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Autore: saraviktoria    14/05/2014    0 recensioni
Quella con Francesco non era una relazione da raccontare alle amiche. Anzi, non era proprio una relazione.
Non poteva sperare che un giorno sarebbero andati in giro mano nella mano per le vie del centro, o che si sarebbero fatti qualche foto scema che, magari, lui avrebbe caricato su Facebook. Era facile far sì che Francesco condividesse la propria vita sui Social Network ma, in quella vita “social”, lei non sarebbe rientrata.
Niente stati vomitevolmente sdolcinati, niente appassionati cinguettii, niente foto romantiche.
Se voleva stare con Francesco, la regola era una sola: nessuno doveva saperlo.
O Lorenzo avrebbe prima ucciso il suo migliore amico e poi la sua gemella.
O Teresa non avrebbe taciuto un attimo, subissandola di quelle raccomandazioni imbarazzanti che la madri adorano fare ai figli.
O avrebbe attirato le invidie delle sue ex, e di quelle che erano state respinte.
Con Eros non era stato così. Con Eros era tutto più semplice.
Genere: Generale, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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buon pomeriggio a tutte/i!
spero che il capitolo precedente vi sia piaciuto, e spero vi piaccia anche questo.
dopo le "presentazioni dei personaggi", ora iniziamo con la storia vera e propria. spero che i dialoghi non vi sembrino troppo semplici, in alcuni punti: la mia idea era di ritrarre qualcosa di verosimile, e noi non facciamo discorsi filosofici tutti i giorni anzi, per la maggior parte delle volte rispondiamo a monosillabi (soprattutto gli uomini ;) )
ringrazio moltissimo per le 118 visualizzazioni del primo capitolo, epril68 e Vale_Pattz per averla messa tra le seguite
buona lettura,
baci,
SaraViktoria

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L'amore ai tempi di Facebook

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Capitolo 2

 

A casa Benni, nemmeno la domenica si riusciva a star tranquilli.

Iniziava Melissa, con il suo orologio biologico che le faceva aprire gli occhi alle sette del mattino, e gridare fin quando anche Teresa non si decideva ad alzarsi e prenderla in braccio. Al ché, onde evitare di svegliare il marito, la donna scendeva al piano di sotto, costringeva la figlia nel seggiolone, e si adoperava per preparare la colazione.

A Teresa piaceva cucinare e, anche per la colazione, si sarebbe divertita a tostare il pane, scaldare il latte e mettere in tavola caffè fumante. Purtroppo, però, sarebbe stata tutta fatica sprecata.

La prima a scendere per la colazione era sempre Sara, i capelli scuri scompigliati per il sonno, la voce ancora impastata e uno sbadiglio sulle labbra, con indosso quell'accozzaglia casuale di vestiti che usava per dormire e che, quella domenica, consistevano in un paio di pantaloni della tuta, che Teresa era quasi sicura di aver comprato per Lorenzo, e una canotta bianca, larga e sgualcita. Salutava con un mormorio incomprensibile, prima di versarsi un bicchiere di latte freddo, afferrare il primo pacco di biscotti che le capitava a tiro e sedersi al tavolo. Mangiando, sollevava lo sguardo verso la sorella solo quando questa tentava di strozzarsi con il suo latte tiepido, le toglieva la tazza di plastica dalle mani, le puliva la bocca con un tovagliolo e tornava ai suoi biscotti.

Dopo Sara arrivava sempre Lorenzo, a petto nudo indipendentemente dalla stagione, lamentandosi per come la sorella avesse fatto tanto rumore, nell'alzarsi, da svegliarlo, per beccarsi, puntualmente, un'occhiataccia da quest'ultima.  La sua colazione era composta da un succo di frutta alla pesca: Lorenzo non mangiava mai nulla, al mattino, benché la madre lo rimproverasse sempre.

Fabio si sarebbe svegliato quando ormai era più ora di pranzo che di colazione, passandosi una mano sul viso stanco e sulle guance ruvide di barba, fissandosi qualche secondo sul televisore per poi decidere che aveva bisogno di prendere un po' d'aria.

Era Lorenzo che, poco dopo mezzogiorno, iniziava ad apparecchiare la tavola, prendendo tovaglia e tovaglioli dal primo cassetto del mobile, e urlando poi alla sorella che si alzasse e gli desse una mano.

Sara fingeva di minacciarlo con un coltello o un paio di forchette, prima di metterle in tavola -forchetta verso il piatto e lame del coltello che guardavano la forchetta, come le aveva insegnato la nonna- e prendere anche i bicchieri, passando davanti al divano per chiedere a Melissa se preferiva quello con il disegno delle Barbie o Flash.

Fabio rientrava con "La Repubblica" sotto braccio, un paio di pettegolezzi in testa e lo stomaco vuoto.

Raccontava alla moglie, aiutandola a tagliare il pane, della macchina bruciata in Piazza, della rissa in quel locale o della figlia della tal signora che era stata ricoverata al Policlinico, chiedeva a Lorenzo se quel pomeriggio avrebbe combattuto, e si sedeva a tavola, in attesa del pranzo.

"Hai programmi per stasera?"

Teresa si voltò a guardare il marito, tentando di capire se quella domanda fosse, per caso, rivolta a lei. Ma Fabio guardava la figlia maggiore.

"Perché?" rispose quest'ultima, sospettosa, versandosi dell'acqua

"Ci mancano un paio di giocatori"

"Non può giocare, lo sai" si intromise la madre, decisa

"Il medico non ha detto che non posso giocare" precisò lei "ha detto solo di stare attenta" tornò a guardare il padre "se vuoi, posso chiedere anche a Francy"

Era l'unica a chiamarlo ancora così. "Francy" sapeva di un bambino, piccolo, ingenuo, docile. Francesco non era nulla di tutto questo, non lo era mai stato. Eppure, quando la sua catechista, per prima, gli aveva affibbiato quel nomignolo, non aveva protestato: a sette anni, è ancora accettabile, farsi chiamare "Francy". Crescendo, tutti avevano smesso di chiamarlo così. Persino Lorenzo, che voleva sempre vederlo più ingenuo di quanto non fosse, alla fine aveva rinunciato a quel diminutivo infantile. Ma non Sara. Per lei sarebbe sempre stato "Francy", quel bambino con la maglia dell'Inter di Córdoba, che le tirava i capelli fino a farla gridare, la bagnava con l'acqua delle fontanelle e le gridava "Sa, passa quella palla!" perché "Sara" erano quattro lettere, ma era pur sempre troppo lungo. Quel bambino da prendere un po' in giro, con cui scherzare; e non avrebbe rinunciato facilmente al suo "Francy"

"vengo a vedervi" annunciò Lorenzo, alzandosi per raccogliere i piatti, e aiutare la madre con il secondo.

