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Autore: Duncneyforever    23/04/2016    2 recensioni
Estate, 1942.
Il mondo, da quasi tre anni, è precipitato nel terrore a causa dell'ennesima guerra, la più sanguinosa di cui l’uomo si sia mai reso partecipe.
Una ragazzina fuori dal comune, annoiata dalla vita di tutti i giorni e viziata dagli agi che l'era contemporanea le può offrire, si ritroverà catapultata in quel mondo, circondata da un male assoluto che metterà a dura prova le sue convinzioni.
Abbandonata la speranza, generatrice di nuovi dolori, combatterà per rimanere fedele a ciò in cui crede, sfidando la crudeltà dei suoi aguzzini per servire un ideale ormai estinto di giustizia. Fortunatamente o sfortunatamente non sarà sola e sarà proprio quella compagnia a metterla di fronte ad un nemico ben peggiore... Se stessa.
Genere: Drammatico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Crack Pairing
Note: Lime, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Guerre mondiali, Novecento/Dittature
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Provo compassione nel vedere le gambe magre del ragazzo tremare come foglie, ma provo ancor più compassione nel vedere il suo viso candido ulteriormente sfigurato. 

- Cosa ti è capitato? - Mi avvicino di poco, indicando il livido violaceo sotto l'occhio destro.

- I-io non dovrei essere qui. - Con circospezione, arretra di qualche centimetro, portando in avanti le mani. Sulle guance arrossate ha i segni della violenza subita e, negli occhi, il ricordo di una giovinezza a cui non vuole ancora rinunciare. 
La fasciatura sul braccio necessita di essere sostituita al più presto, poiché il sangue raffermo ha imbevuto le bende, rendendole nere e sporche. Vedendo lo stato in cui il povero giovane riversa, non posso che pensare alla gravità della situazione...

- Schneider non è in casa e io vorrei approfittarne per aiutarti. - Affermo, sfiorandogli lievemente l'avambraccio libero dalla " medicazione ". 

- V-voi v-volete aiutare me, signorina? - Si indica, incredulo, sgranando i grandi occhi azzurri. 

- Perché non dovrei? - Stupida... mi darei una manata in fronte per la mia ingenuità a volte. È ovvio che, essendo ebreo, nessuno lo tratti come un essere umano e che a nessuno importi se viene ferito o ucciso. 
Egli, infatti, spiegazza la maglia logora proprio nel punto in cui è cucita la sgargiante stella gialla. - Non condivido gli ideali di questa gentaglia e non nutro alcun pregiudizio nei vostri confronti. Lascia che io ti aiuti, Ariel, perché non posso vederti così. - Dopo aver sentito il suo nome, i suoi occhi sono guizzati verso i miei e le sue gambe hanno cessato di tremare. - Bevakasha. / Prego. - Azzardo, in ebraico, utilizzando una delle poche parole che conosco. Non ricordo l'esatto motivo per cui decisi di imparare questa lingua, ma ricordo che ci misi molto impegno e buttai subito la spugna dopo aver notato quella moltitudine di segni grafici e di vocali... 

​- Parlate Ivrit? - Lui mi guarda stupefatto, sbattendo un paio di volte le palpebre e rilassando un poco le spalle, costantemente ricurve.

​- Qualcosina imparata qua e là, ma niente di sostanzioso, purtroppo. - Spero che non mi faccia troppe domande a riguardo, dato non posso menzionare internet. 

- Pensavo che voi foste... - Nonostante sia imbarazzatissimo, ho compreso cosa intende dire. 

- ...Fascista? - Il ragazzo ( per quanto possibile ) impallidisce, prima di iniziare a torturarsi i corti capelli scuri. 

- Mi dispiace, non intendevo ferirvi. -

- Non preoccuparti, occupiamoci di te, adesso. Ti verrà una brutta infezione se trascuri quella ferita, sai? - Le sue iridi azzurrine cadono dolorosamente a terra, mentre un mugugno sofferente sfugge dalle sue labbra finissime.

- Mi fido di voi, Fräulein. - Gli chiedo di mostrarmi un locale più adatto all’operazione e lui mi conduce nella cucina di servizio. Qui, gli sfilo la fasciatura con lentezza, stando ben attenta a non schiacciare le dita sui punti.

- Senti molto dolore? - Il taglio si rivela più profondo di quanto pensassi, esteso dal polso fino al gomito. 

