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Autore: LaMicheCoria    02/06/2014    1 recensioni
2011. Pari a meccanismi di un autonoma, le iridi immobili si animarono, misero a fuoco, rotolarono lungo il bordo delle palpebre e gli si ficcarono addosso.
2013. “Tu che arrivi, ogni volta, come un baluardo di salvezza, un eroe da copertina. Sono tagliato fuori dal mondo, da tutto e da tutti, e l'unico che mi è rimasto, alla fine, sei stato tu. Ci sei sempre tu.”
«Lo sai, no? Gli incidenti capitano.»
Genere: Angst, Azione, Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Altri, Pepper Potts, Steve Rogers/Captain America, Tony Stark/Iron Man
Note: Cross-over, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Cause Nobody Wants To Be The Last One There :.'
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{ Finché Non Cala Il Sole ~ File 0.3 }

 

Cimitero di Arlington, Washington D.C.
Tomba di Nick Fury.
2013

 

Stark era sicuro Colin si sarebbe bagnato i pantaloni nel vedere Natasha incedere verso di loro, i capelli color sangue alla luce balbettante del sole. Invece, l’Agente aveva mostrato un insolito sangue freddo: si era scostato e le aveva rivolto un abbassarsi veloce della testa, un rispettoso inchino. La Romanoff aveva pressato le labbra, lo aveva squadrato a lungo e con la fronte aggrottata, prima di accantonare definitivamente la sua presenza per dedicarsi alla lastra ai suoi piedi.
Il Cammino dell’Uomo Timorato, chi l’avrebbe mai detto? Mace Windu un fan di Pulp Fiction. Quello proprio non lo sapeva e adesso gli era stato persino tolto il gusto di rinfacciarglielo. Era simpatico, il buon Fury. Quanto un calcio nei denti colpiti da ascesso o carie penetrante al quarto stadio, ma simpatico. Un buontempone. Un nonnino sadico. Un’emerita testa di cazzo che si faceva ammazzare dal primo cecchino che gli passava accanto e saltava sui tetti come una lepre o un gatto spelacchiato.
Tony contrasse la mascella e allargò le narici, inalò una generosa sorsata d’aria. Natasha si girò a guardarlo di sbieco, gli occhi che mandavano lampi.
«Non far finta ti dispiaccia» sibilò, velenosa.
«Non era il mio amico del cuore, ma il suo lavoro sapeva farlo.» replicò il magnate, con un calma che non credeva di possedere.
Non si disperava per Fury, non si sarebbe sciolto le trecce, battuto il petto, né gettato della cenere tra i capelli, pur tuttavia Tony aveva abbastanza senno per portare un po’ di rispetto in quel momento inatteso, un rombo a ciel sereno che, ne era sicuro, era un annuncio ancor più mesto e terribile delle trombe del Giudizio Universale.
Non era un esempio di virtù, il caro Nick, ma riguardo alle virtù Stark sapeva di doversene stare buono e zitto in un angolino, a montare da bravo bambino una nuova armatura coi mattoncini delle costruzioni.
Vedova Nera fu sul punto di replicare: schiuse la bocca ad un ingorgo di parole, quindi scosse la testa e si rivolse ad Hendrick, in disparte dietro di loro.
Era terrorizzante, la donna, faceva paura: con le palpebre socchiuse e la bocca affilata, squadrò gelida l’Agente di Livello Sei, a partire dalla testa fino alla punta delle scarpe. Le guance si contrassero con un guizzo indispettito, e la russa serrò le braccia sotto il seno. Così rigida, con le gambe a squadra, le spalle aguzze e i capelli rossi ad incorniciarle il volto illividito dalla rabbia, dal dolore, dal sospetto, avrebbe messo in fuga chiunque.
Tony, per precauzione, mosse un passo all’indietro.
«Perché Fury voleva vederti?»
Colin prese un veloce respiro, con l’aria di chi aveva risposto cento volte a quella domanda, ma sapeva di non potersi sottrarre all’idea di doverlo fare altre mille. Drizzò la schiena, marziale, intrecciando le dita dietro i reni.
