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Autore: La Setta Aster    19/06/2015    3 recensioni
Su un pianeta dove la legge è dettata dalla mano più veloce ad estrarre un revolver laser... Un gruppo di coraggiosi eroi affronta il deserto marziano in cerca di vendetta, denaro, donne, denaro, dinamite termica, denaro, e per finire: DENARO! Scopriranno loro stessi cavalcando cavalli elettrici dalla regione di Cydonia alla città di Ma'Adim, facendo esplodere tutto ciò che non gli va a genio.
La Krypteia productions è orgogliosa di presentare...
...John Malkovich, Shia LaBeuf, Zoe Saldana...
C'ERA UNA VOLTA SU MARTE
Genere: Azione, Comico, Science-fiction | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno
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L’aria su Marte era respirabile ormai da più di cento anni, ma il colore: quello non è mai cambiato. Rosso, un rosso che domina su tutto, un rosso che nasconde il sangue versato dopo un duello tra due impavidi uomini che vivono solo per morire, nutriti dal desiderio di vendetta o dalla sete di ricchezza. Marte è un’immensa distesa di sabbia, rocce e morte, una colonia terrestre che brama la sua indipendenza, ma mentre i fili d’acciaio degli intrighi politici lavorano per scatenare una guerra contro la madrepatria, ora debole più che mai, per le selve di terriccio rosso non vige alcuna legge, se non quella della mano più svelta ad estrarre una pistola. Una nuvola cremisi si alza turbinando nel desolato orizzonte di Cydonia. Quella nuvola porta un grido lontano, il grido di un revolver laser placcato in argento con rifiniture in rame e ottone rappresentanti motivi floreali, che esploderà il suo colpo fatale nella cittadina di Spirit, una delle tante, disseminate per la vastissima Valle di Cydonia, la regione di Marte più ampia, che comprendeva anche la capitale del pianeta, il centro del potere politico, o forse l’unico luogo in cui esisteva davvero potere politico: Ma’Adim. Spirit non è una città come la capitale, ma vanta una popolazione di quasi trecento abitanti, alcuni commercianti di beni di prima necessità, come carne o verdure, un dottore, un maniscalco, e, ovviamente, un becchino. E non mancava certo il saloon, punto focale della vita del paese, o della morte, dove si vendevano alcolici, droghe, donne, dove ogni sera la radio mandava l’ologramma di qualche gruppo musicale terrestre, e dove, in breve, si poteva trovare un cranio da forare, casomai si fosse presentata la necessità o l’istinto omicida. Ma tra quelle casupole di legno e ferro arrugginito si nascondeva un uomo, che se avesse potuto riscuotere da solo la taglia sulla sua testa avrebbe potuto finanziare in grande stile la sua causa: l’indipendenza marziana. Era uno di quegli uomini che la Terra voleva morto, uno di quelli che fomentava le folle, che aveva la motivazione e abbastanza sale in zucca da poter raggiungere, un giorno, il proprio fine. E questo spaventava non poco i potenti del pianeta madre. Quindi, non potendo ucciderlo in maniera ufficiale, in quanto sarebbe stato fatto martire di una causa giusta, e avrebbe di conseguenza nutrito le idee indipendentiste, il governo terrestre decise di assoldare uno dei più scaltri, veloci e pericolosi cacciatori di taglie di tutto il settore marziano:

Fermo immagine sul primo piano del tagliagole mentre scende dalla sua rombante moto volante.

