3.
Pursue the Truth
Il
giorno dopo la conversazione avuta con la sua giovane protetta, la
signorina
Radcliffe domandò a Mr. Duncan se poteva scendere insieme a
lui al villaggio,
ufficialmente per imbucare alcune lettere e fare acquisti; prima di
uscire ebbe
comunque la cortesia di lasciare una nota per Emma nella quale la
informava che
le loro lezioni erano sospese fino al suo ritorno e di sentirsi libera
di
occupare il tempo come più l’aggradava.
Ciò
che non disse al vecchio custode era il vero motivo della sua uscita:
ne aveva
abbastanza di frasi spezzate e rarefatte spiegazioni strappate con gli
artigli
ai domestici – aveva l’impressione di abitare in
una casa stregata, e per di
più non si fidava nemmeno di chi la gestiva, contrariamente
a quanto Emma,
malgrado lo spavento che si era presa la notte prima per via della
faccenda
della misteriosa musica notturna, continuasse a dichiarare. Ebbene,
miss
Radcliffe era certa che gli abitanti del villaggio dovessero essere
parecchio
informati sui segreti di Pemberley Manor, e contava di riuscire a
trovarne
qualcuno abbastanza loquace da illuminarla al riguardo.
L’idea di indagare su
di loro alle spalle di Emma non le piaceva minimamente, ma sapeva
già che se ne
avesse fatto parola con la ragazza quest’ultima
l’avrebbe dissuasa con le buone
o con le cattive, come aveva fatto per la faccenda degli specchi e di
nascondere alcune cose al padre; miss Jane non poteva più
tollerarlo, ed era
per questo che aveva preso l’iniziativa.
La
giornata era nuvolosa e un debole venticello soffiava gelido, ma vista
l’assenza di pioggia i cavalli procedettero spediti sulla
stradina asciutta,
impiegando la metà del tempo per arrivare al villaggio di
quella che avevano
adoperato la sera in cui le due donne erano arrivate alla stazione di
Alnwick.
Il villaggio di Heatherfield – così
chiamato
perché secoli prima era sorto su un enorme campo di eriche
– era un piccolo e
modesto agglomerato di case in pietra e legno, accoccolate sul declivio
di una
collina poco distante dal fiume che scorreva verso il mare; alcune
abitazioni
erano incastrate tra la terra e la roccia, e uno spesso strato di
muschio ed
erbetta aveva preso a crescere persino sui tetti di alcune di esse.
Quasi ogni
casa possedeva un piccolo cortile che dava sulla strada, dove venivano
coltivati fiori e ortaggi a non finire; dai comignoli si innalzavano
grigie
volute di fumo che rendevano l’aria cupa e tetra, e che
annerivano le pareti
delle case vicine. La stradina in terra battuta si snodava in mezzo ai
piccoli
edifici come un serpente, andando a sbucare nella larga piazza che
ospitava un
grande abbeveratoio per le greggi e che fungeva da punto
d’incontro per tutti
gli abitanti del borgo.
Fu
lì che il signor Duncan fermò il calesse, legando
i cavalli ad uno steccato per
poi aiutare miss Jane a scendere a terra. Le spiegò come
raggiungere prima
l’ufficio postale e poi una locanda dove sarebbe stato
più saggio per lei
attenderlo, mentre il vecchio custode sbrigava le sue commissioni per
conto
della moglie: disse che sarebbe andato là a cercarla, una
volta concluse le sue
faccende. La signorina Radcliffe annuì, dopodiché
si separarono.
All’ufficio
postale la donna doveva semplicemente imbucare le lettere per il conte
di
Grantham, cosa che non le impegnò che pochi minuti; a quel
punto poté dedicarsi
al vero motivo per il quale si era fatta portare a Heatherfield, e
facendo
attenzione a non passare nel fango attraversò la piazza e si
diresse verso la
pensione che il signor Duncan le aveva indicato.
L’Old
Oak era l’unica locanda del villaggio abbastanza grande da
ospitare, al suo
interno, un piccolo salottino che fungeva da sala da pranzo e da
tè. Non appena
ebbe varcato la soglia, Jane Radcliffe venne investita dal piacevole
calore
proveniente dalla stufa a legno posizionata accanto al bancone,
nonché dal
profumo di caffè, pasticcini e torte appena sfornate. Dopo
aver richiuso la
porta dietro di sé avanzò all’interno
della stanza e si levò il soprabito,
notando con la coda dell’occhio le teste dei pochi avventori
– non erano
neppure le otto del mattino – che si sollevavano incuriosite
verso la nuova
arrivata.
Avvicinandosi
al proprietario, un uomo sulla mezza età che lucidava alcuni
bicchieri opachi
disposti ordinatamente sul bancone, posò il proprio cappotto
sullo sgabello e
si schiarì la voce.
«In
che cosa posso servirla, signora?» Domandò
l’uomo con fare cortese, alzando gli
occhi su di lei.
Miss
Jane accennò un leggero sorriso. «Gradirei una
tazza di tè con del latte,
grazie.»
«Certo,
signora. Bessie vi accompagnerà nel salottino, verrete
servita subito… Bessie!»
Chiamò, voltando il capo verso una piccola porta ad ante che
doveva essere
quella della cucina.
«Oh
no, non importa… Posso rimanere qui»,
ribatté frettolosamente, attirando
nuovamente l’attenzione del proprietario. «Mi
tratterrò poco», spiegò,
rispondendo allo sguardo perplesso dell’uomo.
«Come
desiderate, signora», concesse lui, benché poco
convinto. La osservò
curiosamente mentre miss Jane andava a prendere posto su un tavolino
vuoto
accanto alla finestra, dopodiché la sua attenzione
tornò a ciò che stava
facendo prima di venire interrotto. La porta della locanda si
aprì ed entrò un
altro avventore – una figura scura che pareva mettere una
particolare
attenzione nel non mostrare il proprio viso – il quale, senza
disturbare
nessuno, mormorò un ordine al proprietario e andò
a sedersi diligentemente a
uno dei tavoli liberi in disparte rispetto al resto della saletta.