Grazie al Cielo, aveva smesso i solito abiti pescati certamente a caso dall’armadio per un più sobrio completo alla S.H.I.E.L.D., nero con camicia bianca e cravatta scura; il sole appena ottenebrato dall’aria cupa del cimitero, dalla situazione e da alcune nuvole sfilacciate soffiava pulviscolo bianco e oro sui capelli corti, donandogli un’aria serena ed incredibilmente tranquilla, incredibilmente pacifica.
Stark si ritrovò a pensare che non avrebbe sfigurato in qualche congresso: ispirava tepore, ispirava fiducia.
«Il Direttore voleva un rapporto completo sul signor Stark.» disse, placido, gli occhi azzurri che sostavano un attimo nello sguardo allibito, e soprattutto infastidito, del magnate prima di tornare in quello imperscrutabile di Natasha.
La russa inclinò la testa e una ciocca rossa, in contrasto col bianco accecante della camicetta, sfrigolò su di lei come sangue; le labbra modellarono un sorrisetto poco convinto, irridente, i denti baluginarono in una saetta di belva che studi la preda prima di attaccare. Affondò le unghie nelle maniche di lino, proprio sopra la piega del gomito, le nocche s’indurirono e impallidirono, le vene spiccarono gonfie e plastiche sul dorso delle mani.
«E Fury ti avrebbe ordinato di incontrarlo di persona, di prendere un aereo da Los Angeles» calcò le ultime due parole con marcato scetticismo «Venire fino a New York, nemmeno a Washington, per un rapporto su Stark?»
«Natasha, la tua stima nei miei confronti mi commuove.»
«Non adesso, Stark.»
«Non c’era altro» Colin scosse il capo «Glielo posso assicurare, miss Romanoff.»
Vedova Nera curvò le sopracciglia in un arco perfetto, lo sguardo indurito dal dispetto quanto dal dubbio che l’altro si stesse prendendo gioco di lei –Per quanto nessuno di mente, il figlio di Howard ne era sicuro, avrebbe mai osato prendersi gioco di Vedova Nera. Era molto probabile, comunque, che l’ultima volta in cui era stata chiamata Miss Romanoff, Colin nemmeno fosse stato concepito.
«Natasha, Hendrick non mente.» si fece avanti Tony «Credo sia geneticamente incapace di mentire: ha quasi avuto una sincope quando ha cercato di negare che Chattanooga Choo Choo provenisse dal suo cellulare.»
Colin tossì e finse di sistemare l’attaccatura dei capelli alle tempie, in modo da coprire il goffo rossore che gli aveva mordicchiato la punta dell’orecchio. Tony lo fissò con un sorrisetto di vittoria stampato sul volto, gongolando ulteriormente quando l’altro sviò il suo sguardo per concentrarsi sulle lettere in bronzo sopra la lapide di Fury.
«Il buon Nicky aveva più nemici di me, il che è tutto dire.» continuò il magnate, allargando le braccia «E’ riuscito ad inimicarsi persino degli alieni, perché ti stupisci tanto se qualcuno alla fine lo ha fatto fuori?»
«Il Direttore non è morto.» li trafisse, metallica e fredda, la voce di Hendrick.
Natasha alzò il mento nella sua direzione, gli occhi semichiusi e gli zigomi affilati tanto erano sporgenti, tanto aveva contratto la mandibola. Era sul punto di ammazzare qualcuno o fare a pezzi qualcosa, era palese –Ed anche comprensibile: Tony non aveva dimenticato il modo quasi paterno con cui Fury le aveva cinto le spalle, la prima volta che gliela aveva presentata nei panni di Agente S.H.I.E.L.D. e non da Natalie Rushman.
«Il Direttore non può essere morto. Non può averci lasciati così.» sibilò l’Agente, dando poi un calcio al pietrisco e allontanandosi da loro, i pugni ficcati nelle tasche e la testa incassata in mezzo alle spalle.
«Ottimo. Avevo chiesto un segretario –Pepper aveva chiesto un segretario» chiarì Stark «E voi mi avete mandato una Drama Queen.»
«Su una cosa ha ragione, però» Natasha torse il collo ad osservare poco convinta la stele commemorativa del fu Direttore dello S.H.I.E.L.D. «Fury non ci ha lasciati così.»

