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Autore: Hermione Weasley    01/09/2015    3 recensioni
“Non siete il primo che è venuto a vedere la strega,” alluse, il sospetto vivissimo.
“Io non credo alle streghe,” non poté fare a meno di sottolineare, vagamente risentito dall'essere stato accomunato ai superstiziosi babbei del villaggio.
“Però siete venuto a vederla comunque,” la ragazza non voleva proprio mollare il colpo. Si sentì messo alle strette, innaturalmente indispettito.
“Ero curioso.”
“Quindi ci credete.”
“No, che non ci credo. Questo posto è piccolo e gli estranei sono sempre fonte di curiosità, non vi pare abbastanza?”
---
XVIII secolo. La vita di Clint Barton, figlio adottivo dell'eccentrico lord Phillip Coulson, cambia radicalmente quando una presunta strega viene ad abitare nel bosco vicino alla villa della famiglia. Clint dovrà fare i conti con la superstizione, gli obblighi, le responsabilità e forze in gioco molto più grandi di lui.
[1700 AU] [Clint/Natasha] [apparizioni di tutti gli Avengers + alcuni personaggi di Agents of Shield] [COMPLETA]
Genere: Avventura, Introspettivo, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Agente Phil Coulson, Clint Barton/Occhio di Falco, Natasha Romanoff/Vedova Nera, Steve Rogers/Captain America, Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Capitolo 3

~

 

L'impercettibile sciabordio dell'acqua nella tinozza cozzava prepotentemente coi suoi pensieri.

Il giorno della festa – quello che aveva eletto il momento più opportuno per la sua fuga – si avvicinava inesorabilmente: adesso, all'impazienza di andarsene, era subentrata una bizzarra sorta di malinconia che gli faceva apparire quel buco di mondo improvvisamente appetibile. Casa, in qualche modo.

Clint sapeva fin troppo bene di non potersi fidare, che se avesse deciso di rimanere l'irrequietudine sarebbe tornata a tenerlo sveglio la notte e turbarlo di giorno. Cominciava a sentirsi in trappola: magari quel senso di soffocamento che gli faceva tanto ostinatamente compagnia non aveva niente a che vedere col luogo in cui si trovava. Magari il problema ce l'aveva dentro, da qualche parte. Una stortura congenita che l'avrebbe accompagnato ovunque andasse, a dispetto della distanza, del tempo, delle persone di cui si circondava.

E a quelle pensava continuamente: a lord Phillip e i suoi sorrisi bonari, a Kate, la cui spericolatezza rischiava di essere sopraffatta da un momento all'altro, a Bobbi, a Simone, persino a Leopold e Antoine. Si era ormai convinto che non sarebbe mai riuscito a conciliare la sua voglia di solitudine con il bisogno che aveva di stare con la gente. Era una contraddizione bella e buona, una di quelle che appaiono insolvibili anche alla mente più brillante.

“Sei sicuro di star bene?” La voce di Bobbi lo riportò coi piedi per terra... o più precisamente con la schiena al materasso.

Clint si rimise seduto tra le lenzuola sfatte per poterla osservare mentre finiva di lavarsi.

“Avrai detto un paio di parole al massimo,” gli fece notare, ferma com'era con lo straccio bagnato in mano, completamente nuda coi piedi nella tinozza e la pelle ancora umida.

“Credevo non fossimo qui per parlare,” le rispose, sfoggiando un sorriso che fallì miseramente nella sua patetica operazione di convincimento.

Non fosse stato per i pallidi raggi lunari che filtravano attraverso le tende, l'angusta camera da letto sarebbe stata immersa nel buio più totale. Avevano imparato a fare a meno della luce per evitare che qualche nottambulo del villaggio, deciso a passare il tempo a contare le ombre disegnate nei riquadri delle finestre altrui, ci facesse caso. Non si poteva accedere alla camera se non passando dalla piccola biblioteca situata al pian terreno, niente di più che un ammasso di scaffali e libri polverosi rosi dal tempo, dai topi, dai parassiti.

I Morse avevano vissuto giorni di gloria in passato, ma la fortuna della stirpe era andata assottigliandosi sempre di più fino ad esaurirsi quasi del tutto. Tuttavia, rimanere in possesso di quella preziosissima collezione libraria era stata questione di principio per i coniugi Morse, che avevano fatto di tutto pur di mantenerla. La cultura, dicevano, sarebbe dovuta essere a disposizione di tutti: purtroppo non avevano fatto i conti con la realtà quotidiana di una cittadina rurale alla periferia del regno. Per il popolo pressoché interamente analfabeta, quei libri avevano la stessa utilità di un cavallo zoppo o di una mucca che non dà latte. Bobbi l'aveva ricevuta in eredità e, sebbene fosse stata costretta a vendere qualcuno di quei pesanti tomi per bisogno immediato di soldi, si era impegnata a continuare la tradizione di famiglia, sperando di poter fare altrettanto coi suoi figli, un giorno. Certo per farne c'era bisogno di un marito, e quello di Barbara era morto di febbre solo tre anni prima, lasciandola sola ad occuparsi dei pochi denari rimasti dopo le dispendiose cure che il medico gli aveva inutilmente prescritto.