COBRA JACK

Lo stivale di nero cuoio di dingo di Ares fece tintinnare il propulsore che vi era agganciato, e che serviva, oltre a compiere salti di notevole altezza, a dare una potente accelerazione alla già non trascurabile velocità della moto volante. Quei mezzi assolutamente affascinanti per gli amanti del colpo di scena, somigliavano vagamente alle vecchie moto terrestri che percorrevano in lungo ma non in largo la famigerata Route 66, le Harley, solo che invece delle ruote, portavano quattro zampe robotiche, che si appoggiavano a terra per camminare quando la velocità non richiedeva il volo, e che invece si piegavano, rivolgendo all’indietro gli zoccoli, quando la moto partiva al galoppo, o meglio al volo, sprigionando la propulsione che permetteva al mezzo di raggiungere una gran velocità. Il pilota guidava inginocchiato, coi piedi rivolti verso la strada già percorsa, come gli zoccoli della moto, e con le ginocchia poggiate ad appositi sostegni. L’argentata carrozzeria della Dakota, la moto volante di cui si parla, luccicava – anche se in varie zone era sporca o arrugginita – colpita dai raggi del sole, filtrati da un’atmosfera completamente diversa da quella di duecento anni prima. Lo spolverino scuro fatto di pelle di bucefalo, un bufalo a due teste tipico delle praterie di alghe marziane, era ricoperto di polvere rossiccia, che opacizzava il colore nero lucido che quell’indumento avrebbe dovuto avere. Da sotto l’ampia visiera che percorreva la circonferenza del cappello, anch’esso nero, sbucavano, dietro alla testa, i resti nostalgici di quella che un tempo era una folta chioma di capelli lunghi, ora ridotti a ciuffi grigi che parevano steli di paglia. Quando l’uomo alzò lo sguardo, mostrò due piccoli occhi sfuggenti, furbi e attenti, d’un azzurro glaciale. Questi guizzavano da una parte all’altra con la velocità di una serpe di prateria, osservando e valutando rapidamente l’ambiente e le persone, alcune delle quali lo guardavano curiose, altre spaventate, e altre ancora che non mostravano interesse per il nuovo arrivato. Una barba rada ricopriva il volto come erba appena nata, ancora bassa, mentre si rinfoltiva un poco attorno alla bocca stretta. Mentre camminava a passo lento, studiando la cittadina, la sua Dakota lo seguiva muovendo le sue quattro gambe metalliche al passo. I pesanti zoccoli d’acciaio suonavano un ritmo ben cadenzato sul suolo arido. Meno regolari e più trascinati, gli stivali dell’uomo erano diretti al saloon. La passerella fu lenta, per dare il tempo alla popolazione di quel paese di rendersi conto che Cobra Jack era giunto fin lì per un motivo, e qualcuna, di quelle trecento anime e poco più, non era più al sicuro. Come tamburi della morte, i tacchi degli stivali di Cobra Jack si portarono davanti alla porta a due battenti del saloon. Un’insegna al neon mancante di troppe lettere per essere comprensibile sovrastava l’entrata: “Sal  n of Spi   ”. Dopo aver ancorato la Dakota a un palo apposito, al cacciatore di taglie bastò stendere il braccio, con la mano aperta e il palmo rivolto verso la porta, per vedere i due battenti spalancarsi, e aprire la strada verso al locale: dritto davanti a Cobra, verso il muro, vi era il bancone, dietro al quale un barista stava agitando qualche cocktail alieno, mentre sbraitava contro un droide cameriere che era andato di nuovo in cortocircuito dopo che un cliente ubriaco gli aveva gettato del whiskey in faccia. Ammesso che si possa chiamare faccia. I droidi cameriere non avevano piedi, ma come unico supporto un carrello a più piani che si concludeva con la testa: la forma di un’arachide – e anche il cervello – e due occhi che spuntavano come quelli di una lumaca. Per muoversi utilizzavano degli invertitori gravitazionali posti sotto al carrello. In mezzo alla stanza, fra Cobra e il bancone, una piattaforma rotonda proiettava un ologramma che fluttuava a mezz’aria, e che rappresentava tre tizi che suonavano. Il cantante, che suonava anche una chitarra argentata come la Dakota, stava continuando a urlare con un falsetto molto femmineo “no one’s going to take me alive, the time has come to make things right. You and I must fight for our rights, You and I must fight to survive”. Cobra non lo avrebbe mai ammesso, ma quella canzone gli stava piacendo tanto che avrebbe volute concedersi una pausa dalla caccia. Avrebbe voluto piazzarsi davanti al bancone e, accompagnato da una tequila, godersi quella musica dal primo all’ultimo minuto. Intorno alla piattaforma, la gente seduta ai tavoli beveva alcool come se l’acqua su Marte non fosse mai esistita. A destra, oltre un piccolo rialzamento raggiungibile da tre gradini, vi era la sala da giochi, con un biliardo, un ping pong virtuale e diversi videogiochi, in pratica dei caschi collegati ad uno schermo, e il giocatore che indossa il casco entra nel mondo digitale del gioco, mentre sullo schermo compare ciò che lui vede, per far sì che anche gli spettatori siano in grado di godersi lo spettacolo. Spesso quei videogiochi venivano usati per fare sesso virtuale abusivo con altri giocatori in tutta la galassia, attraverso la rete extranet, soprattutto in cittadine come Spirit, in cui non vi era alcuna caserma o un ufficio che garantisse il rispettarsi della legge: vi era solamente un centro comunicazioni castamente in contatto con la vicina – ma neanche poi tanto – Phoenix, questa volta grande città di svago, luci, corpi contorti in balli isterici o nudi in una Casa del Sesso, una di prima categoria. Era simile all’antica Las Vegas sulla Terra, in quel dimenticato continente chiamato America. Sulla sinistra di Cobra, invece, i tavoli erano quasi unicamente dedicati al poker, al black jack e ad altri giochi d’azzardo. Il nostro tagliagole fece segno ad un cameriere robot indicandolo con il dito, e questo gli si avvicinò.