 

Long Island, 2013.
(3 Giorni Fa)

 

Il locale era famoso per non essere frequentato da gente famosa. A dire il vero, il locale era famoso per non essere frequentato da gente che avesse un minimo di dignità e classe.
O anche solo rispetto per se stessi.
Era quel tipo di locale dove la gente annegava l’essere se stessi dietro un paio di cocktail infamati e infamanti, due o tre shots di liquido per lavastoviglie e concludeva la serata sbavando sul legno lercio dei tavolini un ributtante miscuglio oleoso di saliva e liquore a basso prezzo.
Era quel tipo di locale dove la colonia di blatte nel bagno poteva citare in giudizio il proprietario per il possesso dello stabile.
Era quel tipo di locale dove la muffa cresceva agli angoli del soffitto come sotto le ascelle dell’ubriacone di turno, e poi dentro le sue narici, nel suo cervello, nidificava nei polmoni, nel cuore e infine dava il colpo di grazia stroncandolo con una trombosi o un infarto del miocardio.
Era quel tipo di locale dove una persone al pari di Hansel Gamble non avrebbe mai dovuto mettere piede: Hansel Gamble era un personaggio a posto, diceva il capo del personale alla Cross Technological Enterprises, faceva ridere tutti e forse aveva una tresca con Sheila Danning, Responsabile delle Relazioni Pubbliche. Hansel Gamble era un bravo Cristo e Capo Della Sicurezza, era nato a Monaco e quando parlava masticava l’inglese come fosse un piatto di crauti. Forse era un po’ strano, d’accordo, ogni tanto arrivava al lavoro con gli occhi opachi e la camminata sbilenca, va bene. Talvolta non si capiva tanto cosa dicesse, ma perché era nato a Monaco, eh, mica perché era ubriaco fradicio quando iniziava il turno.
La cosa bella di essere Hansel Gamble era che tutti ti volevano bene perché venivi da Monaco ed eri il Capo della Sicurezza –Con la maiuscola, sì, perché faceva più figo- e probabilmente avevi una tresca con Sheila Danning, delle Relazioni Pubbliche.
La cosa magnifica di essere Hansel Gamble era che a fine giornata potevi mandare al diavolo la sua identità cretina, indossare i panni dell’innominato e innominabile ubriacone e sfondarti lo stomaco nel locale in cui l’adorabile Hansel Gamble non avrebbe mai messo piede, neanche a staccargli le gambe e lanciarle direttamente oltre la soglia.
Hansel Gamble, in fondo, non aveva bisogno di annegare mostri e fantasmi del passato.
«Scusami, tu sei…Jeremy Renner?»
Clint Barton aveva spiaccicato il fegato sul banco dei pegni perché ciò accadesse.
Occhio Di Falco, o quel che ne rimaneva, roteò gli occhi annacquati sulla ragazza che gli aveva appena rivolto la parola: stirò le labbra livide in un ghigno torto, ironico, per poi sollevare la mano che teneva il bicchierino di Bruichladdich X4 e si grattò la fronte con l’unghia del pollice.
«Sei un paparazzo?» sbiascicò, con voce rauca -Ma che, a quanto sembrava, le donne trovavano parecchio attraente ed eccitante. La ragazza si passò la punta della lingua sul labbro superiore, mosse civettuola spalle e bacino, sbatté le ciglia ed emise una risata veloce e argentina.
«Ma no, assolutamente!» esclamò, quindi, ondeggiando le dita della mano destra, come a voler cancellare anche solo la remota possibilità di essere una pazzoide armata di Reflex o anche solo di un cellulare con fotocamera integrata.
Clint inclinò pesantemente la testa e la osservò di sottecchi, le iridi slavate tra le ciglia sottili e tremule: aveva le unghie lunghe, lo smalto sbeccato, il rossetto che colava all’angolo sinistro della bocca, la ricrescita e le ascelle pezzate. L’adorabile vestitino verde mela che indossava faceva difetto in vita e l’anellone di plastica color crema sbatteva in modo inquietante contro il polso innaturalmente magro; le scarpe erano un’accozzaglia vomitevole di lustrini argentati, i tacchi alti la sostenevano per grazia divina, costringendola a claudicare con ondeggianti passettini ticchettanti.