“Non te la caverai con una delle tue solite battute,” gli disse, uscendo dalla tinozza dopo essersi avvolta un telo pulito attorno al corpo.

L'espressione divertita andò spegnendosi sul suo viso, cedendo il passo ad una smorfia contrita. Si stropicciò le guance con entrambe le mani prima di passare a scompigliarsi i capelli. Aveva sperato che un po' di sana ricreazione sessuale avrebbe contribuito a distrarlo, e invece sembrava aver sgomberato il campo da qualsiasi altra impellente necessità, permettendo a dubbi e preoccupazioni di assillarlo con maggiore insistenza.

“E' per via della festa,” mentì.

“Per la storia dell'esibizione?” Si rimise seduta sul bordo del letto, voltandosi per poterlo fronteggiare. Clint comprese che non gliel'avrebbe fatta passare liscia, stavolta.

“Qualcosa del genere,” borbottò a bassa voce, decidendo lì su due piedi di doversene andare il più rapidamente possibile.

“Ti piace tirare con l'arco,” ribatté, lo scetticismo per quell'improbabile spiegazione palpabile nel suo tono.

“Non per un pubblico,” puntualizzò lui mentre scendeva dal letto per raccogliere i suoi vestiti. Stava fuggendo come un dannato codardo: sembrava essere diventata la soluzione universale ai suoi problemi, quella. Non poté fare a meno di avvertire una punta di vergogna alla realizzazione.

“Che problema c'è? Durerà pochissimo.”

Clint non rispose, limitandosi a rivestirsi con più urgenza del solito. Si sentiva addosso lo sguardo della donna, ma era anche più che intenzionato a far finta di niente. Come avrebbe potuto dirle che se ne andava? Che probabilmente non l'avrebbe neppure salutata? Che razza di vigliacco si comporta così?

Il silenzio si allungò tra di loro come una nebbia fastidiosa che rendeva impacciati i gesti e le parole. Il sesso era l'unico linguaggio che funzionava, quando si trattava di lui e Bobbi: se ci andavano di mezzo le chiacchiere, invece, era come farsi strada in un pantano. Faticoso ed inutile.

“Hunter mi ha chiesto di sposarlo.”

Adesso no che non poteva continuare ad eludere il suo sguardo. Si lasciò il tempo di metabolizzare quell'informazione e finì di allacciarsi i pantaloni prima di rimettersi seduto sul letto. La tensione che aveva cominciato a crescergli nello stomaco era esplosa come una bolla di sapone, abbandonandolo in preda ad un miscuglio incomprensibile di sensazioni piacevoli e spiacevoli insieme; una matassa ingarbugliata di cui non avrebbe saputo trovare né capo né coda. Non aveva idea di come si sarebbe dovuto sentire. Confuso, forse. Deluso? Geloso?

“Tu che gli hai risposto?” Le domandò allora, sostenendo finalmente il suo sguardo.

Gli occhi chiari della donna lo accolsero, malinconici e carichi di quello che avrebbe potuto definire solamente disappunto. C'era stata una piccola parte di lui che aveva fantasticato sull'idea di sposarla, di lasciare da parte le mire di lord Phillip per il suo avvenire, abbandonare villa Coulson e magari metter su famiglia in paese. Ma più passava il tempo e più Clint si rendeva conto che quella non poteva essere la sua vita, che apparteneva ad una versione di sé che non esisteva realmente, non in quel mondo almeno. Forse c'erano altri universi in cui avrebbe trovato il coraggio di chiederglielo, di amarla alla luce del sole, riuscendo a darle e farsi dare tutto ciò di cui avevano bisogno. Nell'unico mondo che Clint conosceva, però, era solo una fantasia. Niente di più.

“Gli ho detto di sì. Ci sposeremo alla fine dell'estate,” mormorò cautamente, osservandolo con l'aria di chi spera in una qualche reazione, ma sa già di non poterla ottenere.

Il senso di colpa subentrò al disagio, all'aspettativa di cui l'aria si era caricata: avrebbe voluto essere un uomo diverso. Per lord Phillip, per Bobbi, per Kate. Per suo fratello, persino. Per se stesso.

Inspirò a fondo e tentò un sorriso.

“Congratulazioni, allora,” riuscì a rispondere, in certa parte sinceramente contento per lei. Hunter era una delle poche persone al villaggio che non avrebbe volentieri lanciato da una rupe alta mille piedi. Quello, in effetti, era il massimo di diplomazia a cui sarebbe riuscito ad arrivare. E tuttavia era sì geloso, ma anche inspiegabilmente sollevato da quel brusco cambio di direzione. Come se fosse stato liberato da un'opprimente responsabilità.

Bobbi sbuffò una risata e scosse il capo, rimettendosi in piedi per sfilarsi il telo umido di dosso e indossare la camicia da notte.

“Non ti capisco,” ammise.

“Perché?” Si era rifatto serio, incapace di nascondere l'incertezza che aveva preso ad attanagliargli lo stomaco.

