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Autore: Belarus    07/01/2014    5 recensioni
Un Drago Celeste che nobile non è mai voluta essere, una fuga bramata da sempre e un mondo del tutto sconosciuto ad allargarsi ai piedi della Linea Rossa. Speranze e sogni che si accavallano per una vita diversa da quella che gli è da sempre stata destinata. Una storia improbabile su cui la Marina stende il proprio velo di silenzio, navi e un sottomarino che custodiscono un mistero irrivelabile tanto quanto quello del secolo vuoto.
#Cap.LXXXV:" «Certo che ci penso invece! Tornate a Myramera e piantatela con questa storia dello stare insieme! Io devo… non potete restare con me, nessuno di voi può. Sparite! Non vi voglio!» urlò senza riuscire o volere piuttosto trattenersi.
Per un momento interminabile nessuno accennò un movimento in più al semplice respirare e solo quando Aya fu sul punto di voltarsi per andare chissà dove pur di mettere distanza tra loro, Diante si azzardò a farsi avanti.
«Ci hai fatto giurare di non ripetere gli errori passati. I giuramenti sono voti e vanno rispettati.» le rammentò. "
Genere: Avventura, Generale, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Eustass Kidd, Nuovo personaggio, Trafalgar Law
Note: Lime, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Teru-Teru Bouzu '
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Titolo: Teru-Teru Bouzu
Genere: Avventura; Romantico; Generale {solo perché c’è davvero di tutto}.
Rating: Arancione {voglio farmi del male, oui.}
Personaggi: Nuovo personaggio; Trafalgar Law; Heart Pirates; Pirati di Kidd; Eustass Captain Kidd{citato}.
Note: Fortunatamente rientro sempre e comunque nei miei limiti di ritardo, ormai lo sapete e credo non ci sia più bisogno di farvelo notare. Comunque, capitolo decisamente più lungo e con una certa svolta. C'è un piccolo timeskip, questione di qualche giorno, tra il primo POV e il secondo, nulla di terribile. Credo di dovervi precisare come sempre di leggere le note a fine capitolo, ma anche questo è entrato nella routine e non sto troppo a dilungarmi.
Per il resto, un ringraziamento a coloro che leggono e mi seguono sempre! A coloro che mi sostengono e chi da solo un'occhiata. Merci e a lunedì!




CAPITOLO XII






Un giardino tagliato di fresco, una grande casa, un tavolo da tè probabilmente e quella che sembrava proprio essere una ragazzina rannicchiata su tre gradini.
Trafalgar rigirò nuovamente la foto rattrappita sul tavolo della cucina, le nocche scheletriche poggiate sul pizzetto scuro sorressero il capo inclinato a osservare quel pezzo di carta ancora una volta, mentre la tazza calda fumava poco distante.
«Che cosa vede Senchō?» chiese titubante Bepo, accanto a lui, azzardandosi a rompere il silenzio irreale che regnava sul sottomarino da quando Law si era seduto al tavolo con quella foto tra le mani.
Penguin e Shachi sollevarono gli sguardi dalle loro tazze, fissandolo esasperati.
«Guarda che non è un test psicologico.» borbottarono all’unisono.
Il vicecapitano s’impettì all’interno della divisa arancione, scoccando loro un’occhiataccia di rimprovero.
«Shh! Disturbate Senchō!» li ammonì serio, dimenandosi sullo sgabello d’acciaio.
«Hai cominciato tu!» rimbrottò infervorato Shachi, sollevandosi dal proprio per puntargli un dito contro.
Bepo colto alla sprovvista arrossì di vergogna, affondando il capo peloso tra le spalle larghe.
«Sumimasen…» mugugnò, rintanando il muso all’interno del colletto.
«Non uscirtene con delle scuse!» accusò con maggiore vigore Shachi, ormai in bilico sui piedi dello sgabello.
Finse di non udire il chiasso che intorno a sé aveva cominciato ad accumularsi, tra parte dell’equipaggio che si sgranchiva la lingua dopo parecchi minuti di concentrato silenzio, i rimproveri di Shachi e i lamenti di Bepo che si premurava di ricordargli le parole pronunciate da “Aya-sama” riguardo a quanto poco carino fosse sgridarlo sempre.
Avrebbe volentieri fatto a meno di sentir pronunciare il nome di quella donna in quell’occasione, ma sembrava ormai impossibile dissuadere il suo orso dal nominarla se qualcuno lo redarguiva.
