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Autore: Niglia    24/08/2013    5 recensioni
North Yorkshire, settembre 1904.
Dopo la morte della madre, Emma viene spedita ad abitare insieme alla sua istitutrice presso la residenza in campagna acquistata recentemente dal padre, a trascorrere in serenità il lungo periodo del lutto. Qui si ritrova a fare i conti con una realtà ben diversa da quella a cui è abituata: niente servitù, niente distrazioni, nessuno con cui parlare al di fuori della donna che l’ha accompagnata.
Eppure il fascino di Pemberley Manor colpisce positivamente la sua nuova abitante: la magione, infatti, rimasta disabitata a causa di un terribile evento risalente a quindici anni prima, nasconde tra le sue mura molto più di quanto Emma abbia immaginato, e giorno dopo giorno si ritrova a scoprire sconcertanti segreti che sarebbe stato meglio non riportare alla luce.
Quello che non immagina, tuttavia, è che qualcosa di molto pericoloso la spia dall’oscurità…
[Una mia personale rivisitazione del tema Bella/Bestia, con vari accenni e spolverate dei miei adorati romanzi horror ottocenteschi.]
Genere: Dark, Drammatico, Mistero | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Triangolo, Violenza
Capitoli:
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3.
Pursue the Truth

















Il giorno dopo la conversazione avuta con la sua giovane protetta, la signorina Radcliffe domandò a Mr. Duncan se poteva scendere insieme a lui al villaggio, ufficialmente per imbucare alcune lettere e fare acquisti; prima di uscire ebbe comunque la cortesia di lasciare una nota per Emma nella quale la informava che le loro lezioni erano sospese fino al suo ritorno e di sentirsi libera di occupare il tempo come più l’aggradava.
Ciò che non disse al vecchio custode era il vero motivo della sua uscita: ne aveva abbastanza di frasi spezzate e rarefatte spiegazioni strappate con gli artigli ai domestici – aveva l’impressione di abitare in una casa stregata, e per di più non si fidava nemmeno di chi la gestiva, contrariamente a quanto Emma, malgrado lo spavento che si era presa la notte prima per via della faccenda della misteriosa musica notturna, continuasse a dichiarare. Ebbene, miss Radcliffe era certa che gli abitanti del villaggio dovessero essere parecchio informati sui segreti di Pemberley Manor, e contava di riuscire a trovarne qualcuno abbastanza loquace da illuminarla al riguardo. L’idea di indagare su di loro alle spalle di Emma non le piaceva minimamente, ma sapeva già che se ne avesse fatto parola con la ragazza quest’ultima l’avrebbe dissuasa con le buone o con le cattive, come aveva fatto per la faccenda degli specchi e di nascondere alcune cose al padre; miss Jane non poteva più tollerarlo, ed era per questo che aveva preso l’iniziativa.
La giornata era nuvolosa e un debole venticello soffiava gelido, ma vista l’assenza di pioggia i cavalli procedettero spediti sulla stradina asciutta, impiegando la metà del tempo per arrivare al villaggio di quella che avevano adoperato la sera in cui le due donne erano arrivate alla stazione di Alnwick.
Il villaggio di Heatherfield – così chiamato perché secoli prima era sorto su un enorme campo di eriche – era un piccolo e modesto agglomerato di case in pietra e legno, accoccolate sul declivio di una collina poco distante dal fiume che scorreva verso il mare; alcune abitazioni erano incastrate tra la terra e la roccia, e uno spesso strato di muschio ed erbetta aveva preso a crescere persino sui tetti di alcune di esse. Quasi ogni casa possedeva un piccolo cortile che dava sulla strada, dove venivano coltivati fiori e ortaggi a non finire; dai comignoli si innalzavano grigie volute di fumo che rendevano l’aria cupa e tetra, e che annerivano le pareti delle case vicine. La stradina in terra battuta si snodava in mezzo ai piccoli edifici come un serpente, andando a sbucare nella larga piazza che ospitava un grande abbeveratoio per le greggi e che fungeva da punto d’incontro per tutti gli abitanti del borgo.
Fu lì che il signor Duncan fermò il calesse, legando i cavalli ad uno steccato per poi aiutare miss Jane a scendere a terra. Le spiegò come raggiungere prima l’ufficio postale e poi una locanda dove sarebbe stato più saggio per lei attenderlo, mentre il vecchio custode sbrigava le sue commissioni per conto della moglie: disse che sarebbe andato là a cercarla, una volta concluse le sue faccende. La signorina Radcliffe annuì, dopodiché si separarono.
All’ufficio postale la donna doveva semplicemente imbucare le lettere per il conte di Grantham, cosa che non le impegnò che pochi minuti; a quel punto poté dedicarsi al vero motivo per il quale si era fatta portare a Heatherfield, e facendo attenzione a non passare nel fango attraversò la piazza e si diresse verso la pensione che il signor Duncan le aveva indicato.
L’Old Oak era l’unica locanda del villaggio abbastanza grande da ospitare, al suo interno, un piccolo salottino che fungeva da sala da pranzo e da tè. Non appena ebbe varcato la soglia, Jane Radcliffe venne investita dal piacevole calore proveniente dalla stufa a legno posizionata accanto al bancone, nonché dal profumo di caffè, pasticcini e torte appena sfornate. Dopo aver richiuso la porta dietro di sé avanzò all’interno della stanza e si levò il soprabito, notando con la coda dell’occhio le teste dei pochi avventori – non erano neppure le otto del mattino – che si sollevavano incuriosite verso la nuova arrivata.