“porti del whiskey a quel tavolo” disse indicando col medesimo dito una tavolata alla quale cinque signori che parevano vestiti troppo bene per abitare a Spirit stavano giocando una mano di poker.

Subito dopo, si sedette a quello stesso tavolo, prese le carte e le osservò. Quando fu il momento, posò con fare flemmatico il suo full d’assi sul banco, ben sapendo che nessun altro, fra quei cinque individui lo avrebbe battuto. Lo capiva dai volti, dagli occhi.

“che si giocava?” domandò un tizio dal viso ben rasato e il sudore che gli imperlava la fronte.

Cobra estrasse un sigaro marziano, fatto con del vero tabacco Cydonense, non un sigaro elettronico come quelli che ormai avevano preso piede dovunque nella galassia. Trasse un profondo respiro di fumo, assaporando quel retrogusto ferroso che lasciava. Giunse il suo whiskey, ma non gli diede attenzione alcuna. Sbuffò un nugolo bianco, e poi fece schioccare la lingua “la pelle” disse.

Il terrore prese spazio tra quei lineamenti curati, e la fronte era sempre più umida. L’odore del sudore varia a seconda che la sudorazione avvenga per caldo, stanchezza o paura. Quell’odore, quello della paura, ora aleggiava sotto il naso esperto del cacciatore. Scoppiò a ridere.

“nah, scherzavo, avanti!” portò i piedi sul bancone, con le gambe incrociate, e si mise comodo inclinando la sedia all’indietro.“informazioni” rivelò alla fine. Fece passare il suo sguardo congelante su tutti i presenti “sto cercando un uomo”

“aspetta un secondo, cavaliere del deserto” si fece sentire una voce giovane. Proveniva da un uomo sui ventisette anni, forse aveva raggiunto i trenta, con una scura barba ben curata e i capelli più corti dietro e leggermente più lunghi davanti, che calavano sul viso. Probabilmente li avrebbe pettinati indietro per le occasioni. Quel ragazzo, insomma, che era arrivato in quel momento e aveva appena preso in mano le carte, mostrò un poker, la mano più alta esistente. Portò a se tutte le fiche luminose, e parlò di nuovo: “la pelle, hai detto”. A quelle parole, gli altri uomini si alzarono con cautela, mostrando le loro pistole, ancora nei foderi.

“veramente ho detto che volevo informazioni” ribadì “sto cercando un uomo che ti somiglia incredibilmente, forse è tuo fratello o forse è una somiglianza dovuta al fatto che la madre del tizio che sto cercando è piuttosto famosa” la sua provocazione dimostrava che aveva la situazione sotto controllo. Il trucco è far imbestialire la vittima, perché la rabbia, si sa, rende più forti, ma anche più stupidi e distratti. “il nome del morto che cammina è Mark Stirling”.

