Tornai a
casa per
cena, quel giorno. Entrato in casa, mi accorsi che c’era
qualcosa di strano: L
non era, come suo solito, al pc a risolvere casi. Questo
perché amando così
tanto il suo lavoro spesso non si accorgeva del tempo che passava e se non ci fossi stato io
a ricordagli di
mangiare non si sarebbe più staccato dalle sue elucubrazioni.
Vagamente preoccupato e incuriosito, mi diressi in sala, ma anche li,
non lo
trovai.
“L?” chiamai. Nessuno rispose.
Mi affacciai alla cucina e rimasi a bocca aperta.
La tavola di legno era stata coperta con una tovaglia a scacchi blu e
bianchi,
sopra la quale stavano portate di ogni ben di dio per due. Si passava
da un
leggero antipasto, al primo, a due secondi e infine alla frutta e i
dolci. Improvvisamente
mi accorsi di avere fame. All’improvviso L comparve, dalla
porta della
dispensa, con un grembiule un po’ sporco in mano e un timido
sorriso.
“L? tu hai fatto tutto questo?” gli chiesi stupito.
“Certo, non te l’aspettavi?”
“Sinceramente… no.”
“Beh, buon compleanno Beyond.” Ribatté
dolcemente, invitandomi a sedere.
“Compleanno? Oh, me lo ero totalmente dimenticato…
”
“Immaginavo. Comunque, si, oggi è il tuo
compleanno. Prego, accomodati.”
Fu una serata splendida e il suo regalo fu squisito. Dove aveva
imparato a
cucinare, poi, era un mistero.
Fatto sta che il mattino dopo arrivò un regalo dai nostri
amici per il mio
compleanno. Non me lo aspettavo e invece si erano uniti e mi avevano
regalato
una ironica fornitura di marmellata di fragole per tre anni.
naturalmente ero
in estasi.
“Allora, pensi ancora che non siamo più come
prima?” mi chiese L.
“Credo solo che siamo diversi, ma tutto
ciò… ”
Non seppi concludere la frase che sentivo solo come concetto astratto,
ma
scommetto che L capì. La giornata successiva, L mi aveva
garantito un giorno
libero da impegni e per la mattinata, decidemmo di andare avanti a
leggere il
diario di Mina, curiosi di sapere come fosse stato il suo passato.
Mi
svegliai alle prime luci del mattino e mi
alzai in fretta. Poi mi ricordai dov’ero e andai a cercare un
bagno con Nacho
che mi seguiva, facendo ticchettare le unghie sul pavimento. Vidi molte
altre
porte, ma tutte chiuse. Finalmente trovai il bagno, e per poco non mi
stupii
della sua pulizia: mi aspettavo uno schifo. Solo guardandomi allo
specchio mi
resi conto di quanto ero sporca e mi infilai subito in doccia. Ne uscii
appena
dieci minuti dopo e me ne ci vollero appena altri cinque per vestirmi e
andare
a fare colazione sempre col cane al seguito, ormai è inutile
dirlo. Trovai una
mensa alla fine del corridoio, composta da un lungo tavolo verde e una
serie di
sedie. Ma niente cibo. All’improvviso ricordai di aver visto
un foglio sulla
scrivania, magari diceva quando servivano la colazione. Così
mi fiondai in
camera mia e andai a vedere: avevo ragione: sul foglio erano scritte a
chiare
lettere tutte le regole da rispettare la dentro, inclusa quella che
diceva che
la colazione era servita dalle nove e mezza, alle dieci e mezza. E in
quel
momento sospettavo che fossero appena le sette di mattina. Andai dunque
a fare
due passi con Nacho, per rendermi conto di quale zona circondasse la
mia nuova
casa. Mi chiedevo spesso chi fosse stato a darmi
quell’indirizzo, visto che non
l’avevo neanche guardato in volto per un istante, troppo
concentrata a cantare.
Che faccia avrà avuto?, pensavo fra me e me richiamando
Nacho, allontanatosi
troppo. Cosa l’avrà mai spinto a farmi questo
favore?, continuavo, scusandomi
con un signore per essere stato investito da qualcosa di nero e
fulmineo.
Conclusi in fretta che era inutile stare troppo a preoccuparsi e
sgridando
severamente Nacho per aver inseguito un gatto randagio, decisi di
tornare a
casa. Casa. Che strano per me utilizzare di nuovo quel termine. Anche
solo nei
pensieri, sentivo una sorta di estraneità con quel vocabolo.
