Seconda parte - Portland
Aprì gli
occhi sentendo il freddo del vento sotto i piedi nudi. La prima cosa che riuscì
a vedere fu il grigio del cielo. Una coltre di nubi si spostava velocemente
nell’aria, coprendo ogni colore e raggio di sole. Tutto ciò che vedeva era il
grigio.
Si sollevò
a sedere, spostando lo sguardo dove poteva. Riconobbe i marmi, le croci piantate
nel terreno, la terra scavata. Poi rivolse lo sguardo sul suo corpo. Non solo i
piedi, era completamente nuda sotto il vento che la faceva rabbrividire. Era una
sensazione sgradevole.
Istintivamente
cercò di coprire le sue nudità, e si guardò intorno per vedere se era sola. Al
tatto si accorse di essere fredda, troppo fredda; sembrava che non riuscisse a
generare calore, ma nonostante quel freddo anomalo non si sentiva male
fisicamente, a parte uno strano fastidio alla schiena. Cercò qualcosa per
coprirsi, ma tutto quello che aveva intorno erano lapidi e mausolei. Niente
vestiti, niente persone, niente impronte attorno a lei. Niente. Solo nubi e
vento. Non un suono giungeva alle sue orecchie.
Si alzò
poco convinta, tenendo la schiena ricurva sia per l’imbarazzo che per il freddo,
continuando a guardarsi attorno frastornata. Prese a camminare senza una
direzione precisa, superando le tombe, a volte con la terra fresca scavata
ancora visibile, altre volte completamente ricoperte d’erba e di
umidità.
Qualche
goccia cominciò a colpirle il viso e le spalle. Erano gocce freddi, gelide, e a
volte scivolavano lungo la spina dorsale, o tra i seni coperti solo da un
braccio, provocandole un fastidioso brivido. Questo le fece accelerare il passo,
per cercare una copertura. Ma i mausolei erano tutti serrati da catene o da
pesanti portoni che non si muovevano di un millimetro nonostante gli sforzi, per
cui continuava a camminare furiosamente in ogni direzione, finché una porta
aperta non catturò la sua attenzione. Era una struttura molto grande
all’apparenza, e dall’alto dei cornicioni alcune statue si affacciavano come
fossero a guardia dell’ingresso. E forse una delle due aveva una lancia tra le
mani…non riuscì a preoccuparsi troppo della forma di quelle sculture, e si
infilò all’interno senza troppi complimenti.
Dentro il
buio prese il sopravvento. Era in un corridoio, molto largo, ma in compenso
anche molto lungo. Lungo le mura c’erano nomi e volti che si affacciavano, altri
defunti, altre tombe. Jimmy Stone, Stefan Boyle, Gerard White, George Rosten, Kayle Butler,
Angela Orosco, Maria Hofstader, Leon Carray, Eugene Kennedy. Li leggeva
ad uno ad uno, mentre percorreva tutta la navata, camminando lentamente.
Incrociò in alcuni punti dei vuoti, e sotto un altro loculo aperto c’era una
barella di quelle che si usano per trasportare le bare, leggermente sbilanciata
a causa di una rotella mancante.
I nomi
continuavano a susseguirsi ai suoi occhi: Angel Proud, Skyler Whitman, Eddie
Dombrowski, Miriam Locane. Quel corridoio sembrava non finire più. Poi lo
stupore. Harry Mason. La foto era dannatamente reale. Si vedevano anche i pochi
capelli bianchi che erano apparsi con gli anni, e il suo sorriso composto.
Avvicinò le dita al marmo, passandole sopra le lettere di ottone fredde,
ripetendo il nome a bassa voce. Non stava piangendo, non sentiva niente, era
come svuotata dall’interno, e come non riusciva a provare calore, così non
provava sentimenti in quel momento. Solo i suoi occhi che passavano sul marmo
gelido insieme alle mani tremanti.
Un rumore
attirò la sua attenzione, come di un cigolio. Non si era accorta di essere
giunta alla fine del lungo corridoio. Davanti a lei c’era un’altra barella,
sporca di sangue ancora liquido, che gocciolava da una parte formando una
piccola pozza a terra. Oltre il carrello in ferro, su un livello rialzato con
soli tre scalini, si stagliava, poggiata in verticale, una bara scura,
spalancata e vuota, con gli interni in velluto rosso e i cuscini dello stesso
tessuto adagiati sul fondo. Alle spalle della bara poteva intravedere un altare
in stile cristiano, ma qualcosa non quadrava. Non c’era nessun crocefisso, non
un’immagine cristiana in quel posto, e anche la vetrata che si stagliava ora di
fronte a lei, oltre l’altare, raffigurava in maniera molto stilizzata una donna.