- È sopportabile. - Chiude gli occhi, sviando il più possibile dal disinfettante nella mia mano.

- Mordi questo. Il male sarà minore. - Gli porgo un coltello dal manico in legno, sperando di poter alleviare il bruciore. Ariel accetta, ma quando il liquido incontra la pelle rossastra emette un grido lancinante, il viso si bagna di lacrime e la schiena si piega in due per la sofferenza. I denti fregano sulla superficie legnosa, mentre i pantaloni vengono artigliati con forza e persino strappati in alcuni punti. 

- Ho finito. - Percorro con il dorso della mano la sua fronte imperlata e gli rimuovo la posata dalla bocca. 

- Va meglio? - Attornio la zona dolente con una garza pulita e soffice, per poi concludere la cura.

- Non so come ringraziarvi. - 

- Puoi chiamarmi Sara. Solo questo. - 

- Come desideri, Mal'akh. / Angelo. - Vedendo gli occhi chiari colmi di gratitudine non posso che sentirmi orgogliosa di me stessa. - Avete, cioè... Hai fame? - Mi domanda, un po' impacciato.

- Molta direi. Sai cosa prevede il " menù del giorno "? - Spero non zuppa, sinceramente. Ariel, per darmi una risposta, si dirige verso i fornelli, accennando un piccolo sorriso. 

- È quasi pronto. - Constata, accendendo un’altra fiammella. 

- Sei tu che cucini? - Da Schneider non me lo aspettavo; sembra così schizzinoso che mi era impossibile ipotizzare che dietro a quell’arrosto potesse esserci un ragazzo ebreo. 

- Solo quando il colonnello ha bisogno di qualcuno che sappia cucinare italiano. - Risponde, arricciando la bocca con disappunto. - Ho vissuto a Firenze per quasi un anno e mezzo, prima di essere richiamato in Germania. - 

- Sei sprecato per questo posto, perché a mio parere sei bravissimo! Il tuo piatto era stato l’unica cosa ad avermi salvato la giornata, altro che zuppa! - Esclamo, facendolo arrossire. - Non disturbarti per la tovaglia. A casa mia si mangia praticamente in piedi. - Povera anima, ma quante cose deve fare? Non aveva neppure posato la pentola, che già si stava affrettando per apparecchiare la tavola.

​- Danke. - Appena il coperchio viene rimosso, un'invitante matassa di tagliatelle al sugo compare al suo interno. 

Giuro che sono in procinto di piangere per la contentezza. Sono maggiormente stupita dal fatto che un ragazzo ebreo internato ad Auschwitz mi abbia preparato una specialità del mio paese che per la pasta in sè. 

- Sto per commuovermi. - Agito una mano sul viso, contenta come una bambina il giorno di Natale. - Ti prego, prendi qualcosa anche tu, ce n'è in abbondanza. - Così dicendo, corro a prendere un altro piatto dalla credenza e condivido la mia razione con lui, cedendogliene una metà. - Non accetto un " no " come risposta! -   

- Sai, Sara, mi ricordi tanto una persona. - Confida, osservando con un certo languore il suo pasto. Il piattino di carboidrati, infatti, è una vera e propria benedizione, dopo mesi di insipide e misere brodaglie.

- Davvero? E chi?- Prendo una forchettata di pasta, esprimendo apprezzamento subito dopo aver assaggiato.

- Anita, la mia sorellina, aveva una voce bellissima, proprio come la tua. - Al suo complimento arrossisco come un peperoncino perché, secondo la mia modesta opinione, la mia voce è molto più simile a quella di un pulcino strozzato che a quella di una ragazza. 

- Tu dici? - Si può scomparire dietro una forchettata di tagliatelle?

- Ne sono convinto. - 

- E dov'è tua sorella, adesso? - Se potessi rimangiarmi ciò che ho appena domandato lo farei senz'altro. Non potevo chiedere nulla di più inopportuno. Insomma, siamo in un campo di concentramento, mica al parco giochi! - Puoi fingere di non aver sentito? Non sono ancora abituata a... al campo ecco. Non ci ho proprio pensato, non c’era cattiveria... Io... mi dispiace. - 

- Non devi mortificarti. - Mi rassicura. - Lei non è mai stata deportata, a differenza nostra. -

- Nostra? - 

 

  
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