Per Sara il pranzo della domenica finiva lì. La pasta era già abbastanza pesante, per aggiungerci anche l'arrosto di maiale, quando, di lì a un'ora, doveva ballare.

 

Erano le undici passate, quando Francesco raggiunse la madre in soggiorno. Claudia alzò lo sguardo dalla rivista che stava sfogliando, e mise a fuoco il figlio, ancora in pigiama, che le tendeva una camicia

"Si è strappata" annunciò, mostrandole la manica

"Lasciala lì, dopo te la sistemo… a che ora sei tornato, ieri?"

"Dai, ma', sono grande!" si lamentò lui, lasciandosi cadere sulla poltrona.

"Se vuoi, posso chiamare Teresa. I suoi figli non sono ancora abbastanza grandi da non dire alla madre a che ora rientrano" era una minaccia sottile, Francesco lo sapeva bene.

Sara e Lorenzo non avevano mai avuto problemi a dire alla madre che sarebbero rimasti con gli amici fino alle due, le tre del mattino, se il giorno dopo non c'era scuola. Teresa confidava nel fatto che fossero insieme, e conosceva quasi tutti i loro amici. E poi, i Gemellini Benni tornavano sempre all'ora stabilita.

Se avesse detto a sua madre che era tornato a casa alle cinque, le sarebbe preso un colpo. Se poi le avesse anche detto che era stato, come promesso, con Lorenzo solo fino alla una, per poi dedicarsi ad una giovane cubista dai capelli rossi come il fuoco, avrebbe dovuto schivare, come minimo, una ciabatta, o il telecomando della televisione.

"alle… tre, più o meno" borbottò, vago. Tre erano, forse, i drink che aveva bevuto guardando Sara che ballava con un ragazzo conosciuto da qualche minuto. Sapeva che la cosa era finita lì: Sara era quella brava, quella che sapeva dire di no, quella che riusciva a ballare e basta, ma gli dava fastidio lo stesso. Immaginava fosse lo stesso fastidio che provava Lorenzo nel vedere la sorella crescere e diventare carina a tal punto che non le mancavano mai dei pretendenti, la stessa gelosia fraterna che vedeva negli occhi del suo amico, che avrebbe picchiato chiunque le si fosse avvicinato troppo. O almeno, lo sperava.

Aveva perso di vista Sara quasi subito, forse prima di mezzanotte, e da lì aveva anche smesso di contare i bicchieri che gli erano passati per le mani.

Aveva smesso di subire i postumi della sbornia da parecchio tempo. Sentiva ancora la bocca impastata e gli occhi un po' gonfi, ma nulla a cui una doccia fredda non potesse porre rimedio.

Il telefono prese a squillare quando erano già seduti a tavola. Francesco si passò una mano sulla fronte: era sveglio da meno di due ore, e quel suono penetrante gli dava terribilmente fastidio. Claudia rispose, mormorò qualche frase di saluto, e gli passò il ricevitore

"Stasera vieni a giocare con noi" esordì Sara, con la sua voce squillante. Si domandò come potesse essere sempre così sveglia, poi si ricordò che le persone normali si svegliano ben prima di pranzo, e che le donne sono sempre più attive degli uomini.

"Con voi chi?"

"Io, papà, Franco… credo ci siano anche i suoi figli"

"Mi passate a prendere?"

"Che calciatore sei? A piedi!" lo prese in giro lei "ah, mi ha detto Lore che hai fatto conquiste" rise ancora, da sola "e quando mai!"

"Non era granché" mentì. In realtà era, e parecchio anche. Una ballerina di vent'anni con due gambe chilometriche, piercing all'ombelico e due labbra carnose

"Figurarsi" continuò a prenderlo in giro, come se stessero parlando del tempo "fatti trovare pronto per le otto"

"E la cena?" si lamentò

"Andiamo a mangiare qualcosa dopo. Dai, non farei il guastafeste"

Claudia lo guardava, curiosa, dal tavolo della cucina

"era Sara" annunciò, ricordandosi poi che era stata la madre a rispondere, e che quindi doveva saperlo "mi ha invitato a giocare a calcetto con il padre e dei suoi colleghi"

Lei sorrise, invitandolo a sedersi

"se uscissi sempre con loro, sarei molto più tranquilla" azzardò.

"esco con loro la maggior parte delle volte, fattelo bastare"

Claudia non era mai stata brava, a cucinare. Francesco fissò la platessa che aveva davanti, scongelata quella mattina e riscaldata in padella, che nuotava nel suo condimento, e si costrinse a mangiarla senza fare smorfie. Con il contorno le cose non migliorarono: le carote erano scongelate, ma ancora fredde. Eppure, non ebbe il cuore di farglielo notare. Avrebbe dovuto mettersi d'impegno lui, prima o poi, e cucinare qualcosa. Forse poteva chiedere a Sara: se non sbagliava, Claudia gli aveva detto un paio di volte che aveva ereditato dalla madre la bravura ai fornelli, e le torte di Teresa erano squisite.

 

"sveglia!" l'urlo di Alessio gli entrò direttamente nel cervello, bypassando le orecchie. Eros aprì gli occhi spaventato, cercando il fratello con lo sguardo per fargli il più male possibile. Ma Alessio era già sparito, lasciando la porta aperta e la luce accesa. Sbuffando, si tirò su a sedere, mentre Susanna, lì accanto, sbadigliava.

"potrei assumere tuo fratello come sveglia" mormorò, ridacchiando. Eros sbuffò ancora, poi si chinò per stamparle un bacio sulle labbra

"tienitelo, te lo regalo"

Recuperò una maglia ai piedi del letto e le ciabatte sotto la scrivania, tese una mano alla sua ragazza per aiutarla ad alzarsi e corse giù per le scale. Matteo, seduto sul divano, stava facendo colazione con latte e cereali, mentre davanti a lui scorrevano le immagini delle Qualifiche di Formula Uno. Lasciò la mano di Susanna per avvicinarsi al televisore e leggere la classifica, scompigliò i capelli al fratello e raggiunse il resto della famiglia in cucina.