Ispirò affondo il profumo del tè che si sollevava dalla tazza poco distante, riuscendo a concentrarsi nuovamente sull’immagine increspata che giaceva abbandonata accanto alla sua mano destra da parecchio. Stava gestendo la propria room sul ponte della nave della Marina quando uno dei suoi uomini, dalla ringhiera del sottomarino, si era accorto della finestra della cabina di comando che si apriva e richiudeva lasciando affondare una busta tra le onde del Grande Blu. L’avevano recuperata poco dopo la fine dello scontro – semmai quell’abbordaggio potesse definirsi tale –, ma il contenuto si era inzuppato abbastanza da rendere quasi irriconoscibile la figura che vi stava impressa sopra. Gli c’erano voluti pochi secondi per distinguere l’abito femminile e i capelli lunghi, ma erano settimane ormai che non andava oltre quella semplice costatazione.
Doveva esserci senz’altro un buon motivo per cui dei marines si affaticavano tanto a percorrere quel tratto di Rotta e l’immagine, seppur non in perfette condizioni, gli forniva abbastanza informazioni da non rendere la ricerca interessante come prima.
«Che facciamo adesso, Senchō? Torniamo indietro, proseguiamo o…» indagò Penguin, chiedendogli tacitamente se desiderasse un’altra tazza di tè bianco.
Negò, allontanando ciò che restava dell’infuso nella propria, mentre il resto della ciurma si zittiva di colpo riportando l’attenzione su di lui.
«Non ho tempo per le sciocchezze del Governo, fai rotta per l’isola più vicina.» ordinò, sollevandosi e riponendo la busta con la foto all’interno di una delle tasche della felpa.
«Aye, vado subito!» obbedì, svanendo prontamente oltre uno dei corridoi bui insieme a gran parte dell’equipaggio.
Law lo imitò poco dopo, allontanandosi nella direzione opposta dove si allargava il passaggio per le cabine e la postazione di vedetta. Risalì i gradini metallici del primo piano, mentre la luce fredda e bluastra dei neon prolungava la sua ombra qualche passo più in là, rendendone i contorni frastagliati. Socchiuse gli occhi, svoltando alla propria destra per raggiungere il corridoio su cui si trovava la sua cabina, percorrendone l’intera lunghezza con abituale noncuranza, superando le stanze del resto della ciurma e la ripida rampa che si abbarbicava sino alla sala circolare dal cui oblò si riusciva a intravedere per miglia il fondale del Grande Blu.
«È davvero una sciocchezza?» bofonchiò la voce di Bepo alle sue spalle quando ebbe aperto la porta della propria stanza, senza che lui ne fosse minimamente sorpreso.
«Finché non ci riguarderà, sarà tale.» rispose senza badarvi troppo, abbandonando la nodachi sul bordo letto perfettamente sistemato prima di sedersi alla scrivania ingombra di decine di libri e appunti.
«E non ci riguarderà?» rimbatté con un velo di apprensione, accucciandosi accanto alla kikoku.
Dopo l’attacco di quel giorno, il Governo aveva aumentato la sua taglia di trenta mila berry, compiendo quel fatidico passo falso che Trafalgar aveva imparato a osservare in ogni questione rilevante che intaccasse l’ordine mondiale. L’abbordaggio di una nave, in sé non costituiva una grande azione di pirateria, non una che avrebbe fatto lievitare la taglia di una Supernova a quel modo perlomeno, ma la Marina si era comunque presa la briga di sbatterlo sulla prima pagina dei ricercati.
Si era immischiato in un affare di cui il Governo mondiale voleva tenere tutti all’oscuro ed era plausibile che le prossime navi incrociate avrebbero tentato lo scontro, ma quel genere di scontri non lo aveva mai impensierito più di tanto e le scoperte fatte, pur incuriosendolo, non costituivano la leva adatta a farlo entrare realmente in gioco.
«Probabilmente no.» concluse, togliendosi il cappello per passare una mano tra le ciocche color pece.
Bepo non parve altrettanto convinto e ammutolito, continuò a fissargli la nuca con preoccupata incertezza. Law non si scompose più di tanto, riponendo la busta che sino allora aveva tenuto in tasca, accanto al listino delle taglie di quel mese.