“Alle volte sembri capace di fare del lavoro di squadra e altre... sei un lupo solitario.”

“Sembro...” non era del tutto sicuro di capire cosa stesse cercando di dirgli.

“Vieni a cercarmi e so che non è solamente per il sesso, eppure quando sei qui sembra che l'unica cosa che tu voglia fare è andartene.”

“Lo sai che non è vero,” azzardò a giustificarsi.

“Lo so? No che non lo so,” appoggiò il telo su una sedia e si fermò per guardarlo dritto negli occhi. “Non chiedi mai aiuto a nessuno. Non ti confidi mai con nessuno. Cerchi le persone solo per evitarle, come se avessi paura di avvicinarti troppo.”

“Bobbi, i-”

“No,” scosse il capo, bloccando la sua difesa sul nascere. “Se non apri gli occhi prima che sia troppo tardi, finirai per lasciarti il deserto intorno.” C'era rabbia nel suo sguardo, ma anche dispiacere e genuina preoccupazione nei suoi confronti.

“Se avessi avuto più tempo...”

“Non mentire,” l'astio le accese le guance di un rosa più intenso. “Non dirmi bugie, non me lo merito.”

Il bisogno di ribattere era fortissimo e cocente, ma gli bastò aprire la bocca per realizzare di non avere niente con cui replicare, che Bobbi aveva ragione.

“Vattene, per favore,” lo supplicò a mezza voce. “Domani devo svegliarmi presto.”

Mentre la guardava disfare il letto e fare un grosso mucchio delle lenzuola su cui i loro corpi si erano intrecciati solo qualche minuto prima, la consapevolezza di aver appena bruciato l'ennesimo ponte gli strinse un fastidioso nodo alla gola.

 

*

 

La grossa treccia bionda le rimbalzava sulla schiena ad ognuno di quei potenti colpi d'accetta. La lama luccicava a mezz'aria prima di abbattersi impietosamente sui ciocchi di legno che Natasha sistemava rapida e con cura sul tronco mozzo di un albero morto da tempo.

Era rimasto in disparte a guardarla lavorare; non aveva palesato la sua presenza, ma non si illudeva più di poterla cogliere di sorpresa. Sapeva che si era accorta di lui e anzi c'era un non so che di confortante in quel tacito accordo di reciproco silenzio.

Aveva finito per vagabondare fino alla casa del tagliaboschi dopo l'ennesima notte insonne. Le parole di Bobbi erano rimaste ad aleggiargli nel cervello come una condanna inappellabile, la promessa di una maledizione di cui non si sarebbe mai potuto liberare. La contraddizione non era nelle cose che lo circondavano, ce l'aveva dentro e se la portava dietro come un oscuro segreto custodito gelosamente. Era vero che teneva le distanze, che era abituato a muoversi in punta di piedi, sperando forse di passare inosservato, ma con la viscerale e onnipresente necessità di essere... visto.

Natasha pareva essersi rassegnata alla sua solitudine: nonostante la condanna le fosse stata inflitta dall'esterno, Clint aveva la netta impressione che l'avesse fatta diventare parte integrante di sé. C'era una confidenza straordinaria nei suoi movimenti, in ogni gesto o sguardo, non importava quanto piccolo o insignificante.

Si era reso conto di invidiarla, di essere precipitato nella sua orbita senza che la donna avesse mosso un dito per far sì che accadesse. A dir la verità non era neanche sicuro che la sua compagnia le facesse piacere: scoprire il suo nome non aveva fatto proprio niente per aiutarlo a decifrarla. Magari era il fascino di quell'enigma a riportarlo continuamente nel bosco... il pensiero lo faceva sorridere. Possibile che tutti i suoi conflitti interiori potessero essere ridotti alla trama di uno qualsiasi di quegli stupidi romanzetti di formazione che affollavano la biblioteca di villa Coulson? La sete d'ignoto l'aveva condotto alla donna fatale e – era scontato – la donna fatale l'avrebbe a sua volta portato alla rovina. Si chiese se, in agguato, non ci fosse anche una scena che l'avrebbe visto redento sul letto di morte, le braccia elevate in un'invocazione rivolta al Signore, una richiesta di perdono pagata con una tardiva e sincera conversione religiosa. Alla fine sarebbe morto comunque, il peccato andava espiato in ogni caso.

“Qualcosa di divertente?” I tonfi dell'accetta sul legno si erano interrotti e domanda l'aveva sorpreso con un mezzo sorriso ad increspargli le labbra. Se non altro trovava ancora la forza di ridere delle sue disgrazie, no? Forse c'era ancora speranza, pure per uno spiantato come lui.

Si affrettò a scuotere il capo, smorzando poco a poco quel patetico entusiasmo.

“Non sono un esperto taglialegna,” la rassicurò. Qualcosa gli aveva suggerito che la donna temeva di essere stata criticata per la sua tecnica.

A giudicare dallo sguardo scettico che insisteva nel puntargli contro, la spiegazione non doveva averla persuasa granché. Non disse niente, però, limitandosi a impugnare nuovamente l'arnese e prepararsi a ricominciare.