Franco leggeva le notizie dal tablet, mentre la moglie beveva il caffè. Eros li superò, versò in una tazza il caffè rimasto nella moka, e vi aggiunse del latte freddo. Lo bevve in fretta, un occhio all'orologio e un altro al cellulare, che sembrava non dare segni di vita. Quando finalmente riuscì ad accenderlo, erano già le nove. Corse di sopra, per infilarsi un paio di jeans e una polo del WWF, mandò un bacio a Susanna e afferrò le chiavi della Mini prima che Alessio decidesse che servivano a lui, e partì alla volta della riserva.

Roberta scosse la testa, divertita

"Ti assomiglia, Franco: sempre in ritardo"

"A proposito di ritardi" borbottò lui, posando il tablet sul tavolo "Elisa non doveva passare per colazione?"

"Ci siamo lasciati" annunciò Alessio. Fu il turno di Susanna scuotere la testa

"Di già?"

Il ragazzo scrollò le spalle

"Io chiederei piuttosto come mai è durata così tanto" lo prese in giro il padre

"A me non piaceva" si intromise Roberta

"A te non piace mai nessuno, mamma"

"Susanna mi piace" si difese lei

"intendevo che non ti piace mai nessuna delle mie ragazze" precisò Alessio

"Eros quando torna?" chiese Franco, ignorandoli

"credo per cena" rispose la ragazza
"Allora rimani a pranzo" la invitò lui

"No, grazie, mi aspettano a casa"

"Stasera però vieni a vederci… e non è un invito!" esclamò Alessio, ridendo.

 

 

"non sarete mai nessuno, se continuate di questo passo! Sudare e faticare, questa è l'unica strada da seguire. Non potete allenarvi con il pensiero alla cena… dovreste saltarla la cena, visto quanto siete pesanti!"

Gridava Alberto, il viso paonazzo per lo sforzo e la voce che a tratti usciva rauca, o troppo acuta. Batteva le mani come a rafforzare il concetto, gesticolava, si sfregava i polpastrelli sui pantaloni in acrilico della tuta, mentre i suoi allievi lo ascoltavano a testa bassa.

C'era Camilla, gli occhi lucidi di lacrime e qualche ciocca bionda sfuggita dalla stretta crocchia fatta solo un'ora prima. Fissava il pavimento di legno, sperando che si aprisse per inghiottirla, vi fregava i piedi coperte dalle mezzepunte rosa, e lo sguardo saliva sulle gambe. Pesanti. Lo diceva sempre anche Alberto. Pesanti come le collant nere in cui le aveva avvolte. Pesanti come il suo cuore, in quel momento. Pesanti come il groppo sullo stomaco che, ben presto, si sarebbe sciolto in pianto. Saltare la cena non era bastato. Non era bastato andare a correre la mattina, i lassativi, gli esercizi extra. Non sarebbe mai diventata leggera come Alberto avrebbe voluto, non sarebbe mai diventata la stella che suo padre sognava.

C'era Francesco, che invece non alzava lo sguardo per non mostrare la sua espressione furente. L'ennesima sgridata dalla voce di un uomo che nella propria vita aveva visto svanire miseramente i propri sogni, e che ora voleva vivere attraverso di loro. Per lui, sentire Alberto gridare significava solo che, più tardi, gli sarebbe toccato litigare anche con Sara, contro le sue mani chiuse con decisione a pugno, per non afferrare la forchetta sul tavolo, la bocca serrata per non ingoiare cibo. 'non posso, non posso' aveva mormorato l'ultima volta, tra le lacrime. E Francesco avrebbe voluto indossare la giacca e andare a spaccare la faccia ad Alberto, che la faceva sempre stare male, che le faceva saltare i pasti e la faceva piangere. Lanciò un'occhiata di sottecchi al resto del gruppo, disposto in semicerchio, in religioso silenzio, attorno all'insegnante, e allungò una mano per stringere quella di Sara, lì accanto, che tremava senza farsi vedere.

Sara tremava per non piangere. Non voleva dargli quella soddisfazione. Arricciava e distendeva le dita dei piedi, dentro le mezzepunte nere, nel vano tentativo di distrarsi, di non pensare. Non voleva pensare ad Alberto, alla sua voce stridula che le gridava dietro un'altra volta, al fallimento che leggeva negli occhi del suo insegnante, alla certezza di esserlo davvero, un fallimento, di aver faticato invano per tutti quegli anni, e non saper cosa raccontare alla madre, quando le chiedeva 'a quando la prima gara?'. Ci sarebbe mai stata, una prima gara? O sarebbero rimasti sempre così tanto incapaci da sfigurare, davanti alle altre scuole?

C'erano Ludovica e suo fratello Vittorio, l'emblema della perfezione. La ramanzina di Alberto non li toccava mai, lo sapevano tutti. Avrebbero potuto prendere e andarsene, e non sarebbe accaduto niente. Non c'era mai punizione per loro, solo elogi. Non c'erano basi troppo difficile o passi troppo articolati. Alberto elogiava la grazia di Ludovica e la forza di Vittorio, il loro spirito di abnegazione, la loro passione.

E la nostra, di passione? Avrebbe voluto gridare Alessandro. Le ore che noi spendiamo in questa sala, il dolore, la fatica, i muscoli indolenziti e le gambe che a fine giornata non ci sostengono più.

E il nostro, di sudore? La grazia delle ballerine, la loro leggerezza, il sorriso che hanno sul volto anche quando tutto va male, anche quando il numero e pessimo, anche quando è la ventesima volta che riprovano lo stesso passo.

E la nostra, di forza? Le flessioni, gli esercizi alla sbarra, le corse al mattino, i pranzi saltati e il sonno perso.

Quando riconosceranno anche il nostro, di valore?