Miss
Jane lo aveva osservato distrattamente, con la coda
dell’occhio, ma la sua
mente non dovette ritenerlo così interessante, dato che
quando la cameriera
giunse poco dopo, portando la sua ordinazione su un vassoio in legno,
la donna
l’aveva già dimenticato.
«Voi… siete la nuova abitante di Pemberley Manor,
vero? Siete la contessa?» Le chiese Bessie, sottovoce, con
aria interessata.
«Sono
la sua istitutrice, in realtà. Milady è molto
più giovane di me», le spiegò
gentilmente, sfilandosi i guanti e poggiandoli accanto a sé.
«Oh, grazie per la
fetta di torta… L’avete fatta voi?»
«Mia
madre, signora. Io l’ho decorata», rispose la
ragazza con un sorriso
compiaciuto.
«Molto
graziosa, complimenti», fece miss Radcliffe, che, per
ciò che aveva in mente di
fare, si preparava ad accattivarsi la giovane cameriera in modo che si
sentisse
in vena di parlare e confidarle qualsiasi cosa.
«Chiamatemi
se doveste aver bisogno di qualcos’altro», le disse
infine Bessie, prima di
congedarsi.
Per
un po’ non accadde nulla: mentre era lì a godersi
la sua colazione, miss
Radcliffe osservò con un’aria che si sarebbe
potuta definire sorniona il via
vai di gente che andava e veniva dalla locanda, e che si faceva sempre
più
frenetico man mano che la mattinata avanzava. C’erano anche
donne tra la
clientela, ma per lo più si trattava di uomini che
approfittavano di una pausa
e l’altra del loro lavoro per farsi un goccetto.
Miss
Jane non se ne accorse subito, ma l’oste – tale
signor Barker – aveva sparso la
voce tra i suoi clienti abituali, quelli che si sedevano al bancone per
meglio
aggiornarsi su nuovi pettegolezzi, che lei era proprio una delle nuove
inquiline di Pemberley, giunta finalmente al villaggio per svelare il
mistero
che si celava dietro l’arrivo della contessina e della sua
istitutrice –
evidentemente la notizia di due donne che si trasferivano da sole in un
maniero
abbandonato da anni provocava parecchio trambusto.
«Come
si sta lassù a casa Pemberley, signora?»
Esclamò uno degli avventori
all’improvviso, voltandosi verso di lei mentre attendeva, in
bilico su di uno
sgabello, di venire servito. «Non preoccupatevi se sentite
rumori durante la
notte, è solo il vento della brughiera che soffia impetuoso,
facendo tremare i
vetri!»
«O
forse sono i fantasmi del conte e dei suoi figli»,
ridacchiò qualcuno, a voce
abbastanza alta perché il suo tono irriverente si udisse al
di sopra del
chiacchiericcio.
Ben
presto, come se in fondo gli abitanti di Heatherfield non vedessero
l’ora di
svelare i loro cupi segreti a qualche ingenuo e inconsapevole
cittadino,
l’attenzione e i discorsi di tutti i presenti si
focalizzarono sul solo scopo
di metterne al corrente la povera istitutrice. La signorina Radcliffe
scoprì così
che della medesima storia esistevano parecchie versioni che differivano
per i
dettagli più disparati, ma grazie al suo buon udito e alla
sua eccellente
capacità di sintesi e accortezza riuscì a
ricostruirne per sommi capi una
variante il più coerente possibile.
Tutti
coloro che erano accorsi a raccontare alla straniera la vicenda
più succulenta
che fosse mai capitata nel circondario concordavano su una medesima
cosa: la
famiglia Pemberley, fatta eccezione per la figlia, la giovane e bella
lady
Eleanore, non godeva di una splendida fama tra i membri del villaggio.
Della
contessa ormai si rammentava poco e niente, essendo morta ben sedici
anni prima
dell’incidente – comunque c’era ancora
chi si sprecava in lunghe descrizioni
sulla sua bellezza; il conte, invece, era arrogante, altezzoso e
sgarbato con
chiunque gli fosse inferiore, e da quando era rimasto vedovo aveva
iniziato a
seminare il panico tra la sua stessa servitù. Gli altri due
figli maschi, poi, minacciavano
di diventare addirittura peggio di lui.
Nella
foga della discussione venutasi a creare, qualcuno – miss
Jane non avrebbe
saputo individuare la fonte certa – aggiunse persino che da
qualche tempo il
conte era diventato pazzo.
«Il
figlio di mio cugino, Rob, portava loro la posta tutti i
giorni», stava raccontando
un altro, alzando la voce di modo che tutti i presenti lo degnassero di
attenzione. «E chiacchierava con le cameriere e le sguattere
di cucina. Ne ha
sentite di tutti i colori il giovanotto, ve lo posso assicurare!
Dicevano che
il conte rimaneva alzato fino a tardi, rinchiuso in biblioteca, e non
voleva
che nessuno lo disturbasse: sembra che non dormisse più,
aveva smesso di andare
a caccia e di frequentare i suoi soliti circoli, e parlava soltanto con
i
figli! Si aggirava per il castello come un’anima in pena, e
proibiva a chiunque
di seguirlo. D’altronde si dice che i peccatori non riescano
a dormire e
riposare…»
Poi,
all’improvviso, una quindicina d’anni dopo la morte
della moglie, il conte
parve rinascere. Nessuno seppe spiegarsi il motivo di quel cambiamento
così
repentino, dato che i Pemberley non usavano confidarsi con chi non
apparteneva
alla loro famiglia: né la cameriera personale di lady
Eleonore né tantomeno il
valletto del conte vantavano un grado d’intimità
simile con i loro padroni da poter
scucire la verità su un comportamento del genere. Per
carità, fece una signora
seduta poco distante da miss Jane, non stavano certo insinuando che il
conte
fosse chissà quale canaglia, era solo… strano,
ecco. Forse aveva soltanto
protratto a lungo il periodo del lutto, affezionato com’era
alla moglie, ma ciò
non faceva di lui un mostro!