“Posso darvi il cambio, se volete,” si ritrovò ad offrirsi. Non che gli fosse apparsa in difficoltà, tutt'altro; ma la sua educazione sembrava essersi improvvisamente risvegliata da un lungo sonno.

“Sono perfettamente in grado di farcela da sola,” ribatté lei.

“Lo so che lo siete,” la sua risposta non l'aveva minimamente sorpreso. “Ma mi sto annoiando e un po' di allenamento fa sempre comodo.”

Natasha sembrò valutare attentamente le sue parole. Quando era ormai sul punto di convincersi che aveva tacitamente declinato il suo aiuto, la vide abbandonare l'accetta sul prato per andare a sedersi sul muretto diroccato che recintava il terreno immediatamente antistante la casa.

Si scostò dall'albero a cui era rimasto appoggiato fino ad allora e si affrettò a prendere il posto della donna, che adesso lo guardava incuriosita dal suo nuovo punto d'osservazione. Del tutto intenzionato ad ignorarla, cominciò a lavorare di buona lena... ma per quanto si sforzasse, gli occhi di lei sembravano infiammargli la pelle ovunque si posassero.

“Che c'è?” Al terzo ciocco di legno spaccato in due con successo, non riuscì più a trattenersi.

“Niente,” rispose, come se la cosa non la riguardasse. “Mi chiedevo se tutti i nobili si annoiassero al punto da trovare questo un valido passatempo.”

“Non sono un nobile,” decretò seccamente, intensificando i colpi tanto da dover ogni volta disincastrare la lama dalla tronco mozzo in cui era andata a conficcarsi.

“Perché lo prendete come un insulto?”

“Non l'ho preso come un insulto.”

“E' quello che fate. Come se vi stessi incolpando di qualcosa.”

“E' un semplice dato di fatto: non sono un nobile.”

“Credevo viveste a villa Coulson,” obiettò ancora con quel medesimo tono monocorde che gli dava tanto ai nervi. Sembrava fosse stata caricata a molla da una mano invisibile, che avesse una risposta secca e concisa per ogni cosa. Irritante, ecco cos'era.

“Vivo a villa Coulson.”

“Ma non siete un nobile...” alluse, la voce carica di sarcasmo. A rigor di logica, una cosa implicava obbligatoriamente anche l'altra.

“Sono figlio di povera gente,” sentì l'irrazionale bisogno di specificare. “I miei genitori sono morti e lord Phillip dall'alto della sua magnanimità ha deciso di adottarmi.”

“La fate suonare come se vi avesse fatto un torto.”

“Non è quello che intendevo,” si giustificò in fretta e furia, i palmi delle mani che strofinavano sempre più insistentemente sul manico dell'accetta. “Gli sono molto grato.”

“Non dovete dirlo se non è vero.”

“Lo dico perché è vero.”

“Non dovete vendermi le vostre menzogne,” il tono di voce della donna era mutato impercettibilmente. “E' una valuta che non ha alcuna correnza. Non con me.”

La stizza che gli era cresciuta alla base dello stomaco esplose proprio mentre la lama dell'arnese si schiantava violentemente nel legno e un dolore fastidiosissimo gli si propagava per tutta la mano sinistra.

Lasciò l'arma piantata nel tronco, esaminandosi il palmo dolorante: una scheggia gli si era conficcata sotto pelle.

“Grandioso,” biascicò, come se quella fosse l'ennesima di una lunga serie di catastrofi che gli erano capitate in quegli ultimi giorni.

“Fate vedere.” La voce di Natasha, vicinissima, lo fece trasalire.

“La smettete di muovervi tanto silenziosamente?” Sbottò indispettito, ritraendo gelosamente la mano.

“Non siate stupido.” Non fece complimenti e gli afferrò bruscamente il polso, attirandolo a sé con una forza e una decisione che Clint non si aspettava. La sorpresa anestetizzò in qualche modo il disagio, permettendogli di guardarla mentre studiava minuziosamente il danno. “Aspettate qui,” lo istruì infine, correndo dentro casa e uscendone un attimo dopo con quello che si rivelò essere un ago.

“Che diavolo fate con quello?!” La vista di quell'aggeggio l'aveva turbato a tal punto che neppure gli importava di essere impallidito o suonato più acuto del solito.

“Vi tolgo la scheggia,” replicò semplicemente lei, lanciandogli un'occhiata sospettosa. “Non ditemi che avete paura.”

L'imbarazzo gli risalì alle guance e alle orecchie, riscaldandogli il collo in un misto di vergogna e stupore.

“Se anche fosse?”

“Niente, mi pare solo strano. Pensavo che le cose appuntite vi piacessero,” se non altro non sembrava volersi prendere gioco di lui.

“Le frecce non c'entrano niente,” ci tenne a precisare.

“Come dite voi,” lo liquidò. “State fermo.”