Alessandro strinse i pugni, arrabbiato in un posto dove nessuno aveva il coraggio di parlare, e nemmeno lui riusciva a farsi avanti. La rabbia di vedere la sua ballerina, Camilla, così lontana, così sconsolata, e non poter fare niente per lei; la sua smorfia desolata quella volta che non era riuscita a sollevarla al primo colpo. È colpa mia, avrebbe voluto dirle. Sono stanco, Cami. Sono io, non sei tu. Mangia, esci con le amiche, divertiti. E domani andrà tutto meglio. Eppure, anche lui, quella volta, aveva chinato la testa ai rimproveri di Alberto, a quel suo 'devi dimagrire, Camilla, o gli spezzerai la schiena'.

Chinava la testa anche ora, mentre la rabbia lo pervadeva, sordo alle grida di Alberto, ai suoi rimproveri. Perché sarebbero stati sempre gli stessi, anche se loro non fossero stati lì. Alberto trovava la perfezione solo in Ludovica e Vittorio.

"e adesso, forza, al lavoro!" finivano sempre così, le sgridate di Alberto, quando esauriva il fiato e gli insulti "non state qui a guardarmi come delle statue"

E la routine riprendeva, appesantita da quel senso di inadeguatezza, di fallimento, che impregnava l'aria e spegneva il sorriso dei ballerini.

"metti un po' di musica, Ale" esclamò Francesco. Perché lui, nel silenzio, proprio non ci sapeva stare. E perché così, magari, avrebbero smesso di colpevolizzarsi per non essere abbastanza, per non essere all'altezza, e avrebbero ripreso a ballare come sempre, con tutta la passione e la forza che avevano.

Alberto tornò al suo posto, sulla vecchia sedia di vimini posta in un angolo della stanza, pulì gli occhiali con il bordo della polo e, accavallate le gambe, puntò il suo sguardo penetrante sui suoi allievi.

Era pensierosa, Sara, seduta a gambe incrociate sulle schiena di Francesco, che stava eseguendo la prima serie di flessioni 'con carico '. E Lorenzo gli chiedeva sempre, ridendo, come potesse sollevarsi da terra con sua sorella addosso. A quel punto anche Sara rideva, mimando di tirargli in testa qualsiasi cosa si trovasse tra le mani. Ma quel giorno, Sara non aveva voglia di ridere. Si sentiva in colpa per la pasta mangiata a pranzo, per il latte e i biscotti della mattina, e per tutto quello che aveva ingurgitato durante la settimana. Era già difficile, si disse, ballare con i legamenti lesionati, smettila di assimilare tutti quei carboidrati!

Eppure, Francesco non sembrava fare più fatica del solito.

"ti devo raccontare di ieri sera" le disse, dopo un po', tentando di distrarla.

"della cubista?"

"esatto" sorrise, compiaciuto "te l'ha detto Lore?"

"solo che era una cubista. E anche che era più grande di noi"

Le fece segno di scendere, rotolò sulla schiena prima di mettersi a sedere e iniziare a copiare gli esercizi che, poco più in là, stava facendo Alessandro. Scuotendo energicamente la testa per ritornare alla realtà, li seguì anche Sara.

"vent'anni, capelli rossi"

"tinti?"

"e io che ne so!" borbottò lui, trattenendo una risata. Fu Sara a ridere per prima e Francesco, rilassato per non aver ricevuto nessuna gomitata, si lasciò andare sua volta.

"il giorno che ti ricorderai tutti i particolari di una ragazza… "

"mi offri da bere?" concluse

"ti offro da bere" accettò la ballerina "e ti prendo anche un cane al canile, visto che lo vuoi tanto" aggiunse. Francesco fece scontrare il suo pugno con quello di Sara.

"andata. E mi impegnerò, stanne pur certa… sono anni che voglio un cane!"

Sara mormorò qualcosa di molto simile ad un 'tua madre mi ucciderà', prima di alzarsi in piedi. Alessandro e Camilla stavano provando una serie di piroette.

"proviamo Timber" quella di Vittorio non era una domanda. Loro volevano provare Timber, e l'avrebbero ballata tutti.

Sara, in fondo, non aveva nulla contro Ludovica e il fratello. Erano discretamente bravi, e i preferiti di Alberto. Quello con cui prendersela era lui, al massimo. Ma lei non era mai stata capace a tenere il muso a nessuno. I rimproveri del suo insegnante sorbivano il loro effetto solo quando si trovava davanti il piatto della cena.

Lorenzo diceva a chiunque volesse ascoltarlo, che Sara e Francesco erano 'una forza', quando ballavano.

Per lui, che di danza non aveva mai capito niente, la 'forza' stava nel vederli piroettare a ritmo di musica, rincorrersi e saltare. Non conosceva il nome di tutti quei passi, sapeva solo che quei due e una base, preferibilmente pop, facevano emozionare tutti. Erano una bella coppia, diceva sempre Teresa, spalleggiata da Claudia, e lui aggiungeva che era meglio rimanessero tali solo in pista.

Sara ammiccava, sorrideva maliziosa, ondeggiava sinuosamente, lasciando che l'abito -a volte lungo fino ai piedi, altre una semplice minigonna svolazzante- si muovesse con lei, e in quei momenti, Lorenzo non poteva essere geloso: sua sorella sembrava essere un tutt'uno con la musica. E Francesco, il suo 'Francy' la completava, accompagnandola, guidandola e facendole percorrere tutta la pista come se la gravità non esistesse.

La coreografia di Timber era sensuale e decisa allo stesso tempo, composta di scatti che i ballerini riuscivano a rendere fluidi. Ludovica, davanti a tutti, sorrideva con naturalezza allo specchio. Alla sua sinistra, Sara ne riproduceva i movimenti con fedeltà e Camilla, dalla parte opposta, cercava di convogliare tutte le sue energie negli arti, per dare il meglio di sé.

Alberto le osservava da lontano: la bionda Camilla era scialba, con un corpo acerbo, seppur magro, fasciato da una canotta bianca che le stava larga; Sara ballava bene solo con il suo partner. Da sola era incompleta, per nulla incapace di riempire il palco; Ludovica era l'unica, lì dentro, con la grinta e la competizione necessari per fare strada. La sua sola pecca era quella di non riuscire a ballare per più di una decina di minuti sui tacchi, cosa che invece a Sara risultava quasi naturale.

"stasera?"

"giochiamo, poi andiamo a mangiare qualcosa" spiegò Sara

"e poi io, te e Lore andiamo a in qualche locale. Che dici?"