Quando pronunciò quel nome, scandendo bene le lettere, i quattro uomini che accompagnavano quello che aveva giocato il poker fecero per estrarre le pistole, ma finirono tutti folgorati da quattro infallibili, rapidi raggi laser del revolver di Cobra. Aveva estratto silenziosamente l’arma mentre distraeva il suo pubblico con quelle parole provocatorie. Era ancora seduto nella medesima posizione. La sedia era ancora pericolosamente inclinata, ma non cedeva né faceva perdere l’equilibrio a Cobra. Si alzò dalla sedia, godendosi lo sguardo sgomento di Mark Stirling, ammutolito.

“un bel numero, complimenti” disse poi il ragazzo, ricomponendosi “ma qui si gioca qualcosa di molto più importante di una mano lesta”

“sinceramente ho ben poco interesse della tua piccola rivoluzione”

“non è una piccola rivoluzione!” esclamò Stirling con foga “è l’indipendenza di questo pianeta da una madrepatria che non può più garantirci benessere né tantomeno sicurezza! La Terra è ormai un derelitto nel Sistema Solare, e spera di rialzarsi sfruttando Marte, tassando anche il respiro del suo popolo!”

“sì, ma al resto della galassia non frega molto, sai, ragazzo?”

“quando le truppe terrestri verranno qui a portare la legge dalla quale fuggi e ti costringeranno a pagare per ogni volta che vai al cesso che farai?”

“sarò lontano da qui, dall’altra parte della galassia, con una nave pagata con la taglia che pende così saporitamente sulla tua testa” così dicendo, prese un piccolo cerchio, all’interno del quale una sostanza simile al sapone – ma che di certo non sarebbe scoppiata come avrebbe fatto la suddetta sostanza – riempiva il vuoto all’interno della circonferenza con un velo che contemplava tutti i colori dell'arcobaleno, ammesso che Cobra sapesse cosa sia un arcobaleno. Pareva uno di quei giochi per bambini in cui si adagia un cerchio, appunto, nel sapone, e quando lo si estrae rimane un velo saponato, e se ci si soffia dentro, dal cerchio volano delle bolle. Cobra inserì un disco argentato dentro al cerchio, e, come lo accostò, la sostanza saponosa si alzò, ma non si staccò in una bolla, bensì plasmò la forma esatta del volto di Mark Stirling; in effetti qualche bollicina prese a galleggiare nell’aria, dividendosi dalla riproduzione della faccia del ragazzo, ma solo per andare a formare un numero: la taglia, che fluttuava ora davanti al naso di Stirling, decisamente alterato. Il ragazzo fece scoppiare le bolle che andavano a formare i numeri 1.000.000 stringendole in un pugno.

“ma io non sono un uomo così privo d’onore come credi” ritirò in una tasca dello spolverino il cerchio e il disco. Togliendo il disco, il volto del ricercato svanì, e la sostanza saponosa si appiattì di nuovo “ti darò la possibilità di salvarti”

“scusami ma ci credo poco” digrignò i denti l’altro.

“una leale sfida a duello, qua fuori”

Stirling sapeva bene che la fama di Cobra lo precedeva. Non sarebbe mai sopravvissuto. Ma non poteva mostrarsi debole: Spirit gli aveva dato protezione, fiducia, e prometteva di diventare capitale dei raduni segreti dei massimi esponenti indipendentisti. Incamminandosi verso l’uscita insieme a Cobra, Stirling parlava “puoi uccidere me, ma ormai è troppo tardi, ciò che rappresento non morirà con me: altri uomini porteranno avanti la rivoluzione e otterranno l’indipendenza marziana!”

“sì sì, e spero davvero che sia così, ci sono affezionato a questo pianeta, ma ancora di più sono affezionato alla tua taglia, quindi scusami, ragazzo, ma devo ammazzarti” fece Cobra con tono ironico, come quello che si usa con un bambino.

“tu sarai il primo bersaglio della nostra vendetta!”