Con la scusa di seguire il volo di un merlo tra le fronde di un castagno, Clint evitò molto accuratamente di guardare dio solo sapeva cosa Natasha stesse facendo con quell'ago. Trattenne inconsciamente il respiro e si irrigidì impercettibilmente prima di avvertire una leggera puntura e poi... più niente. Era già pronto a tirare un gran sospiro di sollievo, di farle notare un sospetto spostarsi della vegetazione, quando a quel fastidioso bucare si sostituì un calore umido e piacevole. Si voltò di scatto, improvvisamente dimentico del movimento tra gli alberi, sorpreso nel ritrovarla con la bocca sul palmo della sua mano, intenta a succhiare... la scheggia? La consistenza delle sue labbra era morbida e invitante, ma il rimescolio che gli aveva preso lo stomaco gli fece presente che quel gesto aveva risvegliato qualcosa di sopito e torbido, qualcosa che andava represso e ignorato. Ricacciato indietro a forza.

Il tempo sembrava aver rallentato, ma quando Natasha si scostò non erano passati che pochi secondi. Sputò la scheggia che aveva catturato, totalmente impassibile e ignara di tutti i suoi ridicoli sommovimenti interiori. Se c'era un modo efficace per ridimensionare le tempeste che gli sconquassavano le viscere, era sicuramente avere a che fare con l'imperturbabilità della donna. Più o meno lo stesso effetto che avrebbe avuto lanciandosi in un lago ghiacciato, schiantandosi contro un muro o venendo sbalzato da cavallo: in tutti i casi avrebbe sbattuto la faccia sulla dura realtà dei fatti, costretto a farsene una ragione.

“Fatto,” lo lasciò andare, riguadagnando la sua postazione sul muretto.

E nonostante tutto, Clint avrebbe fatto altrettanto se il suono delle campane – ovattato, trasportato dal vento – non l'avesse riportato bruscamente al presente.

“Cazzo!” Imprecò a gran voce.

“Oh, andiamo, non vi avrò fatto così male?”

“E' tardissimo!” Aveva già cominciato ad allontanarsi dalla casa del tagliaboschi, in preda ad un'urgenza che non avrebbe potuto ignorare neanche se avesse voluto.

“Tardissimo per cosa?”

“Il capitano Rogers!” Le gridò dietro.

“Chi?”

“Non c'è tempo per spiegarvi! Perdonatemi, Natasha!”

Mentre staccava una folle corsa tra gli alberi, Clint pregò tutti i santi e gli dei che conosceva di non essere in ritardo per l'arrivo del capitano Rogers a villa Coulson.

 

*

 

Scese le scale per il piano terra che ancora si stava abbottonando la giamberga che una della cameriere gli aveva lasciato sulla poltrona quella mattina stessa. Spiccò un salto che gli permise di scavalcare gli ultimi cinque gradini in un colpo solo, riatterrando davanti ad un Jasper Sitwell a dir poco contrariato.

“Siete in ritardo,” lo accusò, avvicinandosi in tutta fretta per aiutarlo a darsi una sistemata.

“Ehi, ce la faccio anche da solo!” Va bene che vestirsi da pagliaccio d'alta società non era esattamente il suo forte, ma l'ultima volta che aveva controllato sapeva ancora infilare ciascun bottone nella rispettiva asola.

“Non mi pare. Gli ospiti sono ancora in biblioteca in attesa della cena... e di voi.”

Un gran sollievo gli riempì lo stomaco, tutti i fioretti che aveva promesso di rispettare se fosse riuscito ad arrivare in tempo, si sfaldarono come neve al sole.

“Grazie al cielo.”

“No, grazie a sir Coulson,” lo corresse Sitwell. “Li sta intrattenendo con...”

“Non credo di volerlo sapere.” lord Phillip diventava un tantino inquietante quando si trattava del capitano Rogers. L'ultima volta che il militare aveva fatto loro visita, lord Phillip gli aveva orgogliosamente mostrato il ritratto di lui che aveva commissionato nella capitale e che avrebbe presto trovato giusta collocazione nel suo studio. L'espressione stranita del capitano gli era rimasta impressa a fuoco nel cervello e temeva sarebbe rimasta lì fino al giorno in cui avrebbe incontrato il creatore.

“Mettete questa.” Sitwell gli aveva appena schiaffato in testa una parrucca dall'aspetto terribile.

“Cosa? No!” Se la tolse in fretta e furia, senza dargli il tempo di sistemargliela. “Non ho intenzione di mettermela.”

“Signore, è l'etichetta che ve lo impone,” il maggiordomo tentò di farlo ragionare.

“E' per colpa dell'etichetta se non riesco a respirare e ho le palle schiacciate sul cavallo delle brache, Sitwell. Direi che sto già soffrendo abbastanza per la dannata etichetta!”

Il faccione rotondo dell'uomo era andato gonfiandosi man mano che le parole gli erano uscite di bocca: Clint si aspettava un'esplosione di rimproveri da un momento all'altro.

“Clint?” La voce di lady Melinda, asciutta e monocorde, distolse entrambi dai propri propositi più o meno omicidi. “La cena verrà servita a breve.”

La comparsa della donna ebbe l'effetto di riportarlo immediatamente all'ordine e persino di fargli dimenticare il prurito che quel dannato tessuto pregiato gli provocava in ogni parte del corpo.

