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Autore: Angie Mars Halen    12/06/2014    2 recensioni
Fin dal loro primo incontro Nikki e Sharon capiscono di avere parecchi, forse troppi, punti in comune, particolare non indifferente che li porta ad aggrapparsi l’uno all’altra per affrontare prima la vita di strada a Los Angeles, poi quella instabile e frenetica delle rockstar. Costretti a separarsi dai rispettivi tour, riusciranno a riunirsi nuovamente, ma non sempre la situazione prenderà la piega da loro desiderata: se Sharon, in seguito ad un evento che ha rivoluzionato la sua vita, riesce ad abbandonare i vizi più dannosi, Nikki continua a sprofondare sempre di più. In questa situazione si rendono conto di avere bisogno di riportare in vita il legame che un tempo c’era stato tra loro e che le necessità di uno non sono da anteporre a quelle dell’altra. Ma la vita in tour non è più semplice di quella che avevano condotto insieme per le strade di L.A. e dovranno imparare ad affrontarla, facendosi forza a vicenda in un momento in cui faticano a farne persino a loro stessi.
[1982-1988]
Genere: Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Mick Mars, Nikki Sixx, Nuovo personaggio, Tommy Lee, Vince Neil
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Disclaimer: I Mötley Crüe non mi appartengono e tutti gli altri personaggi sono di pura fantasia. Ovviamente nessuno mi paga per scrivere questa storia (sarebbe una cosa priva di senso).

N.D’.A.: Ciao a tutti!
Ebbene, Angie Mars è tornata con una nuova storia nata in seguito all’ispirazione da The Dirt e, verso la fine, anche dalla biografia di Nikki. Stavolta ho cercato di attenermi il più possibile ai fatti realmente accaduti, ai quali si intreccia la storia della protagonista e narratrice, Sharon. Con questo racconto non intendo criticare, ridicolizzare o sminuire i Mötley Crüe né gli altri personaggi celebri che faranno la loro comparsa durante il suo corso. Se ciò che ho scritto dovesse sembrarvi ridicolo o offensivo, vi prego di segnalarlo in modo che io possa rimediare al danno fatto o, nel peggiore dei casi, rimuovere la storia. Vi chiedo anche di segnalare eventuali errori grammaticali affinché io possa correggerli e rendere la lettura più piacevole.
Il racconto è diviso in tre parti e ricopre l’arco di tempo dal 1982 al 1988, per cui il ritmo sarà un po’ più veloce rispetto a quello della mia storia precedente.
Il titolo (precedentemente How Come It Never Rains? It Only Pours... dall’omonimo pezzo dei Dogs D’Amour - perdonate se nel corso delle note d’autore di questo o altri miei racconti comparirà ancora quello vecchio... evidentemente mi è sfuggito durante la correzione) è tratto dalla canzone The Idol dei W.A.S.P.. So che ci sono riferimenti allo stesso album anche nel racconto precedente, ma trovo che esso, e in particolare questa canzone, si avvicini molto alla situazione che Nikki Sixx ha vissuto negli anni '80. Ogni capitolo riporta il titolo di una canzone (nelle note d’autore sarà specificato il gruppo a cui appartiene) che può essere stato scelto o per il significato generale del brano, oppure perché anticipa ciò che accadrà in seguito.
Grazie per aver letto queste noiosissime righe, ma ho ritenuto opportuno riportarle prima dell’inizio della storia.
Buona lettura!

Angie Mars






♦♦♦♦♦





CRAZY IN PARADISE







PRIMA PARTE






1
CITY BOY BLUES





West Hollywood, CA, luglio 1982

Tante piccole zampe, tanti piccoli insetti rivoltanti si stavano arrampicando lungo le mie gambe. Correvano veloci, emettevano uno sfrigolio acuto e fastidioso, e mi trafiggevano la pelle con i loro pungiglioni. Si insinuavano sotto la maglietta di cotone leggero che indossavo da una settimana – o comunque da qualche giorno, non me lo ricordavo bene – e filavano sul ventre prima solleticandolo, poi pizzicandolo, poi divorandolo. Volevano mangiarmi. Lo sapevo perché non era la prima volta che quei bastardi tentavano di farlo. Erano assetati della mia pelle pallida e sottile, facile da trapassare con gli aculei, e adesso stavano per raggiungere anche il collo.