«La ragazzina nella foto deve essere sparita su questa tratta, ma è inverosimile che sia sopravvissuta a lungo e dopo tutto questo tempo.» spiegò con quella strana pazienza che solo a Bepo riusciva a riservare, ruotando sulla sedia per guardarlo.
Il vice gonfiò un po’ il muso, dispiaciuto, emettendo un lamento appena udibile. Rimase imbronciato per un po’, prima di sollevare gli occhi scuri sul capitano.
«… perché la cercano allora?» chiese con tono smorto, stringendo le zampe sulla divisa.
Gli riservò un’occhiata quasi intenerita, mentre allontanava la schiena dalla sedia e poggiava i gomiti sulle ginocchia per sporgersi verso il letto su cui l’altro stava accucciato.
«Si cercano sempre i figli dei signori, Bepo, anche se passano dieci anni.» soffiò fuori calmo, incrociando le nocche delle mani ossute.
Bepo si rizzò all’interno della divisa perdendo quel velo di dispiacere provato sino allora per la triste previsione, gli occhi sgranati per il nervosismo e il pelo ritto sul capo.
«Hànzú?!» sbottò suo malgrado, senza riuscire a trattenersi.
Un brivido strisciò sotto la felpa pesante, insinuandosi affilato tra i muscoli rilassati. Serrò istintivamente la mascella, sentendo chiaramente i denti stridere tra loro e le tempie pulsare, mentre il vicecapitano si ricomponeva con rammarico sulla coperta per lo sfogo improvviso.
Hànzú. Era inverosimile che quella ragazzina fosse ciò che Bepo temeva – nonostante fossero chiaramente intuibili le sue origini benestanti – e lui non aveva alcuna intenzione di preoccuparsene più di tanto. Si era già immischiato abbastanza per i suoi gusti ed era più che convinto a non sprecare un altro secondo a rimuginare su quella questione.
«No, quelli avrebbero scomodato qualcuno di più importante, ora va a controllare gli altri.» troncò pacato, poggiandosi nuovamente allo schienale della sedia con un respiro profondo.
L’orso abbandonò immediatamente la propria espressione, per rizzarsi in piedi ed esibirsi in un saluto.
«Aye, Senchō!» obbedì ubbidiente, attraversando in pochi passi la cabina, sparendo poco dopo oltre la soglia buia del corridoio.
Ascoltò i passi impercettibili di Bepo allontanarsi e solo quando percepì lo scricchiolio del metallo dei gradini del primo piano, si decise a socchiudere gli occhi e girarsi verso il largo l’oblò che spiccava sopra la scrivania ingombra. La rara luce incerta che filtrava sino alle profondità, lo convinse a riaprire le palpebre e fissare un punto imprecisato nella massa d’acqua grigiastra che stavano attraversando.
Era curioso di scoprire perché il Governo mondiale cercasse con tanta insistenza e segretezza una ragazzina su una tratta di Rotta per il Nuovo Mondo, ma aveva poco tempo da perdere con osservazioni che lo sfioravano appena e abbastanza pazienza da poter attendere di vedere con i propri occhi e con nessuno sforzo, il giorno in cui la Marina sarebbe inciampata sulla propria incapacità di tenere la bocca chiusa.



Quel negozio era inquietante. Non che lei fosse mai stata facilmente impressionabile e negli ultimi nove mesi lo era diventata ancor meno, ma quel negozio era davvero inquietante. Le candele che erano state sistemate lungo le nicchie sulle pareti minacciavano di spegnersi al primo respiro di troppo e di certo producevano più fumo che bagliore. C’erano casse accatastate lungo l’intera lunghezza dei tramezzi con chiodi arrugginiti a tenerle insieme e scritte in lingue di cui non sospettava neanche l’esistenza, sacchi ammucchiati sopra le casse da cui ogni tanto faceva capolino qualche piattola audace e ceste di raffia bucate che si riempivano di cera calda, sfidando l’auto combustione a causa delle candele in bilico. In fondo al tugurio, prima di incrociare gli occhi o meglio l’occhio del proprietario, aveva intravisto un bancone pieno di armi arrugginite e smussate che si riempivano di polvere, ma la cosa che davvero le metteva i brividi era lo scaffale moribondo che penzolava in una nicchia più profonda qualche metro più in là. Non era tanto il fatto che avesse i piedi talmente rovinati dai topi da potersi spezzare da un momento all’altro, quanto piuttosto i barattoli che vi stavano ammonticchiati su ogni mensola. Erano pieni di polveri, radici essiccate e strani composti informi immersi in una sostanza giallognola virante al verde che le dava l’impressione di essere potenzialmente tossica.