«Bah!
La verità è che tornò ad essere lo
spauracchio del villaggio, il che per lui
equivaleva essere tornato alle vecchie consuetudini. Non fu mai uno
stinco di
santo, il conte, e non vedo perché mai dovremmo onorarne la
memoria adesso»,
sputò un uomo tutto imbacuccato seduto al bancone,
intervenendo nel discorso
tra un goccio di sherry e l’altro.
«Via,
signor Fraser, non si parla male dei morti», lo
rimbeccò bonariamente Mrs.
Gibbs, la cuoca, che aveva abbandonato la cucina per partecipare alla
più
interessante discussione che avveniva nel locale.
L’altro
riprese a bere con una scrollata di spalle, come a dire che non gli
interessava.
Alla
fine miss Radcliffe riuscì a catturare
l’attenzione di uno degli uomini che
stavano raccontando, e ad interrompere il suo ciarlare senza fine.
«Ma, alla
fine, che cosa accadde quindici anni fa? In cosa consiste questo
incidente di
cui parlate tutti?»
«Fu
una brutta storia», esordì infine lo stesso
barista, con aria tetra. «Ci fu un grosso
incendio, e tutti i Pemberley morirono. Ma non fu quella la parte
peggiore…
Qualcuno fece una strage, quella notte, e uccise ogni abitante del
castello, a
partire dal maggiordomo per concludere con l’ultima sguattera
di cucina. Non si
salvò nessuno, salvo… salvo i Duncan, che
all’epoca abitavano fuori dal
maniero, in un villino ai confini della proprietà.»
«Un
po’ strano, non credete?, che tra tutti si salvassero proprio
loro, quelli che alla
fine avrebbero ereditato la tenuta in custodia fino a che non si
fossero
trovati altri proprietari?»
Un
violento brusio seguì quell’affermazione, segno
che, anche a distanza di tutti
quegli anni, certe faccende irrisolte continuavano a mietere vittime.
Ciò diede
inizio a un altro giro di birra e sherry, e gli avventori
dell’Old Oak
divennero sempre più partecipanti e ciarlieri: miss Jane
cominciava a pensare
di aver sbagliato nel lasciare che quel discorso venisse fuori
– sarebbe stato
meglio chiedere a uno solo, in privato, senza che si scatenasse quella
folla di
curiosi smaniosi di dare la loro versione dei fatti. Eppure il racconto
andava
avanti, e lei non poté fare a meno di ascoltare,
morbosamente curiosa.
«All’alba,
dopo aver spento l’incendio e fatto le prime indagini, il
vecchio Dolph venne
arrestato e portato giù in città, al
commissariato. Fu lui a trovare i corpi,
così raccontò, ma negò fino alla fine
di aver qualcosa a che fare con quella
disgrazia. I ladri, disse. Devono essere stati i ladri…
eppure nulla era stato
rubato, né spostato di un millimetro.» Bevve un
lungo sorso del suo sherry,
prima di voltarsi verso la signorina Radcliffe e continuare la sua
storia. «La
polizia lo scagionò dalle accuse perché non
c’erano prove contro di lui. Nessuno
aveva visto niente, come potete immaginare. E poi aveva le chiavi, il
signor
Duncan, mentre la porta del castello era stata scassinata. Questo
perlomeno è
quanto sappiamo, ovviamente la polizia avrà tenuto il resto
per sé… ma non ha
mai fatto male ad una mosca, il vecchio Dolph, e quella faccenda lo
sconvolse
profondamente. Neppure la moglie fu più la stessa,
dopo.»
«Erano
a servizio del conte da sempre, si può dire. Certo che
rimasero sconvolti… Non
augurerei una fine del genere al mio peggior nemico»,
mormorò Mrs. Gibbs,
scuotendo mestamente la testa. «E tutti i membri della
servitù, poi… La maggior
parte non erano di qui, però si può dire che ci
conoscessimo tutti tra noi – la
povera gente si conosce l’una con l’altra. E il
funerale… Ve lo ricordate, il
funerale?»
«Parli
di quello dei domestici, vero? Perché non ricordo che ci sia
andato nessuno di
noi, a quello dei Rochester», ribatté
l’oste, storcendo il naso.
«Già,
e a volte… A volte vorrei che l’avessimo
fatto», fu la sussurrata risposta
della cuoca.
La
curiosità di miss Radcliffe era già stata
stuzzicata abbastanza perché la donna
potesse accontentarsi di simili frasi ambigue. «Che cosa
intendete dire?»
Domandò, attirando l’attenzione di gran parte dei
presenti su di sé ma senza
curarsene particolarmente.
«Oh,
signora, niente, niente. Perdonatemi, anzi, perdonateci tutti! Sono
solo
chiacchiere e cattiverie senza senso, vi prego di non darvi
più peso del
necessario», replicò la donna frettolosamente,
tirando su col naso e pulendosi
le mani ancora un po’ infarinate sul grembiule.
Ciò servì a riportare ognuno
dei presenti con i piedi per terra, e il chiacchiericcio frivolo e
fastidioso
tornò a sostituire l’accalorata discussione che
c’era stata fino a quel
momento. Miss Radcliffe comprese che non le sarebbe stato detto
nient’altro, e
con un sospiro si lasciò scivolare sulla sedia, dimentica
del suo tè ormai
gelido.