Avvicinandosi al proprietario, un uomo sulla mezza età che lucidava alcuni bicchieri opachi disposti ordinatamente sul bancone, posò il proprio cappotto sullo sgabello e si schiarì la voce.
«In che cosa posso servirla, signora?» Domandò l’uomo con fare cortese, alzando gli occhi su di lei.
Miss Jane accennò un leggero sorriso. «Gradirei una tazza di tè con del latte, grazie.»
«Certo, signora. Bessie vi accompagnerà nel salottino, verrete servita subito… Bessie!» Chiamò, voltando il capo verso una piccola porta ad ante che doveva essere quella della cucina.
«Oh no, non importa… Posso rimanere qui», ribatté frettolosamente, attirando nuovamente l’attenzione del proprietario. «Mi tratterrò poco», spiegò, rispondendo allo sguardo perplesso dell’uomo.
«Come desiderate, signora», concesse lui, benché poco convinto. La osservò curiosamente mentre miss Jane andava a prendere posto su un tavolino vuoto accanto alla finestra, dopodiché la sua attenzione tornò a ciò che stava facendo prima di venire interrotto. La porta della locanda si aprì ed entrò un altro avventore – una figura scura che pareva mettere una particolare attenzione nel non mostrare il proprio viso – il quale, senza disturbare nessuno, mormorò un ordine al proprietario e andò a sedersi diligentemente a uno dei tavoli liberi in disparte rispetto al resto della saletta.
Miss Jane lo aveva osservato distrattamente, con la coda dell’occhio, ma la sua mente non dovette ritenerlo così interessante, dato che quando la cameriera giunse poco dopo, portando la sua ordinazione su un vassoio in legno, la donna l’aveva già dimenticato. «Voi… siete la nuova abitante di Pemberley Manor, vero? Siete la contessa?» Le chiese Bessie, sottovoce, con aria interessata.
«Sono la sua istitutrice, in realtà. Milady è molto più giovane di me», le spiegò gentilmente, sfilandosi i guanti e poggiandoli accanto a sé. «Oh, grazie per la fetta di torta… L’avete fatta voi?»
«Mia madre, signora. Io l’ho decorata», rispose la ragazza con un sorriso compiaciuto.
«Molto graziosa, complimenti», fece miss Radcliffe, che, per ciò che aveva in mente di fare, si preparava ad accattivarsi la giovane cameriera in modo che si sentisse in vena di parlare e confidarle qualsiasi cosa.
«Chiamatemi se doveste aver bisogno di qualcos’altro», le disse infine Bessie, prima di congedarsi.
Per un po’ non accadde nulla: mentre era lì a godersi la sua colazione, miss Radcliffe osservò con un’aria che si sarebbe potuta definire sorniona il via vai di gente che andava e veniva dalla locanda, e che si faceva sempre più frenetico man mano che la mattinata avanzava. C’erano anche donne tra la clientela, ma per lo più si trattava di uomini che approfittavano di una pausa e l’altra del loro lavoro per farsi un goccetto.
Miss Jane non se ne accorse subito, ma l’oste – tale signor Barker – aveva sparso la voce tra i suoi clienti abituali, quelli che si sedevano al bancone per meglio aggiornarsi su nuovi pettegolezzi, che lei era proprio una delle nuove inquiline di Pemberley, giunta finalmente al villaggio per svelare il mistero che si celava dietro l’arrivo della contessina e della sua istitutrice – evidentemente la notizia di due donne che si trasferivano da sole in un maniero abbandonato da anni provocava parecchio trambusto.
«Come si sta lassù a casa Pemberley, signora?» Esclamò uno degli avventori all’improvviso, voltandosi verso di lei mentre attendeva, in bilico su di uno sgabello, di venire servito. «Non preoccupatevi se sentite rumori durante la notte, è solo il vento della brughiera che soffia impetuoso, facendo tremare i vetri!»
«O forse sono i fantasmi del conte e dei suoi figli», ridacchiò qualcuno, a voce abbastanza alta perché il suo tono irriverente si udisse al di sopra del chiacchiericcio.
Ben presto, come se in fondo gli abitanti di Heatherfield non vedessero l’ora di svelare i loro cupi segreti a qualche ingenuo e inconsapevole cittadino, l’attenzione e i discorsi di tutti i presenti si focalizzarono sul solo scopo di metterne al corrente la povera istitutrice. La signorina Radcliffe scoprì così che della medesima storia esistevano parecchie versioni che differivano per i dettagli più disparati, ma grazie al suo buon udito e alla sua eccellente capacità di sintesi e accortezza riuscì a ricostruirne per sommi capi una variante il più coerente possibile.
Tutti coloro che erano accorsi a raccontare alla straniera la vicenda più succulenta che fosse mai capitata nel circondario concordavano su una medesima cosa: la famiglia Pemberley, fatta eccezione per la figlia, la giovane e bella lady Eleanore, non godeva di una splendida fama tra i membri del villaggio. Della contessa ormai si rammentava poco e niente, essendo morta ben sedici anni prima dell’incidente – comunque c’era ancora chi si sprecava in lunghe descrizioni sulla sua bellezza; il conte, invece, era arrogante, altezzoso e sgarbato con chiunque gli fosse inferiore, e da quando era rimasto vedovo aveva iniziato a seminare il panico tra la sua stessa servitù. Gli altri due figli maschi, poi, minacciavano di diventare addirittura peggio di lui.
Nella foga della discussione venutasi a creare, qualcuno – miss Jane non avrebbe saputo individuare la fonte certa – aggiunse persino che da qualche tempo il conte era diventato pazzo.