Forse era la Vergine Maria?! Non sembrava, dai colori.
Lentamente
si avvicinò alla cassa aperta. Sentì quasi un richiamo, come se il suo posto
fosse proprio quello, come se era lì per un motivo preciso. Ora la fitta alla
schiena era pungente e localizzata in un punto ben preciso. Si era completamente
dimenticata di essere nuda, e ora camminava sicura di sé, verso quei gradini.
Non degnò d’uno sguardo la barella insanguinata, su cui il liquido rosso
sembrava autogenerarsi, colando copiosamente anche lungo le cinghie penzolanti.
Salì lentamente i tre gradini che la separavano dal feretro, e quando ci fu di
fronte, sollevò un braccio sporgendosi verso il velluto.
Qualcuno
l’afferrò. Sentì il braccio bruciare al contatto con la mano che lo stringeva.
Si voltò fino a incrociare il volto sorridente e rassicurante di una donna dai
capelli corvini, che con un gesto delicato la convinse a girarsi di nuovo verso
il corridoio da cui era venuta, dando le spalle alla bara
aperta.
“Non
ancora” disse la donna con voce suadente che sembrava provenire da un’altra
dimensione.
Poi
lentamente le si avvicinò, portando l’altra mano verso il suo viso, cingendolo
in una carezza. E mentre la mano si posava delicatamente sulla guancia fredda,
il dolore alla spalla divenne intenso, lacerante, e si faceva strada nella carne
come se questa fosse penetrata lentamente ma inesorabilmente da una lancia.
Quando sembrò essere stata passata da parte a parte, portò una mano al seno, in
corrispondenza della fitta. E nel momento stesso in cui il dolore sparì, tutto
il suo corpo avvampò di calore, le lacrime le riempirono gli occhi e un lamento
sommesso fuoriuscì dalla sua bocca. La donna che aveva di fronte, sentendo quel
gemito, si avvicinò ancora, abbracciandola, costringendola ad affondare il viso
nella sua spalla.
Poi la
lasciò andare del tutto, allontanandosi di qualche passo. Il vestito era
macchiato di sangue, e le si era appiccicato sul petto, ma la donna sembrò non
farci caso. Le fece segno di guardare al suo petto. La mano, intrisa di sangue,
ora stringeva qualcosa…
…un
proiettile…
Si voltò
verso la bara, e al suo posto poté vedere solo una creatura umanoide con un
camice ingiallito e sporco di sangue, che reggeva in una mano una specie di
arnese chirurgico. Era molto lungo, e gocciolava sangue fresco dall’estremità;
ne era sporco per una buona parte. La creatura lo lasciò andare facendolo cadere
sul pavimento, provocando un rumore metallico che si amplificò nell’enorme
stanza, rimbombando più e più volte.
I suoi
occhi tremavano, ma continuò a guardare l’essere che aveva di fronte, mentre si
muoveva convulsamente verso la bara dal quale era uscito, dove rientrò
chiudendola dietro di sé con un cigolio.
Poi tutto
scomparve nel buio…
Spalancò
gli occhi azzurri. Davanti a lei Cheryl e Douglas di fronte alla macchina, con
la portiera posteriore aperta. Il freddo e la notte la circondavano, sentiva
odore di cloroformio addosso alla ragazza che le stava vicino, e tra le mani
stringeva una pistola. Aveva avuto quella vertigine per qualche secondo.
Sognava? O era dovuto alla tensione del momento? Eppure giurò di sentire ancora
quella fitta alla spalla sinistra.
“Aiutala ad
entrare velocemente!”