Il
misterioso avventore ammantato di scuro che era rimasto in disparte per
tutto
il tempo in cui aveva avuto luogo la discussione lasciò
frettolosamente la
locanda prima di lei, così che miss Jane non ebbe modo di
poterlo vedere in
faccia. Non ci fece caso – aveva già racconto fin
troppe informazioni, vere o
false che fossero – e poteva dunque finire la sua colazione
in attesa che Mr.
Duncan andasse a prenderla per tornare a Pemberley. Ne avrebbe avuto
parecchie
di cose da raccontare a milady, senza alcun dubbio.
*
Emma
avrebbe voluto approfittare dell’assenza di miss Radcliffe
per dedicarsi ad un’accurata
ispezione del castello, ma il timore di poter trovare le prove che vi
fosse
effettivamente qualcosa di strano le impedì di aggirarsi da
sola per i
corridoi, pur con la tenue luce del giorno che penetrava dalle
finestre. Era la
prima volta che rimaneva da sola con i domestici, e anche questo le
metteva
addosso un’incomprensibile inquietudine; fu così
che domandò a Mrs. Duncan di
servire la colazione all’esterno, nel salottino in vimini
sotto il portico che
era stato portato fuori dopo il loro arrivo – probabilmente
lo tenevano
conservato in soffitta, dato che non c’era nessun padrone che
lo utilizzasse – e
dal quale si godeva di una piacevole vista sul giardino e su un lembo
del lago
che si trovava nella proprietà.
Mentre
sfogliava un libro trovato in biblioteca – un vecchio volume
di poesie con il
dorso bruciacchiato e le pagine ingiallite, i cui margini erano stati
diligentemente
riempiti con annotazioni e appunti in una un po’ troppo
pretenziosa calligrafia
femminile – uno strano trambusto giunse a spezzare la quiete
della sua
colazione. Fu come un rombo: un insieme di pezzi di ferraglia che,
facendo
attrito tra loro e avanzando sulla ghiaia del vialetto, parevano quasi
un treno
fuggito dai suoi binari. In realtà, per Emma non si trattava
di un rumore del
tutto nuovo: lo aveva udito sempre più spesso in
città, negli ultimi tempi,
quel baccano che sovrastava persino i nitriti dei cavalli e il
chiacchiericcio
dei cocchieri. Sia per Lydia che per la signora Duncan, tuttavia,
doveva
trattarsi di una novità visto il modo in cui interruppero
ciò che stavano
facendo per sollevare lo sguardo e cercare di individuare la fonte di
quel
rumore.
Come
Emma aveva immaginato, quel baccano era dovuto al ruggente motore di
un’automobile: il mezzo in questione sbucò
sbuffando e scoppiettando da sotto i
frondosi alberi del vialetto, raggiungendo il piazzale del maniero.
Mrs. Duncan
si avvicinò d’istinto alla sua padrona, mentre la
giovane domestica si limitò a
rimanere ferma e immobile come se sperasse di poter diventare
invisibile da un
momento all’altro.
«Sapete
chi è, Mrs. Duncan?» Domandò Emma senza
scomporsi, poggiando il libro sul
tavolino e prendendo un sorso di tè.
«No,
milady. Non abbiamo più avuto visite da quando la vecchia
famiglia abitava qui»,
replicò la governante a mezza voce. Sembrava stranamente
agitata, forse anche
più pallida del solito, soprattutto mentre lanciava occhiate
alla casa dietro
di lei: che temesse l’improvvisa comparsa di Noah, e una sua
eventuale brusca
reazione davanti alla presenza di estranei?
«Non
importa. Ci comporteremo da perfetti padroni di casa», fu la
risposta di Emma.
In realtà era piuttosto eccitata all’idea di
ricevere ospiti – le mancava avere
a che fare con qualcuno che non fosse la sua istitutrice o la
governante di
Pemberley – anche se iniziava già a pentirsi di
non aver indossato il nero,
quella mattina: con il fatto di vivere da sola in
quell’immensa magione aveva
dimenticato che nel mondo esterno ci si aspettava che lei onorasse il
lutto per
la sua povera madre.
Dal
moderno phaeton bianco con rifiniture nere e dorate scese un distinto
signore
che poteva avere l’età di suo padre, il conte di
Grantham: era alto e robusto,
con folti capelli scuri vivacemente brizzolati e delle rughe agli
angoli degli
occhi che tradivano la sua età matura. Si levò il
cappello, i guanti in pelle
rossiccia e si scrollò di dosso qualche granello di polvere,
prima di voltarsi
verso la magione e osservarne l’imponente facciata con
un’aria assorta e
interessata; solo una volta concluso l’esame
spostò la sua attenzione verso le tre
donne che lo osservavano incuriosite da sotto il patio, accennando poi
un
inchino nella loro direzione.
Emma
prese la parola per prima. «Buongiorno, milord. Con chi
abbiamo l’onore di fare
la conoscenza?» Domandò, mentre l’uomo
si avvicinava con passo svelto. Adesso
che lo poteva vedere meglio, Emma notò la fronte ampia e la
pelle appena più
scurita dal sole del tanto ritenuto elegante dalla buona
società londinese,
cosa che le fece pensare che molto probabilmente l’uomo non
era un lord.
Tale
sospetto venne immediatamente confermato quando egli si
presentò. «Niente milord,
signorina, sono solo un umile imprenditore. Mi chiamo Arthur Carlisle.
E voi dovete
essere lady Moore, se non sbaglio?»
Le voci giravano in
fretta. «Non
sbagliate, signor Carlisle. Prego, accomodatevi – posso
offrirvi del tè?»