«Il figlio di mio cugino, Rob, portava loro la posta tutti i giorni», stava raccontando un altro, alzando la voce di modo che tutti i presenti lo degnassero di attenzione. «E chiacchierava con le cameriere e le sguattere di cucina. Ne ha sentite di tutti i colori il giovanotto, ve lo posso assicurare! Dicevano che il conte rimaneva alzato fino a tardi, rinchiuso in biblioteca, e non voleva che nessuno lo disturbasse: sembra che non dormisse più, aveva smesso di andare a caccia e di frequentare i suoi soliti circoli, e parlava soltanto con i figli! Si aggirava per il castello come un’anima in pena, e proibiva a chiunque di seguirlo. D’altronde si dice che i peccatori non riescano a dormire e riposare…»
Poi, all’improvviso, una quindicina d’anni dopo la morte della moglie, il conte parve rinascere. Nessuno seppe spiegarsi il motivo di quel cambiamento così repentino, dato che i Pemberley non usavano confidarsi con chi non apparteneva alla loro famiglia: né la cameriera personale di lady Eleonore né tantomeno il valletto del conte vantavano un grado d’intimità simile con i loro padroni da poter scucire la verità su un comportamento del genere. Per carità, fece una signora seduta poco distante da miss Jane, non stavano certo insinuando che il conte fosse chissà quale canaglia, era solo… strano, ecco. Forse aveva soltanto protratto a lungo il periodo del lutto, affezionato com’era alla moglie, ma ciò non faceva di lui un mostro!
«Bah! La verità è che tornò ad essere lo spauracchio del villaggio, il che per lui equivaleva essere tornato alle vecchie consuetudini. Non fu mai uno stinco di santo, il conte, e non vedo perché mai dovremmo onorarne la memoria adesso», sputò un uomo tutto imbacuccato seduto al bancone, intervenendo nel discorso tra un goccio di sherry e l’altro.
«Via, signor Fraser, non si parla male dei morti», lo rimbeccò bonariamente Mrs. Gibbs, la cuoca, che aveva abbandonato la cucina per partecipare alla più interessante discussione che avveniva nel locale.
L’altro riprese a bere con una scrollata di spalle, come a dire che non gli interessava.
Alla fine miss Radcliffe riuscì a catturare l’attenzione di uno degli uomini che stavano raccontando, e ad interrompere il suo ciarlare senza fine. «Ma, alla fine, che cosa accadde quindici anni fa? In cosa consiste questo incidente di cui parlate tutti?»
«Fu una brutta storia», esordì infine lo stesso barista, con aria tetra. «Ci fu un grosso incendio, e tutti i Pemberley morirono. Ma non fu quella la parte peggiore… Qualcuno fece una strage, quella notte, e uccise ogni abitante del castello, a partire dal maggiordomo per concludere con l’ultima sguattera di cucina. Non si salvò nessuno, salvo… salvo i Duncan, che all’epoca abitavano fuori dal maniero, in un villino ai confini della proprietà.»
«Un po’ strano, non credete?, che tra tutti si salvassero proprio loro, quelli che alla fine avrebbero ereditato la tenuta in custodia fino a che non si fossero trovati altri proprietari?»
Un violento brusio seguì quell’affermazione, segno che, anche a distanza di tutti quegli anni, certe faccende irrisolte continuavano a mietere vittime. Ciò diede inizio a un altro giro di birra e sherry, e gli avventori dell’Old Oak divennero sempre più partecipanti e ciarlieri: miss Jane cominciava a pensare di aver sbagliato nel lasciare che quel discorso venisse fuori – sarebbe stato meglio chiedere a uno solo, in privato, senza che si scatenasse quella folla di curiosi smaniosi di dare la loro versione dei fatti. Eppure il racconto andava avanti, e lei non poté fare a meno di ascoltare, morbosamente curiosa.
«All’alba, dopo aver spento l’incendio e fatto le prime indagini, il vecchio Dolph venne arrestato e portato giù in città, al commissariato. Fu lui a trovare i corpi, così raccontò, ma negò fino alla fine di aver qualcosa a che fare con quella disgrazia. I ladri, disse. Devono essere stati i ladri… eppure nulla era stato rubato, né spostato di un millimetro.» Bevve un lungo sorso del suo sherry, prima di voltarsi verso la signorina Radcliffe e continuare la sua storia. «La polizia lo scagionò dalle accuse perché non c’erano prove contro di lui. Nessuno aveva visto niente, come potete immaginare. E poi aveva le chiavi, il signor Duncan, mentre la porta del castello era stata scassinata. Questo perlomeno è quanto sappiamo, ovviamente la polizia avrà tenuto il resto per sé… ma non ha mai fatto male ad una mosca, il vecchio Dolph, e quella faccenda lo sconvolse profondamente. Neppure la moglie fu più la stessa, dopo.»
«Erano a servizio del conte da sempre, si può dire. Certo che rimasero sconvolti… Non augurerei una fine del genere al mio peggior nemico», mormorò Mrs. Gibbs, scuotendo mestamente la testa. «E tutti i membri della servitù, poi… La maggior parte non erano di qui, però si può dire che ci conoscessimo tutti tra noi – la povera gente si conosce l’una con l’altra. E il funerale… Ve lo ricordate, il funerale?»
«Parli di quello dei domestici, vero? Perché non ricordo che ci sia andato nessuno di noi, a quello dei Rochester», ribatté l’oste, storcendo il naso.
«Già, e a volte… A volte vorrei che l’avessimo fatto», fu la sussurrata risposta della cuoca.
La curiosità di miss Radcliffe era già stata stuzzicata abbastanza perché la donna potesse accontentarsi di simili frasi ambigue. «Che cosa intendete dire?» Domandò, attirando l’attenzione di gran parte dei presenti su di sé ma senza curarsene particolarmente.