Quanto siamo critici, questa sera. Non sei ancora abbastanza ubriaco, amico mio?
Facendo buon viso a cattivo gioco, Barton sorrise di nuovo e si prese tutto il tempo necessario per appoggiare il bicchiere, squadrare con studiato interesse la ragazza e nel frattempo gettare un’occhiata di sbieco accanto a sé. Loki lo fissava con aria innocente, i gomiti sul tavolo ed il mento puntellato sulle dita intrecciate: arcuò la bocca a modellare un sorriso ferino, nell’accogliere il suo sguardo ammonitore, gli occhi che brillavano, soddisfatti e maligni.
«Che ne dici se vai ad ordinare qualcosa e continuiamo il piacevole interrogatorio, mh?» propose l’arciere e la ragazza accettò di buon grado, scomparendo in un gran sbatacchiare e tintinnare di ninnoli.

Perché allungare così la tortura? Indagò Loki, inarcando un sopracciglio e fissando con disinteresse l’ultima conquista della serata ordinare un drink gratuito con le sole movenze dei seni Perché non portarla nei bagni come le altre?
«Perché hai ragione tu, non sono abbastanza ubriaco.»
Clint ingoiò l’ultimo sorso di whiskey, quindi si sistemò alla meno peggio sullo sgabello disarticolato. Roteò la testa in direzione del Dio Norreno, gli indirizzò un ghigno alticcio, esausto.
«Speravo che la sua voce querula potesse coprire il tuo bla bla antiquato e senza senso.»
Loki schioccò la lingua contro il palato, la carnagione pallida del volto che scintillava e baluginava alla luce oleosa del locale.
E pensare che prima era soltanto un mormorio fastidioso alla nuca.
Come, da residuato bellico che era, si fosse trasformato in una entità fumosa e tangibile, Clint non era in grado di spiegarlo: sapeva solo che da un giorno all’altro quella maledetta vocina gli si era presentata seduta a gambe incrociate sul materasso di un Motel lurido della Route 66, gli aveva sorriso con espressione serafica e da lì in poi non gli era stato più possibile liberarsene.
Aveva sentito di gente talmente preda dei sensi di colpa da avergli dato forma, nome e persino indirizzo di casa o taglia dei vestiti, ma da lì a ritrovarsi la manifestazione tangibile del proprio, letterale, strizzacervelli accanto alla tizia con cui aveva passato la notte…Bhè, Barton aveva capito di essere ancora capace di stupirsi.
Certo, Clint aveva compreso fin troppo facilmente come l’altro fosse un cancro germogliato e metastatizzato dacché Natasha l’aveva ricalibrato con un pugno in testa e lui aveva cercato di lasciarsi il mondo alle spalle. Il mondo e i morti -Una morte, in particolare- e quello, forse, dannazione, accidenti, era la punizione per aver cercato di dimenticare, di scordare la pioggia sulle guance e il tuono nel cuore, l’accozzaglia di persone vestite a lutto, la bara calata nel terreno, la commemorazione, i discorsi, il cielo plumbeo, l’urlo vomitato senza voce nel cuscino strappato a metà perché colpevole di avere ancora il suo odore, ma non il suo corpo, non i suoi occhi, non il suo tocco, non il suo cuore.
Aveva scoperto che l’unico modo per zittire il vocio di Loki era ubriacarsi fino a perdere conoscenza, fare sesso fino ad avere le ginocchia molli e i fianchi distrutti, abbrustolire il fiato unto del norreno con una boccata catarrosa di tabacco.
Clint detestava svegliarsi con una pressa al posto delle tempie, detestava trovarsi accanto chiunque, detestava tossire e soffrire di broncospasmi dolorosi e improvvisi, detestava dover bloccarsi, appoggiare una mano alla parete più vicina per non collassare a terra, le viscere praticamente in bocca e i bronchi in cortocircuito.
Però detestava ancora di più la figura sinuosa di Loki a fargli da ombra e coscienza, il suo incedere di fumo ad ogni passo, le sue dita allungate, eleganti, che tessevano nebulosi arazzi di sangue e proiettili e frecce esplosive, e trasfigurava l’aria e l’etere e lo riportava, mero spettatore, ad un anno prima, alla gabbia, dietro le sbarre.
Preferiva morire di mano propria, piuttosto che farsi uccidere dalla malia di quell’hippie bastardo.