Cosa vuol dire alla fine casa? Vuol dire protezione? Vuol dire stare a
proprio
agio? O vuol dire solo “posto fisso dove stare”?
Non può essere la stessa cosa
con questa casa e con la mia casa passata, mi dicevo.
Salendo le lerce scale, canticchiavo una canzone dei Sonata Artica:
Shy. Mi era
piaciuta dal primo istante quella canzone. Ricordo che me
l’aveva fatta
ascoltare la mia più grande amica, chiedendomi di
cantargliela. E così l’avevo
imparata ed era per me stata una canzone piena di significato dal punto
di
vista dell’evoluzione della mia voce. entrai nella mia camera
e trovai ancora
una volta conforto nelle parole di Shakespeare, le quali mi fecero
davvero
sentire a casa. Allora forse una casa altro non è
che… familiarità assoluta con
il luogo in cui sei. È forse per questo che molti ragazzi,
conoscendo al meglio
una zona di Londra dicono “Questa zona è casa
mia”?
Per trovare ancora più conforto in quella camera che ad un
tratto non sentivo
mia in tutta se stessa (dal letto su cui ero seduta, alle crepe del
muro, alla
porta accostata, alla lampadina che penzolava sulla mia testa come una
pena
capitale), presi fra le braccia la mia chitarra e la accordai con
movimenti che
volevano essere calmi. Conoscevo quei tasti come le mie tasche ormai,
pensai.
Cominciai a fare qualche accordo, senza riuscire a decidere che canzone
suonare. Infine scelsi per un cantautore che avevo sempre amato:
Fabrizio de
André. Come
conoscevo un artista
italiano? Mia madre, alla quale ora con riluttanza pensavo, era
italiana e mi
aveva fatto crescere con questo sottofondo. Certo, non avevo molta
familiarità
con l’italiano, ma le parole di quelle canzone invece, mi
sembravano poesia più
che italiano, anche senza capire completamente il senso di queste.
http://www.youtube.com/watch?v=2kNwJX6E7pE
E naturalmente, appena potuto, per lei avevo imparato quella canzone di
Faber
che preferiva fra tutte. Non so se fosse per la musicalità,
per le parole o per
l’insieme. Ma che sorriso aveva, quando la cantavo!
Cantando, chiusi gli occhi istintivamente, per lasciarmi cullare dal
suono che
producevo e trovare in esso consolazione alla nostalgia che mi era
sovvenuta
come un pugno nello stomaco.
Erano tutti schierati davanti alle mie palpebre, neanche avessero
aspettato
quella canzone per comparire.
Mia madre, mio padre, le mie tre amiche, il mio amico con il suo
basso…
Li vedevo dentro la testa come immagini nitide e chiare, piene di
volontà.
Mi fermai di botto, decisa a continuare con la mia abnegazione alla
nostalgia,
così distruttiva per me, nella situazione in cui mi trovavo.
Ma mi accorsi che
era troppo tardi: avevo già cominciato a versare lacrime.
Mi misi la testa fra le mani tentando di non pensare ad altro che al
posto in
cui mi trovavo. Non al futuro, non al passato, ma al presente.
Assolutamente i
piedi a terra, mi dicevo. Ma non riuscivo a smettere di piangere, per
qualche
incantesimo dei miei purtroppo sdolcinati pensieri, che in quel momento
non mi
aiutavano affatto. Fu in quel momento che vidi i piedi di qualcuno
davanti alla
mia porta, attraverso i capelli verdi. Due anfibi graffiati e logori
con il
tacco ormai consumato per metà e dei pantaloni stracciati
sistemati alla
meglio.
Alzai la testa stupita e incontrai un paio di occhi scuri e un
caschetto di
capelli azzurri. Era una ragazza che avrà avuto la mia
età, forse un po’ più
piccola. Mi fissava con l’ombra di un sorriso sul volto.
“Chi sei?” le chiesi irritata con lei e con me. Ma
questo non sembrò
spaventarla, tutt’altro.
“Oh, ciao, io sono Amy!” esclamò
infatti, avvicinandosi a passi pensanti e
porgendomi la mano con un largo sorriso. Ma prima di stringergliela, le
chiesi
bruscamente cosa ci facesse in camera mia.
“Beh, avevo sentito qualcuno cantare in una lingua che non
conoscevo, ma mi
piaceva, così sono venuta a vedere. Scusami se ti ho
disturbato! Vuoi venire a
vedere la mia camera?”