«Oh, signora, niente, niente. Perdonatemi, anzi, perdonateci tutti! Sono solo chiacchiere e cattiverie senza senso, vi prego di non darvi più peso del necessario», replicò la donna frettolosamente, tirando su col naso e pulendosi le mani ancora un po’ infarinate sul grembiule. Ciò servì a riportare ognuno dei presenti con i piedi per terra, e il chiacchiericcio frivolo e fastidioso tornò a sostituire l’accalorata discussione che c’era stata fino a quel momento. Miss Radcliffe comprese che non le sarebbe stato detto nient’altro, e con un sospiro si lasciò scivolare sulla sedia, dimentica del suo tè ormai gelido.
Il misterioso avventore ammantato di scuro che era rimasto in disparte per tutto il tempo in cui aveva avuto luogo la discussione lasciò frettolosamente la locanda prima di lei, così che miss Jane non ebbe modo di poterlo vedere in faccia. Non ci fece caso – aveva già racconto fin troppe informazioni, vere o false che fossero – e poteva dunque finire la sua colazione in attesa che Mr. Duncan andasse a prenderla per tornare a Pemberley. Ne avrebbe avuto parecchie di cose da raccontare a milady, senza alcun dubbio.


*

Emma avrebbe voluto approfittare dell’assenza di miss Radcliffe per dedicarsi ad un’accurata ispezione del castello, ma il timore di poter trovare le prove che vi fosse effettivamente qualcosa di strano le impedì di aggirarsi da sola per i corridoi, pur con la tenue luce del giorno che penetrava dalle finestre. Era la prima volta che rimaneva da sola con i domestici, e anche questo le metteva addosso un’incomprensibile inquietudine; fu così che domandò a Mrs. Duncan di servire la colazione all’esterno, nel salottino in vimini sotto il portico che era stato portato fuori dopo il loro arrivo – probabilmente lo tenevano conservato in soffitta, dato che non c’era nessun padrone che lo utilizzasse – e dal quale si godeva di una piacevole vista sul giardino e su un lembo del lago che si trovava nella proprietà.
Mentre sfogliava un libro trovato in biblioteca – un vecchio volume di poesie con il dorso bruciacchiato e le pagine ingiallite, i cui margini erano stati diligentemente riempiti con annotazioni e appunti in una un po’ troppo pretenziosa calligrafia femminile – uno strano trambusto giunse a spezzare la quiete della sua colazione. Fu come un rombo: un insieme di pezzi di ferraglia che, facendo attrito tra loro e avanzando sulla ghiaia del vialetto, parevano quasi un treno fuggito dai suoi binari. In realtà, per Emma non si trattava di un rumore del tutto nuovo: lo aveva udito sempre più spesso in città, negli ultimi tempi, quel baccano che sovrastava persino i nitriti dei cavalli e il chiacchiericcio dei cocchieri. Sia per Lydia che per la signora Duncan, tuttavia, doveva trattarsi di una novità visto il modo in cui interruppero ciò che stavano facendo per sollevare lo sguardo e cercare di individuare la fonte di quel rumore.
Come Emma aveva immaginato, quel baccano era dovuto al ruggente motore di un’automobile: il mezzo in questione sbucò sbuffando e scoppiettando da sotto i frondosi alberi del vialetto, raggiungendo il piazzale del maniero. Mrs. Duncan si avvicinò d’istinto alla sua padrona, mentre la giovane domestica si limitò a rimanere ferma e immobile come se sperasse di poter diventare invisibile da un momento all’altro.
«Sapete chi è, Mrs. Duncan?» Domandò Emma senza scomporsi, poggiando il libro sul tavolino e prendendo un sorso di tè.
«No, milady. Non abbiamo più avuto visite da quando la vecchia famiglia abitava qui», replicò la governante a mezza voce. Sembrava stranamente agitata, forse anche più pallida del solito, soprattutto mentre lanciava occhiate alla casa dietro di lei: che temesse l’improvvisa comparsa di Noah, e una sua eventuale brusca reazione davanti alla presenza di estranei?
«Non importa. Ci comporteremo da perfetti padroni di casa», fu la risposta di Emma. In realtà era piuttosto eccitata all’idea di ricevere ospiti – le mancava avere a che fare con qualcuno che non fosse la sua istitutrice o la governante di Pemberley – anche se iniziava già a pentirsi di non aver indossato il nero, quella mattina: con il fatto di vivere da sola in quell’immensa magione aveva dimenticato che nel mondo esterno ci si aspettava che lei onorasse il lutto per la sua povera madre.
Dal moderno phaeton bianco con rifiniture nere e dorate scese un distinto signore che poteva avere l’età di suo padre, il conte di Grantham: era alto e robusto, con folti capelli scuri vivacemente brizzolati e delle rughe agli angoli degli occhi che tradivano la sua età matura. Si levò il cappello, i guanti in pelle rossiccia e si scrollò di dosso qualche granello di polvere, prima di voltarsi verso la magione e osservarne l’imponente facciata con un’aria assorta e interessata; solo una volta concluso l’esame spostò la sua attenzione verso le tre donne che lo osservavano incuriosite da sotto il patio, accennando poi un inchino nella loro direzione.
Emma prese la parola per prima. «Buongiorno, milord. Con chi abbiamo l’onore di fare la conoscenza?» Domandò, mentre l’uomo si avvicinava con passo svelto. Adesso che lo poteva vedere meglio, Emma notò la fronte ampia e la pelle appena più scurita dal sole del tanto ritenuto elegante dalla buona società londinese, cosa che le fece pensare che molto probabilmente l’uomo non era un lord.