Sapeva che alla fine sarebbero finiti lì accanto, eppure una parte di lei continuava a pregare che Wire si fiondasse in strana cercando un medico decente, piuttosto che dilettarsi con gli intrugli che quell’instabile di un mozzo rifilava a tutti sulla nave quando avevano qualche problema.
Non era un vero medico – non lo ricordava neanche a essere obiettivi –, diceva di aver appreso lo “stretto indispensabile” da un negromante, affermazione che gli aveva fatto guadagnare la simpatia di Kidd insieme ai tatuaggi sull’intero cranio, motivo per cui le uniche medicine che riusciva a preparare erano impacchi dall’aspetto malsano e con ingredienti che avrebbero meritato di essere banditi dal Governo mondiale.
Aya sospettava di non essersi mai beccata neanche un raffreddore per il timore di ritrovarselo davanti, anche se era improbabile che qualcuno chiamasse quel tipo per curare proprio lei.
«Posso andare da Kidd?» mormorò, sporgendosi appena verso la schiena di Wire.
L’uomo continuò ad avanzare, curiosando ovunque alla ricerca degli ingredienti redatti su un lercio foglio spiegazzato e lacero che il loro presunto medico gli aveva lanciato senza troppa cura, prima di ritornarsene a sistemare le corde di prua ancora aggrovigliate per l’attracco.
«No, il Capitano ha detto che devi aiutare.» borbottò di rimando, piegandosi ad afferrare qualcosa da un sacco sotto lo sguardo vigile del proprietario.
A prima vista pareva essere il baccello annerito di chissà quale pianta, Wire se lo rigirò tra le dita enormi con circospezione prima di lasciarlo ricadere sugli altri e passare oltre.
«Ha detto che dovevo smettere di rompere, se proprio vogliamo stare qui a puntualizzare.» precisò suo malgrado, badando a non inciampare su qualcosa.
«Allora non andare a romperlo.» rispose prontamente, agguantando una busta di foglie ingiallite per poi voltarsi e consegnargliela.
Aya gli scoccò un’occhiata snervata che servì a ben poco, lasciandola con le braccia infreddolite ingombre d’intrugli su cui non osava neppure posare lo sguardo per più di due secondi.
Quando attraccavano, di qualsiasi luogo si trattasse, qualsiasi tipologia di gente se ne andasse a spasso per le strade, Kidd la lasciava gironzolare senza lamentele, “per riposare le orecchie” diceva il timoniere cui Aya avrebbe volentieri voluto spiegare che Kidd ciarlava molto più di lei. Non c’era stata una sola volta in cui le avesse ordinato di rimanere sulla nave e lei vi aveva fatto in qualche modo l’abitudine.
Quel giorno però, per chissà quale inspiegabile motivo, Wire si era messo in testa di farla lavorare, mentre soggiornavano sull’arcipelago e facevano provviste. Sarebbero rimasti lì per un po’ a causa della tempesta che imperversava sulle dieci isole a ovest e minacciava di virare da un momento all’altro, quindi, a suo dire, avrebbe avuto tutto il tempo di farsi un giro quando avrebbero terminato con quella piccola ricerca.
Le piaceva poter dare una mano alla ciurma, si sentiva incredibilmente soddisfatta quando portava un lavoro a termine, ma quello non riusciva proprio a mandarlo giù. Lo trovava sciocco, avventato e insensato. Oltre che pericolosamente letale per la salute sua, di Wire e di quel povero mozzo che avrebbe dovuto ingerire chissà che per una febbre che non voleva saperne di andar via.
Avanzò lungo lo stretto corridoio, mentre le punte del copricapo del compagno picchiavano contro alcune gabbie di ferro simili a cipolle, svegliando strani animali, simili a scimmie di mare, che la fissarono assonnati mostrando le piccole lingue bluastre.
Un piccolo sorriso le affiorò sulle labbra quando uno di loro allungò la zampetta tentando di agguantare una delle sue ciocche rossicce, ma sparì presto alla vista dello scaffale pericolante che l’altro si era fermato a osservare.
«Wire…» mugugnò, tirandolo per un braccio.