Mi svegliai di soprassalto, in preda al panico, e mi scoprii sofferente in un bagno di sudore, stesa su un letto disfatto in una piccola stanza maleodorante e così umida che sembrava di respirare della nebbia. Con le dita tremanti e il fiato corto sollevai la T-shirt bianca e larga per scoprirmi la pancia, rendendomi conto che non c’era alcun insetto. Lasciai ricadere la stoffa umida sulla pelle, godendo di quel contatto fresco, poi mi guardai intorno con diffidenza. La camera era decisamente più piccola di come la ricordassi e sul soffitto c’erano svariate chiazze di muffa in prossimità degli angoli. Sul comodino, stipate sopra un centrino macchiato, si trovavano alcune lattine di birra schiacciate, in mezzo alle quali svettava il collo stretto col tappo nero di una bottiglia di whisky ormai vuota. Spostai lo sguardo allucinato su una vecchia sedia sulla quale erano ammassati dei vestiti, a loro volta in parte nascosti una tenda che era stata brutalmente strappata dal bastone posto sopra la finestra. C’erano mozziconi di sigarette ovunque e bottiglie vuote in frantumi che brillavano sulla pedana blu notte, senza contare le innumerevoli cartacce e gli avanzi di cibo ormai avariati. I raggi del sole che entravano dalle fessure della veneziana incastrata illuminavano il pulviscolo atmosferico che aleggiava lentamente, si riflettevano sulla parete bianca che avevo dietro e facevano luce su un corpo disteso accanto a me. Mi stropicciai gli occhi quando lo notai e li riaprii: era ancora lì, sdraiato su un fianco e pallido come il lenzuolo sudicio nel quale era avvolto. Sembrava morto e, per quel che ne sapevo, forse lo era. Calciai via la coperta e mi avvicinai cautamente, continuando a controllarmi la maglia per il terrore che gli insetti stessero ancora camminando su di me. Quando fui abbastanza vicina gli toccai una spalla e ritrassi immediatamente la mano in attesa di una reazione, che però non arrivò. Cominciai a innervosirmi e lo urtai col palmo aperto sulla pelle liscia e appiccicosa. Il corpo, che fino a poco prima avevo creduto privo di vita, si mosse appena con un fruscio sommesso, poi una mano tremolante fece capolino da sotto il lenzuolo e si andò a posare sul viso per ripararlo dalla luce.

“Chi cazzo è?” biascicò con voce impastata mentre si girava lentamente a pancia in su. Non risposi e continuai a osservarlo in silenzio mentre la mano dalle dita sottili scivolava lungo la guancia e passava tra i capelli unti e biondi.

“Sei sveglio?” domandai inutilmente, atona.

“Sì,” rispose prima di fare un paio di colpi di tosse con i quali si liberò la gola, poi si strofinò gli occhi, ritrovandosi i polpastrelli impiastricciati di matita nera e mascara. “Che ore sono?”

Mi voltai verso l’orologio digitale sul comodino che segnava le undici del mattino e glielo comunicai, suscitando in lui una certa irritazione.

“Vaffanculo,” si lamentò, la voce soffocata dai palmi delle mani che teneva aperte sulla faccia per ripararsi.

“Dovevi essere da qualche parte?” gli domandai mentre cercavo di rimettermi in piedi e di muovermi per la stanza senza pestare frammenti di vetro.

“No, sono solo scazzato,” confessò, poi si tirò indietro la frangia, lasciando finalmente scoperti i grandi occhi castani e la fronte imperlata di sudore. “Ho la nausea.”

Mi sfregai i palmi umidi poi li passai sulla maglia larga che indossavo. “Vuoi che ti porti qualcosa?”

L’angolo destro della sua bocca fece un guizzo di disgusto. “Lascia perdere. Se vedo un altro granello di coca vomito seduta stante.”

“Intendevo qualcosa come acqua o limone, se ne hai,” specificai con tono sommesso.

Fece una risata nervosa e tornò a sdraiarsi. “In questa casa non c’è niente, nemmeno dell’acqua. Se ti fidi puoi bere quella del lavandino.”

“Come vuoi... io ho bisogno di una doccia.”

Lui agitò una mano in modo scoordinato per farmi cenno di smammare. “Questa potrebbe essere una buona idea. Se quando esci sto dormendo di nuovo, svegliami.”

Annuii in silenzio e, una volta recuperati alcuni vestiti da sopra la sedia, entrai nel piccolo bagno disordinato, chiusi la porta a chiave e mi appoggiai al lavandino. Lo specchio davanti a me, un pezzo di vetro graffiato e ricoperto da schizzi di ogni genere, rifletteva la personificazione della decadenza e della desolazione: una ragazza giovane, con gli occhi chiari e stanchi, i capelli arruffati, le labbra secche e anche un livido sulla gota che Dio solo sapeva come me lo fossi procurato.