Tale sospetto venne immediatamente confermato quando egli si presentò. «Niente milord, signorina, sono solo un umile imprenditore. Mi chiamo Arthur Carlisle. E voi dovete essere lady Moore, se non sbaglio?»
Le voci giravano in fretta. «Non sbagliate, signor Carlisle. Prego, accomodatevi – posso offrirvi del tè?»
«Grazie, molto volentieri», accettò, sedendosi di fronte a lei e posando i suoi accessori su un’altra sedia vuota. Aramis, che non lo aveva perso di vista un solo istante, si alzò, si sgranchì le zampe e gli si avvicinò con cautela per annusarlo, per poi posargli il capo in grembo e lasciarsi accarezzare tra le orecchie. Ciò rese anche Emma più ben disposta nei confronti del suo ospite misterioso.
Lasciò che Lydia gli servisse il tè, dopodiché parlò. «Che cosa vi porta a Pemberley, sir Carlisle?»
«Fondamentalmente la curiosità, milady, unita al dovere di buon vicinato. Inizio con il chiedervi perdono per non essere venuto prima a porgervi il benvenuto qui a Heatherfield. Io e mia moglie abbiamo pensato che fosse meglio darvi del tempo per ambientarvi nella nuova casa prima di venire a imporvi la nostra amicizia», fece con un gran sorriso, sembrando quasi di dieci anni più giovane.
«È molto gentile da parte vostra», ammise Emma, ricambiando il sorriso senza sforzo. «Spero che tornerete con vostra moglie la prossima volta, così incontrerete anche la mia istitutrice.»
«Siete venute voi due da sole? Ero convinto che anche il conte di Grantham fosse a Pemberley.»
«Mio padre ci raggiungerà più avanti, è molto impegnato in questo periodo», spiegò, senza tuttavia approfondire dettagli che non era necessario che il signor Carlisle sapesse. «Vedo che le notizie viaggiano in fretta da queste parti…»
«Già, perdonate la mia indiscrezione. Heatherfield è un villaggio di duecento anime, tutti conoscono tutti e un nuovo arrivato attira l’attenzione come un gatto che abbaia. Anche se abita in una proprietà così fuori mano come Pemberley», ammise l’uomo, con un’espressione che sarebbe sembrata quasi colpevole se non fosse stato per il luccichio divertito nei suoi occhi.
Emma sorrise senza prendersela. «Bene, mi fa piacere ricevere visite. Siete il primo indigeno con cui ho a che fare, escludendo i signori Duncan… È una boccata d’aria fresca poter parlare con qualcun altro che non siano i domestici», aggiunse, chinandosi verso di lui e abbassando notevolmente il tono di voce. Mrs. Duncan, che aveva ripreso a potare qualche rametto arrogante dei cespugli di rose, poco lontani, non diede segno di aver sentito.
Istintivamente il signor Carlisle posò a sua volta lo sguardo sull’indaffarata governante, con un’aria d’un tratto imperscrutabile. «Sì, immagino», mormorò a mezza voce. Sembrava immerso in qualche ragionamento tutto suo, così Emma lo lasciò libero di inseguire i suoi pensieri per un altro po’, prima di attirare di nuovo la sua attenzione.
«Vivete qui da tanto, sir Carlisle?»
La sua voce riscosse l’uomo e riportò il suo interesse su di lei. «Oh, sì. Da più di vent’anni, mia cara», rispose con sorriso rilassato, spezzando uno dei biscotti al burro e assaggiandolo incuriosito. «Sono nato e cresciuto nel Derbyshire, a Matlock, ma poi ne ho avuto abbastanza e sono fuggito nel continente in cerca di fortuna. Sono stato in Francia, in Svizzera e infine in Germania: lì ho conosciuto mia moglie, quindi in un certo senso sono riuscito nel mio intento», ammiccò, porgendo un pezzo di biscotto ad Aramis che scodinzolava ai suoi piedi. «Poi ho scoperto che il richiamo della patria era troppo dolce per poterlo ignorare, e sono ritornato in Inghilterra. La signora Carlisle non amava particolarmente il mio luogo di nascita, e neppure io se devo essere sincero, così dopo un breve girovagare siamo finiti in questa parte sperduta e pacifica della brughiera.»
«Dunque siete un viaggiatore. Sapete, vi invidio», ammise Emma, mescolando distrattamente le due zollette di zucchero che aveva messo nel tè. «Io non sono mai stata fuori dall’Inghilterra, ma viaggiare è qualcosa che mi piacerebbe molto. Mi attraggono i paesi del Mediterraneo… l’Italia, e la Grecia in particolar modo. Sono un’appassionata di archeologia, sapete?»
«Ma davvero? Oh, è splendido che una gentildonna coltivi simili interessi: rende molto più stimolante e piacevole intraprendere una conversazione con lei. A Berlino c’era un museo che…»
Continuarono chiacchierando del più e del meno per una buona mezz’ora, ed Emma si trovò parecchio a suo agio con quel simpatico e carismatico vicino di casa che sarebbe potuto benissimo essere suo padre: il suo buonumore era contagioso, e per un momento la giovane riuscì quasi a dimenticare quelle infide sensazioni di paura che non l’avevano abbandonata da che aveva messo piede a Pemberley. Esse tuttavia tornarono ad avvolgerla non appena il suo ospite tacque, un po’ per riprendere fiato e un po’ per finire il suo tè che doveva essere ormai freddo.