“Emmm… certo.” Risposi: sembrava in
buona fede.
La seguii per il corridoio, fino a una delle tante porte, che
aprì come se
fosse l’entrata di un palazzo. Sembrava felice di
mostrarmela, quasi infantile.
In effetti guardandola bene mi accorsi che non poteva avere che dodici
anni
massimo. Com’era finita li?, mi chiesi, con un po’
di tristezza. Con un
larghissimo sorriso mi stava mostrando un letto a castello, una
scrivania e una
libreria.
“Guarda, questo è il mio preferito!”
esclamò contenta, porgendomi una vecchia
edizione di Jane Eyre.
“Davvero? L’hai trovato qua?”
“No… no, era di casa dello zio Tony.”
Disse con un’ombra sul viso, al ricordo
del passato.
Mi diedi della stupida almeno venti volte.
“Mi dispiace… come ti chiami?” le
chiesi, tentando di sviare l’argomento.
“Amy, te l’ho già detto, tu?”
rispose con un altro sorriso, apparentemente
dimentica della figuraccia che avevo fatto poco prima.
“Io… io mi chiamo Mina” dissi,
inventandomi un nome sul momento: non volevo
avere niente a che fare con il passato. Eh già amici, non
era il mio nome. Ma da
quel momento lo è stato, allo stesso modo che me
l’avessero dato alla nascita.
Come se quel nome stesse aspettando solo di venire fuori.
“Che bel nome Mina, io il mio l’ho sempre odiato.
Se invece avessi un nome
interessante come il tuo… ”
“E come vorresti chiamarti?”
“Suzanne mi piace molto! O se no Joanna! Tu non hai mai
voluto cambiare nome?”
“No, mai. Posso chiederti se sei in stanza con qualcuno?
È che vedo il letto a
castello.”
“Si, con me c’è mia sorella, Linda. Sai,
lei tenta di mantenere tutte e due, e
ora che siamo qui è possibile. Prima invece ogni tanto,
dovevo lavorare anche
io, sai? Non era per niente bello. Tu canti per vivere vero? Sei molto
fortunata a poterlo fare! Noi… noi non possiamo.”
“Si, io canto.” Risposi, senza chiederle nulla sul
lavoro che aveva dovuto fare,
avendo notato il suo tono melanconico.
Mi sorrise.
“Vuoi diventare mia amica?”
“Emmm… ci conosciamo da poco… comunque
va bene, se vuoi.”
“Che bello che ora siamo amiche! Suoni qualcosa per
me?”
“Ma…. Come? Cioè, cosa vuoi che ti
suoni?”
“La sai Across the universe? È dei
Beatles!”
“Si, la conosco. Aspetta che accordo la chitarra.”
Le dissi, chiedendomi cosa
mi avesse spinto a dirle di si. Provavo un istintivo senso di
protezione verso
quella ragazza, non poi così bambina, ma così
infantile.
Così cominciai gli accordi di quella canzone, spiandola. Lei
si limitò a
sedersi di fianco a me, sul letto e ad aspettare. I suoi grandi occhi
non
abbandonavano per un istante le mie dita, cosa che in effetti mi
metteva un po’
a disagio. Non sorrideva ora, ma aveva un’espressione
indecifrabile. Niente
solcava quel volto se non un pizzico di curiosità. Cantando
una delle canzoni
che mi stavano più a cuore, sentii gli occhi asciugarsi
definitivamente e
addirittura accennai un sorriso fra le parole, cosa che fece sorridere
anche
Amy. Poi smisi di lanciarle quelle sporadiche occhiatine e ricordo
distintamente che abbassai lo sguardo ai miei piedi, ovvero su Nacho,
che mi
guardava con occhi languidi e orecchie alzate. Tutte e due.
Passarono
alcuni giorni, durante i quali il
mio tenore di vita si alzò. Scoprii che volendo potevo
donare alcuni dei miei
pochi spiccioli alla casa, cosa che feci in simbolico risarcimento dei
pasti
che mi venivano offerti. Ogni mattino mi alzavo verso le nove, facevo
una bella
colazione a base di caffèlatte e bacon (eh,
l’Inghilterra…), uscivo e andavo a
cercarmi un posticino favorevole. Al che cominciavo a cantare. Cambiavo
un bel
po’ di posti al giorno e mettevo da parte tutti i soldi
possibili mangiando
tanto a colazione e a cena, così da poter saltare il pranzo
e poter risparmiare
qualche soldo. Non so cosa sperassi di fare con quei soldi. Amy mi
parlò poco,
dopo quella volta. Quel giorno, stavo ingurgitando una bella dose di
pasta al
pesto come cena, sempre più grata a quegli affettuosi
volontari che
dispensavano sorrisoni a tutti insieme a fumanti piatti di cibo.