«Grazie,
molto volentieri», accettò, sedendosi di fronte a
lei e posando i suoi
accessori su un’altra sedia vuota. Aramis, che non lo aveva
perso di vista un
solo istante, si alzò, si sgranchì le zampe e gli
si avvicinò con cautela per
annusarlo, per poi posargli il capo in grembo e lasciarsi accarezzare
tra le
orecchie. Ciò rese anche Emma più ben disposta
nei confronti del suo ospite
misterioso.
Lasciò
che Lydia gli servisse il tè, dopodiché
parlò. «Che cosa vi porta a Pemberley,
sir Carlisle?»
«Fondamentalmente
la curiosità, milady, unita al dovere di buon vicinato.
Inizio con il chiedervi
perdono per non essere venuto prima a porgervi il benvenuto qui a
Heatherfield.
Io e mia moglie abbiamo pensato che fosse meglio darvi del tempo per
ambientarvi nella nuova casa prima di venire a imporvi la nostra
amicizia»,
fece con un gran sorriso, sembrando quasi di dieci anni più
giovane.
«È
molto gentile da parte vostra», ammise Emma, ricambiando il
sorriso senza
sforzo. «Spero che tornerete con vostra moglie la prossima
volta, così
incontrerete anche la mia istitutrice.»
«Siete
venute voi due da sole? Ero convinto che anche il conte di Grantham
fosse a
Pemberley.»
«Mio
padre ci raggiungerà più avanti, è
molto impegnato in questo periodo», spiegò,
senza tuttavia approfondire dettagli che non era necessario che il
signor
Carlisle sapesse. «Vedo che le notizie viaggiano in fretta da
queste parti…»
«Già,
perdonate la mia indiscrezione. Heatherfield è un villaggio
di duecento anime,
tutti conoscono tutti e un nuovo arrivato attira l’attenzione
come un gatto che
abbaia. Anche se abita in una proprietà così
fuori mano come Pemberley», ammise
l’uomo, con un’espressione che sarebbe sembrata
quasi colpevole se non fosse
stato per il luccichio divertito nei suoi occhi.
Emma
sorrise senza prendersela. «Bene, mi fa piacere ricevere
visite. Siete il primo
indigeno con cui ho a che fare, escludendo i signori Duncan…
È una boccata
d’aria fresca poter parlare con qualcun altro che non siano i
domestici»,
aggiunse, chinandosi verso di lui e abbassando notevolmente il tono di
voce.
Mrs. Duncan, che aveva ripreso a potare qualche rametto arrogante dei
cespugli
di rose, poco lontani, non diede segno di aver sentito.
Istintivamente
il signor Carlisle posò a sua volta lo sguardo
sull’indaffarata governante, con
un’aria d’un tratto imperscrutabile.
«Sì, immagino», mormorò a
mezza voce.
Sembrava immerso in qualche ragionamento tutto suo, così
Emma lo lasciò libero
di inseguire i suoi pensieri per un altro po’, prima di
attirare di nuovo la
sua attenzione.
«Vivete
qui da tanto, sir Carlisle?»
La
sua voce riscosse l’uomo e riportò il suo
interesse su di lei. «Oh, sì. Da più
di vent’anni, mia cara», rispose con sorriso
rilassato, spezzando uno dei
biscotti al burro e assaggiandolo incuriosito. «Sono nato e
cresciuto nel
Derbyshire, a Matlock, ma poi ne ho avuto abbastanza e sono fuggito nel
continente in cerca di fortuna. Sono stato in Francia, in Svizzera e
infine in
Germania: lì ho conosciuto mia moglie, quindi in un certo
senso sono riuscito
nel mio intento», ammiccò, porgendo un pezzo di
biscotto ad Aramis che
scodinzolava ai suoi piedi. «Poi ho scoperto che il richiamo
della patria era
troppo dolce per poterlo ignorare, e sono ritornato in Inghilterra. La
signora
Carlisle non amava particolarmente il mio luogo di nascita, e neppure
io se
devo essere sincero, così dopo un breve girovagare siamo
finiti in questa parte
sperduta e pacifica della brughiera.»
«Dunque
siete un viaggiatore. Sapete, vi invidio», ammise Emma,
mescolando
distrattamente le due zollette di zucchero che aveva messo nel
tè. «Io non sono
mai stata fuori dall’Inghilterra, ma viaggiare è
qualcosa che mi piacerebbe
molto. Mi attraggono i paesi del Mediterraneo…
l’Italia, e la Grecia in
particolar modo. Sono un’appassionata di archeologia,
sapete?»
«Ma
davvero? Oh, è splendido che una gentildonna coltivi simili
interessi: rende
molto più stimolante e piacevole intraprendere una
conversazione con lei. A
Berlino c’era un museo che…»
Continuarono
chiacchierando del più e del meno per una buona
mezz’ora, ed Emma si trovò
parecchio a suo agio con quel simpatico e carismatico vicino di casa
che
sarebbe potuto benissimo essere suo padre: il suo buonumore era
contagioso, e
per un momento la giovane riuscì quasi a dimenticare quelle
infide sensazioni
di paura che non l’avevano abbandonata da che aveva messo
piede a Pemberley.
Esse tuttavia tornarono ad avvolgerla non appena il suo ospite tacque,
un po’
per riprendere fiato e un po’ per finire il suo tè
che doveva essere ormai
freddo.
«Avete
detto che siete qui da vent’anni, giusto?»
Esordì, spostando la conversazione
su un argomento che la premeva con più urgenza.
«Conoscevate i vecchi
proprietari di Pemberley? I conti di Rochester?»
Sir
Arthur rimase pensieroso per un po’, tamburellando le dita di
una mano sul
tavolo e allisciandosi i baffi con quelle dell’altra.
Sembrava voler prendere
tempo, come se l’argomento non fosse esattamente di suo
gusto. «Non
personalmente», disse infine, con un lieve sospiro.