"che domani c'è scuola"

"non facciamo tardi, dai"

La ragazza sollevò gli occhi al cielo, e Francesco capì che era un sì.

 

Il piccolo Dust iniziava ad abbaiare dal momento in cui varcava il cancello con la Mini, per parcheggiare sullo spiazzo sterrato. Gli correva incontro saltando e scodinzolando, la lingua fuori dai denti, impaziente di ricevere le prime carezze della giornata.

Eros amava gli animali, ma con Dust c'era una sintonia particolare. Quel cane sembrava sintonizzato sui suoi pensieri, capiva quando aveva voglia di correre e giocare, e quando, invece, era una giornata no, ed era lui ad avere bisogno di essere coccolato.

Quando gli corse incontro, quella domenica, stringeva tra i denti un legnetto. Lo fece cadere sui piedi di Eros e attese paziente che questi lo lanciasse lontano, nel prato, per correre a prenderlo.

Carla lavorava dietro al computer. Nel sentire la porta aprirsi, alzò lo sguardo dallo schermo e gli sorrise.

"buona domenica, caro"

"salve, Carla" Eros posò la giacca su una delle sedie e iniziò ad arrotolare le maniche della polo.

"cos'abbiamo da fare?"

"uno degli asini si è ferito, dovresti cambiargli la fasciatura. Intanto, io darò da mangiare alle galline"

Seduto sulla paglia, intento a medicare un docile asino di pochi anni, dal manto grigiastro, che ragliava in segno di disapprovazione quando lo toccava per troppo tempo, Eros pensava.

Pensava a Susanna, alla loro storia. A quanto le volesse bene, a quanto ne era fosse stato innamorato e al coraggio che gli mancava per dirglielo. Era la ragazza giusta per lui: solare, spiritosa, paziente. Soprattutto paziente perché, quando il tuo ragazzo passa quasi il suo tempo libero con gli animali, e la sera è troppo stanco anche solo per parlare, è facile cadere nella routine, stancarsi e iniziare a litigare per ogni minima incomprensione. Susanna era comprensiva. Non amava gli animali, se non in fotografia, ma ascoltava volentieri i suoi racconti. E poi, non lo faceva sentire solo. Era uno dei suoi più grandi timori, quello di rimanere solo, di non avere nessuno a cui pensare appena sveglio, o subito prima di andare a dormire, di dover raccontare le sue giornate ai fratelli, che non si erano mai interessati delle Scienze Naturali, di sentire la mancanza del corpo caldo e profumato di fragola di Susanna che lo abbracciava, dei suoi baci, delle sue carezze, dei suoi occhi dolci. Da quanto non facevano l'amore? Abbassò la testa, ignorando per un attimo l'asino, che subito ragliò in protesta, e provò a contare i giorni. Erano due…  No, tre. Insomma, più di un mese, sicuramente. Lei non se ne era lamentata, ma immaginava che le mancasse.

Insomma, avevano ventiquattro anni, non cinquanta. Avrebbe dovuto avere gli ormoni, se non a mille, almeno abbastanza alti da desiderare la sua ragazza ogni volta che aveva casa libera. E invece, niente. Passavano i pomeriggi sui libri e le serate abbracciati, a guardare la televisione. Come una vecchia coppia sposata.

Eros non era sicuro di voler passare il resto della sua vita con Susanna. Non ne era mai stato sicuro, ma glielo aveva taciuto. Era rimasto colpito dal suo spirito intraprendente, dalla passione che metteva in ogni cosa, dalle idee rivoluzionarie e fuori dagli schermi, così simili alle sue, tanto che, quando la madre gli aveva detto che sembrava una brava ragazza, ed era senza dubbio anche molto bella, aveva deciso che l'avrebbe conquistata, in un modo o nell'altro. Non era molto alto, e aveva ancora un viso infantile, seppur nascosto da un velo di barba, ma vantava un fisico atletico, buone maniere e senso dell'umorismo che, anche quella volta, erano andati a segno, insieme agli occhi verdi, eredità della nonna, che facevano sempre colpo sulle ragazze.

In quel momento, era meno sicuro del solito.

Scacciò il pensiero e tornò a pensare a quel povero asinello, sicuramente meno problematico di lui, nonostante la ferita ad una delle zampe posteriori.

Alla riserva del WWF si mangiava la frutta migliore della zona, coltivata a qualche chilometro da lì, senza pesticidi e porcherie chimiche. Gli era piaciuta la chimica, quando aveva iniziato a studiarla al liceo. Perlomeno fino a che non erano subentrate strane reazioni da bilanciare e una matematica fatta di lettere, apici, pedici e diagrammi. Aveva in odio quel poco di termodinamica che aveva studiato, per il semplice fatto che intendeva la chimica solo come studio della materia nel modo più pratico del termine: atomi che la componevano e reazioni che potevano dare, senza addentrarsi troppo nel perché e nel come. Forse gli era stata insegnata male, forse non era la materia che faceva al caso suo, ma aveva fatto più fatica, negli anni successivi al liceo, a dare i due esami di chimica del suo corso, che tutti gli altri. Susanna, che aveva studiato per Direttrice di Sala, ed era finita a fare la Receptionist in un piccolo albergo, e le pulizie nel negozio di Alessio, di chimica sapeva ancora meno di lui e, accennando all'ultimo esame di quella materia che avrebbe dovuto dare poco prima di discutere la tesi, diceva sempre che ce l'avrebbe fatta, perché lui riusciva in qualunque cosa si mettesse in testa di fare.

In fondo, anche Eros sapeva che ce l'avrebbe fatta. Magari non al primo appello -e nemmeno al secondo- ma alla fine avrebbe strappato un voto sufficientemente alto da non abbassargli troppo la media e consentirgli di laurearsi con una buona votazione. Era il sogno di sua madre, vederli tutti laureati e con una bella famiglia. Ma Alessio aveva finito il liceo artistico con l'unico obbiettivo di fare tatuaggi e tappezzare di strani disegni ogni parete libera disponibile, e Matteo, se non si fosse deciso a smetterla di lasciarsi condizionare dai suoi amici e smetterla di fare il deficiente, sarebbe finito a fare una scuola semplice, breve e il meno impegnativa possibile.