Lui non si volse neanche a guardarla, concentrato piuttosto sulle centinaia di barattoli.
«No.» rispose secco.
Ebbe l’impressione di risentire sua madre, mentre le negava l’ennesima visita al cancello di Marijoa e qualcosa nel suo stomaco montò sino a farle dar fiato alla lingua.
«Non sai neanche cosa voglio chiederti!» ringhiò piccata, serrando le unghie attorno a una delle sacche che reggeva tra le braccia.
Forse a causa del tono o del proprietario del negozio che li fissava con sempre maggiore insistenza, Wire si convinse a voltarsi verso di lei e rivolgerle un’occhiata stanca.
«Non puoi andare dal Capitano e neanche da Killer.» insistette fermo, abbassando le spalle spioventi.
Avrebbe tanto voluto esibire un sorriso vittorioso o magari uno di quei ghigni che ormai era solita dipingersi sulle labbra quando un membro della ciurma tentava di tirarle un brutto scherzo e falliva miseramente, ma si sentì in qualche modo dispiaciuta per il tono con cui aveva pronunciato quella frase e una parte di lei la supplicò di non mettersi a fare la bambina solo per aver ricevuto un rifiuto tanto repentino.
Spostò il peso del proprio corpo traendo un respiro profondo, prima di sollevare nuovamente lo sguardo.
«La domanda era un’altra.» chiarì calma, con un mezzo sorriso.
Wire volse gli occhi al soffitto ammuffito, per poi calarli ancora una volta sullo scaffale in perfetto silenzio.
Da quando passava del tempo con lui, Aya aveva imparato con sua grande sorpresa quanto Wire sapesse dimostrarsi paziente e incline a ignorare certe beccate. Almeno con chi stava sulla nave con il consenso del Capitano.
Incoraggiata dal silenzio e dall’ennesima scatolina che veniva deposta tra le sue braccia, decise di tentare ancora e avanzare la propria proposta.
«Posso aiutare in qualche altro modo e… uscire da questo posto?» domandò flebile, piegando il capo su una spalla.
Una ciocca le scivolò innanzi agli occhi, ma non le impedì comunque di scorgere l’espressione pensierosa di Wire e la piega dubbiosa che aveva assunto la sua fronte. Si morse il labbro nervosa, sperando di poter varcare la soglia di quel negozio il più in fretta possibile e non tornarci mai più, ma durò giusto il tempo di vedere la mano di Wire affondare nel piccolo sacchetto di berry che teneva legato al cinturone e consegnarle un paio di monete levigate.
«Tieni, va in fondo alla strada, c’è un tipo che vende carte nautiche. Copra quella dell’arcipelago e torna.» soffiò fuori piatto, prima di ficcarle le monete in tasca e dirigersi verso un’altra parte del negozio.
Aya ebbe il malsano istinto di saltargli addosso e abbracciarlo, ma si contenne, preferendo piuttosto poggiare ciò che avevano trovato sul legno cigolante del pavimento e muovere qualche passo verso l’uscita.
«Grazie!» ringraziò entusiasta, chinandosi appena.
«Vedi di comprare quella giusta e di non finire nei guai.» ordinò esasperata la voce di Wire, mentre il proprietario del negozio si rannicchiava dietro il bancone con sguardo sospettoso.
«Stai diventando premuroso, dopo così poco tempo che ci conosciamo!» tonò sarcastica, facendo tintinnare la serie di campanelli di osso di tartaruga che erano appesi sulla porta.
«Non ho intenzione di essere io a dire al Capitano che hai combinato qualche guaio, ora muoviti.» lamentò brusco in lontananza, strappandole una risata.
Chiuse la porta alle proprie spalle, sentendo l’aria pungente dell’arcipelago sferzarle il viso scoperto e le lanterne appese sullo stipite del negozietto ciondolare funeree con i loro vetri lerci e le luci fioche. Ispirò fiduciosa, sperando di sentire il respiro sapido del Grande Blu, ma non le giunse nulla ai polmoni che non fosse riconoscibile in quella strada smorta.