Aprii il rubinetto dell’acqua fredda e me ne buttai qualche manciata sulla faccia per pulire i residui di trucco e sudore, ma soprattutto per svegliarmi del tutto. Solo ora, dopo che il fresco dell’acqua mi aveva ridonato quel po’ di lucidità necessaria per rendermi conto cosa fosse successo nelle ultime ventiquattro ore, mi ricordai il nome del tipo con il quale avevo appena parlato. Si chiamava Vince ed erano due giorni che non schiodavamo da quell’appartamento minuscolo in una traversa del Sunset Boulevard. Lo avevo incontrato qualche sera prima al Troubadour, subito dopo la fine del live della mia band, ed era stato lui a parlarmi per primo. Era sbucato all’improvviso mentre gironzolavo per il backstage nell’attesa che il resto del gruppo fosse pronto per andare a divertirsi da un’altra parte, mi aveva fatto i complimenti per come avevamo suonato, soffermandosi in modo particolare su un assolo di chitarra che avevo eseguito verso la fine, poi aveva cambiato bruscamente argomento, dicendo maliziosamente che aveva con sé della roba buona. All’inizio non ero sicura di aver capito bene, ma ogni dubbio fu spazzato via nel momento in cui estrasse una bustina piena zeppa di cocaina da sotto la giacca di pelle rossa. Ci guardammo in silenzio per qualche istante poi ci dirigemmo di corsa a casa sua, nella quale restammo per due giorni. In quelle quarantotto ore non oltrepassammo mai la soglia. Il massimo che riuscivamo a fare era, date le nostre condizioni, strisciare sul materasso come vermi e, una volta raggiunto il bordo, lasciarci cadere sulla moquette puzzolente che ricopriva il pavimento. Nei momenti in cui non eravamo fuori, però, riuscimmo anche a scambiarci qualche parola. Vince mi aveva parlato del suo gruppo, che conoscevo molto bene dal momento che in quel periodo stava riscuotendo un grande successo a West Hollywood, e io gli avevo raccontato del mio, una gang di quattro dei tanti angeli caduti che si erano recati a Los Angeles con la speranza di realizzare i propri sogni. Vince aveva abbozzato un sorriso astuto, divertito dal fatto che avessimo qualcosa in comune. Adesso, dopo una vacanza nel Paese delle Meraviglie per estraniarci del tutto dal mondo reale, che a volte faceva davvero schifo, eravamo ritornati con i piedi per terra. La prima cosa che ci dicemmo attraverso uno sguardo più che eloquente che ci scambiammo appena uscii dal bagno fu “ma tu chi cazzo sei? Perché sei con me?”.

Vince sbatté le palpebre, interrompendo il contatto visivo. “Adesso vai a casa?”

“Sì. Sono due giorni che mi aspettano per provare e domani sera suoniamo al Whisky.”

Un altro sorriso furbo. “Vuoi un passaggio?”

Storsi il naso: in quelle condizioni non poteva certo mettersi alla guida, anche se uno strappo a casa non mi sarebbe dispiaciuto.

Sollevò le mani in segno di resa. “Come vuoi... Shirley?”

Sharon,” lo corressi bruscamente.

“Giusto,” confermò prima di voltarmi le spalle e dirigersi verso la cucina. Sentii il rumore della veneziana che veniva sollevata e un fascio di luce dipinse una striscia più chiara sul pavimento di fronte alla porta, poi l’acqua del lavello cominciò a scrosciare. Per me era giunta l’ora di andarmene e accettai tale fatto con un sonoro sbuffo prima di girare tre volte la chiave nella serratura della porta scassata per uscire sul pianerottolo silenzioso della palazzina. La luce del sole mi colpì il viso, costringendomi a chiudere bruscamente gli occhi e, una volta che le mie pupille si furono abituate alla sua intensità, iniziai a camminare velocemente lungo la discesa di North Clark Street, la laterale del Sunset dove faceva angolo il Whisky a Go-Go, uno dei locali più famosi e frequentati di tutta la città.