Strano. Ricordo diversamente. Considerò il Dio e gli era alle spalle, ora, le labbra sottili sussurravano nenie e litanie all’orecchio e Clint cedeva, s’arrendeva, si genufletteva, il sangue ribolliva, perdeva la presa, la volontà si disfaceva in filamenti vani inutili, patetici Ricordo che la mia voce riempieva il tuo cuore. Riempiva il tuo animo spossato. Il tuo spirito preda della bugia della libertà. Ricordo che non avevi più dubbi, allora, ed eri quieto solo se prostrato ai miei piedi…
Con le dita che scattavano, nervose, e i polsi tremanti, l’arciere rovistò nelle tasche della giacca –Le sigarette, dov’erano le sigarette? Dove l’accendino che canta e che guizza, dove la fiammella che balugina e sorride e tiene lontano il Maligno e illumina e salva, dove dove dove?
Annaspando in cerca di aria, la presa di Loki sempre più vigorosa, sempre più inarrestabile, Clint rovesciò sul tavolo tutto quello che aveva: portafogli, documenti, fazzoletti appallottolati, il vecchio distintivo, scontrini, il numero di Sheila Danning, ed eccole, infine, intonate oh Angeli di tabacco un coro di Hallelujah!, il pacchetto di Camel e l’accendino.
Sfilò una sigaretta, la strinse tra i denti e succhiò, avvelenandosi ancora prima di accenderla; curvò la schiena, serrò le palpebre, nascose lo schiocco del fuoco dietro la mano a coppa, aspirò. Il fumo gli si rovesciò nei polmoni, guaì, latrò e Loki uggiolò, stridette, maledisse il cielo, scoppiò ed esplose in un tripudio di bestemmie.
Barton avvertì le ciglia bruciare quando il primo refolo gli abbandonò la bocca schiusa, i nervi rabbrividirono, gemiti scricchiolanti si dipanarono lungo le vene, gli strapparono il midollo e fracassarono le vertebre.
Stava già per ingoiare una seconda boccata, quando l’occhio gli cadde sul distintivo dello S.H.I.E.L.D.
Non l’aveva buttato. Era un ricordo di Coulson. L’aveva ricevuto dalle sua mani e alle sue sole mani lo avrebbe restituito, qualora avesse avuto il coraggio di accettarne la morte. Fino a quel momento era rimasto un semplice disco di metallo, col simbolo dell’Agenzia splendente nei suoi dettagli di grigio metallo.
Appunto, fino a quel momento.
Sull’anello esterno, alto appena una manciata di millimetri, era comparsa una stringa di numeri –Coordinate?- ed una parola. Non aveva significato, per lui, non aveva idea di cosa volesse dire. Esisteva, al mondo, un’unica persona che avrebbe utilizzato quel modo, per comunicargliela, e se era arrivata a tanto, allora la situazione doveva essere più grave del previsto.
«Ecco qui. Scusa se ci ho messo tanto.» cinguettò la ragazza senza nome, posandogli davanti un boccale di qualcosa e osservando schifata la quantità di roba accatastata nel poco spazio del tavolino.
Clint sorrise, di nuovo sobrio oppure non del tutto ubriaco, trascinò indietro la sedia, si mise in piedi, le scoccò un bacio sulla guancia e le piazzò in mano una banconota da cinque dollari.
«Perdonami, dolcezza, sono stato contattato dal mio agente: mi hanno rinnovato il contratto come Occhio Di Falco e intendo proprio accettare.»