Davanti a me
c’era un uomo sui vent’anni che mangiava con lo
sguardo basso e delle occhiaie
spaventose. Non parlava, come d’altra parte molti dei
miei… “compagni”.
Ma quella sera avevo voglia di attaccare discorso.
“Hei, io sono Mina, tu?” gli chiesi allora,
porgendogli la mano al di sopra del
tavolo.
Mano che egli non guardò neanche.
Un po’ irritata finii di mangiare e feci per tornare in
camera.
“Mina!” mi chiamò una voce femminile.
Mi voltai e vidi un caschetto di capelli azzurri e due occhioni neri
che mi
guardavano un po’ più in la.
“Ciao Amy!” la salutai, avvicinandomi.
Mi sedetti di fianco a lei, non so come desiderosa di contatto con una
qualsiasi
persona. Di affetto forse…
“Come stai? È da un po’ che non ti sento
suonare!”
“Bene. Non sono spesso qua. Tu?”
“Oh, io sto molto bene! Cioè, abbastanza in
realtà! Ma non importa.”
“Come sta tua sorella?”
“Bene, bene. Sta facendo grandi incassi in questi
giorni.”
“Ah, bene, sono felice per te.”
“Dipende da che punto di vista la prendi. Comunque si, va
bene. Almeno possiamo
sopravvivere no?”
“Emm.. si.”
“Prima hai parlato a quel tipo, ho visto. Se vuoi ti dico chi
è.”
“Se vuoi…”
“Sai, in realtà è qui da molto tempo,
si dice. Era un grande avvocato, con
tanti soldi, uno di quelli messi proprio bene, sai? Ma poi ha
cominciato a
comprare la neve e ha sperperato tutto. Ora sta qua, guadagnandosi in
modi
infidi dei soldi che poi spende sempre e solo per la neve. E pensare
che
potrebbe essere ricco…”
La neve, mi chiesi, che cavolo è? Poi capii a cosa alludeva
Amy. La famosa
polverina bianca, no?
“Cosa? Davvero? Che idiota.”
“Già. Quando è entrato qua dentro, in
un momento di lucidità ha detto che
vorrebbe smettere ma non ci riesce.”
“Lo faccio smettere io.”
“Cosa?”
“Mi fa arrabbiare. Quindi lo farò smettere. Che lo
voglia o no.”
“Oh… ma sei sicura di farcela?”
“Tentar non nuoce, no?”
“Se la metti così…”
“La metto così.”
Aspettai che il tipo, che nella mia mente avevo chiamato Signor
Y, finisse di mangiare e vidi in che camera si rintanava.
La mattina dopo, piena di buoni propositi, uscii dalla mensa
e andai subito in camera del Signor Y.
Bussai sommessamente. Niente. Bussai più forte. Niente.
Aprii ed entrai. Lui
era seduto sul letto, fissava il pavimento e non pareva vedermi. Rimasi
ferma
ad osservarlo. Era un bel ragazzo, alto, spalle larghe, magro, capelli
bruni e
corti. Gli occhi non li vedevo.
“Chi sei” disse infine al pavimento.
“Sono una persona che ti può aiutare a
smettere.”
“Uh.”
“Vuoi?”
“Mh.”
“Cosa?”
“Vattene.”
“Quindi no?”
“Mh.”
“Beh non mi interessa. Da oggi non ti farai più.
Mai più.”
“Vattene idiota”
“No.”
Non mi spaventava il fatto che fosse più grande e
probabilmente più forte di
me, forse per incoscienza, forse per stupidità, forse senza
motivo. Ero una
sciocca allora.
“Vattene idiota.”
“No.”
“VATTENE!” sbottò
all’improvviso.
“No.”
“…”
“Dove tieni la roba?”
“…”
“Dove cazzo tieni la roba?”
“…”
“Ma mi senti?”
“Che cazzo vuoi?”
“La tua roba”
“Fottiti.”
“No grazie. Dov’è?”
“Ti fai?”
“No”
“E allora che te ne fotte?”
“Voglio che tu smetta.”