Incrociai le braccia sul petto e, con i piedi e le caviglie distrutti a causa di quei dannati dieci centimetri di tacco, attraversai la strada e svoltai a sinistra. Il viale, specialmente il tratto dello Strip, a quell’ora del giorno era ridotto a una vera e propria discarica: c’erano fogli di giornale appallottolati che ruzzolavano sospinti dal lieve vento caldo della California, i frammenti e i cocci delle bottiglie rotte brillavano per terra come un’infinità di stelle nel cielo notturno, e miriadi di sigarette si erano accumulate negli angoli tra il marciapiede e la strada. Una volta calato il sole, le insegne al neon si accendevano, magenta, blu elettrico e verdi; la musica cominciava a diffondersi e i ragazzi, con le loro acconciature gonfie e foulard che penzolavano dai passanti dei pantaloni, iniziavano a invadere il viale. Ma adesso era giorno, le palme altissime erano immobili nell’aria calda e io, sotto la mia coltre di capelli e con addosso un gilet di jeans, mi sentivo scoppiare. Avevo la testa pesante, la nausea mi stava uccidendo, mi sentivo le gambe gonfie e tutto intorno a me girava lentamente e produceva suoni ovattati. Volevo vomitare ma non avrei potuto farlo dal momento che il mio stomaco era vuoto da due giorni e non vedeva alcol da otto ore.

All’improvviso, la palazzina in cui vivevo sembrò materializzarsi di fronte a me e, fatti quattro calcoli veloci, mi resi conto di essere arrivata al capolinea. Tirai un sospiro di sollievo mentre spingevo il portone di vetro e alluminio, salii le scale scalza perché farlo con i tacchi sarebbe stata un’impresa ardua oltre che rischiosa, e aprii la porta dell’interno 4, quello in cui vivevo da ormai un anno e mezzo. Le note di Money dei Pink Floyd giunsero chiare alle mie orecchie, ma solo dopo mi accorsi che qualcuno le stava seguendo con il basso. Mi affacciai alla porta della camera più piccola e vidi, seduto sulla sua branda rossa e con una gamba appoggiata sull’amplificatore, il mio amico Brett. Se ne stava lì stravaccato a suonare i suoi sordi accordi e muoveva a ritmo il capo, facendo ondeggiare i lunghi capelli castani e ondulati. Intanto fumava come una ciminiera e teneva il tempo con un piede scalzo, che batteva piano sulla moquette. Bussai contro lo stipite per fargli capire che ero tornata e lui sollevò immediatamente le dita dalle corde spesse del suo strumento, strabuzzando i grandi occhi azzurri.

“Bentornata a casa, Sharon Smith!” esclamò sarcastico, poi appoggiò il basso sul materasso e mi corse incontro per abbracciarmi. “Dove sei stata tutto questo tempo?”

Non risposi e continuai a tenere il viso premuto contro il suo petto: il suo odore mi faceva sentire a casa e al sicuro, come ormai succedeva da anni. Brett era sempre stato la mia roccia, un ragazzone non solo capace di difendermi quando io non ne ero in grado, ma anche di sostenermi quando ne avevo bisogno.

“Allora, rispondi?” mi esortò spazientito, allora mi staccai da lui e mi fissai le punte dei piedi.

“Ero a casa di un tipo,” dissi atona.

Brett cercò di andare più a fondo nella questione. “Un tipo chi? Questa città pullula di tipi.”

Mi appoggiai al muro con la schiena. “Il cantante di un gruppo che ha suonato qualche sera fa al Troubadour, lo stesso che dopo lo show ci ha provato con me senza riuscirci. La sera del nostro ultimo live è tornato all’attacco.”

“Mi chiedo come abbia fatto a convincerti,” mormorò Brett poi, senza aggiungere una parola, mi afferrò il polso e non riuscii a contrastare la sua forza mentre lo ruotava per guardarmi il braccio. “Questi cosa sono?”

La domanda gli uscì dalla gola con tono freddo e spaventato alla vista di un paio di forellini rossi sulla pelle.

“Lasciami stare, non ti riguarda.”

“Sharon, lo sai che fine farai se non smetti, vero?” mi chiese dopo avermi fermata contro la parete tenendomi per le spalle. “Te l’ha data quel biondo, lo sapevo. Ecco perché sei andata con lui.”

Lo allontanai con uno spintone. “Lasciami in pace. Sono affari miei. La via è mia e me la gestisco io, tu non sei mio padre e non devi comportarti come se lo fossi solo perché, visto che non mi ha mai considerata come avrebbe dovuto, ti senti in dovere di farlo. Sono finiti i tempi di New Orleans.”

Brett mi guardava scuotendo il capo e con le braccia incrociate come se avesse voluto rimproverarmi, ma io non gli diedi ascolto neanche quando mi pregò di rimanere con lui e corsi in camera mia, sbattendo la porta.

“Certo che voi due dovete sempre fare un fottuto casino del cazzo,” si lamentò una voce stanca nel buio della stanza. Accesi la luce e mi ricordai che condividevo quella camera con Rita Halford, la nostra batterista, il cui sacrosanto sonno era appena stato interrotto dai nostri sbraiti.