 

Località Sconosciuta.
2011.
Appunti del Medico.

 

I Supervisori del progetto ci hanno intimato a procedere quanto prima con i test. A nulla sono valse le mie repliche, non hanno voluto ascoltarmi: il soggetto è refrattario ad ogni sorta di anestetico, i sedativi non hanno alcun effetto. Abbiamo cercato di immobilizzarlo, ma il soggetto ha reso vano anche quest’intervento liberandosi senza difficoltà alcuna da cinghie e legacci.
In queste condizioni è ovvio che non possiamo procedere come vorremmo e ottenere così i risultati tanto sperati e agognati dai vertici dell’operazione.
Hanno chiesto al Dottor Marlowe di intervenire, sebbene io abbia poche speranze a riguardo. Cosa potrebbe mai fare, lui, che i nostri medicinali e i nostri metodi non sono in grado? Come intervenire, se il soggetto nemmeno parla, nemmeno considera la nostra presenza?
Vorrei poter dialogare con lui. Chiedere.
Ascoltare. Non so da cosa derivi questa mia convinzione, eppure sono sempre più convinto ci sia molto di più, dentro di lui, dietro quegli occhi che ostinatamente non abbandonano i nostri volti. Qualcosa di grande e terribile, in grado di far sanguinare il cuore e stritolare il fiato tra le dita.
Non so che dire, non so cosa pensare. Non so cosa vogliono i Supervisori, né chi ci ha messo a capo di questo progetto. Non so perché questo progetto esista e mi sento confuso.
Mi sento perso e spaesato, proprio come il soggetto, mi vedo nello specchio della sua persona, c’è il mio riflesso, lì, e non capisco cosa ci faccia. Non capisco troppe cose.
Sembrava tutto chiaro quando era il Dottor Marlowe a spiegarci. Sembrava tutto cristallino e non avevo domande. Ora, invece, che siedo nel mio studio con la sola compagnia di una penna, di una luce e di questo diario, ogni cosa mi sfugge di mano. È come…E’ come uscire da una nebbia e i pensieri, dapprima offuscati e torbidi, cominciano a riprendere coscienza di sé, mi chiamano, mi chiedono aiuto. Perché esistiamo, essi domandano, Perché ci hai formulati? Qual è la risposta?
Lontano dal Dottor Marlowe il mondo è oscuro, la mia mente piena di dubbi.
Vorrei poter parlare da solo col soggetto. Chiedergli come ha la forza di dibattersi, dove l’ha trovata, per quale motivo mi sento intrappolato in una rete e perché i suoi occhi mi inchiodano alla parete, al suolo, all’aria stessa che respiro, quasi fossi io l’esperimento e non lui.
Sono confuso. Giusto e sbagliato, fatico a ricordare finanche perché sono qui. Chi ha mandato. Perché. Cosa dovrei fare. Come procedere. Per quale fine.
Devo parlare col Dottor Marlowe. Devo parlare col Dottor Marlowe al più presto.