La voce di
Douglas sembrò ridestarla, ma il fastidio non si attenuava, anzi, con il passare
dei secondi diventava sempre più forte e bruciava come una ferita in cui la
carne viva fosse stata coperta di sale. Stava per obbedire alle parole di
Douglas, quando tutto il dolore si spostò strisciando come un serpente dalla
spalla al collo distribuendosi su tutta la spina dorsale. Si voltò, seguendo un
istinto ben preciso, quasi come se non fosse più padrona del suo corpo e
cominciò a guardare nel buio, sforzando gli occhi, spostandoli velocemente da
una parte all’altra. Quel gesto attirò l’attenzione dell’uomo accanto a lei, che
incuriosito cominciò a guardare anch’egli nella stessa direzione. Ma tutto
sembrava tacere, non un’ombra, non un suono.
Douglas si
voltò nuovamente, cercando di mantenere il sangue freddo. “Cybil! Non perdiamo
tempo, sali in macchina e andiamo via!”
Ma Cybil
continuò a puntare il suo sguardo dritto nel buio, verso una siepe che
costeggiava il palazzo. Puntò la pistola ed esplose un colpo. Lo scoppio prese
alla sprovvista Cheryl, che d’istinto si lanciò all’interno dell’auto
cacciandosi la testa fra le mani e stringendo con forza gli occhi. Anche Douglas
fu stupito, ma mantenne il sangue freddo e puntò a sua volta la pistola nella
direzione del colpo sparato da Cybil. Tuttavia non c’erano segni della presenza
di qualcuno nella traiettoria del proiettile. Tutto rimase immobile e in
silenzio per qualche secondo. Poi Douglas fece di nuovo cenno a Cybil di entrare
in macchina, ma invece di sedersi sul sedile posteriore dove ora Cheryl stava
completamente sdraiata, entrò davanti, tenendo ancora la pistola puntata fino a
quando non vide entrare anche Douglas al posto del guidatore; a quel punto
chiuse finalmente la portiera, e l’auto si avviò nella
notte.
…un
venticello fresco batteva su quella siepe. Qualche foglia era stata strappata
dalla furia del proiettile. Una figura si levò lentamente dal basso,
strusciandosi contro i rami per uscire dal suo nascondiglio e imbrattando tutto
con il suo sangue…
“Si può
sapere a cosa miravi prima?!”
Douglas
sembrava molto arrabbiato. D’altronde c’era stato troppo rumore, e un proiettile
in più significava comunque un rischio maggiore per tutti. C’era però da
domandarsi dove fossero finiti tutti mentre quella ragazza sparava all’impazzata
con un revolver calibro 45.
Cybil non
rispose immediatamente, ma rifletté su ciò che aveva appena vissuto. Sentiva
ancora qualche brivido lungo la schiena, ma si attenuavano man mano che l’auto
si allontanava da quel posto. I suoi occhi azzurri fissavano insistentemente la
pistola, con il cane incandescente per le esplosioni subite. I pensieri
correvano forte, si ritrovò a pensare ai colpi mancanti…tre in totale su un
caricatore da otto. Era ancora sicura di poter affrontare un’altra emergenza
come quella, ma aveva bisogno di proiettili.
Cheryl, sul
sedile posteriore, si era raddrizzata, e guardava dal lunotto se qualcuno li
stesse seguendo. Spostava lo sguardo dalla strada che si lasciavano alle spalle
a quella che stavano per percorrere, mentre un vortice di pensieri affollava la
sua testa. Si sentiva ancora intontita per il cloroformio, e tutto quello che
era successo in quella notte era per lei ancora un mistero. Improvvisamente
abbassò la testa con rassegnazione.
“Non saremo
mai al sicuro, vero?”
Douglas
cercò di guardarla dallo specchietto retrovisore. Tutto ciò che riuscì a vedere
furono i ciuffi biondi da cui si poteva intravedere un’ormai preminente
ricrescita corvina che si affacciava dalle radici. Avrebbe voluto rassicurarla,
ma tutto quello non aveva senso neppure per lui. Era sicuro di aver colpito una
ragazza davanti a quel portone, e non aveva visto altre persone. Cybil non aveva
parlato, sapeva che c’era qualcun altro insieme a quella donna, ma non sapeva
chi fosse, e che fine avesse fatto, anche se poteva immaginarlo, visto che sia
Cybil che Cheryl erano ancora vive e vegete, e che Cybil in particolare fosse
armata.
“Non ti
preoccupare Cheryl. Finché restiamo uniti non ci potranno fare
nulla”
Non suonava
molto convinto, pensò in mente sua. Ma poté sentire uno sbuffo che poteva essere
assimilato a un sorriso.