Tutte le speranze di Roberta, nell'assistere ad una laurea, erano riposte nel maggiore dei suoi figli. Ed Eros voleva laurearsi, lo voleva davvero. Solamente, in quel periodo, aveva altre cose per la testa; tipo Susanna, con cui non stava più bene come un  tempo, che era diventata più un'amica -un'ottima amica, per carità- che una fidanzata.

Il telefono prendeva solo nell'ufficio di Carla. Ed era lì che Eros si recava ogni tanto, per controllare che nessuno l'avesse cercato. e, infatti, non appena posò le suole delle scarpe sul pavimento di legno, sentì il cellulare vibrare nella tasca. Era un messaggio di suo padre: stasera si gioca alle 8 al 4sport.

Il tutto condito di smiles senza senso perché, da quando Franco aveva scoperto Whatsapp, si credeva ringiovanito solo perché riempiva i messaggi di faccine. Eros sorrise, scosse la testa e rispose che, sì, ci sarebbe stato.

Susanna ha detto che non può venire. Avete litigato? Scrisse ancora Franco.

No, papà. Avrà altro da fare.

In fondo, non avevano litigato. Era tanto che non discutevano, ma il messaggio era arrivato lo stesso. Qualcosa era cambiato, e lui non aveva il coraggio di parlarne. Il loro rapporto si era frantumato senza fare rumore, mantenendosi intatto all'apparenza. Quanto tempo sarebbero andati avanti così? Quanto sarebbe passato, prima che uno dei due perdesse la pazienza, gridando ciò che oramai sapevano bene entrambi?

Alessio avrebbe detto che quella storia andava chiusa prima che facesse vittime.

La faceva sempre facile, suo fratello, che cambiava una ragazza al mese, e non si lasciava mai coinvolgere troppo. Diceva che era tutta esperienza, sesso, compagnia e poco altro. Alessio diceva di non essersi mai innamorato, ed Eros gli credeva. Perché sapeva cosa significasse non vedere altro che lei, passare le giornate a fissare lo schermo del cellulare in attesa di un suo messaggio, la bocca secca e le mani sudate solo perché lei era lì. E suo fratello era sempre stato più che tranquillo, in presenza delle sue fidanzate. Non gli interessavano, non veramente, e non aveva problemi ad ammetterlo.

Andare a giocare a calcetto, quella sera, gli sembrò l'alternativa migliore. Aveva una scusa per non chiamare Susanna, una scusa per distrarsi e pensare al gioco, se non voleva prendersi una pallonata in faccia.

Devo tornare per cena?

Franco non tardò a rispondere: no, andiamo a mangiare una pizza dopo. Li conosci i figli di Fabio?

No, papà, non li conosco. Ripeté, forse per la terza volta. Torno a lavorare, ci vediamo stasera.

 

"Dio, quanto sarò contento quando avrete tutti la patente!" sospirò Fabio, togliendo i tre borsoni dal portabagagli, mentre i suoi figli discutevano di qualcosa -non voleva sapere cosa- e Francesco giocava al cellulare. Si caricò sulla spalla uno dei tre borsoni, e spostò con un piede gli altri due

"vogliamo andare, o dovete discutere ancora per molto?" s'informò. Sara sbuffò, prendendo il borsone.

"hai un figlio idiota" decretò

"ho due figli scemi" corresse l'uomo "Francesco, andiamo?" ripeté poi, vedendolo armeggiare ancora con il telefono. Questi, sentendosi chiamare, lo ripose nella tasca dei jeans e afferrò la tracolla del borsone.

Franco e i suoi tre figli attendevano davanti al bar del 4sport, la struttura che affittava i campi da calcetto. Vedendo arrivare il collega, Franco si sbracciò nella sua direzione.

"ciao Fabio!" salutò, gioviale "salve, ragazzi" i tre risposero con un cenno della testa "non so se conoscete i miei figli: Eros, Alessio e Matteo" presentò, indicandoli con la mano destra. Sara tese la mano e Lorenzo, per non sentirsi da meno, la imitò.

"Sara"

"Lorenzo"
"e io sono Francesco" borbottò il terzo, allungandosi per stringere la mano al più piccolo dei figli di Franco.

"siete tutti fratelli?" s'informò Alessio.

"solo noi due" Lorenzo indicò se stesso e la gemella "Fra è un amico"

"spogliatoio numero tre" annunciò Franco, sventolando la chiave.
"ti fanno portare le borse?" domandò Eros, avvicinandosi alla ragazza. Lei rise.

"no, gioco anch'io. È Lorenzo, lo spettatore"

"giusto" intervenne Franco "ragazzi, muovetevi a cambiarvi, così le lasciamo lo spogliatoio"

Se le avessero chiesto cosa fosse per lei il calcio, probabilmente avrebbe ripreso la frase di un libro che aveva letto anni prima: il calcio per me è l'odore dell'olio canforato, il rumore dei tacchetti sul cemento, il grasso di foca per le scarpe e il vapore delle docce.

Non ricordava le parole esatte, ma il senso era quello.

E un'altra frase, non sapeva esattamente di chi fosse:

 Terra e sassi...un pallone...dieci persone al tuo fianco...undici di fronte a te...un fischio lungo e secco...la palla che per un attimo supera la linea del centrocampo e che ritorna velocemente indietro...le maglie che si mischiano …

Questa è la tua vita....

Che ne sanno loro...

l'aveva imparata a memoria, dopo averla letta in un post su Facebook. Era quello, il calcio. E lei non conosceva altre parole per descriverlo.

Se le avessero chiesto perché giocava in porta, sarebbe arrossita e avrebbe abbassato la testa.

Giocava in porta perché, a poco meno di cinque anni, aveva visto alla televisione l'esordio del giovanissimo Iker Casillas nel Real Madrid, e se n'era presa una cotta stratosferica, di quelle che solitamente le bambine hanno per attori e cantanti. Mentre le sue compagne avevano in camera i poster dei Gemelli DiVersi, di Paola e Chiara e degli Eiffel 65, lei aveva appeso -e custodiva gelosamente- una gigantografia di Casillas, proprio sopra al letto. Lì aveva deciso che avrebbe giocato a calcio, e che avrebbe fatto il portiere.