“Non ti ci mettere anche tu, per favore,” la zittii mentre mi tenevo la testa dolorante.

Rita sembrò non sentirmi nemmeno e si mise a sedere sul materasso, stropicciandosi gli occhi e passando una mano tra i folti ricci rossi. “Cosa ci hai fatto a casa dei Mötley Crüe per due giorni?”

“Secondo te?” le risposi sgarbatamente, poi arraffai un pacchetto di sigarette da sopra il comodino e ne accesi una con uno Zippo che lei aveva abilmente sgraffignato da un negozio sul Santa Monica.

Rita rivolse lo sguardo verso il cielo e si mordicchiò il labbro inferiore come se avesse voluto concentrarsi meglio. “Con chi dei quattro?”

Soffiai fuori una nuvola grigia. “Vince. Ma tanto lo sai già visto che hai sentito la conversazione di poco fa.”

La rossa inarcò le sopracciglia dello stesso color carota della chioma. “Quello con la voce da castrato?”

“Ho avuto modo di constatare di persona che non lo è,” ribattei, poi mi alzai dal pavimento, mi infilai un paio Converse in pessime condizioni e me ne andai in cucina a prepararmi un caffè, al quale aggiunsi parecchio zucchero con la speranza che mi desse un po’ più di energie. Mentre lo sorseggiavo, notai che il nostro cantante aveva lasciato un messaggio scritto su un pezzo di carta appiccicata al frigorifero con il quale mi chiedeva di raggiungerlo in un pub sul Santa Monica. Non avevo idea di cosa volesse fare, ma decisi di accontentarlo. Riposi la tazza sporca nel lavandino senza neanche riempirla d’acqua, mi diedi una sistemata ai capelli e al trucco per rendermi presentabile, poi tornai fuori senza dare ascolto alle mie povere gambe che invocavano pietà. Non salutai né Rita né Brett. Mi dileguai da casa in religioso silenzio e tornai a immergermi nella canicola e nello smog dei viali, trovando un po’ di refrigerio solo quando raggiunsi il locale.

L’orologio di metallo appeso sopra le mensole degli alcolici segnava l’una meno un quarto, del mio cantante non c’era traccia, e la voglia di rimettermi in cammino per tornare a casa ce l’avevo sotto i piedi.

“Tutto bene, cara?” mi domandò la barista, una ragazza più grande di me intenta ad asciugare dei boccali di birra con il marchio della Budweiser.

Abbozzai un sorriso mentre mi tenevo il mento con una mano. “Sto aspettando una persona, ma credo che sia già arrivata e anche andata.”

“Ah... be’, gradisci ordinare qualcosa?”

Frugai nelle tasche dei jeans e tastai solo stoffa e qualche briciola. “Non ho spicci.”

“Questi uomini!” sbottò la barista accanendosi sui boccali con lo strofinaccio umido. “Devono sempre comportarsi da stronzi.”

All’improvviso, mentre la ascoltavo inveire contro il mio cantante che secondo lei era il mio fidanzato che mi aveva dato buca, percepii una presenza oscura alle mie spalle e, prima ancora che potessi voltarmi per controllare se ci fosse veramente qualcuno o se si trattasse di un’allucinazione dovuta alla stanchezza e ai trip dei giorni precedenti, un braccio marmoreo mi passò di fianco e appoggiò qualche moneta sul bancone di granito.

“Due birre. Una per me e l’altra per la ragazza,” le ordinò una voce profonda.

Mi girai di scatto e lì, proprio sullo sgabello accanto a me, si era appena seduto un tipo con una folta massa di capelli corvini che mi guardava con aria spavalda da dietro la sua frangia spessa e sbilenca, increspando le labbra in un sorriso enigmatico e tamburellando sul granito le dita lunghe.




N.D’.A.: Ri-salve! =)
Come avete potuto constatare voi stessi, il tono è totalmente diverso da quello della mia prima storia. Sharon è un personaggio molto distante dalla protagonista precedente: è debole e spaventata, ma cambierà in fretta, spinta dalle necessità, dagli avvenimenti o di sua spontanea volontà.
Detto questo, spero che il primo capitolo sia stato di vostro gradimento e, se vi va, fatemi sapere che cosa ne pensate. Accetto anche le critiche, ovviamente.
Il secondo arriverà la prossima settimana.
Grazie a tutti coloro che sono arrivati fin qui! ;)
Sleaze kisses,

Angie


Titolo: City Boy Blues - Mötley Crüe


   
 
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