«I Rochester erano gli
unici nobili del circondario, e si comportavano con gli abitanti di
Heatherfield come se fossero i signorotti incontrastati del luogo. Non
credo
rientrasse nei loro desideri stringere amicizia con me, che da semplice
possidente terriero non dovevo essere di certo alla loro altezza.
Però ammetto
che la domenica, quando andavamo a messa, la figlia si fermava
volentieri a
chiacchierare con Gretchen, mia moglie. Era una ragazza gentile, lady
Eleanore,
ma per quanto riguarda gli uomini di quella famiglia…
Sarò franco, milady, e
spero che mi perdonerete per quanto sto per dire, ma nessuno pianse per
la loro
dipartita. Certo, fu un orrendo affare, e non augurerei una cosa del
genere al
mio peggior nemico, ma credo che sotto sotto tutti fossero grati che i
Rochester si fossero, in un certo senso, estinti.»
Sollevò
gli occhi su Emma ma parve quasi non vederla, perso com’era
nei ricordi che
quel racconto doveva avergli suscitato. «Andate pure a vedere
le loro tombe al
cimitero, milady, e vedrete da voi che neppure un fiore le abbellisce.
Come se
in fondo non li volesse nemmeno la terra…»
Emma
rimase in silenzio per un po’, a sua volta pensierosa, e
d’istinto si voltò ad
osservare la facciata cupa del maniero. Che
fossero gli spiriti irrequieti di quella disgraziata famiglia a
spaventarla?
Subito dopo aver concepito quel pensiero si rese conto di quanto fosse
sciocco,
e decise di non far parola con il suo nuovo amico dei suoi timori
– l’avrebbe
scambiata per un’ingenua ragazzina di città, e lei
era molte cose fuorché
quello. «È molto triste», convenne
infine per spezzare il silenzio. Vide che
sir Arthur aveva riportato il suo sguardo, ora non più
assente, su di lei, e
osò un’ultima questione. «Ho sentito
molto parlare della tragedia che ha
colpito i Rochester, ma nessuno mi ha spiegato che cosa sia accaduto in
realtà.
Voi…» Esitò, mordicchiandosi il labbro
inferiore, ma poi prese coraggio. «Voi
di certo dovete saperlo. Cosa accadde quindici anni fa?»
Era
palese che la piega che aveva preso la conversazione non piacesse
particolarmente a sir Arthur, eppure bisogna ammettere che egli fece
del suo
meglio per soddisfare la curiosità della padrona di casa.
«Non è una bella
storia da raccontare, milady», esordì pacato,
osservandola attentamente per
assicurarsi di non oltrepassare il limite. Poi lanciò
un’occhiata di sottecchi
a Mrs. Duncan, che ormai si stava occupando dei fiori
dall’altra parte del
giardino, abbastanza lontana da essere fuori portata
d’orecchio, e assicuratosi
di questo riprese a parlare. «I giornali dell’epoca
ne parlarono per settimane,
fu uno scandalo. Tutti i membri della servitù vennero
orribilmente uccisi, e
così pure i Rochester; poi nella biblioteca
scoppiò l’incendio, e i loro corpi
furono deturpati dalle fiamme. Non trovarono mai il responsabile di
quella
tragedia, incolparono ladri ignoti…» Sir Arthur
esitò un momento, raccogliendo
le idee, poi sembrò decidere che tanto valeva raccontare
ogni cosa. «La
versione che venne rilasciata dalla polizia, alla fine, fu che il
conte, in un
impeto di pazzia – sembra che non godesse di una salda
stabilità mentale, quell’uomo
– uccise prima i domestici e poi i figli, appiccando infine
il fuoco di sua
mano per far sì che la sua tanto amata proprietà
non finisse in mani estranee. Suppongo
che, in mancanza di altre prove, questa fosse l’ipotesi
più attendibile. Una disgrazia,
ve lo ripeto… una disgrazia immane. Non si parlò
di altro per mesi e mesi.»
L’uomo
tacque, probabilmente perso in quelle oscure rimembranze, lasciando ad
Emma l’opportunità
di assimilare quanto aveva appena udito. Per natura ed educazione, non
era una
ragazza che credeva nei fantasmi o nel mondo soprannaturale in
generale… Eppure,
da quando aveva messo piede a Pemberley, non poteva negare che un
brutto
presentimento l’avesse accompagnata da mattina a sera,
specialmente negli
ultimi giorni – da quando, volendo essere precisi, aveva
conosciuto Noah Duncan.
Poi c’era stata la porta a vetri della biblioteca
misteriosamente spalancata,
quella musica nel cuore della notte, il sogno e lo strano comportamento
di
Aramis, che diventava insofferente quando lo obbligava ad entrare
dentro casa…
Quando
sir Arthur Carlisle si congedò, poco più tardi,
con la promessa di tornare a
farle visita il più presto possibile, magari anche
accompagnato dalla sua
consorte, Emma si scoprì riluttante a rientrare nel maniero,
benché fuori
iniziasse a far freddo e il cielo si stesse nuovamente riempiendo di
nuvoloni
carichi di pioggia.
Non ci sono
fantasmi a Pemberley. È ridicolo,
si ripeté tra sé e sé, mentre infine
cedeva e si lasciava accompagnare dentro
il castello da Mrs. Duncan e Lydia. Aramis esitò a sua volta
sulla soglia,
uggiolando appena e fiutando l’aria e il terreno con le
orecchie e la coda
dritta, ma poi seguì la sua padrona com’era
abituato a fare. Emma decise di non
prendere troppo sul serio quel comportamento. Non ci sono
fantasmi, continuò a ripetersi, decisa. Mi
sono semplicemente lasciata suggestionare
dal racconto di sir Carlisle.