L’isola su cui lei e Wire erano andati a cercare i medicinali si trovava sul lato nordest dell’arcipelago ed era senza dubbio tra le più grigie e immobili. Erano cento in totale in quella laguna cupa, tutte collegate da camminamenti di metallo battuto o legno scricchiolante che inspiegabilmente riusciva a sopravvivere alle tempeste, non avevano nomi e pareva non correre molta differenza tra il giorno e la notte. Il cielo era coperto di nubi tanto scure da dare l’impressione che qualcosa di terribile stesse per precipitare su quegli spuntoni di roccia su cui la gente aveva costruito le proprie case e pareva non essere merito della tempesta che imperversava qualche miglio più in là. C’era nebbia ovunque ed era praticamente impossibile scorgere la linea d’isole che si estendeva oltre le due che si trovavano più in prossimità.
S’incamminò lungo la strada di terra scura, chiedendosi quanti abitanti contasse quell’arcipelago, ma si convinse che il problema della popolazione o della sua età media fosse solo apparente e circoscritto a quel gruppo d’isole.
Quella su cui Kidd aveva ancorato la propria nave era abbastanza soleggiata e affollata, ma si trovava a una ventina di miglia da quella in cui erano giunti lei e Wire e molto più a ovest. Fasce diverse di clima, aveva detto Killer quando Aya gli aveva chiesto perché dall’altra parte pareva tanto scuro e lei non se ne stupiva considerando che l’arcipelago si estendeva per orizzontale per leghe e leghe di mare.
Incrociò alcuni uomini carichi di carbone e legna, una vecchia che vendeva sartiame rinforzato standosene seduta sotto un ombrellone bucato lieto di ripararla dal vento piuttosto che dal sole e un paio di donne con ceste cariche di abiti. Ognuno le riservò un’occhiata prolungata, senza esibirsi in alcun saluto, continuando ad avanzare o lavorare con almeno una spalla poggiata alle pareti delle case o dei negozi.
Tentò un sorriso risalendo i gradini del negozio che Wire le aveva indicato, verso un gruppo raccolto innanzi alle porte di una locanda, ma nessuno ricambiò, preferendo voltarsi e proseguire nei propri affari. Abbandonò il tentativo e aprì la porticina, mentre un nuovo campanello si agitava sopra la sua testa, annunciando la sua entrata.
Il negozio, se possibile, pareva più ingombro di quello che aveva abbandonato qualche minuto prima e senz’altro ben più polveroso. C’erano carte e libri impilati su ogni centimetro disponibile, alcune colonne raggiungevano la sommità delle vetrate che davano sulla strada, altre svettavano sino alla scala di legno che conduceva al piano superiore.
Aya costatò quanto angusti potessero essere gli spazi in quel luogo, non c’era negozio che avesse scorto o visitato quella mattina che non fosse stretto, lungo e serpeggiante e quello di certo non faceva eccezione.
Ad accoglierla non giunse nessuno per alcuni minuti e Aya si convinse a cercare da sola la carta che Wire le aveva indicato, fortunatamente non le ci volle molto e ne trovò una pila perfettamente raccolta su una libreria. La aprì per controllare il contenuto ed essere certa di non aver combinato qualche pasticcio, dopodiché frugò nelle tasche, lì ove Wire le aveva infilato le monete, tirandone fuori abbastanza per pagare. Le abbandonò sul bancone da cui si sollevava un rivolo di fumo da una ciotolina di spezie macinate e si prese qualche secondo per curiosare tra i libri che spiccavano un po’ ovunque.
Le era sempre piaciuto leggere, a Marijoa l’unico luogo che amasse della casa in cui aveva vissuto era la biblioteca polverosa e stantia che gli antenati dei suoi genitori avevano ingombrato di volumi di ogni sorta. Li aveva letti quasi tutti, dal momento in cui aveva imparato a coglierne i segreti erano divenuti i suoi migliori alleati insieme ai racconti di Ko. Aveva dei ricordi decenti all’interno di quella sala, ricordi che valeva la pena di custodire e rimpiangere adesso che era lontana dalla Linea Rossa.
«La signorina conosce la storia di Hsing t’ien?» sibilò una vocina rauca, accanto alle sue ginocchia, quando si fu soffermata a osservare una mappa dell’arcipelago dai bordi rifiniti con una strana tinta bluastra.
Abbassò lo sguardo sorpresa, scoprendo un’anziana donnina dai capelli talmente sottili da sembrare fili appena tessuti. Rughe le ricoprivano ogni angolo del viso, la bocca pareva pericolosamente simile a quella di Heat, ma non vi erano punti a unire le spaccature delle sue labbra. Indossava un abito parecchio appariscente e un cappello con due nappine dorate ai lati, si chiese come avesse fatto a non vederla in mezzo a tutto quel grigiore.