Suo padre non aveva avuto bisogno di molte spiegazioni. Il sentirsi dire dalla sua -allora unica- figlia femmina: papà, voglio giocare a calcio, era stato sufficiente per correre al campo dell'oratorio e chiedere informazioni. Vi si era aggiunto anche Lorenzo, poco dopo, a cui Casillas proprio non interessava, ma che seguiva sempre volentieri le partite della domenica, e gli piaceva l'idea che qualcuno gridasse il suo nome dopo un gol. In realtà, di gol ne aveva segnati ben pochi, visto che l'allenatore aveva deciso di metterlo in difesa, ma a Lore andava bene anche così.

Uno dei figli di Franco era davanti a lei, di schiena, con indosso una pettorina gialla un po' troppo corta per lui, benché non fosse altissimo. Era quasi certa si trattasse di Eros, ma i nomi non erano mai stati il suo forte.

Però, Eros era un nome inusuale, aveva anche potuto provare a ricordarselo.

"uomo!" gridò, quando Franco riuscì a prendere la palla, e il minore dei suoi figli, nella squadra avversaria, gli corse alle spalle. Eros si voltò, lanciandole un'occhiata stupita.

E ancora  più stupito fu quando la vide buttarsi tra le gambe di uno dei colleghi di suo padre, e riemergerne con la palla tra le mani. Lei lo guardò, fece un cenno verso la porta avversaria, e rinviò nella sua direzione.

Lorenzo passava bottigliette d'acqua ai giocatori assetati. Eros tese una mano verso di lui.

"me ne daresti anche una per tua sorella?"

Francesco, lì vicino, sogghignò, ma attese che il figlio di Franco se ne andasse, prima di parlare.
"Sara ha fatto colpo!" esclamò, ridendo

"glielo do io, un colpo" commentò l'altro, guardando in cagnesco la sorella, vicino ad una delle due porte, che accettava sorridendo una bottiglietta d'acqua "dritto in testa" e mimò il gesto di lanciare il telefono verso Eros.

"ehi, guarda che un giorno si sposerà!"

"dovrà prima passare sul mio cadavere" scherzò Lorenzo.

"ecco, magari prima digli che fai boxe. Così potrebbe passargli la voglia di uscire con tua sorella" rise ancora "che resterà zitella a vita e se la prenderà con te"

"quando troverà quello giusto, andrà bene anche a me" liquidò in fretta, poco convinto. Francesco gli rese la bottiglietta, vuota, e tornò in campo.

"allora, cosa ne pensate dei figli di Fabio?" domandò Franco, raggiungendo i figli sotto la doccia.

"la ragazza è un portento… " iniziò Alessio

"… e suo fratello è un bravo portaborracce!" esclamò Matteo, alzandosi sulle punte per prendere lo shampoo, sulla mensola in plastica e metterne un po' sui capelli.

"Eros?" lo chiamò l'uomo, vedendolo perso nei suoi pensieri, gli occhi chiusi sotto il getto della doccia.

"Eros si è innamorato!" lo prese in giro Alessio.

"ma vaffanculo" mormorò questi.

"bella parata, Sara! Ti sei fatta male? Vuoi un po' d'acqua, Sara?" continuò l'altro, imitando la voce del fratello. Eros gli fece una linguaccia e tornò sotto il getto d'acqua calda.

"Ale, davvero, vai a fare in culo" ripeté. Franco rise

"smettetela di discutere. Comunque, è una brava ragazza… Fabio ne parla sempre bene"

"papà, sono fidanzato. Non ti ci mettere anche tu" mormorò, mesto.

"stavo solo dicendo che… " Eros chiuse l'acqua della doccia, afferrò l'accappatoio e tornò negli spogliatoi per vestirsi "che ho detto?"

Alessio si strinse nelle spalle.

"secondo me c'è aria di crisi"

"ma a me Susanna sta simpatica!" si intromise Matteo.

"zitto, tu" lo rimbeccò il fratello "non lo so, pa'. Io non li ho sentiti litigare" ma non li ho nemmeno sentiti scopare, avrebbe voluto aggiungere, ma si trattenne.

Sara e Lorenzo mangiavano sempre pizza al prosciutto cotto e birra chiara, Francesco solo margherita e acqua naturale, perché lui era un'atleta, come gli piaceva sempre ricordare agli amici.

Quella sera, però, anche Sara ordinò una pizza margherita e 'per me niente birra' aggiunse, sotto lo sguardo curioso del fratello.

"non ho molta fame" liquidò, con un gesto della mano. Francesco le tirò un calcio da sotto il tavolo.

"beh?"

"beh cosa?" chiese lei

"avanti, lo sai"

"sto mangiando, non vedo dove sia il problema" rispose, secca, prima di voltarsi con decisione dall'altra parte, prendendo a chiacchierare con i figli di Franco.

Eros era contento di aver trovato, finalmente, qualcuno a cui interessasse sentir parlare dell'università: i gemelli Benni, e anche Francesco, stavano per dare la maturità, e l'anno seguente avrebbero iniziato a frequentare l'università.

"a me piacerebbe qualcosa tipo scienze dell'alimentazione" stava dicendo Lorenzo, vago. Sara, come al solito, aveva già le idee chiare.

"ingegneria meccanica, al Politecnico"

Francesco, per poco, non sputò l'acqua che aveva appena bevuto.

"tu vuoi fare ingegneria?" chiese, spalancando gli occhi "e come cazzo facciamo a continuare ad allenarci?"

"non mi arruolo nella legione straniera, Francy" mormorò lei "tu, piuttosto, che farai?"

"scienze motorie… o qualcosa di altrettanto semplice. Sa, ma sei sicura di voler fare proprio ingegneria? Ci sono un sacco di altre facoltà meno impegnative"

"se la tua preoccupazione è non avere più una ballerina, sta' tranquillo: riuscirò a farci entrare tutto"

Finito di mangiare, Lorenzo si dichiarò pieno come un uovo, stanco, e con i libri di filosofia che lo aspettavano a casa.

"e dai, Lore, che palle!" esclamò Francesco, prima cingere con un braccio la vita di Sara, facendo notare al suo migliore amico che era meglio che lui tornasse a casa, così avrebbe avuto la sorella tutta per sé. Ma Lorenzo non si lasciò convincere. Sapeva di non dover essere geloso di Francesco, e aveva anche paura che l'insegnante decidesse di interrogarlo, il giorno successivo. E lui non era Francesco, capace di borbottare risposte a caso con tutta la tranquillità di questo mondo, e tornarsene a posto con un tre senza fare una piega.