Erano fuori dal saloon, davanti a loro si stendeva una strada dritta fiancheggiata da edifici, che si apriva, alla fine, verso il deserto. Cobra rimase fermo in mezzo alla strada, e lasciò avanzare Stirling di dodici passi più lontano, come era tradizione. Mentre il ragazzo camminava, il cacciatore gli domandava se preferisse uno scontro tradizionale, in cui ci si fissa finché uno dei due non estrae l’arma, e Cobra, essendo più veloce, ha comunque la meglio, oppure lo scontro musicale, in cui si ascolta una canzone finché un terzo uomo non la interrompe, e a quel punto il più veloce ad estrarre e il più attento alla musica ammazza l’altro. O, almeno, in condizioni normali, ma in quel caso avrebbe vinto comunque Cobra, a suo dire. Stirling decise per lo scontro classico, ma nonostante questo, aleggiava nell’aria una strana musica, che pareva, portata dal vento, un gridolino lontano, o forse un fischio nell’aria. Ma a quel punto non aveva importanza, tutto divenne muto. Nessun suono aveva più importanza del battito del cuore dell’avversario, il rumore del suo respiro, lo scricchiolare degli speroni di Stirling e dei razzi propulsori di Cobra, il fruscio scaturito dallo sfregarsi dei tessuti degli indumenti dei due duellanti, trasportati dalla brezza calda. Un modesto pubblico era sopraggiunto per osservare lo scontro. Gli occhi di ghiaccio di Cobra luccicavano, da sotto l’ampia visiera del cappello nero. Quelli di Stirling lottavano contro il sudore, ma mai le pupille né dell’uno né dell’altro si staccavano da quelle dell’avversario. In lontananza, gli sciacalli emettevano dei versi famelici: avevano trovato carne morta per le loro mandibole. Avvoltoi e corvi iniziavano ad accorrere per vedere chi sarebbe morto, e per saziarsi delle sue membra. Portavano un fetido odore di carogna. Stirling stava per estrarre la pistola, quando la voce di un giovane, che a giudicare dalla cadenza doveva essere ubriaco fradicio, sopraggiunse.

“fermi!” urlò questo ventenne di primo pelo, uscendo dal saloon barcollando. Aveva un cappello chiaro, meno ampio di quello di Cobra ma di forma simile. Gli occhi spioventi faticavano a rimanere aperti, e la camicia a quadri che indossava era ormai lurida.

MAT WALLACE

“fermi!” strillò di nuovo. Cobra si voltò leggermente verso le sue spalle per osservare chi stava interrompendo il duello.

“tu!” il giovane indicò il cacciatore. “tu sei Cobra!”

“l’unico e il solo” sibilò con un cenno di vanità.

“tu hai ucciso mio padre!” la rabbia trasportata dalla voce contorta dall’alcool suggeriva che lui ne fosse piuttosto certo.

“qual è il tuo nome?”

“Mat Wallace!”

Cobra alzò lo sguardo e si grattò la barba per pensare. “Wallace?” ripeté.

“Wallace!” ribadì Mat.

“in che anno è capitato, scusa?” mentre domandava, si voltò per avvicinarsi al ragazzino. Un colpo di pistola gli passò a qualche centimetro dalla spalla, e andò a piantarsi sul battente sinistro della porta del saloon. Cobra, con estrema flemma, gli rivolse uno sguardo da sopra il colletto dello spolverino.

“e poi dici che non ti fidi del mio, di onore” disse, poi scosse la testo con disapprovazione, facendo schioccare la lingua “no, figliuolo, non si spara ad un uomo di spalle”. Mentre riportava lo sguardo su Mat Wallace, si vide arrivare un pugno ben poco preciso e talmente lento da poter essere atteso con tranquillità. Cobra lo afferrò con una mano, e lo strinse tanto da costringere Mat ad inginocchiarsi. “non voglio ucciderti, ragazzo”

Una quarta persona armata uscì furiosa dal saloon: una giovane donna – non più vecchia di Mat – dalla pelle ambrata e una bellezza folgorante. Indossava una canottiera verde muschio sudata e con una scollatura strappata piuttosto audace. I pantaloni in jeans un tempo dovevano essere neri, ma ora il rosso di Marte stava prendendo il sopravvento. La suola di uno dei due stivali minacciava di andarsene per fatti suoi da un passo all’altro. Tornando alla canottiera, essendo senza maniche scoprivano un particolare che destò l’attenzione di Cobra: un avambraccio cibernetico, quello sinistro, piuttosto ridotto male, che necessitava riparazioni e manutenzione.