Eppure
non poteva negare, una volta che fu nella scura penombra
dell’ingresso, senza
più l’aria fresca ad accarezzarle la pelle, di
sentirsi d’un tratto spiata.
**
Jane
Radcliffe si era sempre considerata una donna dall’intelletto
inflessibile, al
di sopra di qualsivoglia frivolezza: le credenze e le superstizioni
della gente
di campagna rientravano in questa categoria. Eppure, mentre si dirigeva
da sola
nella sala da pranzo – Emma le aveva chiesto di precederla
mentre lei finiva di
scrivere una lettera per il padre – si ritrovò ad
ascoltare, o meglio ad origliare,
una conversazione che la lasciò parecchio perplessa e anche
leggermente
preoccupata, soprattutto visto e considerato tutto ciò che
aveva udito quella
mattina al villaggio. Non che fosse un gesto particolarmente saggio
quello di
prendere come oro colato le farneticazioni di qualche ubriacone
invidioso e incattivito,
ma comunque, dato che si trovava ad essere l’unica
responsabile di lady Moore,
nessuno avrebbe potuto biasimarla se si fosse lasciata guidare da un
atteggiamento un tantino prevenuto.
Essendo
stata particolarmente silenziosa nell’entrare nella sala da
pranzo, nessuno si
accorse del suo arrivo; da dietro il paravento che separava la zona
riservata
ai padroni da quella riservata ai domestici che si occupavano di
servire i
pasti, miss Radcliffe udì dunque provenire delle voci
sommesse, che parlavano
con bisbigli concitati. Le riconobbe immediatamente come appartenenti
ai
coniugi Duncan – non che ci fossero altri con cui
confonderli, ad ogni modo.
«Dici
che è già tornato? Ne sei sicura?»
«Sai
che non si trattiene mai troppo a lungo al villaggio. Deve essergli
giunta la
notizia dell’arrivo di milady, e… buon Dio, credi
che dovremmo dirlo alla
padrona?»
«E
venire cacciati da casa nostra, o peggio?»
«Non
è casa nostra! È sua! Se ti
sentisse…»
«Non
oserebbe alzare un dito su di me.»
«Tieni
a freno la lingua e sii meno arrogante, Randolph Duncan», la
voce della
governante si era fatta improvvisamente più severa.
«Il nostro quieto vivere
dipende solo dal suo umore. E tu sai di che umore è stato in
questi ultimi
tempi, vero?»
Il
signor Duncan non rispose subito, ma quando lo fece cambiò
discorso. «Ad ogni
modo, non puoi dire nulla alla ragazza. Né alla sua
istitutrice. I segreti che
custodiamo non ci appartengono, e non spetta a noi
divulgarli.»
«Sì,
ma se le facesse del male… Dolph, pensaci!… Io
non so se sono in grado di
sopportarlo… Stavolta potremmo rischiare davvero la
prigione, o peggio!»
«Buon
Dio, Meg, tu l’hai già incontrato. Ti ha
già dato disposizioni, vero? Che cosa
ti ha detto di fare, eh, Meg?»
Sfortunatamente
per miss Radcliffe fu impossibile udire altro. In quel momento la porta
della
sala si aprì e lady Moore fece il suo ingresso, accompagnata
da uno
scodinzolante Aramis. L’istitutrice sentì le voci
dei domestici spezzarsi in
gemiti soffocati, timorosi di essere stati uditi, e poi entrambi
vennero fuori
da dietro al paravento per salutare la giovane signora.
Ma
lo sguardo che videro sul volto di Miss Radcliffe, tuttavia, fece loro
comprendere
che la donna aveva già sentito tutto quello che non avrebbe
dovuto.
Fingendo
di non notarlo, Mrs. Duncan sorrise gentilmente a Emma. «La
cena è pronta,
milady. Quando lo desiderate iniziamo a servire.»
«Certo,
signora Duncan, fate pure. Chiedo scusa per il ritardo»,
rispose quest’ultima,
osservando con la coda dell’occhio il suo cucciolo che andava
a sdraiarsi di
fronte al camino acceso. Poi si rivolse verso la sua istitutrice con un
mezzo
sorriso. «Siete qui da tanto, miss? Perché non vi
accomodate?»
«Sì,
milady», fece la donna, sedendosi piuttosto rigidamente.
Sorpresa
da quel tono, Emma aggrottò la fronte e scrutò la
sua istitutrice. «Va tutto
bene, signorina Jane? C’è qualcosa che dovrei
sapere?» L’istinto la portò a
sussurrare come se fosse un ladro nella sua stessa casa, la qual cosa
la irritò
non poco. Sono davvero troppo
suscettibile. E sir Carlisle era fin troppo bravo a
raccontare…
«Dopo
cena, milady», replicò sullo stesso tono miss
Radcliffe, guardandola in un modo
che le fece intendere di non voler affrontare l’argomento
davanti ai domestici.
Era
ridicolo che dovessero avere tutti quei segreti tra loro, ma allo
stesso tempo
Emma non poté che approvare quella prudenza di cui stavano
facendo uso. Sorrise
gentilmente quando Mrs. Duncan e Lydia servirono loro la cena, ma
durante il
pasto lei e miss Jane rimasero in silenzio, scambiando solo qualche
chiacchiera
di circostanza e priva di un reale interesse. La governante
versò un vino rosso
a entrambe, ma l’istitutrice notò un lieve tremito
nella mano della donna
quando riempì il suo bicchiere: come suo solito ne prese
silenziosamente nota,
senza dar cenno di aver notato la stranezza.
Dopo
aver mangiato anche il dolce – una crema bavarese alla
vaniglia – Emma posò il
tovagliolo accanto al proprio piatto indicando a Lydia di poter
iniziare a
sparecchiare, e si voltò verso miss Radcliffe. «Ci
ritiriamo in salotto, miss?