“Arrivo subito, lady Melinda. Perdonate il ritardo.”

La raggiunse, mentre Sitwell tentava inutilmente di aggiustargli almeno il fazzoletto che si era agganciato al collo alla meno peggio.

“Non potete presentarvi così, sir Barton. E' uno scandalo!” Piagnucolava.

Lady Melinda si fermò a pochi passi dalla doppia porta della biblioteca, ai lati della quale due valletti sostavano ritti come lance in attesa di istruzioni; si voltò per fronteggiare il maggiordomo, rivolgendogli uno dei suoi sguardi placidi e severi insieme, di quelli che non ammettevano repliche.

“Così andrà bene, Sitwell,” lo rassicurò. “Vi dispiace andare in cucina ad avvisare che siamo pronti?”

Il poveretto ricacciò indietro tutte le sue lamentele e annuì solennemente, dileguandosi alla velocità della luce, la parrucca perennemente storta sulla testa pelata. L'attenzione della donna si era infine rivolta a lui, gli occhi neri puntati nei suoi a metà tra una rassicurazione e un rimprovero. Clint si ritrovò a trattenere il respiro senza neppure accorgersene: lady Melinda sapeva metterti addosso una paura del diavolo. La seconda moglie di lord Phillip era una donna dalle poche parole; tutto quello che le serviva per persuadere la gente ad accontentarla o per esprimere il proprio parere riguardo una determinata questione, era una semplice occhiata. Quella calcolata parsimonia verbale era un'abilità che Clint apprezzava molto: non andava di certo matto per i fiumi di frasi fatte senza senso di cui erano quasi esclusivamente costituite le conversazioni nei salotti nobiliari che aveva, suo malgrado, frequentato. Era abituato a sentir tutti parlare di tutto senza dire assolutamente niente di rilevante. Lady Melinda era il contrario di tutto ciò e sicuramente Clint avrebbe fatto tesoro della sua lezione se il disappunto di lei non fosse stato, adesso, indirizzato proprio nei suoi confronti.

Lo osservò a lungo, ma non disse niente. Si limitò ad allungare le mani per sistemargli il fazzoletto al collo con poche, concise mosse. Dopodiché si voltò per lanciare uno sguardo ai valletti appostati davanti alla porta: i due si mossero all'unisono, afferrando ciascuno una maniglia per spalancare loro l'accesso alla biblioteca.

Solo allora Clint si ricordò di dover respirare se non voleva fare il suo ingresso tra gli invitati capitombolando in apnea davanti a tutti. lord Phillip gli avrebbe tranquillamente perdonato il ritardo (dopotutto si trattava di dover gestire più tempo in compagnia del celebre capitano Rogers), ma non era sicuro avrebbe fatto altrettanto con uno svenimento tanto clamoroso.

Lady Melinda lo precedette all'interno, mentre l'odore e il fumo di quelli che riconobbe come i sigari che lord Phillip conservava per le occasioni speciali, lo investiva acre e pungente. La faccia gentile del padrone di casa si illuminò non appena si accorse della sua presenza, il che non fece altro che acuire il suo senso di colpa, già sufficientemente sovrasviluppato. Clint ricambiò il sorriso prima di far scorrere lo sguardo sui presenti: Leopold era seduto sul divanetto più lontano dalla zona fumatori, un'aria pallida e malaticcia a deformargli i tratti del volto; più vicino al centro della stanza il terzetto formato da Antoine, il capitano Rogers e quello che doveva essere il suo secondo in comando, gli ultimi due agghindati in uniformi nuove di pacca; lord Phillip aveva preso posto su un'ottomana e alle sue spalle svettava la figura del figlio, Grant, serio e solenne nei suoi vestiti militari.

La voglia di fuggire si concretizzò in una fastidiosa stretta allo stomaco: quella non era decisamente l'atmosfera che gli era più congeniale. Non era sicuro di essere pronto per sette portate di imbarazzo, conversazioni sul tempo, sullo stato dell'esercito del re o sulle grandiose opere di sua maestà.

“Finalmente ci siamo tutti,” fu lord Phillip a parlare.

“Sir Barton,” il capitano Rogers si era fatto avanti tendendogli inaspettatamente la mano.

Clint non poté fare a meno di sorprendersi ancora una volta della giovane età dell'uomo: doveva avere al massimo un paio d'anni più di lui, eppure era riuscito a scalare le gerarchie militari del regno, a diventare una delle più importanti e rispettabili presenze della capitale e – si diceva – anche uno dei più stimati consiglieri del re. Il capitano Rogers era una di quelle persone che ti facevano mettere in discussione tutti i traguardi raggiunti, che ti costringevano a chiederti che cosa avessi fatto della tua vita fino a quel momento. Non fosse stato estremamente umile e gentile, avrebbe finito per farti sentire insignificante... un fallito.

“Capitano,” Clint gli sorrise e ricambiò la stretta. “Spero di non avervi affamato troppo,” aggiunse, nonostante tutto a suo agio al suo cospetto.

“Non vi preoccupate. Siamo addestrati anche per questo,” lo rassicurò l'altro mentre lo lasciava andare.