 

RFD Washington, Washington D.C.
Penn Quarter. 810 7th St. NW

 

Colin non aveva spiccicato parola durante il tragitto dal cimitero di Arlington fino al pub. Molto probabilmente nemmeno voleva finire la propria giornata in un pub, ma Tony sentiva il bisogno fisico di triturare lo stomaco con gli alcolici e quindi la decisione era stata presa, la macchina messa in moto.
Un tavolo appartato e la luce del pomeriggio che tagliava il locale di traverso, Stark non aveva dato il tempo all’altro di sedersi che già s’era involato al bancone e ordinato per entrambi.
Hendrick non aveva fatto una piega, sebbene fosse evidente quanto poco gli andasse a genio l’idea, e il magnate ringrazia per aver tenuto la bocca cucita e lo spirito proibizionista muto.
Non aveva la forza, la non aveva la voglia di sorbirsi una ramanzina su quanto poco fosse salutare ubriacarsi alle quattro, alle cinque, a che accidenti di ora era: aveva soltanto bisogno di mettersi a tacere per un po’, smetterla di pensare, di agitarsi e di dibattersi come un pesce fuor d’acqua. Aveva bisogno del torpore che solo una sbronza in piena regola era in grado di dargli: Colin era utile unicamente come chauffeur.
Della sua compagnia, altrimenti, Stark avrebbe fatto volentieri a meno.
Già non dormiva da un numero considerevole di ore, a stento era in grado di prendere un respiro che non fosse un rantolo irrancidito dal panico, faticava a ricordare l’ultima volta che aveva posato la testa sul cuscino o su qualunque altra superficie orizzontale senza sognare il gorgo flatulento sopra Manhattan.
Quel maledetto cerchio di fumo, ribollente di Chitauri, di fuoco, quell’inferno di astri e ringhi che ancora minacciava di sopraffarlo, di inghiottirlo. Lo ghermiva ogni volta che chiudeva gli occhi, lo afferrava, lo trascinava a fondo, lo schiacciava, lo stritolava, giù sempre più giù, dove non c’era luce, dove non c’era aria, dove non esistevano neanche le stelle.
Dissimulando un ansito dietro un colpo di tosse, Tony annegò il principio di soffocamento con una generosa sorsata di qualunque cosa ci fosse nel bicchiere –L’importante era che lo rintronasse abbastanza da metterlo fuorigioco. Avrebbe persino ricorso alla benzina, fosse servito a tenerlo distante dalla realtà e dall’ansia.
L’Agente drizzò gli occhi chiari verso di lui e subito li riabbassò, storcendo l’angolo della bocca. Stark finse di non vederlo per un paio di secondi, stette al gioco, osservò un paio di avventori e diede il proprio (pessimo) giudizio all’arredamento del locale, prima di passarsi la mano libera tra i capelli, schiarirsi la gola e dedicare cinque minuti della giornata al vivere civile e alle relazioni sociali di base.
«Facciamo così.» propose, conciliante «Hai una frase, d’accordo? Una frase per dirmi cosa ti ronza nel cervello, quindi vedi che sia una frase di senso compiuto e diciamo sopra la media delle idiozie comuni solitamente sparate dalla gente in lutto, intesi? Una frase e se rispetterà queste condizioni potrei anche decidere di posticipare il mio coma etilico.»
Hendrick rizzò le sopracciglia, squadrandolo con un malcelato disgusto ed una punta di fastidio. Tony rispose alla muta provocazione con un ghigno da manuale nel mentre che s’aggiustava contro lo schienale della sedia.
«Allora?»
«Beva e stia in silenzio, per cortesia.»
«E’ la prima volta che perdi un soldato?»
Colin spalancò gli occhi, stupito: ogni traccia di rancore svanì dallo sguardo ora perplesso, indeciso, tentennante. Qualcosa passò dietro le sue iridi, un ricordo che Stark non fu in grado di decifrare –E di cui, del resto, non gli importava poi un granché.