«Avete detto che siete qui da vent’anni, giusto?» Esordì, spostando la conversazione su un argomento che la premeva con più urgenza. «Conoscevate i vecchi proprietari di Pemberley? I conti di Rochester?»
Sir Arthur rimase pensieroso per un po’, tamburellando le dita di una mano sul tavolo e allisciandosi i baffi con quelle dell’altra. Sembrava voler prendere tempo, come se l’argomento non fosse esattamente di suo gusto. «Non personalmente», disse infine, con un lieve sospiro. «I Rochester erano gli unici nobili del circondario, e si comportavano con gli abitanti di Heatherfield come se fossero i signorotti incontrastati del luogo. Non credo rientrasse nei loro desideri stringere amicizia con me, che da semplice possidente terriero non dovevo essere di certo alla loro altezza. Però ammetto che la domenica, quando andavamo a messa, la figlia si fermava volentieri a chiacchierare con Gretchen, mia moglie. Era una ragazza gentile, lady Eleanore, ma per quanto riguarda gli uomini di quella famiglia… Sarò franco, milady, e spero che mi perdonerete per quanto sto per dire, ma nessuno pianse per la loro dipartita. Certo, fu un orrendo affare, e non augurerei una cosa del genere al mio peggior nemico, ma credo che sotto sotto tutti fossero grati che i Rochester si fossero, in un certo senso, estinti.»
Sollevò gli occhi su Emma ma parve quasi non vederla, perso com’era nei ricordi che quel racconto doveva avergli suscitato. «Andate pure a vedere le loro tombe al cimitero, milady, e vedrete da voi che neppure un fiore le abbellisce. Come se in fondo non li volesse nemmeno la terra…»
Emma rimase in silenzio per un po’, a sua volta pensierosa, e d’istinto si voltò ad osservare la facciata cupa del maniero. Che fossero gli spiriti irrequieti di quella disgraziata famiglia a spaventarla? Subito dopo aver concepito quel pensiero si rese conto di quanto fosse sciocco, e decise di non far parola con il suo nuovo amico dei suoi timori – l’avrebbe scambiata per un’ingenua ragazzina di città, e lei era molte cose fuorché quello. «È molto triste», convenne infine per spezzare il silenzio. Vide che sir Arthur aveva riportato il suo sguardo, ora non più assente, su di lei, e osò un’ultima questione. «Ho sentito molto parlare della tragedia che ha colpito i Rochester, ma nessuno mi ha spiegato che cosa sia accaduto in realtà. Voi…» Esitò, mordicchiandosi il labbro inferiore, ma poi prese coraggio. «Voi di certo dovete saperlo. Cosa accadde quindici anni fa?»
Era palese che la piega che aveva preso la conversazione non piacesse particolarmente a sir Arthur, eppure bisogna ammettere che egli fece del suo meglio per soddisfare la curiosità della padrona di casa. «Non è una bella storia da raccontare, milady», esordì pacato, osservandola attentamente per assicurarsi di non oltrepassare il limite. Poi lanciò un’occhiata di sottecchi a Mrs. Duncan, che ormai si stava occupando dei fiori dall’altra parte del giardino, abbastanza lontana da essere fuori portata d’orecchio, e assicuratosi di questo riprese a parlare. «I giornali dell’epoca ne parlarono per settimane, fu uno scandalo. Tutti i membri della servitù vennero orribilmente uccisi, e così pure i Rochester; poi nella biblioteca scoppiò l’incendio, e i loro corpi furono deturpati dalle fiamme. Non trovarono mai il responsabile di quella tragedia, incolparono ladri ignoti…» Sir Arthur esitò un momento, raccogliendo le idee, poi sembrò decidere che tanto valeva raccontare ogni cosa. «La versione che venne rilasciata dalla polizia, alla fine, fu che il conte, in un impeto di pazzia – sembra che non godesse di una salda stabilità mentale, quell’uomo – uccise prima i domestici e poi i figli, appiccando infine il fuoco di sua mano per far sì che la sua tanto amata proprietà non finisse in mani estranee. Suppongo che, in mancanza di altre prove, questa fosse l’ipotesi più attendibile. Una disgrazia, ve lo ripeto… una disgrazia immane. Non si parlò di altro per mesi e mesi.»
L’uomo tacque, probabilmente perso in quelle oscure rimembranze, lasciando ad Emma l’opportunità di assimilare quanto aveva appena udito. Per natura ed educazione, non era una ragazza che credeva nei fantasmi o nel mondo soprannaturale in generale… Eppure, da quando aveva messo piede a Pemberley, non poteva negare che un brutto presentimento l’avesse accompagnata da mattina a sera, specialmente negli ultimi giorni – da quando, volendo essere precisi, aveva conosciuto Noah Duncan. Poi c’era stata la porta a vetri della biblioteca misteriosamente spalancata, quella musica nel cuore della notte, il sogno e lo strano comportamento di Aramis, che diventava insofferente quando lo obbligava ad entrare dentro casa…
Quando sir Arthur Carlisle si congedò, poco più tardi, con la promessa di tornare a farle visita il più presto possibile, magari anche accompagnato dalla sua consorte, Emma si scoprì riluttante a rientrare nel maniero, benché fuori iniziasse a far freddo e il cielo si stesse nuovamente riempiendo di nuvoloni carichi di pioggia.
Non ci sono fantasmi a Pemberley. È ridicolo, si ripeté tra sé e sé, mentre infine cedeva e si lasciava accompagnare dentro il castello da Mrs. Duncan e Lydia. Aramis esitò a sua volta sulla soglia, uggiolando appena e fiutando l’aria e il terreno con le orecchie e la coda dritta, ma poi seguì la sua padrona com’era abituato a fare. Emma decise di non prendere troppo sul serio quel comportamento. Non ci sono fantasmi, continuò a ripetersi, decisa. Mi sono semplicemente lasciata suggestionare dal racconto di sir Carlisle.