"beh, piccola Benni, dove andiamo? A casa mia?"

"andiamo a casa tua" convenne lei, incamminandosi "i tuoi quando partono?"

"domani mattina" Francesco di fregò le mani "una settimana da solo, casa libera e nessuno che rompe" sospirò, contento. Sara fece una smorfia

"l'ultima volta che sei rimasto a casa da solo, mamma ha dovuto invitarti da noi per non farti mangiare sempre schifezze" gli ricordò.

"avevo tredici anni!"

In realtà le cose non erano cambiate: Francesco era ancora incapace di cucinare, badare alla casa e, soprattutto, badare a se stesso, anche se erano passati cinque anni. Claudia, infatti, si era decisa a partire solo quando sua sorella era stata ricoverata, procrastinando il più possibile e, da quando aveva prenotato i biglietti del treno, subissava il figlio di raccomandazioni, sperando nel caritatevole intervento di Sara e Lorenzo.

"lasciami immaginare: schifezze tutti i giorni e discoteca tutte le sere… cavolo, sei sicuro di riuscire a reggere?" la ragazza indicò con un cenno il cavallo dei pantaloni dell'amico. Questi rise

"guarda che ho diciott'anni, non ottanta. Posso farmi una ragazza ogni sera senza problemi" commentò, orgoglioso.

 

L'autobus era strapieno. Lorenzo, con la schiena appoggiata al finestrino, ripassava filosofia, mentre sua sorella, con la mano saldamente ancorata ad una delle maniglie, gli impediva di cadere ad ogni frenata brusca.

"smettila di ripassare, o non ti ricorderai niente!" lo prese in giro. Lui le mostrò il dito medio e tornò al suo libro.

"che avete fatto tu e Fra' ieri sera?" s'informò poi, fingendosi indifferente.

"mangiato gelato" in realtà, solo Francesco aveva mangiato del gelato "e chiacchierato"

Sara aveva deciso che non si sarebbe rovinata la salute per Alberto e che lo svenimento di qualche mese prima, con conseguente giornata al Pronto Soccorso e preoccupazione della madre, era un avvertimento più che sufficiente a non saltare più i pasti. Perciò, si era imposta di eliminare tutto ciò che era superfluo: dolci, bevande gassate e caffè a metà mattina, sperando che la pressione non decidesse di giocarle qualche altro brutto scherzo.

Lorenzo mormorò qualcosa di poco comprensibile, a dimostrazione del fatto che l'aveva ascoltata.

"senti un po' qua: Schopenhauer diceva che… "

"Lore, non mi interessa" lo fermò la sorella "grazie al cielo non faccio filosofia, non rompermi l'anima con tutte quelle cose astratte"

Sara era un tipo pratico: per lei le cose dovevano essere visibili, udibili o, al massimo, palpabili. E la cosa valeva nella vita ancor più che nella scuola. I suoi ragionamenti avevano sempre un inizio ed una fine. Niente fronzoli, niente grandi interrogativi, niente 'roba da filosofi'.

Per quello studiava chimica. La materia era fatta di atomi. La materia si può vedere e toccare. Le reazioni chimiche erano facili da vedere o, se non altro, erano numeri, calcoli ben definiti su di un foglio bianco.

Nella famiglia Benni, era Lorenzo il sognatore, quello che pensava tanto senza poi concludere niente, quello per cui la vita era "un rosario di miserie che il filosofo sgrana ridendo", come diceva Alexandre Dumas , anche se lui in Dio non ci credeva più di tanto. Più che altro, non credeva in quel Dio di cui gli avevano parlato al catechismo. Quella cattolica era Sara, sebbene nessuno fosse riuscito ancora a spiegarsi come una come lei, alla "se non vedo non credo", avesse potuto continuare a seguire gli insegnamenti della vecchia Suor Giuliana anche dopo la Cresima.

 

Eros era sempre in ritardo, al mattino.

Alessio non si spiegava come, dopo tanti di scuola, non avesse ancora imparato a svegliarsi cinque minuti prima. Non gliel'aveva mai nemmeno chiesto, a dire il vero, limitandosi a fissarlo dal bancone della cucina su cui stava facendo colazione, un po' come i gatti fissano i loro padroni quando questi fanno qualcosa di strano e seguendolo fino a quando non afferrava la giacca, le chiavi della macchina, con il cellulare pericolosamente in bilico sopra la pigna di libri e appunti, un cornetto alla marmellata ancora in bocca e i capelli in disordine.

Anche quel lunedì mattina, Alessio stava tranquillamente aspettando che la moka facesse il suo dovere, per poter aggiungere un po' di caffè al suo latte caldo, quando il fratello gli sfrecciò davanti, afferrando una brioche confezionata dal mobiletto aperto e tenendola stretta tra i denti, finì di allacciarsi i jeans, si versò un bicchiere di acqua. Mangiò e bevve in fretta, agguantò i libri, facendo cadere qualche foglio senza accorgersene. Giacca, chiavi di casa, cellulare, e di corsa verso la stazione.

Quando Alessio riuscì ad elaborare ciò che era appena successo davanti ai suoi occhi, il fratello era già lontano. Chiamò un paio di volte 'Eros!', tenendo in mano gli appunti che aveva lasciato sul pavimento, ma senza ottenere risposta. Li lasciò perciò sul mobile e tornò alla sua colazione.

Quella era solo la prima, di colazione.

La seconda l'avrebbe consumata nel bar di fronte al suo negozio, provandoci con una delle due cameriere che puntualmente gli preparavano il caffè. Con una era anche riuscita a rimediare un appuntamento, solo qualche mese prima.

Nel prendere le chiavi della Mini, gli capitò davanti agli occhi un post-it su cui il padre -lo riconosceva dalla grafia sbrigativa e sgraziata- aveva scritto: prenotare campo, venerdì ore 8, e, poco più sotto, con un altro colore, avvisare Fabio e Luigi.

Si fregò le mani, contento. Andava d'accordo con Fabio, con quel ragazzo -Francesco, se non ricordava male- con cui aveva giocato il giorno prima, e con la figlia di Fabio. Se Eros non si fosse deciso a provarci -ed era palese che le interessasse, se conosceva suo fratello- le avrebbe chiesto lui di uscire.

   
 
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