“Ma chi cazzo sei?”
“La tua coscienza.”
“Uau. Esci.”
“No.”
“Esci”
“No”
“Esci.”
“Dammi la tua roba.”
“ESCI CAZZO!”
“No.”
Sbuffò. Si
alzò e estrasse un sacchetto
dal cassetto. Me lo porse.
“Tutta.”
Si girò prese altri due sacchetti dal cassetto e me li diede.
Così
conobbi James, un uomo di 26 anni, un
avvocato, una speranza, ma soprattutto una persona che aveva bisogno di
aiuto.
Per prima cosa ricordo che buttai la roba trovata nel cestino
all’ingresso. Poi
tornai da lui e li rimasi per i seguenti sette giorni senza mai
uscire. Neanche una volta. Fu terribile. Aveva continue e profonde
crisi,
contrazioni dolori. Dormiva pochi minuti, poi si svegliava e vomitava.
Era un
incubo, ma avevo deciso una cosa, e quando decidevo una cosa nulla mi
persuadeva dal farla, come tu, caro lettore dovresti sapere. Ricordo
che Nacho
si accucciò di fianco alla porta e rimase li quasi sempre.
La porta chiusa a
chiave per tutto il giorno, tranne quando Amy portava i pasti a tutti e
tre.
Poi, il settimo giorno, finì. Fu un sollievo inimmaginabile
per tutti e due.
Non avevamo in mente altro che andarcene da quella stanza,
possibilmente per
sempre.
Così, insieme uscimmo. Non solo dalla stanza, ma
dall’edificio a respirare aria
che non fosse rarefatta e a riprenderci. Passarono i minuti. Io, con
Nacho
affianco, sedevo sul marciapiede e guardavo le nuvole simili alla
schiuma dello
spumante che mio padre apriva a capodanno. Sarebbe stato fiero di me?
No, mi
rispose subito. Non lo sarebbe stato per niente. E avevo ragione. Ero
un’assassina, mai nessuno ne sarebbe stato felice. Sapevo che
il fattaccio
probabilmente aveva riscosso i giornali, ma io li avevo evitati. Sapevo
che
avrebbero potuto scoprire la mai identità, ma non
l’avevano fatto. La mia vita
era un tutt’uno precario e instabile che dipendeva solo dal
fatto che era
passato tanto tempo e che l’uomo dimentica in fretta
ciò che non gli serve.
Contavo sul fatto che ciò che era accaduto fosse rapidamente
caduto nell’oblio,
anche se faceva male pensare ai miei amici, ai miei parenti, alla mia
vecchia
vita. Mi dicevo che tutti loro erano andati avanti come me e che ormai,
semplicemente, le nostre strade si erano divise. Evitavo di pensare che
in ciò
che vivevo non c’era nulla di semplice e scontato. Diciamo
che evitavo di
pensare alla mia vita in generale. Ero giunta a uno stato in cui mi
adattavo
semplicemente alle situazioni, senza chiedermi perché o
percome. L’uomo davanti
a me camminava in tondo, guardando ora il cielo, ora il marciapiede
pieno di
cicche di sigarette, spente da suole ignote in quella che sembrava
un’altra
dimensione del conscio.
Passò del tempo, non saprei dire quanto, finché
egli si girò verso di me con
uno sguardo strano.
“Grazie” mi disse con sincerità.
Mi stupì quel gesto, ma mi ci adattai. Come detto
poc’anzi non mi risultava
difficile farlo.
Comunque sia, rientrammo, ma poco prima di salire le luride scale,
l’uomo mi
guardò e mi disse:
“Grazie a te presto me ne andrò da qui.
Grazie.”
“Figurati.”
Per tutti e due, era evidente, la gentilezza, l’amicizia
erano cose insolite da
trattare, non vi eravamo abituati.
Rientrai in camera mia, avvertendo un’atmosfera leggermente
surreale. Mi
sentivo malinconica, ma al contempo soddisfatta. Non sapevo cosa fare,
ne come
farlo. così presi la mia chitarra e decisi di dedicare una
mezz’oretta a lei,
per poi uscire in strada a cantare e riprendere la routine.
Interrompemmo
la
lettura.
“Che forza.”
“Il diario?”
“Mina.”
“Matt quando arriva a Londra?”
“Domani sarà in quella casa.”
Con queste parole mi alzai per andare a cucinare qualcosa per il
pranzo, mentre
L mi guardava riflettendo pandosamente.