Cybil era
ancora immersa nei suoi pensieri. Aveva dei ricordi sfocati, forse aveva sognato
ad occhi aperti, ma il dolore che aveva provato era così reale, e quella
pulsione…perché aveva sparato? E a cosa? L’istinto l’aveva costretta a premere
il grilletto, ma razionalmente in quella direzione non c’era nulla, nemmeno
un’ombra. C’era una sola spiegazione, ma doveva avere
conferma.
“Cheryl,
dimmi una cosa…”
La voce di
Cybil era incerta, tanto che aveva preso alla sprovvista la ragazza, che in ore
di racconto non aveva mai sentito quella voce così flebile, ma era sempre stata
ferma e sicura.
“Quando gli
incubi sono cominciati…quando hai visto quei mostri…quando sei stata a Silent
Hill…ti è mai capitato…non so, di agire per istinto…di avere delle premonizioni
che ti hanno salvato la vita?!”
Cheryl
strabuzzò gli occhi. Per qualche istante regnò il silenzio più
assoluto.
“…è questo
che ti ha fatto sparare quel proiettile? Un istinto?!”
Douglas
voleva vederci chiaro: quella donna si stava comportando in modo troppo strano.
Ed era così concentrato su Cybil che non si accorse dei movimenti di Cheryl, che
ora si rannicchiava sempre di più, e si teneva la testa fra le mani. Stava
ricordando qualcosa che sperava di poter cancellare per sempre, una sensazione
distruttiva.
“Ricordo…”
esitò. “…il luna park. L’otto volante. Ricordo che avevo già sognato quel
momento al centro commerciale, e cercai di impedire che il sogno si avverasse.
Ma dopo tutti i miei sforzi, quel…coso…me lo ritrovai davanti comunque. Era poco
prima di incontrare Douglas con quella ferita.”
Douglas
ascoltava in silenzio. Lui ricordava pochissimo di quel mondo in cui, suo
malgrado, aveva passato quasi un giorno intero. Tutto ciò che di contorto e
mostruoso aveva visto, affrontato, a volte ucciso, tutto era sparito dalla sua
mente se non le sensazioni che aveva provato. Il che era
frustrante.
“Ma c’è di
più. Io sapevo che stava arrivando. Era una sensazione bruttissima, più si
avvicinava e più sentivo dei dolori ovunque, le costole, le gambe, il collo,
ogni osso del mio corpo fremeva e bruciava tutt’attorno. Quando intravidi le
luci da lontano il dolore aumentò ancora e sentivo il mio corpo completamente
paralizzato, come se non riuscissi più a controllarlo. E poi, contro ogni mia
volontà mi lanciai nel vuoto…Il buio non mi permetteva di vedere nulla e per me
sotto i binari c’era il nulla più assoluto, eppure dopo neanche un metro di
caduta incrociai quella biglietteria e ci svenni sopra. Non so per
quanto…”
Ci fu un
momento di silenzio assoluto, rotto solo dal motore dell’auto che si allontanava
nella notte, senza una direzione precisa.
“Ma non fu
l’unica volta. In altre occasioni dei dolori mi hanno costretto a fermarmi e a
prendere delle decisioni che sembravano del tutto prive di senso…ho ucciso un
mostro che stava nascosto nell’acqua putrida di una fogna con un phon acceso,
perché sentii i polmoni fare fatica a contrarsi, e il respiro si fece affannoso
non appena mi avvicinai al ponticello di metallo. Non sapevo che era lì, c’erano
degli indizi, ma nulla di certo.”
Cybil non
disse una parola per tutto il racconto. Tremava leggermente, complice il fresco
affrontato con una sola maglietta leggera addosso. Ma la
curiosità vinse la paura.
“Hai
creduto di vedere qualcosa prima che succedesse?! Un…sogno, o qualcosa di
simile?”
“Forse…una
volta giurai di essere stata trascinata per le gambe per chissà quanto
tempo…”
Douglas non
riusciva più a fare silenzio.
“Insomma,
mi spiegate cosa sta succedendo? Cosa sono queste storie?”
Ma Cybil
aveva qualcos’altro in mente. Voleva mostrare tutto.
Il racconto
si doveva concludere!
“Douglas,
sii gentile. Prendi l’autostrada. Andiamo a Portland”