Eppure non poteva negare, una volta che fu nella scura penombra dell’ingresso, senza più l’aria fresca ad accarezzarle la pelle, di sentirsi d’un tratto spiata.


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Jane Radcliffe si era sempre considerata una donna dall’intelletto inflessibile, al di sopra di qualsivoglia frivolezza: le credenze e le superstizioni della gente di campagna rientravano in questa categoria. Eppure, mentre si dirigeva da sola nella sala da pranzo – Emma le aveva chiesto di precederla mentre lei finiva di scrivere una lettera per il padre – si ritrovò ad ascoltare, o meglio ad origliare, una conversazione che la lasciò parecchio perplessa e anche leggermente preoccupata, soprattutto visto e considerato tutto ciò che aveva udito quella mattina al villaggio. Non che fosse un gesto particolarmente saggio quello di prendere come oro colato le farneticazioni di qualche ubriacone invidioso e incattivito, ma comunque, dato che si trovava ad essere l’unica responsabile di lady Moore, nessuno avrebbe potuto biasimarla se si fosse lasciata guidare da un atteggiamento un tantino prevenuto.
Essendo stata particolarmente silenziosa nell’entrare nella sala da pranzo, nessuno si accorse del suo arrivo; da dietro il paravento che separava la zona riservata ai padroni da quella riservata ai domestici che si occupavano di servire i pasti, miss Radcliffe udì dunque provenire delle voci sommesse, che parlavano con bisbigli concitati. Le riconobbe immediatamente come appartenenti ai coniugi Duncan – non che ci fossero altri con cui confonderli, ad ogni modo.
«Dici che è già tornato? Ne sei sicura?»
«Sai che non si trattiene mai troppo a lungo al villaggio. Deve essergli giunta la notizia dell’arrivo di milady, e… buon Dio, credi che dovremmo dirlo alla padrona?»
«E venire cacciati da casa nostra, o peggio?»
«Non è casa nostra! È sua! Se ti sentisse…»
«Non oserebbe alzare un dito su di me.»
«Tieni a freno la lingua e sii meno arrogante, Randolph Duncan», la voce della governante si era fatta improvvisamente più severa. «Il nostro quieto vivere dipende solo dal suo umore. E tu sai di che umore è stato in questi ultimi tempi, vero?»
Il signor Duncan non rispose subito, ma quando lo fece cambiò discorso. «Ad ogni modo, non puoi dire nulla alla ragazza. Né alla sua istitutrice. I segreti che custodiamo non ci appartengono, e non spetta a noi divulgarli.»
«Sì, ma se le facesse del male… Dolph, pensaci!… Io non so se sono in grado di sopportarlo… Stavolta potremmo rischiare davvero la prigione, o peggio!»
«Buon Dio, Meg, tu l’hai già incontrato. Ti ha già dato disposizioni, vero? Che cosa ti ha detto di fare, eh, Meg?»
Sfortunatamente per miss Radcliffe fu impossibile udire altro. In quel momento la porta della sala si aprì e lady Moore fece il suo ingresso, accompagnata da uno scodinzolante Aramis. L’istitutrice sentì le voci dei domestici spezzarsi in gemiti soffocati, timorosi di essere stati uditi, e poi entrambi vennero fuori da dietro al paravento per salutare la giovane signora.
Ma lo sguardo che videro sul volto di Miss Radcliffe, tuttavia, fece loro comprendere che la donna aveva già sentito tutto quello che non avrebbe dovuto.
Fingendo di non notarlo, Mrs. Duncan sorrise gentilmente a Emma. «La cena è pronta, milady. Quando lo desiderate iniziamo a servire.»
«Certo, signora Duncan, fate pure. Chiedo scusa per il ritardo», rispose quest’ultima, osservando con la coda dell’occhio il suo cucciolo che andava a sdraiarsi di fronte al camino acceso. Poi si rivolse verso la sua istitutrice con un mezzo sorriso. «Siete qui da tanto, miss? Perché non vi accomodate?»
«Sì, milady», fece la donna, sedendosi piuttosto rigidamente.
Sorpresa da quel tono, Emma aggrottò la fronte e scrutò la sua istitutrice. «Va tutto bene, signorina Jane? C’è qualcosa che dovrei sapere?» L’istinto la portò a sussurrare come se fosse un ladro nella sua stessa casa, la qual cosa la irritò non poco. Sono davvero troppo suscettibile. E sir Carlisle era fin troppo bravo a raccontare…
«Dopo cena, milady», replicò sullo stesso tono miss Radcliffe, guardandola in un modo che le fece intendere di non voler affrontare l’argomento davanti ai domestici.
Era ridicolo che dovessero avere tutti quei segreti tra loro, ma allo stesso tempo Emma non poté che approvare quella prudenza di cui stavano facendo uso. Sorrise gentilmente quando Mrs. Duncan e Lydia servirono loro la cena, ma durante il pasto lei e miss Jane rimasero in silenzio, scambiando solo qualche chiacchiera di circostanza e priva di un reale interesse. La governante versò un vino rosso a entrambe, ma l’istitutrice notò un lieve tremito nella mano della donna quando riempì il suo bicchiere: come suo solito ne prese silenziosamente nota, senza dar cenno di aver notato la stranezza.