Forse.
Il giovane s’umettò il labbro superiore, deglutì e scosse il capo.
«No.» rispose, il tono appena più basso di quanto Tony si sarebbe aspettato «Lei?»
«Sì.»
Di nuovo, una nota di palese perplessità nell’espressione altrimenti seria di Colin ed il magnate ingoiò un altro sorso di alcool per spazzare via il nodo alla gola, il dolore sordo al petto, la cenere che graffiava e scorticava i polmoni.
«Chi?»
«Non sono affari tuoi, Hendrick.»
L’Agente gli rifilò un’occhiata di fuoco tanto rapida che a Tony venne il dubbio di averla solo immaginata. Aggrottò le sopracciglia, socchiuse le palpebre, si grattò a punta di dita la linea della gola e strofinò il palmo contro il mento. Hendrick, a disagio, si chiuse nelle spalle e accartocciò le labbra, abbassando gli occhi sul sottobicchiere in plastica: il figlio di Howard poteva intravedere un frammento azzurro d’iride bagnato in un singhiozzo di sole e da un singulto paglierino della sua birra chiara ormai priva di schiuma.
«E’ che…» esordì Hendrick, disegnando una figura imprecisata sopra le venature del tavolo «Non riesco a togliermi dalla testa l’idea che se fossi arrivato prima, se non avessi tardato, sarei riuscito a…A salvare il Direttore.»
«No. Non ce l’avresti fatta.» replicò Tony, tirando poi su col naso «Avresti finito col farti uccidere a tua volta. Ho letto il tuo curriculum, Hendrick, guardiamo in faccia la realtà: non sei niente di eclatante.»
Colin incassò il colpo con grazia da manuale: addirittura, simulò un sorriso che sì, no, forse, in una realtà alternativa appositamente costruita per l’occasione, sarebbe anche potuto essere convincente.
«Non sono niente di eclatante, già.» sussurrò «E non sono neanche la signorina Potts. Mi chiedo cosa ci faccio ancora accanto a lei, signor Stark.»
«Fai sì che io abbia il mio apporto di zuccheri e carboidrati senza glutine tutte le mattine.»
Prima di ogni replica, di una risata o di un commento poco ripetibile, si frappose un brusio, qualche mormorio di protesta, il fischio del televisore mal sintonizzato: Hendrick, che aveva lo schermo proprio di fronte, alzò la fronte e impallidì di colpo. Quel perdere improvviso di colore mise Tony sull’attenti, così come l’atmosfera tesa del locale, i volti impauriti, le mani alla bocca, le sedie scostate con violenza, gli occhi sbarrati.
Il magnate si girò di scatto e lo stomaco si contrasse con un ringhio nel vedere la televisione eruttare fiamme, boati, un SUV che esplodeva nel centro di Manhattan, e poi fumo e una strada buia, un inghiottitoio di asfalto e piscio, un corpo noto, fin troppo noto, disteso, lo zoom traballante sul foro alla nuca, sul sangue, Fury, Nick Fury nell’inquadratura danzante della telecamera. E infine, nel tetro silenzio che aveva investito tutti come un’onda in pieno, una voce melliflua e sardonica, di potenza e sapere antichi quanto il tempo stesso.

«Alcuni mi definiscono un terrorista: io mi considero un Maestro.
America…Pronti per un’altra lezione?»

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Note Finali
Hansel Gamble è un gioco di nomi, dai film “Hansel&Gretel: Cacciatori di Streghe” e “S.W.A.T.”. Clint Barton ha davvero lavorato per la Cross Technological Enterprises come Capo della Sicurezza e Sheila Danning è il loro Responsabile delle Relazioni Pubbliche.

 

   
 
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