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Autore: TheMask    08/09/2012    1 recensioni
Bene, buon salve Efpiani sul fandom del death note!
Questa fan fiction, è collegata a Bakup: http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=828114&i=1
Ma anche se non l'avete letta, potete comodamente capire questa.
Si è a tre mesi dalla morte di Mina, una componente di un gruppo di amici formatosi in un orfanotrofio/gabbia-di-matti diretto da un satanicissimo Wammi. Il sudddetto orfanotrofio, è stato fatto chiudere per via di metodi non molto ortodossi usati la dentro sui ragazzi e bambini.
BB decide di tornare nella camera di Mina, sua grande amica, cercando qualcosa come un diario che gli sveli il misterioso passato di essa e trova molto molto di più...
Avverto che lo stile non è come quello di Bakup, ma forse un po' più... sviluppato. Spero ancora che vi piaccia! :D
Estratto:
Mina era morta da tre mesi precisi quel giorno. Il giorno in cui con un grande sforzo, declinando l’invito di L a venire con me, ero uscito di casa con una grande borsa nera sulla spalla, salito in macchina e guidato fino al grande edificio circondato da un prato ormai selvaggio con una grande targa dorata sul cancello: la casa di Wammy.
Genere: Dark, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Shonen-ai, Shoujo-ai | Personaggi: Beyond Birthday, L, Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Eccomi al secondo capitolo di questa storia. Non so bene se andare avanti o meno, ditemelo voi.
Comunque, vi avverto che questo è un capitolo che funge quasi da presentazione: si rivedono i vecchi amici e si comincia a svelare alcuni dei segreti della misteriosa Mina.
Qualsiasi commento è ben accetto, grazie.
Mina




Scossi la testa e accesi il motore, accingendomi a tornare a casa.
Parcheggiai la macchina vicino a casa e mi entrai con la borsa a tracolla, cercando L con lo sguardo: lo trovai come al solito seduto davanti al pc a pensare a qualche caso.
“Ciao BB, come va?” mi chiese con la voce atona.
“Tutto bene… ecco, ho trovato qualcosa… insomma, dovremmo chiamare gli altri.”
Il detective si girò a guardarmi e appena vide la borsa piena si affrettò verso il telefono. In pochi minuti erano tutti convocati d’urgenza da noi.
Per prima arrivò Jennifer, lo sentimmo da rombo insistente della moto. Era da un mese che non ci rincontravamo, tutti avevano infatti tentato di rifarsi una vita lasciandosi il passato alle spalle, e vedere i compagni della sfortunata sorte che ci era toccata non aiutava di certo.
La bionda salì le scale con passi pesanti e bussò alla porta un paio di volte con il casco della moto. Andai ad aprire io e la salutai pur con un certo distacco.
Senza chiedere niente, Jen entrò in casa e fece un cenno a L per poi sedersi intorno al tavolo tondo al centro della sala. La seguii sospirando. Era cambiata molto. Ora infatti, la bionda non era più bionda. Bensì aveva i capelli neri come il catrame, pur con alcune ciocche bionde che spiccavano fra i capelli.  Anche i suoi vestiti erano scuri: indossava un paio di pantaloni di pelle neri e una maglietta grigia con sopra un corto giubbotto di pelle. I suoi occhi erano molto tristi, facevano sentire in colpa chiunque li incrociasse.
“Come stai?” le chiese L.
“Bene, bene. Perché ci hai chiamato L?”
“Aspetterò gli altri per dirlo. Così non lo dovrò ripetere troppe volte.”
“Non siamo più così tanti” ribatté Jen.
Calò un silenzio pesante.
Poi arrivò Matt, insieme con Mello. Entrarono anche loro silenziosamente, salutandoci appena e sedendosi vicino a Jen.
Dopo qualche minuto, bussarono di nuovo: era Federica.
Aveva degli occhi sottili, quasi cattivi, sebbene una volta erano stati pieni di allegria.
E infine aprii a Near e lo trovai un po’ cresciuto. Non disse una parola naturalmente e quando si sedette anche lui, fummo di nuovo al completo. Nessuno incrociava lo sgaurdo con gli altri, anzi, quasi tutti tenevano gli occhi sul vetro del tavolo o sui piedi.
Presi una sedia anche io e misi la borsa sul tavolo.
“Vi devo parlare di Mina.” Dissi semplicemente.
E a un tratto, l’attenzione di tutti si spostò su di me, tutti gli occhi scattarono sui miei.
“Io.. io sono tornato all’orfanotrofio e… ho trovato questo.” Dissi, estraendo dalla borsa il foglio con il suo testamento.
“Cos’è?” chiese subito Mello.
Glielo porsi, togliendomi il peso di doverlo leggere ad alta voce, cosa che probabilmente non sarei riuscito a fare. Mello lo tenne in mano per alcuni minuti, poi lo passò con un gesto secco al compagno, Matt, che ripeté la scena.
Il foglio passò in mano a tutti, anche in mano a L, che ancora non sapeva cos’avevo trovato nella stanza di Mina.
L’atmosfera nella stanza era sempre più pesante. Jennifer si asciugava una lacrima col dorso della mano.
Poi, senza sapere cosa dire, diedi loro ciò che a ciascuno Mina aveva destinato. Ciascuno se lo rigirò tra le mani come se fosse una reliquia. Matt invece aveva preso la lettera, tutti erano stati d’accordo a dargliela, e aveva deciso di partire il giorno successivo, da solo. Mello non aveva insistito.
Ci guardammo.
Poi loro cominciarono ad alzarsi e ad andarsene, salutandosi con un abbraccio al massimo. Capivo che per loro era come riaprire una ferita che tentavano da mesi di rimarginare.
E quando il rombo della moto di Jennifer si fu estinto in lontananza, io e L rimanemmo in silenzio, a pensare.  
Infine mi alzai e uscii dalla stanza, dirigendomi in cucina. Era ormai sera e presi come pretesto il fatto di cucinare per andare via da quella stanza.