Le porte della sala da pranzo – immediatamente comunicante con la biblioteca – si erano spalancate, permettendo di intravedere una grandiosa tavola imbandita, camerieri e valletti che si affaccendavano tutt'intorno per gli ultimi preparativi.

“Vi sono grato per non esservi presentato con la parrucca,” con sua sorpresa, era stato di nuovo il capitano a parlare. “Credevo sarei stato l'unico,” confessò in tono confidenziale.

“Ufficialmente me ne sono dimenticato,” puntualizzò Clint, facendogli però intendere che non gli era propriamente passato di mente.

Il capitano Rogers annuì con aria consapevole e divertita insieme mentre il gruppo di invitati si spostava nella sala da pranzo. A Clint non sfuggì l'occhiata astiosa che Grant gli scoccò non appena gli fu di fianco, come se quell'improvvisato scambio di battute col capitano potesse essere motivo di invidia. Lord Phillip aveva grandi progetti per il primogenito, un posto di spicco nell'esercito in primis: era chiaro che la presenza del capitano Rogers avrebbe potuto aiutarlo se si fosse giocato bene le sue carte. Non era previsto che quello spiantato del figlio adottivo si mettesse di mezzo con le sue bislacche idee sul codice d'abbigliamento formale o, peggio ancora, sulle convenzioni dell'alta società.

Clint fece appunto mentale di rimanere il più possibile in disparte; per questo era intenzionato a prendere posto abbastanza distante dal capitano, lasciando che fosse Grant a sedergli accanto. Ma tra i vari sommovimenti che seguirono l'ingresso nella sala da pranzo, finì per ritrovarsi in prossimità di sir Coulson – seduto a capotavola – e dirimpetto al capitano Rogers. Lady Melinda era accanto a lui, Leopold un posto più in là con Antoine a chiudere la fila; dall'altro lato il secondo in comando del capitano – un uomo della stessa stazza del superiore, la pelle scura e un sorriso perennemente stampato sulle labbra carnose e gli occhi vispi –, poi Grant e infine Rogers stesso. In quanto a lord Phillip, non aveva neppure contemplato la possibilità di non sedersi accanto al suo beniamino.

Ebbe appena il tempo di passare in rassegna l'assetto generale che i valletti fecero il loro ingresso nella sala con spostamenti che non mancavano mai di apparirgli coreografati fin nell'ultimo dettaglio. Volteggiarono attorno alla tavola come dei maledetti avvoltoi, offrendo zuppiere di porcellana a ciascuno degli invitati, versando la minestra nelle scodelle che sedevano in cima alla pila di piatti data in dotazione a ciascuno dei commensali (insieme a troppi bicchieri e decisamente troppe posate).

La successiva mezz'ora fu riempita da inutili chiacchiere e complimenti sulla prelibatezza della pietanza (una semplice zuppa di patate e porri), sui magnifici stucchi della sala da pranzo (che minacciavano di cadere a pezzi da un momento all'altro), sui meravigliosi affreschi che si affacciavano dal soffitto (figure mitologiche a cui il tempo aveva sbiadito e cancellato un arto, il volto o parte del corpo), sulle maestosità della tenuta dei Coulson, con campi così rigogliosi (si minacciava anno di carestia), allevamenti numerosi e in salute (si fosse fatta eccezione per quella dozzina di capi di bestiame misteriosamente morti nell'ultimo mese), contadini volenterosi ed onesti (quando non dormivano tra le spighe di grano o baravano sul peso del mais raccolto).

Clint preferì affogarsi nell'antipasto e nel vino che scorreva a fiumi piuttosto che su quella tiritera infinita e priva di senso: il secondo in comando del capitano, Grant e lord Phillip erano i principali tessitori di quell'intricata rete di stronzate, con qualche timido intervento di Leopold che avrebbe voluto arringare tutti sull'importanza di uno sfruttamento consapevole del terreno coltivabile, se Grant non gliel'avesse impedito con un'occhiata fulminante.

“E' vero che siete diretto nelle Americhe?” Stavolta era stato Antoine a parlare, rivolgendosi direttamente al capitano forse nel tentativo di coinvolgerlo in prima persona in quella conversazione senza né capo né coda.

Rogers gli rivolse un sorriso cordiale e annuì appena.

“Il re ci tiene a dare il suo contributo,” dichiarò semplicemente, mentre i valletti iniziavano a servire la prima portata (salmone ripieno di pesce ripieno di altro pesce con dentro delle verdure... o qualcosa che ci assomigliava molto, comunque).

“Nella capitale già cominciano a chiamarlo capitan America,” scherzò il suo secondo in comando.

“Non l'ho nemmeno mai vista, l'America, Sam. Mi sembra un po' prematuro,” declinò educatamente il capitano, sperando – Clint se n'era accorto – che la conversazione vertesse su altri argomenti.

“E' vergognoso quello che sta succedendo, non trovate?” Grant si sforzava di apparire amichevole, ma la sua espressione perennemente astiosa era sempre sul punto di affiorargli sul viso.