Dopo aver mangiato anche il dolce – una crema bavarese alla vaniglia – Emma posò il tovagliolo accanto al proprio piatto indicando a Lydia di poter iniziare a sparecchiare, e si voltò verso miss Radcliffe. «Ci ritiriamo in salotto, miss? Così mi raccontate della vostra avventura al villaggio», propose, senza riuscire a celare la propria curiosità.
Miss Radcliffe annuì e fece per alzarsi a sua volta, ma quando abbandonò il sostegno della sedia barcollò e perse l’equilibrio, e sarebbe certamente caduta se non avesse avuto la prontezza di afferrarsi al tavolo. Era improvvisamente pallida, e piccole goccioline di sudore le imperlavano la fronte aggrottata.
«Mio Dio, miss, state bene?» Esclamò Emma, affannandosi al suo fianco e posandole una mano sulla schiena. «Cos’è successo?»
«Un… un mancamento, milady. Non vi preoccupate… Se non vi dispiace, però, mi… mi ritirerei nella mia stanza… Non mi sento molto bene. Forse ho preso freddo, questa mattina», balbettò confusamente la donna, gli occhi serrati come se ciò potesse bastare a scacciare il malanno indesiderato.
«Sì, certo, appoggiatevi a me… Ecco, così», si offrì la ragazza, sinceramente preoccupata. Da che la conosceva, infatti, non aveva mai visto miss Radcliffe crollare così per un piccolo capogiro – doveva essere davvero una brutta infreddatura. E durante la cena era sembrata normale… «Mrs. Duncan!» Chiamò poi ad alta voce, finché la governante non accorse prontamente. «Mrs. Duncan, per favore. Aiutatemi ad accompagnare miss Radcliffe nella sua stanza.»
L’anziana donna sembrava se possibile più pallida della malata, e le sue mani intrecciate si torcevano nervosamente prima che si decidesse a passare a sua volta un braccio intorno alla vita dell’istitutrice. «Ecco, miss, adesso andiamo… Facciamo piccoli passi», la istruì, con la voce che le tremava appena.
In due, con Lydia che le precedeva con la candela, riuscirono a portare miss Radcliffe fino alla sua camera da letto, a spogliarla degli abiti pesanti e ad infilarle la camicia di flanella, per poi metterla a letto e rimboccarle le coperte. La donna non emise un suono per opporsi – altra cosa che Emma trovò strana, visto che miss Jane solitamente non permetteva a nessuno di aiutarla a vestirsi o a svestirsi – come se fosse persa in una dimensione totalmente diversa. Gemeva, borbottava parole prive di senso, e tossiva come se volesse sputare tutta la cena.
«Lydia, porta subito una tazza di latte con del miele», ordinò Mrs. Duncan, prima che la cameriera si dileguasse giù per le scale a obbedire com’era sua abitudine.
«Non ha neppure la febbre», esalò Emma preoccupata, sfiorando la fronte gelida dell’istitutrice. Che genere di infreddatura era quella?
«Potrebbe salirle durante la notte. Ormai è tardi per chiamare un dottore», replicò la signora Duncan con tono irrevocabile; eppure le sue mani stavano ancora tremando, Emma non riusciva a distogliere lo sguardo da esse. «Le cercherò delle coperte più pesanti. Milady, forse è meglio per voi andare a letto e riposarvi…»
«No, Mrs. Duncan, ho intenzione di rimanere qui tutta la notte», ribatté freddamente, seccata per lo strano comportamento della donna e turbata dal malore improvviso di miss Jane. «Andate pure voi a coricarvi, ma prima accendete la stufa. Si gela qua dentro», ordinò poi, con un tono che a sua volta non ammetteva repliche. C’erano parecchie cose che non le stavano piacendo della governante, ultimamente, ma ci avrebbe pensato con calma una volta che la crisi di miss Radcliffe fosse passata.
Pregò solo che non fosse nulla di grave.





















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Angolo Autrice.
Nuovo capitolo! Orbene, come procede? Sto riuscendo ad appassionarvi o ve ne siete già lavati le mani? *rumore di grilli in sottofondo* Su su, e dire che sono anche piuttosto veloce con gli aggiornamenti, conoscendomi e considerando che è ancora estate. u_u
Ma bando alle ciance! Alcuni appunti, prima di proseguire con i soliti ringraziamenti.
- Non ho idea di che rumore potesse fare il motore di una Mercedes-Simplex 40PS 4seater phaeton, per cui ho dato spazio alla fantasia (ma, considerando il fracasso che facevano i treni…)
- Mi riferisco ai vecchi proprietari di Pemberley Manor sia col nome “Rochester” sia con quello “Pemberley” – non è un errore. La faccenda è molto semplice: Rochester è il titolo nobiliare, Pemberley è il cognome della famiglia (significa che un Pemberley può ereditare il titolo di conte di Rochester, ma non è detto che il conte di Rochester debba essere necessariamente un Pemberley: difatti, qualora il conte di Rochester avesse avuto solo figlie femmine, queste avrebbero perduto il titolo di Rochester che sarebbe andato al parente più prossimo in linea di successione, che poteva essere uno Smith qualunque. Facile, no?).
Altro da dichiarare? Mi pare di no.
Ringrazio quindi Sylphs e Homicidal Maniac per aver recensito lo scorso capitolo, e Helmwige per essersi aggiunta alla lettura :D Siete tutte splendide e gentilissime, grazie infinite per esservi imbarcate in questa avventura! :*
Ci sentiamo presto – non oso promettervi una data, neppure approssimativa, perché so già di essere incapace di scrivere se ho delle scadenze da rispettare. xD Ma farò del mio meglio! Baci e abbracci come al solito, dalla vostra
Niglia
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