Avevamo appena finito di cenare, quando L mi chiese se volevo leggere il diario ottenendo per tutta risposta un sospiro.
“Se non vuoi non importa… ”
“No, va bene.” Dissi sommessamente.
“Tu lo sai perché Mina era la dentro?”
“No, tu?”
“Neanche io.” rispose, tirando fuori il quadernetto e andando ad accucciare sul divano, seguito da me.
Quella sera qualcosa ci separava, non capivo cosa.
Ma poi cominciammo a leggere, e tutto questo passò in secondo piano.

Caro diario (se così posso chiamare questa raccolta di fogli a righe che ancora non conosco),
ho intenzione di riempire la tua candida concezione di spazio con lettere nere che nessuno a parte me leggerà forse. Ma se qualcuno sta veramente leggendo queste righe, allora vuol dire che, come mi ero immaginata, sono morta prima dei venticinque anni. Chiunque tu sia, amico, nemico, sconosciuto, ti prego abbi cura di questi fogli, perché conservano tutti i miei segreti, i miei pensieri, la mia vita. Se vuoi, leggile, non m’interessa, visto che tanto sono morta e non lo saprò mai. Se non vuoi, non buttarle giu da un balcone o nello scarico del tuo amato gabinetto perfavore. Te ne sono grata. E se esiste la vita nell’aldilà, cosa del che in effetti io dubito, la gratitudine di una morta può servire a qualcosa, no?
Comunque, caro il mio diario,
desidero raccogliere qui le mie memorie. Perché? perché se come credo muoio giovane, i miei amici potranno sapere finalmente qualcosa di me, visto che con ogni probabilità s’illuderanno di sapere qualcosa, pur non sapendo. In caso contrario, sarà interessante rileggere queste righe per me, fra un bel po’ di anni.
Bene allora, mi prendo la libertà di aprire con una bella frase fatta a effetto:
cominciamo dal principio, lettore mio…

