serio solo quando si
accorse che, intanto, il moro aveva preso ad avanzare gelidamente verso
di lui.
Aveva uno sguardo tetro che attirò l’attenzione
persino di uno come
l’assassino.
Henry
si portò di fronte l’uomo con
cappotto, scavalcando le sue gambe e tendendo la pistola direttamente
sulla
fronte di lui.
Walter
a quel punto rise.
“Non
posso morire. Sono già morto. Lo
sai.”
“Sì.
Lo so…”
Henry
abbassò la sicura della pistola e
Walter smise allora di ridere.
Oramai
non ne poteva più. Non ne poteva
più di soccombere. Non ne poteva più di sentire
quella pazzia in corpo.
Dunque
sparò.
Sul
muro, accanto alla motosega utilizzata
da Walter, schizzò del sangue di un rosso vivo pulsante.
[APPARTAMENTO
302, nel
salotto]
L’ambiente
era buio e non
vi era possibile distinguere altro se non i lievi contorni delineati
dalla luce
che filtrava tenue dalle finestre.
Si
intravedevano il
divano, la poltrona, il televisore, i banconi della cucina…
L’ambiente
aveva un
design semplice, ma moderno e fresco. Peccato che fosse completamente
sepolto
sotto l’ingente, assurda, quantità di cera sciolta
su tutta la superficie della
casa. Vi erano candele ovunque. Tutte consumate. Spente.
Candele
e cera a terra,
sui mobili, sugli scaffali, lungo il corridoio…
Henry
Townshend era
sdraiato sul divano, assorto nei suoi pensieri.
Guardava
fisso già da un
po’ sul soffitto, dove delle gocce scure cadevano sul
pavimento creando una
pozza di lacrime
nere.
Nel buio era a stento distinguibile
la figura di Joseph Schreiber che mormorava in silenzio le parole che
aveva
conosciuto prima della morte.
“Walter
Sullivan non può
morire lo so…” mormorò Henry.
“…perché lui è
già morto.”
Lo
aveva comunque
sparato. Lo aveva colpito in fronte e aveva visto il suo sguardo
spegnersi.
Ma
sapeva che non avrebbe
mai potuto colpire un’ombra. Ciononostante aveva avuto
bisogno di farlo, di
reagire alla violenza e alla disperazione che aveva in corpo.
Guardò
la sua mano e
toccò il volto, ancora sporco del sangue di Walter Sullivan.
Stranamente le sue
ferite erano guarite, la sua spalla stava bene ora, ma il sangue era
rimasto.
Ripensò
in quel momento
alle parole dell’assassino.
“…appartieni
a questo mondo. Appartieni a
me!”
Corrucciò
il viso, innervosendosi. Subito
si alzò e le sue mani presero a tremare. Le serrò
in due pugni e il suo volto
divenne sempre più arrabbiato, nervoso.
“Io
non appartengo a questo mondo! Io sono
vivo!” urlò.
Aveva
ancora in mano il revolver di
Richard e prese a sparare violentemente per tutta la casa. Alla radio,
allo
spioncino della porta, sui muri.
Crivellò
la stanza di colpi finché non
terminò tutti i proiettili, continuando a premere il
grilletto anche con l’arma
scarica.
Cominciò
ad ansimare forte,
inginocchiandosi a terra, sprofondando sulla pozza nera.
“Che
cosa mi succederà..?” disse infine
affranto, rivolgendo i suoi occhi al voltò di Joseph,
sepolto nel soffitto
della casa.
A
quel punto tirò un urlo liberatorio e
poggiò i gomiti a terra non potendone più di
quella situazione.
Mentre
perdeva le staffe come mai aveva
fatto in tutta la sua insignificante esistenza.
Mentre
si disperava, aveva gli occhi
sbarrati e persi. Continuando a pensare a quella frase.
“…appartieni
a questo mondo. Appartieni a
me!”
Digrignò
i denti ancora.
Lui…apparteneva
davvero a quel mondo
parallelo? Anche se aveva scongiurato i ventuno Sacramenti? Nonostante
Walter
Sullivan non lo avesse ucciso?
Essere
il ricevitore di saggezza che cosa
comportava per davvero?
Se
apparteneva a quel mondo…
…Voleva
dire che una parte di lui era
anch’ella morta? Anche se non era divenuto la ventunesima
vittima?
Oppure,
lui…
Un
bruciore forte all’altezza del petto lo
costrinse a rannicchiarsi di colpo.
“Ah!”
Era
una fitta atroce. Portò la mano sul
petto cercando di placare il dolore, che sembrava colpirlo
incessantemente,
sempre più forte.
La
testa prese a girare. Si sentiva di
venir meno sempre di più, quando una voce poi prese a
parlare.
“Henry
Townshend. Colui che riceve
saggezza. Secondo il tomo Cremisi sei tu il segno finale.”
Henry
la riconobbe, era la stessa voce che
prima era nel suo appartamento.
Quella
che aveva udito dietro il muro dove
Walter aveva ultimato la prima fase del rituale dei ventuno
sacramenti.
Fece
per alzarsi, ma lo stress accumulato
e la pressione bassa, lo fecero invece piombare a terra.
Cercò
di parlare, ma alla fine le forze lo
abbandonarono definitivamente e non riuscì più
nemmeno a tenere gli occhi
aperti.
Avvertì
un terribile freddo, mentre perse
completamente conoscenza.
In
quel momento, dalla crepa sul muro in
fondo al corridoio, fuoriuscì una figura interamente
sfigurata.
Era
un uomo alto, con i capelli castani e
sporchi di sangue. Una lunga frangia disordinata impediva di vederne il
volto
anch’esso brutalmente devastato.
Portava
una camicia bianca consumata e dei
jeans scoloriti. Sembrava guardare Henry, mentre rimaneva immobile.
Prese
poi parola.
La
voce era la stessa con cui Henry aveva
parlato.
“Henry
Townshend. Colui che riceve
saggezza. Secondo il tomo Cremisi sei tu il segno finale.”
Disse.
“Io
sono Henry Townshend. Colui che riceve
saggezza. Secondo il tomo Cremisi sono io il segno finale.”
Alzò
lo sguardo, lasciando vedere le
enormi cicatrici sul viso. I suoi occhi verde pallido guardarono il
ragazzo
svenuto.
“Benvenuto
nella parte profonda di lui.”
[…]