“voi!” urlò, brandendo on il braccio sano, il destro, un fucile di precisione assemblato probabilmente da lei, modificato con un mirino che si adattava alle lunghe distanze e alle brevi, e un caricatore da fucile a ripetizione in grado di sopportare le temperature di un alto rateo di fuoco, così come la canna, più stabile e resistente, e non poteva certo mancare una verniciatura personale, tigrata, a strisce nere e arancioni.

“tu ti sei scopato mia sorella!” si rivolse a Mat, ancora in ginocchio.

“e tu!” portò le sue accuse a Cobra “tu mi hai fatto questo!” mostrò il braccio cibernetico. Un tendine della mano doveva essere danneggiato, perché il dito medio penzolava senza controllo.

BLACKY HOLE

“ sei sicura di non aver scambiato le accuse?” mollò la presa su Mat “Io non faccio mai del male alle donne , e se non sono consenzienti le faccio ubriacare e poi me le porto a letto, ma non mi sognerei mai ridurre così il braccio di una fanciulla così bella”

“ero ad Ares, quando tu e la tua banda avete messo a ferro e fuoco quel posto”

“è stato quindici anni fa, ero un altro uomo, all’epoca” si giustificò.

“non m’importa, ti sfido a duello!”

“anch’io ti sfido a duello!” s’intromise Mat.

“sta’ zitto!” sentenziarono in coro.

“a te penserò quando questo vecchio sarà ormai steso a terra, freddo” lo minacciò la ragazza.

“non mi importa niente del tuo stupido braccio, lui ha ucciso mio padre, devo ucciderlo io!” ribatté Mat.

“nessuno mi ammazzerà, e soprattutto nessuno muoverà un muscolo finché non avrò finito il mio lavoro!” concluse Cobra, e fece per tornare al suo duello, ma Mark Stirling se l’era svignata. Cobra si guardò intorno, sorpreso e decisamente adirato. Calciando il terreno per rabbia sollevò un polverone, e urlò. “maledizione!”

La ragazza si fece avanti e si parò dinnanzi a Cobra. “sfida me a duello!”. Subito dopo, come se volesse seguire la fanciulla a ruota, si portò davanti al cacciatore Mat Wallace “no, sfida me a duello!” “oh, ma sta’ zitto, a te ci penso io dopo questo vecchio” “va bene, ti ucciderà, e dopo io avrò strada libera” dibattevano i due giovani parlando l’uno sull’altro. Cobra si portò le mani al volto, massaggiandosi gli occhi, poi le tempie, infastidito dalle grette voci dei due.  

“ora basta, fatela finita!” strillò isterico, zittendoli entrambi.

“io non ammazzo dei ragazzini di vent’anni o poco più, chiaro? E soprattutto non perdo tempo a fare il babysitter mentre il mio bersaglio è fuggito!”

“cosa? Babysitter a chi? semmai noi dobbiamo farti da badante!” lo schernì Mat. L’altra ridacchiò, ma smise subito, rimproverandosi di aver riso alla battuta di un ragazzo che doveva morire per mano sua.

“è incredibile” brontolò Cobra, mentre si dirigeva verso la sua Dakota. Si rese conto ben presto che Stirling gliel’aveva rubata da sotto il naso. Alzò gli occhi al cielo, cercando di contenere il desiderio di radere al suolo Spirit e massacrare i suoi abitanti.

“pare che il tuo sacchetto di monete ambulante se ne sia andato, nonno” osservò la ragazza.

“sì, lo vedo da me che se n’è andato, piccola bastarda!”

“Blacky” disse lei con calma, portandosi una mano al petto, per presentarsi “mi chiamo Blacky”

“non me ne frega niente di come ti chiami!” le strillò inviperito.

“non lo prenderai mai, Cobra, ormai sarà lontano!” sogghignò un uomo dalla folla. Cobra lo squadrò con lo sguardo feroce di un predatore che aveva perso la cena.

“sì, lo so, grazie per avermelo fatto notare” digrignò i denti.

A grandi passi si diresse verso la fine della strada, l’inizio dell’immensa distesa desertica. Vide un puntino luminoso, che rifletteva la luce del sole, lontano, all’orizzonte: era Stirling.

“figlio di puttana” sibilò tra i denti.
  
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