Avevo compiuto da cinque mesi quattordici anni, ma non fu a questo che pensai quel sabato mattina uscendo dal letto: mia madre aveva la febbre alta e non saremo potuti andare in vacanza come avevamo previsto. Mio padre stava preparando la colazione quando entrai in cucina e mi sorrise comprensivo vedendo il broncio che avevo messo su. Mi disse qualcosa come “Vedrai che si rimetterà in pochi giorni e potremo partire lo stesso!”, non ricordo con precisione.
Dopo aver mangiato mi rintanai in camera mia a scrivere una delle mie storie e ci rimasi per un bel po’. Papà era occupato a stare con mia madre, misurarle la febbre eccetera e non mi chiese di vestirmi ne di fare qualcosa in casa come avrebbe fatto normalmente.
Passarono le ore e a un tratto accadde. Qualcuno entrò in casa. Io non me ne accorsi subito, ma mio padre si e corse all’ingresso chiedendo ci fosse.
Poi successe. Udii uno sparo, poi un altro. Ero immobile, le orecchie tese, il cervello in pappa. Non era possibile, mi ripetevo. Non poteva essere possibile. Mi alzai, e mi avvicinai alla porta senza riuscire a pensare con logica. Sentii delle voci litigare. Fra quelle, il familiare timbro di mio padre non c’era. Non so cosa pensai in quei momenti. Mi ricordo solo una sensazione primordiale, di paura, no, di terrore puro. Ogni parte di me era tesa, agitata, sull’attenti, ma il mio cervello era come scollegato. Avevo la pelle d’oca e dubitavo che sarei rimasta viva ancora a lungo. Non urlavo perché non ci riuscivo, non per altro.
 Dei passi si avvicinarono nel corridoio, ma la porta dietro la quale mi rifugiavo, rimase ferma. Una voce femminile esclamò: “Ma non dovevano essere in vacanza?”
“Mi avevano detto così, che cazzo ci posso fare?” rispose una voce preoccupata dall’altro lato della casa.
Sentii la voce tenue di mia madre.
“Cosa… cosa ci fate qui… chi.. chi sie-”
La sua voce fu interrotta. “Porca puttana Wolf, vieni qui! Che cazzo faccio, ammazzo anche lei?”
“Perché cazzo urli il mio nome? Ammazzala subito!”
“No… no perfavore no vi pre-”
Sparo
Persi un battito.
Seppi che non l’avrei più sentita in vita mia e sentii una profonda rabbia crescere dentro di me, forte e strana per me.
Li sentii andare in giro per la casa. Poi uno dei due si avvicinò alla porta di camera mia e non fui capace di muovermi. Mi stanò con una facilità che non mi perdonai mai.
“Cazzo c’è anche una bambina!” disse la donna.
“Ma porca troia!” rispose l’uomo dalla cucina.
Lei era vestita tutta di nero e aveva un passamontagna sul viso, ma alcuni capelli biondi uscivano lunghi e lisci. Aveva degli occhi azzurri. La guardai dritta in quel ghiaccio che aveva visto i miei genitori morire e per un momento, il dolore fu portato in secondo piano da quella rabbia che non avevo mai conosciuto.
La donna si chinò su di me addolcendo lo sguardo.
“è ancora piccola. Hei bambina, vuoi venire con noi?” mi chiese come se fossi deficiente.
Senza pensare alle conseguenze, le tirai un forte pugno sul naso con tutta l’energia che avevo.
“CAZZO! QUESTA TROIETTA MI HA ROTTO IL NASO!”
“E tu le hai ucciso i genitori idiota. E abbassa quella fottuta voce, cazzo!” Le rispose Wolf sempre dalla cucina.
Il mio sguardo, per puro caso, si fermò sui fianchi dell’assassina, con le mani sul viso: la pistola. Ancora una volta agii impulsivamente e la sfilai dalla cintura con una mossa veloce, che la donna non riuscì a evitare e che anzi, neanche vide, occupata com’era a tenersi il naso.
Poi sentì il rumore della sicura.
“Hei bambina, lascia quella pistola. Non riusciresti mai a uccidermi, idiota. Dai dammela cacasotto.” Disse con una voce mielata, falsa.
Avevo il dito fermo sul grilletto, ma la mano mi tremava. O morivo io, o morivano loro.
“Dai, dammi quella cazzo di pistola! Tanto non hai le palle per uccidermi, sei una fottuta bambina!”
Non riuscivo a muovermi. Dovevo, dovevo, dovevo farlo. Ma come potevo? Non me lo chiesi. Ero troppo combattuta per formulare i pensieri completamente.
Pensai agli occhi di mia madre. A quelli di mio padre.
“CAZZO UN GATTO!”urlò Wolf. Sparo.
“Dammi la pistola cretina, chi cazzo ti credi di essere, eh?”
No. Non te la do la tua fottuta pistola.
Ora non so dire come feci. Ma riuscii a premere quel cavolo di grilletto, e il colpo partì. Ebbi fortuna, perchè andò dritto alla testa della donna. Altro colpo. La donna cadde. Sentii un dolore profondo, come un urlo stridente che partiva nel mio stomaco e mi saliva al cervello. Tremavo, ma ora sapevo che potevo farcela. Oramai ero un’assassina. Il primo colpo, il più difficile. La prima vittima, quella che non scordi mai. E chissà perché, per me fu più che veritiero.
Non sapevo cosa fare. E a un tratto lo seppi.
“L’HAI UCCISA JEN?”
Mi misi dietro la porta.
“JEN?”
Dei passi si avvicinarono lentamente. Aveva la guardia alzata. Per me era un gran male. Ma poi vide il corpo della compagna.
“JEN! DOVE SEI TROIA? DOVE CAZZO SEI!” urlò, lanciandosi sull’assassina e guardandosi intorno.
“Dietro di te.” Furono le ultime parole che sentì.
Ancora uno sparo profanò la casa.