“La rivolta delle colonie?” Rogers si volse verso il commensale al suo fianco.

“Certo. Tradire così la fiducia accordata loro dal sovrano...,” scosse il capo, quasi non riuscisse a trovare un modo per esprimere tutto il suo disaccordo. “Meriterebbero una punizione esemplare.”

“Non vedo come tagliare teste possa risolvere il problema,” ammise tranquillamente il capitano, ottenendo di far impallidire il suo interlocutore, improvvisamente più rigido e impettito del solito.

“Per dare un esempio,” replicò con decisione, “e dissuadere possibili emulatori una volta per tutte.”

“Le colonie stanno combattendo per la loro libertà.”

“Non è libertà se si tratta di tradimento.”

“C'è un motivo se sono stati condotti fino al punto di rottura.”

“Quindi siete dalla parte dell'illegalità?” Grant faceva di tutto per mostrarsi a dir poco sconvolto. Per un attimo gli sembrò troppo impostato anche per uno tutto d'un pezzo come lui, ma poi la sensazione stranita venne riassorbita dall'antipatia che provava nei suoi confronti: Grant non aveva bisogno di seconde motivazioni per essere tanto odioso.

“Sono dalla parte di cos'è giusto,” stabilì Rogers, gentile e amichevole, ma pur sempre determinato a far valere il proprio pensiero.

Per essere uno che li detestava, i soldati, Clint non poteva non ammirare il capitano: giovane e di successo, eppure capace di non compromettersi neppure quando si trattava di opinioni scomode che avrebbero potuto privarlo della sua prestigiosa posizione. Non era un ottuso, il capitano Rogers.

“Il giusto e la legge non sono forse la stessa cosa?” Insisté Grant, indispettito dal modo in cui la conversazione gli era sfuggita di mano.

“Neanche per idea.”

Tutti gli invitati si voltarono verso Clint che – a dirla tutta – non aveva propriamente pianificato di aprir bocca prima di farlo. Le parole gli erano sfuggite tra un boccone e l'altro di pane e salmone, e adesso era decisamente troppo tardi per riprendersele prima che facessero danno.

“Come possono non essere la stessa cosa?” Grant lo sfidò in tono sprezzante.

“Le leggi sono fatte dagli uomini e gli uomini non sono infallibili,” replicò prontamente, maledicendosi per essersi fatti coinvolgere nel dibattito. Aveva imparato ad evitare quei confronti come la peste, perché non portavano mai – mai – a niente di buono.

“Le leggi vengono direttamente dal re!” Esclamò Grant, teatralmente scandalizzato.

“Anche il re è un uomo e tutti gli uomini sono di parte,” si ficcò in bocca una grossa palla di mollica di pane pur di convincersi a star zitto, a smettere di scavarsi la fossa. Da quando in qua esprimere la sua opinione era diventata una buona idea? Dopo tanti anni di permanenza a villa Coulson non aveva ancora imparato la lezione?

“Il re è re per diritto divino. Il suo potere viene direttamente da Dio!” Grant sembrava sul punto di strozzarsi con la sua straripante indignazione. Avesse cominciato a schiumare dalla bocca, Clint non se ne sarebbe sorpreso più di tanto. Non capiva perché si ostinasse a tal punto.

“Sono d'accordo con voi, sir Barton,” il capitano Rogers era intervenuto – straordinariamente! – a dargli il suo supporto. E se da una parte gli fece immensamente piacere, dall'altra l'espressione che si dipinse sul volto di Grant gli fece maledire il momento in cui aveva deciso di non saltare la cena dandosi piuttosto per malato.

Il gelo scese sulla sala da pranzo. Occhiate fugaci e imbarazzate vennero scambiate, colpi di tosse dati, sguardi indifferenti a vagare tra le quattro mura fingendo interesse per tutt'altro.

La porta laterale che permetteva l'accesso ai valletti si spalancò e il profumo della seconda portata permeò l'aria mischiandosi all'olezzo del talco, dei profumi, dell'indignazione.

“Oh, il cigno in crosta! Aspettate di assaggiarlo, capitano Rogers...” promise lord Phillip, tentando di riportare la discussione su tutt'altri argomenti.

Clint sperò solo che ci fosse vino a sufficienza.









Note: diversi nuovi personaggi in questo terzo capitolo! A cominciare da Bobbi (Barbara Morse) che come vi avevo anticipato, è un miscuglio tra quella dei fumetti e quella di AoS, per questo Clint e Hunter convivono (anche se nel telefilm mi sembra chiaramente messo lì per sostituire Clint). Lady Melinda, ovviamente la Melinda May di AoS, qui sposata con Coulson; il maggiordomo Sitwell, lo stesso di Capitan America 2 e AoS. A seguire il nostro capitano preferito in compagnia del suo secondo in comando (non è detto esplicitamente ma è Sam Wilson).
Col prossimo capitolo entreremo nel viiiiiiiiiiivo dell'azione :)
Intanto ringrazio chi si è fermato a leggere, chi ha commentato - perché mi fa sempre piacere :3 - e la mia sociabetaEli as per usual.
A presto!

 
  
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