Così mi raccontate della vostra avventura al
villaggio», propose, senza
riuscire a celare la propria curiosità.
Miss
Radcliffe annuì e fece per alzarsi a sua volta, ma quando
abbandonò il sostegno
della sedia barcollò e perse l’equilibrio, e
sarebbe certamente caduta se non
avesse avuto la prontezza di afferrarsi al tavolo. Era improvvisamente
pallida,
e piccole goccioline di sudore le imperlavano la fronte aggrottata.
«Mio
Dio, miss, state bene?» Esclamò Emma, affannandosi
al suo fianco e posandole
una mano sulla schiena. «Cos’è
successo?»
«Un…
un mancamento, milady. Non vi preoccupate… Se non vi
dispiace, però, mi… mi
ritirerei nella mia stanza… Non mi sento molto bene. Forse
ho preso freddo,
questa mattina», balbettò confusamente la donna,
gli occhi serrati come se ciò
potesse bastare a scacciare il malanno indesiderato.
«Sì,
certo, appoggiatevi a me… Ecco, così»,
si offrì la ragazza, sinceramente
preoccupata. Da che la conosceva, infatti, non aveva mai visto miss
Radcliffe
crollare così per un piccolo capogiro – doveva
essere davvero una brutta
infreddatura. E durante la cena era sembrata normale…
«Mrs. Duncan!» Chiamò poi
ad alta voce, finché la governante non accorse prontamente.
«Mrs. Duncan, per
favore. Aiutatemi ad accompagnare miss Radcliffe nella sua
stanza.»
L’anziana
donna sembrava se possibile più pallida della malata, e le
sue mani intrecciate
si torcevano nervosamente prima che si decidesse a passare a sua volta
un
braccio intorno alla vita dell’istitutrice. «Ecco,
miss, adesso andiamo…
Facciamo piccoli passi», la istruì, con la voce
che le tremava appena.
In
due, con Lydia che le precedeva con la candela, riuscirono a portare
miss
Radcliffe fino alla sua camera da letto, a spogliarla degli abiti
pesanti e ad
infilarle la camicia di flanella, per poi metterla a letto e
rimboccarle le
coperte. La donna non emise un suono per opporsi – altra cosa
che Emma trovò
strana, visto che miss Jane solitamente non permetteva a nessuno di
aiutarla a
vestirsi o a svestirsi – come se fosse persa in una
dimensione totalmente
diversa. Gemeva, borbottava parole prive di senso, e tossiva come se
volesse
sputare tutta la cena.
«Lydia,
porta subito una tazza di latte con del miele»,
ordinò Mrs. Duncan, prima che
la cameriera si dileguasse giù per le scale a obbedire
com’era sua abitudine.
«Non
ha neppure la febbre», esalò Emma preoccupata,
sfiorando la fronte gelida dell’istitutrice.
Che genere di infreddatura era quella?
«Potrebbe
salirle durante la notte. Ormai è tardi per chiamare un
dottore», replicò la
signora Duncan con tono irrevocabile; eppure le sue mani stavano ancora
tremando, Emma non riusciva a distogliere lo sguardo da esse.
«Le cercherò
delle coperte più pesanti. Milady, forse è meglio
per voi andare a letto e
riposarvi…»
«No,
Mrs. Duncan, ho intenzione di rimanere qui tutta la notte»,
ribatté
freddamente, seccata per lo strano comportamento della donna e turbata
dal
malore improvviso di miss Jane. «Andate pure voi a coricarvi,
ma prima accendete
la stufa. Si gela qua dentro», ordinò poi, con un
tono che a sua volta non
ammetteva repliche. C’erano parecchie cose che non le stavano
piacendo della
governante, ultimamente, ma ci avrebbe pensato con calma una volta che
la crisi
di miss Radcliffe fosse passata.
Pregò
solo che non fosse nulla di grave.
______________________________________________
Angolo Autrice.
Nuovo capitolo! Orbene,
come procede? Sto riuscendo ad appassionarvi o ve ne siete
già lavati le mani? *rumore di grilli in sottofondo*
Su su, e
dire che sono anche piuttosto veloce con gli aggiornamenti,
conoscendomi e
considerando che è ancora estate. u_u
Ma bando alle ciance!
Alcuni appunti, prima di proseguire con i soliti ringraziamenti.
- Non ho idea di che rumore potesse
fare il motore di
una Mercedes-Simplex 40PS 4seater phaeton,
per cui ho dato spazio alla fantasia
(ma, considerando il fracasso che facevano i treni…)
- Mi riferisco ai vecchi proprietari
di Pemberley
Manor sia col nome “Rochester” sia con quello
“Pemberley” – non è un errore.
La
faccenda è molto semplice: Rochester è il titolo
nobiliare, Pemberley è il
cognome della famiglia (significa che un Pemberley può
ereditare il titolo di
conte di Rochester, ma non è detto che il conte di Rochester
debba essere
necessariamente un Pemberley: difatti, qualora il conte di Rochester
avesse
avuto solo figlie femmine, queste avrebbero perduto il titolo di
Rochester che
sarebbe andato al parente più prossimo in linea di
successione, che poteva
essere uno Smith qualunque. Facile, no?).
Altro da dichiarare? Mi
pare di no.
Ringrazio quindi Sylphs
e Homicidal Maniac per aver recensito lo
scorso capitolo, e Helmwige per
essersi aggiunta alla lettura :D Siete tutte splendide e gentilissime,
grazie
infinite per esservi imbarcate in questa avventura! :*
Ci sentiamo presto
– non oso promettervi una data, neppure
approssimativa, perché so già di essere incapace
di scrivere se ho delle
scadenze da rispettare. xD Ma farò del mio meglio! Baci e
abbracci come al
solito, dalla vostra
Niglia.
Niglia.