E grazie a dio ci siamo tolti di mezzo la faccenda pietosa dei miei genitori, perché non vedevo l’ora. È per questo che è corta. Mi sembra ovvio il motivo per cui non mi ci voglio di certo soffermare. Ripensandoci, spesso credo che sarebbe stato meglio morire per me, che non tramutarmi in un’assassina di punto in bianco. Come feci? Come potei guardare una persona negli occhi e toglierle la vita? E in un secondo ero già una esperta omicida. Infatti avevo teso la trappola fatale al collega della bionda e paff, un’altra vita a cui la fine era giunta troppo presto. E tutti i loro pensieri, le loro paure, le loro piccole vittorie, le loro vite, per me non furono nulla. Come potei? Dopo che successe, ero come in trance, agivo senza sapere di farlo, come se una voce mi dicesse cosa fare e io non potessi disubbidirle. Così ficcai un po’ di vestiti in una borsa insieme con tutti i soldi che trovai, presi la mia chitarra acustica e uscii di casa, chiudendomi la porta alle spalle e lasciando la dentro tutto il mio passato. Si chiude una porta e si apre un portone, no? Già, il portone di casa. Finii in strada e cominciai a camminare senza meta per le larghe strade di Londra. Passarono le ore, senza che io mi fermassi una sola volta. Ormai erano circa le sei di sera e mi trovavo in centro, davanti al big ben. Alla fine mi sedetti sul bordo del ponte a gambe incrociate e per un po’ guardai la gente passare frettolosa, i turisti fare fotografie, tutti ignari di me. Allora presi coscienza che per vivere avrei dovuto suonare e cantare davanti a costoro, cosa che mai avevo fatto. Presi però coraggio, estrassi la chitarra appoggiando davanti a me la custodia aperta come avevo visto fare altrove e cominciai ad accordare. Come diceva mia madre? Tira fuori la voce da dentro lo stomaco, fa del tuo corpo una chitarra e la tua testa sarà una cassa armonica, i tuoi pensieri saranno corde.
Che canzone potevo cantare per presentarmi a quel pubblico di ignoti, di vite che non avevo il privilegio o la sfortuna di incontrare, ma delle quali potevo cambiare un momento con la musica?
Pensai a uno dei miei libri preferiti, “qualcuno con cui correre” e mi riconobbi nella protagonista. L’unica differenza era che lei aveva uno scopo che l’aiutava ad andare avanti, io avevo solo una gran dose di paura.

L chiuse il quaderno e mi guardò negli occhi. aspettai che parlasse, come sapevo che avrebbe fatto.
E invece niente. Nulla. Nisba. Niet. Nada.
Silenzio. E quei giganteschi occhi da panda che mi fissavano insistentemente.
“Sono stupito” ammise infine.
“Cosa? tu sei stupito?” gli chiesi incredulo, per un momento dimentico della situazione.
“Si BB. Perché non dovrei? Non me lo aspettavo. Tu?”
“No, neanche io. Credi che dovremmo dirlo a… agli altri?”
“Non li chiami più amici, vero?”
“La verità è che non lo sono più. Non fraintendermi, morirei per loro se dovessi, ma… c’è qualcosa di troppo pesante che non ci permette di frequentarci come allora.”
“Allora? Stai parlando di neanche un anno fa.”
“A volte mi sembra che sia passato molto più tempo.”
“Perché allora fra di noi non è cambiato nulla?”
“Fra di noi non è cambiato nulla? Pensaci un momento L. Da quanto tempo non ridiamo? ”
Silenzio.
“Immagino che tu voglia lasciarmi, vero?”
“Cosa? ma che dici? Dopo tutto quello che abbiamo passato!”
“Da come parli sembra che tu resti in questa casa solo perché abbiamo vissuto un passato alquanto… tormentato, insieme.”
“L piantala. Lo sai che non è così.”
“Scusa, hai ragione.” Disse con uno sbuffo.
“Cosa? mi hai chiesto scusa? Tu? L, sicuro di sentirti bene? Ti misuro la febbre?” esclamai con una risata.
Mi accennò un sorriso.
  
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