«Il Punito…» rispose piano, scavando nella propria memoria.
Quel nome lo aveva sentito fuoriuscire con orrore un pomeriggio, nelle cucine a Marijoa, dalla bocca di un vecchio accattone che era rimasto con la sua famiglia per una settimana sola, prima di scontrarsi con il caratteraccio di sua madre.
«Are… gli Dei lo punirono e lui scavò con le sue stesse mani una faglia lungo questo mare, per nascondersi dalla loro ira e seppellire i suoi uomini. Di notte, si dice che scivoli via dal Trentiéme per raccogliere acqua da portare al Kimon.» sibilò cupa, portando gli occhietti cisposi sulla mappa che poco prima Aya stava fissando.
Era una storia orribile che Ko non aveva voluto raccontarle due volte, incaponendosi perché lei non si mettesse a fantasticare su racconti di quel genere.
Fissò allungo il foglio ingiallito, scorgendovi volti e figure di cui non conosceva i nomi o il significato, un brivido la colse improvvisa quando la mano rattrappita e affilata dell’anziana, si posò sul suo ginocchio scoperto per indicarle la parete che entrambe avevano guardato.
«La mappa che vede, indica le dita degli Dei, le viscere da cui Hsing t’ien non può risalire… vuole comprarla signorina?» chiese con un sorriso sdentato, mentre Aya continuava a osservare la rete di cunicoli che si allargava sul foglio.
«Non proverei a fregare la signorina vecchia o il suo Capitano farà vedere ai tuoi stanchi occhi Hsing t’ien in persona... » frusciò con una minaccia pacata una voce alle sue spalle, spingendola a voltarsi di colpo.
Rimase in attesa per qualche istante, scrutando guardinga il corridoio da cui era giunto quel monito, finché qualcuno non riemerse tra gli scaffali, reggendo tra le nocche tatuate un volume dall’aria consunta e veneranda. La vecchia negoziante, abbandonò la presa sul suo ginocchio, esibendosi in piccoli assensi di una cordialità tanto fasulla da mettere i brividi, prima di sparire trotterellando tra altri libri per andare a recuperare il denaro abbandonato sul bancone.
«Tu?» le sfuggì per la sorpresa e lo sbigottimento, mentre continuava a fissarlo.
Trafalgar richiuse il libro che teneva in mano, riservandole un’occhiata prolungata che ad Aya parve pericolosamente divertita.
«È un vizio quello di girare da sola.»










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Note dell’autrice:
Questa volta faccio una piccola precisazione di stampo geografico. Per questo capitolo mi sono ispirata alla zona di Taiwan che si potrebbe credere differente dal Giappone, quando in realtà ha una cultura davvero simile, se non quasi identica, a quella della Nazione limitrofa. Le leggende e gli appunti che seguono ne sono una prova e chiariranno parte dei dubbi che si sono creati sul capitolo, unica eccezione è la prima.

- Hànzú: Meglio noti come “Han” o “Hànrén”, in Cina sono il gruppo etnico maggioritario. Nella mitologia però, il nome di tale gruppo traghetta anche in Giappone al significato di “Discendente del Drago”.
- Hsing t’ien: “Il Punito, colui che venne punito dal cielo”, è un personaggio della mitologia asiatica. In Cina viene conosciuto come “Maiale trascendente”, la leggenda che io narro deriva dalla trasposizione taiwanese, molto vicina a quella giapponese, in cui si racconta che il leggendario guerriero Hsing t’ien venne punito dagli Dei e per sfuggire alla loro ira scavò la crosta terrestre seppellendovi all’interno i propri compagni e sé stesso.
- Are: Non ha un senso preciso, è più che altro un connettivo della zona taiwanese, diffuso anche in Giappone. L’ho inserito per rendere la cadenza verosimile, nulla di più.
- Trentiéme: “Trentesimo” in francese. Cosa sia lo spiegherò nel prossimo capitolo.
- Kimon: ovvero “Cancello dell'Orco”, colloquialmente in Giappone si riferisce a qualsiasi cosa o persona possa portare costantemente sfortuna, nel senso originale si riferiva invece alla direzione di nordest, considerata sfortunata e invitante per i demoni.




  
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